L'asino (Guerrazzi, 1858)/Parte II/Qualità fisiche dell'Asino
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QUALITÀ FISICHE
DELL'ASINO
§ XII.
Ocrisia schiava di Tanaquilla. Il re Tullo e i gobbi fatti bene. L’abate Casti. Asino bracciere della reina Leonessa. Lascivia diversa dalla Filogenitura. Serse s’innamora di un Pioppo. Messalina e suo pallio. Eutichide partorisce trenta figliuoli. Giovanni Vescovo di Borgogna fa pontificale con trentasei bastardi suoi. Fecondità delle donne di Liegi. I Conigli di Ostenda. Catone. Uomo, e Porco generano da per tutto. Infanticidi. Dote. Matrimonio che sia. Comunisti di Francia. Oppiano. Virgilio. Diogene. Pudore dello Scimmione paragonato con quello del Sommo Pontefice. Protestanti e Cattolici. Giunone. Vita media degli uomini nel 1789; nel 1817; nel 1855. Re dei Tiri. I Barbi e la Tartaruga del Forster. Rospi vivi nel cuore di una quercia. Mulo di Atene. Orecchie di Asino messi in capo ai ragazzi, e perchè. Barbiere del re Mida. Latte di Asina e sue virtù. Contrasto fra l’Asino e i Reppubblicani. Il Macchiavello e i Gesuiti. I Greci usano molto il latte di Ciuca. Rimedi ricavati dall’Asino quali e quanti. Scarpe eterne del Cardano. Nerone fa ammazzare Seneca suo maestro. Malatesta e pasticci di carne di Asino. Indigestione di Asino presa dai Fiorentini. Tasso comprato duecento danari. Pregio dei Pappagalli. Pregio di Cani, di Cavalli. Pregio di uomini. Quello che costi un Asino a Parigi. Le cenere dei grandi sepolti in Santa Croce messe all’asta pubblica, e liberate a Mordokai Rascildo. Agilità delle bestie. Velocità degli uomini. Le poste presso i Romani sono affidate agli Asini e presso i Fiorentini ai Muli. Grandezza degli Animali. Forza degli uomini. Favella degli animali. Se ai Principi giovi avere i sudditi piuttosto dotti, che obbedienti. Francesco I imperatore di Austria. Cane, che parla tedesco. Lingua etrusca perduta per mancanza di Pappagalli in Toscana anticamente. Le Ranocchie per comando di Augusto non parlano più. Lingua italiana corrotta. Italiani studiosi della lingua. Guerra ungarica cagionata principalmente dallo amore della favella. I Romani zelando la lingua si rendono meritevoli di ricuperare la Libertà. Nobilissime ed eloquentissime parole del Quinet in proposito. Conclusione.
Ocrisia schiava di Tanaquilla moglie del re Tarquinio il vecchio essendo rimasta una notte a filare accanto al braciere, all’improvviso vide di mezzo alle ceneri fare capolino uno di cotesti arnesi cui la Natura confidò l’alma opera della generazione, e poi uscito fuori, come di sotto al palco scenico le diavoline nel dramma di Roberto il Diavolo, mettersi a ballare; ballato ch’ebbe un pezzo traboccò nel seno della schiava il germe col quale si fermentano i re; donde nacque Servio Tullo (re galantuomo nella guisa che i Fiorentini costumavano dire dei gobbi: per gobbo è fatto bene), e le feste compitali e i giuochi istituiti in onore degli Dei Lari, conciossiachè Ocrisia non sapendo in coscenza indicare al figliuolo qual fosse suo padre, egli, senza confondersi, ordinò, divenuto re, che i suoi sudditi credessero averlo generalo un Dio Lare1.
Toccandomi adesso a favellare dei miei pregi fisici pendeva incerto da qual parte rifarmi, avvegnadio dalle orecchie alla coda tutto mi appaia degno di essere lodato ugualmente in me, quando un’apparizione simile a quella di Ocrisia scesami nella mente m’ispirò a prendere le mosse dalla Filogenitura; nè senza causa in vero, solo che voglia ricordarsi quanto venni già esponendo in varie parti di questo ragionamento, a cui per tema di riuscire sazievole mi astengo aggiungere raziocinii ed esempi preclari che in copia mi porgono le memorie del mio illustre ligniaggio.
