come suol dirsi, per impedirti di venir qua, chè certo
ci saresti venuta. E adesso va’ in collera, grida, scrivi,
protesta; la è tutt’una; è finito; bisogna rassegnarsi.
Anzi, fa’ a modo mio, cara madre; ringrazia il cielo che
non sia stata che febbre; pensa a questi poveri giovani
che ho intorno, chi ferito di palla, chi di baionetta,
condannati al letto chi sa per quanti altri mesi, e fortunati
quelli che s’alzeranno ancora. Ho davanti a me un
luogotenente dei granatieri, lombardo, che s’è preso
una baionettata nel petto, a Custoza, da un sergente
dei croati, e ferito com’era non s’è voluto allontanare
dal campo. M’ha fatto veder la sua tunica; è ancor
tutta macchiata di sangue. È quasi guarito, si leva,
cammina; ma quando si sveglia, nell’atto che fa per
mettersi a sedere sul letto, prova ancora dei dolori
atrocissimi. Mi raccontò il fatto. — Mi ricordo di poco, — mi
disse; — mi ricordo come di un sogno, d’aver veduto
quattro o cinque ceffi orrendamente stravolti correre
contro di noi mandando un urlo prolungato, e uno
di essi mi guardava. Ho sempre presenti quei due occhi
spalancati e la punta di quella baionetta; era un uomo
alto, nero, con due gran baffi. In che modo sia riuscito
a ferirmi non mi sovvengo. Ricordo che mi passò dinanzi,
rotando la sciabola, un ufficiale austriaco senza
barba, un viso femmineo, giovanissimo, che gridava
disperatamente: — Jesus Mària! Jesus Mària! — Passò
e scomparve. Quello lì lo vedo sempre, lo riconoscerei.
Parecchi giorni dopo, essendo all’ospedale colla febbre
e il delirio, mi sentivo ancora l’orecchio intronato da
quegli urli e dal suono dei fucili cozzanti, e vedevo lontano
lontano una punta scintillante che veniva innanzi,
nella direzione del mio cuore, lentamente, lentamente,
come se mi guardasse per riconoscermi; e me la sentivo
entrar poi tutt’ad un tratto nelle carni, dura, fredda,