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382 | partenza e ritorno. |
La mia ordinanza osserva colla coda dell’occhio se le guancie purpuree danno segno di voler impallidire: — no. Io suppongo di avere un cerotto sul collo, e tento di piegare il capo in atto melanconico: invano; la patria è più forte.
Intanto ritorna mia madre, colle braccia cariche di biancheria, seria, impassibile, che mi fa stordire; dietro a lei tutti gli altri, silenziosi, colla testa bassa.
Mia madre si china sul baule; l’ordinanza fa un atto rispettoso per pigliarle la roba; ella si scansa e risponde: — No; lasciate fare a me. — Le mie sorelle stendon le mani per far lo stesso. — Lasciate fare a me — risponde un’altra volta mia madre; e si china per mettersi in ginocchio. — Mamma! — io le dico con accento di affettuoso rimprovero trattenendola pel braccio. Essa mi guarda. — Non voglio — io soggiungo. Ed essa con accento più affettuoso del mio: — Te lo domando per piacere. —
S’inginocchia e ripone la roba. Il soldato mi guarda tra intenerito e sorpreso come per dirmi: — Quanto siete fortunato, tenente! — Io lo guardo come per rispondergli: — Lo so; mi rincresce che non ci sia la tua. —
Mia madre s’alza e va via. Sento un respiro affannoso; mi volto; è mia sorella minore che piange.
Mia madre ritorna con un non so che tra le mani, lo pone nel baule e va di nuovo di là; guardo: è il suo ritratto.
Ritorna con tre libri e li mette sopra il ritratto.
— Che cosa sono, mamma?
— Sono I Promessi Sposi.
— Oh grazie! — e le baciai la mano; essa la ritirò in fretta; sempre impassibile; la guardavamo tutti stupiti, ci metteva inquietudine.
— Lèvati la sciarpa.