— Se giovane, che irrompa sfrenato dove alla cieca Venere più piace, ossivvero vecchio traditore ai casti pensieri della tomba si riconsigliano trovare in questa orazione eccitamento ai vituperosi appetiti, si vadano addirittura con Dio; imperciocchè l’Asino, come di altre virtù cardinali, può somministrare simbolo di verecondia solennissimo. Di questo io non voglio testimone migliore dello abbate Casti, di cui il nome fu quasi simbolo e caparra della purità della sua vita. Negli Animali parlanti egli attesta, che diventato si può dire l’occhio diritto del re Leone, mi disse bracciere della reina Leonessa, dama per pietà insigne e di costumi preclara da stare a petto di Caterina II di Russia, e se acquistai grazia alla presenza del re per gli altri meriti miei, la Lionessa mi reputò cosa sopra bestiale, quasi divina per la ombratile verecondia, e per un tale mio squisito pudore da disgradarne una fanciulla educata in un convento. Poichè gli avoli degli arcavoli dei tritavoli miei si mostrarono sempre oltre ogni credere puntigliosi sul fatto onestà, così obbligo più che talento m’invoglia a picchiare su questo punto sodo.
— Mancherebbero innanzi i fiori ai prati, per dirla coll’abbate Pietro Trapassi, e le stelle al cielo, che i testimoni della mia purezza; discretamente ne scelgo due; e il primo è questo: le greche storie raccontano come in Sicandro, isola del mare Egeo, le donne honestatis causa ne bandissero gli uomini e le altre tutte senza eccezione Bestie, tranne gli Asini coi quali elle si addomesticarono vivendo insieme vita romitica, non però quella che racconta messer Giovanni Boccaccio di Alibech con Rustico2.
L’altro esempio è tratto dalle storie di Francia: peccai, lo confesso; anche i santi peccarono, ma pure accusato davanti la giustizia umana e processato, sicchè al solo rammentarlo mi si drizzano per orrore le orecchie sopra la lesta, fui dimesso immune da ogni pena, avvegnachè trovassero ch’io non già per protervia, bensì sedotto dalle lusinghe altrui cascassi in colpa. Ma a quei tempi i magistrati si professavano clienti e ammiratori degli Asini, ed i parrochi più di loro, dovendo io la mia assoluzione alla testimonianza largitami dal curato di Vanvres, che diligentemente e per lungo tempo custodita suonò così.
«Noi sottoscritti Priore—curato ed abitanti della parrocchia di Vanvres certifichiamo qualmente, da quattro anni a questa parte che abbiamo in pratica l’Asino di Giacomo Feron, si mostrò sempre morigerato e di ottima condotta si in casa che fuori, non avendo infastidito nessuno così in fatti come in detti, e quanto a costumi lo malleviamo un fiore di virtù: in fede di che ci siamo sottoscritti di nostro pugno e carattere. Fatto a Vanvres il 19 settembre 1750. Pintuel priore—curato,» seguono le altre firme che passo in silenzio3. Però rimanga intera la lode che dettò di noi il Macchiavello quando nell’Asino di Oro cantava in rima così:
A Venere noi diamo e breve o poco
Tempo, ma voi senza alcuna misura
Seguite quella in ogni tempo e loco.
Distinguo pertanto filogenitura da lascivia; la prima non è vizio anzi virtù, secondando il precetto di Dio, il quale ordinò a tutti gli animali che crescessero e moltiplicassero; la seconda poi come vizio e contraria ai fini della natura hassi a riprendere: però questa non contaminò mai l’Asino, nè le altre Bestie chiamate per dispregio irragionevoli; ella fu uno dei dolci frutti che la ragione innestava sopra la pianta umana. Nerone, che se ne intendeva, ebbe a dire sovente, nessuno uomo a parere suo potersi vantare pudico, ma che molti sapevano con ipocriti sembianti onestare le disordinate inclinazioni4; e questo credo ancora io. Più rumino tra me e meno so capacitarmi, come gli uomini riuscissero a corrompere l’amore, rosa caduta dai giardini celesti a giocondare la terra, per modo che se taluno sorse fra loro, che venisse in fama di savio, l’ebbe a prendere in abbominio.
