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390 | partenza e ritorno. |
tata vedo un generale; i colonnelli non mi paion più niente. Come sento la mia piccolezza in mezzo a tutti questi galloni! Le grandi riunioni militari hanno questo di male, che noi poveri tenentucci nessuno ci guarda più; si scomparisce affatto. Scherzo, sai; io ho te, ho i miei soldati, ho i miei amici, ho il sangue pieno di fuoco, il cuore pieno d’Italia, l’anima piena d’avvenire; io son contento, io non desidero nulla, io non invidio nessuno. — Siamo alloggiati in un convento, e dormiamo sulla paglia. — È una disperazione con questi coscritti che non sanno nè vestirsi, nè camminare, nè mangiare. Si son fatte le cose troppo in furia. Se domani si aprisse la guerra ti dico io che ci troveremmo a cattivo partito; mezzo il reggimento non sa ancora caricare le armi; c’è un gran bisogno dei soldati provinciali; si aspettano. — In tutto il quartiere non s’è potuto trovare una camera per l’ufficiale di picchetto. L’altra notte mi son ricoverato nell’ufficio di Maggiorità e ho dormito sui registri....
In fondo alla risposta della madre trovo queste parole: — Bada di non guastare i registri; possono essere importanti. Hai almeno pensato a metterti qualche cosa sotto la testa? Erminia s’è ammalata dal dolore della tua partenza. L’altro giorno, spolverando la tua roba, piangeva; la vidi, glielo dissi, negò; ma piangeva proprio; tu non lo conosci ancor tutto quel suo bel cuore. — La lettera finisce: — Dove sono gli Austriaci? —
In un’altra lettera sua è posto questo quesito: — Di’ un po’, Alberto; mi hanno detto che i battaglioni degli Austriaci son più grossi dei vostri. Come va questo? Come farete? —
Il figlio risponde: — Ne manderemo due de’ nostri contro uno dei loro. —