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partenza e ritorno. 415

glio; riconobbi un ufficiale mio amico, e lo chiamai. — Andiamo a Torino — mi disse; — s’aspetta che attacchino dell’altre carrozze; abbiamo con noi il colonnello e lo stato maggiore; il comando del reggimento resterà a Torino; ci si scrive di là di non so che accoglienza che ci sarebbe preparata alla stazione.... Anche questa ci mancava! Gli applausi, oramai, mi fanno molto peggiore effetto dei fischi. Oh speranze! Domanderò la dimissione, anderò a fare il consiglier comunale nel mio paesucolo, sarò capitano della guardia nazionale, mi abbonerò alla Gazzetta Ufficiale, porterò i calzoni larghi in fondo, piglierò moglie e tabacco, e morirò cavaliere. È il mio destino. Addio. —

Il suo reggimento, di cui non ricordo il numero, s’era splendidamente condotto alla battaglia di Custoza.

Quel viaggio da Milano a Torino fu eterno. — Che tormento — dicevo — star rinchiusi in questa prigione di carrozza! Non c’è aria, non si respira; ci dovrebbero essere dei posti sopra, che diavolo. Oh! intanto godiamoci il nostro arrivo colla fantasia. Supponiamo di essere già entrati nella stazione. No, è troppo presto; voglio godere lentamente. Supponiamo di essere ancora fuori della cinta di Torino, molto fuori. Il convoglio va, va, va; ecco la cinta; oh che respiro! Ecco le prime carrozze della stazione; oh Dio! supponiamo un impedimento qualunque; fermiamoci; va troppo presto questo maladetto convoglio. Avanti, s’entra nella stazione, il convoglio si ferma, no! non ancora! che fretta importuna! lasciami godere a mio bell’agio; così; avanti. Dio mio! eccomi sceso, ecco lì fuori la gente che aspetta, ecco.... Oh che caldo con questo cappottacelo pesante! Ma come fate voi altri a dormire, — dicevo guardando i viaggiatori che avevo intorno; — come fate a dormire voi altri con questa febbre che.... ho io?