Serse, antecessore di Dario al trono della Persia, quello spaccone che bastonò il mare, te ne ricordi? Or bè, egli desso, un giorno, prese a delirare di amore... per cui? Io te la do a indovinare su mille. S’innamorò d’un Pioppo! nè si tenne ad amarlo soltanto, chè in segno della sua benevolenza volle fregiarlo di monili, di collane, di ghirlande e di trofei, insegne tutte con le quali gli strenui capitani ed i satrapi prestantissimi onoravansi5. Le storie dei tempi raccontano come il reame di Persia toccando omai l’estremo della corruttela e della infamia, precursore sicuro della morte dei popoli, non avesse allora satrapo o capitano, che premuroso di fuggire vergogna disdegnasse tenere simili insegne comuni col Pioppo mignone del re.
Le donne di Santa Croce, e questo non è storto amore, bensì libito rotto a mostruoso appetito, procuravano che certo insetto mordendo gli amanti proprii od i mariti là dove non si può dire ne aumentassero i capitali all’infinito, onde poter far meglio i fatti loro6. Però la morte teneva dietro al morso, ma le donne non se ne davano per intese consolandosi col proverbio, che morto un papa se ne fa un altro. Così finchè durò, fu nuova causa questa a singolari omicidii, e il fatto è sicuro. che tale virtù maligna ebbe l’insetto guaco, del quale volendo dare contezza ai sapienti di Europa un certo frate se lo inocchiò dentro una coscia, dove tanto egli crebbe, con patimento orribile dello incauto scienziato e insopportabile fastidio della ciurma, che per dare termine allo strazio di lui si trovò costretta a gittarlo nel mare.
Per me basta tanto; che se di conoscere più addentro questo argomento ti pigliasse vaghezza, leggi Tacito, Svetonio, Sifilino, Lampridio, con gli altri scrittori della storia augusta e Petronio, e tu penderai incerto se più gli uomini apparissero al mondo scellerati o matti, comecchè scelleratamente e pazzamente si comportassero.
Non è bassa voglia soltanto, ma turpe, venire a contesa con la razza umana nella copia sterile dei concubiti; lascio a lei il vanto infelice di avere fatto terribile la dolcissima fra le opere della vita con gli aneliti affannosi del gladiatore e col dibattersi disperato del naufragio; io mi tenni dentro ai cancelli messi dalla madre natura e me ne trovai sempre bene. Messalina moglie di Claudio, la infame femmina che, mentite vesti e capelli, ricercava notturna i corpi di guardia e ne recedeva all’alba rifinita, non sazia7; quella dessa che, vivente il marito, celebrò le nozze con Silio adultero e gli costituì la dota e trovò preti che alla inaudita infamia invocassero propizii gli Dei, quella dessa, io dico, udendo ricordare certa schiava di stirpe mercenaria, nobilissima tra le meretrici di Roma, con lei volle venire a certame e tutta intesa a sgararla, le riuscì riportarne la palma sostenendo nel corso di ventiquattro ore venticinque concubiti8. Procolo militando in Sarmazia così scriveva a Menziano: — Procolo a Menziano salute. Presi cento vergini sarmate; la prima notte dieci, e le altre dentro quindici giorni ho reso donne9. — Imprese coteste imperiali affatto, e comecchè laide, a Dio fosse piaciuto che i potenti della terra non ne avessero mai commesso delle peggiori.
Tre ricerche dobbiamo proporci nelle faccende della generazione, la copia dei figliuoli e la bontà loro; in secondo luogo la durata della facoltà di generare; terzamente la estensione del tempo e del luogo atti alla diritta Venere.
Innanzi tratto gli uomini vantavano te, o Salomone, cui bastarono le schiene per settecento mogli e trecento concubine tra avee, egiziane, moabite, idumee, sidonie ed ettee, conforme si trova scritto nel libro delle tue glorie10, ma questo esempio non monta, che altro è avere il forno in casa ed altro è infornare; nè si vede che tu lasciassi figliuolanza numerosa all’avvanente del branco delle tue donne. Nelle storie romane si legge come Pompeo magno esponesse nel teatro, fra le immagini dei personaggi maggiormente cospicui, quella di Eutichide matrona nel paese dei Traballi, che partorì trenta figliuoli e fu associata al rogo dai venti superstiti. Nelle storie più recenti occorre Augusto III re di Polonia, che per sollevarsi dalle cure del regno si divertì (povero uomo!) a procreare trecentocinquanta bastardi11. Giovanni vescovo di Borgogna ufficiava a messa con trentasei bastardi: ce ne voleva prima di arrivare il re Augusto! ma via per un vescovo non ci era male; bisogna sapersi contentare come dice il proverbio: — Il soperchio rompe il coperchio12. Della potenza di generare nella Svezia raccontasi mirabilia; a mo’ di esempio, che quivi le donne partoriscono da dieci figliuoli a dodici e fino a venti; e lo dice Olao da Rudbeck, ma il Gibbon13 vuole, che la si mandi in quarantina; io all’opposto la do per vinta, perchè so che il Gibbon era eretico e non credeva nulla se non con le prove in mano, segnatamente poi le cose della religione romana, che noi tutti abbiamo potuto conoscere adesso se meritassero conferma o se le dovessero credersi a chiusi gli occhi. Io lessi su i giornali, credo sul Monitore Toscano (diario della mia predilezione dal 1849 in poi) che certa buona femmina nella terra di Liegi aveva fatto lieto (nel mondo bisognava dire lieto) il consorte di ventiquattro figliuole donatigli a tre a tre per ogni parto: ma queste le sono proprio bagattelle a petto della dama Pascal, la quale, essendo arrivata piena di meriti presso a Dio, ed hassi a credere presso gli uomini altresì, all’ottantesimo anno di sua vita, avvisatasi di compilare il censo della sua figliuolanza trovò avere avuto millequattrocentosessantanove nipoti, di cui mille morti14.
Una famiglia di Arles faceva per impresa, con reverenza parlando, una Troia, ed era dei Porcelets, famosa eziandio un giorno in Italia, ai dì miei ignota affatto o mal nota dagli italiani di virtù patrie non sinceri amatori; imperciocchè dei Porcelets si chiamasse il barone, che unico per la bontà sua fu risparmiato dai Vespri Siciliani. Ah! perchè il popolo soffre un secolo, si vendica un giorno e non getta mai stabile fondamento alla sua libertà? Ma tornando alla Troia si narra come una gentil donna incinta di quella famiglia, vedendo passare per via certa femmina con due figliuoli al collo, le rinfacciasse la sua fecondità con ingiuria, che accenna ad attributo, il quale pure la Troia possiede comune con moltissime creature nel mondo; di che la donna offesa le rispondesse: — Tanto è vero che io sono incolpevole come troverai sicuro l’augurio ch’io ti faccio, di partorire quanti ha porchetti la Troia che passa: — e poichè i porcellini erano dodici, dodici figliuoli mise alla luce la gentil donna dicace15. Ma i panegiristi della razza umana tutti questi fatti danno per giunta, contenti della celebrata contessa di Fiandra la quale si partorì in un solo portato trecensessantacinque figliuoli, secondo quello che narra il Michelet nella storia di Francia16, ma il Porcacchi zelatore della precisione dice che furono trecentosettantaquattro, tra femmine e maschi, e battezzati tutti dal vescovo Guido, che impose alle prime il nome di Elisabetta ed ai secondi di Giovanni; i quali indi a breve morti con la madre loro si ebbero sepoltura nei chiostri di S. Bernardo con lo epitaffio, che anche ai dì suoi vi si leggeva sopra17.
A Goa ed in altre terre della India e della China, dove non sapendo che farsene, i figliuoli buttavano via, statuirono per legge che veruna donna si rifiutasse soddisfare le voglie di quale prima la ricercasse; e maritata fosse o fanciulla, purchè il visitatore lasciasse all’uscio spada o rotella, tanto bastava perchè i mariti e i parenti prudentemente si ritirassero; anzi una donna, la quale veniva a cagione della sua bellezza sopra tutte le altre ricercata, sentendosi stracca, per avere messo spada e rotella alla porta volendo far credere che stava in faccende, epperò la lasciassero stare, ne fu agramente punita dal re. A tanto arrivò cosiffatto capriccio (o portentosa contraddizione di cervelli umani!) in coteste contrade, che i padri non posavano mai finchè non avessero procurato alla casa loro la dignità di non avere pulcelle; però le figliolette di otto o dieci anni sottoponevano con molte supplicazioni all’uomo; nè basta; di più lo pagavano, e s’era il re che così gli onorava, lo riconoscevano con 700, 800, fino a 1000 fanois; se bramano, meno: i corregitori spagnuoli compensavano alla stregua del re.
Un altro esempio di contraddizione nota, o re, che ne merita il pregio. — Colà i Bramani o Bramini, che furono una maniera di frati indiani, per acquistare la salute del paradiso facevano voto di sverginare 2000 e chi 3000 fanciulle: i divoti e le beghine andavano innanzi a coloro tra questi che si erano più avvantaggiati in opera di carità tanto meritoria facendo scostare dal cammino la gente: la pietà dei religiosi uomini di quelle parti aveva lasciato danari a fusione per fabbricare pagode e case e cappelle sacre, dove a grande agio potessero celebrare il santo sacrifizio! — Le quali storie leggendo un giorno per diletto in compagnia di fra Bonaventura zoccolante osservò: mira, fratello mio, stranezza umana: i frati indiani facevano voto di sverginare fino a 3000 donzelle e appena arrivavano al terzo del compito, mentre fra noi, che per istituto proferivamo voto di castità, non vi era frate, per poco valente che fosse, il quale nel corso della sua vita serafica non ne superasse la metà18.
A questi fatti parte veri, parte esagerati ed alcuni favolosi, ne contrappongo altri verissimi e perenni, i quali dovrebbero avere la virtù di confondere la presunzione umana. In quanto alla fecondità degli altri Animali se non prestate fede a me, credete al celebre Vauban maresciallo di Francia, il quale nel suo aureo trattatello (come appunto solevasi appellare quello di Longino o di Dionisio di Alicarnasso) sopra i Maiali calcola, che la prosapia di una Troja sola nel corso di undici anni si moltiplica fino a 6,334,838 Porci19, e avvertite che questa moltiplicazione accade senza la promessa che fece il Signore ad Abramo di crescere il suo seme come le stelle del cielo; figuratevi voi dove sarebbero andate le Troje con simile promessa! — Non volete accollare la testimonianza del Vauban intorno la stupenda fecondità delle Bestie? Ebbene credete a voi stessi, alle vostre gambe principalmente ricamate dai morsi delle Pulci. Carlo Donnei nel 1740 si chiuse in una stanza solo con una Pulce vergine, che poi affermò con giuramento di non aver toccato, e in capo a trentaquattro giorni ebbe a fuggire via in pericolo della vita per la guerra crudele, che gli avevano dichiarata milioni e milioni di generazioni di Pulci20.
Illustri esempii di potenza a generare straordinariamente protratta occorrono tra gli antichi: Volusio Saturnino, che ebbe a settantadue anni da Cornelia della famiglia degli Scipioni un figliuolo, il quale tenne il consolato; Catone il censore che incinse a ottanta anni la figliuola, di Salonio suo cliente, e Massinissa il quale a ottantasei procreò Mitimane21; ma tu avresti sodato, che quei figliuoli nascessero davvero da codesti padri? Qui sta il nodo; in faccia alla legge padre si reputava quello che le nozze rendevano marito; in faccia alla natura camminava diversa la bisogna. Tiberio aggiunse un periodo alla legge Poppea; il quale dichiarava gli uomini dopo il sessantesimo anno inetti a generare, donde forse il proverbio plebeo, che dopo il sessanta non si genera e non si canta; Claudio tolse via il periodo aggiunto alla legge Poppea: certo molte cose ponno gl’imperatori, ma resuscitare chi dorme, come il bussolo dei bruciatai, con patente regia non possono22: comunque sia, per me in quanto a facoltà generativa non conosceva che fosse vecchiezza: operaio infaticato, il lavorio dell’alba non si distinse da quello del vespro, ond’è che dice l’anonimo poeta:
L’asino è pronto alla fatica poi
Viepiù che altro animale, e ne dà saggio
Col generare gli ultimi anni suoi.
Di una facoltà andavano tronfii gli uomini affermandola a loro unicamente propria e ad ogni momento la mettevano in ballo, con manifesta malafede, come quelli che consapevoli del falso perfidiavano a mentire; in vero quella vantata potenza loro di vivere e moltiplicare in ogni paese dall’equatore ai poli vuoi tu sapere con quale la possedevano comune? Col Porco23.
Presso noi non si sapeva che fosse sterilità, la quale troviamo in molte leggi umane stabilita causa di divorzio; ed è noto per le storie che in Roma, quando pure le virtù repubblicane fiorivano, il primo divorzio trasse argomento dalle nozze infeconde.
Noi non allungammo la mano a segreti veleni, noi non domandammo alla Savina la virtù scellerata di concepire invano; noi non abbandonammo i nostri figliuoli in compagnia della infamia e del dolore; per la qual cosa un poeta di Francia così immagina avere udito a cantare uno stormo giocoso di uccellini, che gli passarono sopra la testa:
«Noi tutti quanti siamo al mondo nati,
Da nostra mamma saremo allevati;
Che se umani sortivamo i parenti
Ci buttavano in rota agl’innocenti»24
molto meno per noi (vergogna da non lavarsi con tutta l’acqua del mare) uscirono i nostri figliuoli dall’utero materno per andare sepolti nelle latrine. Non fe la Ciuca (come il Dante nota con parole di fuoco essere accaduto appresso gl’uomini) nascendo al padre Asino paura, avvegnadio non corressimo pericolo che ci smembrasse con le nozze un brano di patrimonio, come la prima volta ch’ella venne al mondo stiantò una costola a Adamo: invano Gesù Cristo levò il matrimonio alla dignità di sacramento; gli uomini lo condussero a forza nella stalla del contratto e ce lo chiusero a chiave. Nè ci fu verso di trovare rimedio che approdasse; i sacerdoti con le mani e co’ piedi badavano a dire che l’unione di Gesù con la Chiesa era simbolo del matrimonio cristiano, gli uomini s’incocciavano a volerlo trovare nella conquista del vello di oro fatta da Giasone. Dà retta a me che parlo la verità, sai tu come doveva definirsi il matrimonio ai miei paesi? — Viaggio alla ricerca di un sacco di quattrini attaccato al collo di una donna. — In altre parti al contrario era la donna che si metteva in traccia dei quattrini attaccati al collo di un uomo; ciò poco monta; in fondo sempre quattrini. Vedi un po’ se le nostre femmine si facessero pagare? No signore, I doni della natura gratuitamente furono largiti, gratuitamente profusero: — gratis accepistis, gratis date. — E questo precetto noi o vogli femmine o vogli maschi troppo meglio osservammo dei preti a cui lo dava con la sua santa bocca Gesù. Fra noi non adulteri Egisti, non parricide Clitennestre, non subissi di regni nè sterminii di popoli a cagione di femmine; uno scendeva, l’altro saliva; ce n’era per tutti, e ci pareva il meglio, ed anche agli uomini in diversi tempi e in diversi luoghi sembrò così.
Oppiano nel poema della Caccia ghiribizza che gli Animali sentono orrore pei connubii incestuosi: io ti giuro che presso noi il gius civile non venne mai a romperci il capo co’ suoi gradi di parentela, nè il gius canonico co’ suoi impedimenti impedienti nè dirimenti; veruno dei connubi nostri andò all’aria per errore, perocchè la nostra Ciuca conoscessimo sempre; non per delitto, che non ne commettemmo mai; non per voti, che di ordini sacri non ne volli saper nulla; nè insomma per veruna altra cagione. Aristotele25, comecchè portasse barba e Ovidio no, mostra avere meno giudizio di lui quando ci volle dare a bere che certo Cavallo tratto da fato maligno, congiuntosi con una Cavalla, la quale conobbe poi per madre, tanto lo prese orrore di sè che, tese le orecchie, allibito nel sembiante, si precipitò giù da una rupe, dove rotolando miseramente non lasciò sasso digiuno del suo sangue, non arbusto privo di brindelli di carne, cadavere miserabile prima di adimarsi giù alla valle. Queste novelle sul conto delle Bestie erano baggianate, su quello degli uomini atrocità pur troppo. Certa mala femmina nel reame di Francia, ch’ebbe nome Anna di Lenclos, ingravidò alternando gli abbracciamenti venduti tra un soldato ed un prete; incerto il padre, i mariti giuocaronsi a dadi la prole: aggiungono ancora che il ventre pregnante servisse di tavoliere ai giuocatori: toccò al prete, e forse per questa volta la Fortuna si tirò giù la benda e vide chiaro. Allevato questo figliuolo lontano dalla madre, col volgere del tempo il caso volle che la incontrasse a veglia, e di lei, non conoscendola, perdutamente s’innamorasse. Costei che sparvierata era, si accorse degli ardori del giovane e veramente non omise diligenza ad attutirli, finchè, vedendoci riuscire vano ogni partito, aperse risoluta al figliuolo l’arcano della sua nascita: soprastette il giovane dapprima, ma indi a breve più veemente che mai incalzava negli amorosi delirii. Respinto con orrore dalla madre corre, tratto fuori di sè, nel giardino e con mano violenta mette fine in un punto alla passione e alla vita. Io ti ho detto che la storia del Cavallo è fandonia, ma, posto la fosse vera, bisognerebbe considerare, e ne varrebbe il pregio, che il Cavallo, Edipo redivivo, si ammazzò pel rimorso del commesso misfatto, mentre il figliuolo della Lenclos si sarebbe finito per uzzolo di non averlo potuto commettere, e tu pensa allora chi meglio dei due avrebbe meritato compianto.
E sia ancora che la razza umana avesse bisogno di tante leggi, le quali regolassero i suoi connubii: concediamo di un tratto che la Natura circondasse la generazione umana con tanti impedimenti e paure; a che mena mai questo? Certo a chiarirci che noi altre Bestie volle più scariche di obblighi, maggiormente liete di bella libertà, e però meno disposta a farci delle stincature in quel precetto o in quell’altro, onde come ubbidientissime ella ci potesse prediligere sempre con amore intero. Questa, caro mio, la è cosa piana, eccetto che tu mi voglia sostenere come un padrone possedendo due servi dimostri preferire quello che carica con cinquecento libbre di peso, all’altro cui dà un ninnolo a portare. Ancora avanza una quistione a definire ed è questa; se giovi meglio la ignoranza di certi ordini e con quella la minore perfezione e la innocenza, o piuttosto il conoscimento del precetto con la perfezione piena e la spinta perpetua alla colpa. A comodo tu che sei sapientissimo mi chiarirai la materia.
I nostri avversarii uomini cercando il nodo nel giunco su i fatti nostri vollero appuntarci d’inverecondia perchè usassimo andare ignudi e sovente conducessimo i nostri connubii alla faccia del sole: in verità mi prende compassione di loro considerando come del vituperio si facessero corona; di fatto, finchè durarono ignudi, furono innocenti, nè della nudità si accorsero. Le vesti (e questo bisognava soprattutto ribadire nella mente alle donne che se ne mostravano così vane) portate addosso dalla razza degli uomini erano per loro come una gogna che raccontava la colpa commessa, la innocenza perduta, la condanna nell’uomo a lavorare la terra col sudore, nella donna a partorire con dolore, in ambedue a morire; la nostra nudità, se tale poteva chiamarsi, gli era quasi una fede di ben servito che Dio ci aveva disteso intorno alla persona, in mancanza di tasche da riporcela dentro, per la quale ognuno a colpo di occhio avesse contezza della bontà nostra. E rispetto ai connubii palesi, con qual fronte si rinfacciano a noi? Ho riferito come presso taluni popoli si celebrassero quasi devota solennità; ma essi opporranno essere selvaggi cotesti. Bè: era salvatico Diogene, quando interrogato che diavolo si facesse sul canto di una strada pubblica con una donna pubblica, senza scomporsi rispose: hominem planto26? Non salvatico, bensì filosofo e teneva cattedra: le Bestie no. Bello esempio! obietteranno, un matto. — Sia, la pongo in serbo; matti erano i filosofi vostri, e Nerone era matto quando convitava il fiore dei gentiluomini romani a tale spettacolo, che muove lo stomaco ricordare soltanto? Lui salutavano imperatore ed augusto, e presso a morte, commiserando a se stesso, deplorava che avesse a perire un tanto artefice27. Nè anche questo giova, che mi replicano, cotesto Divo Cesare essere stato peggio che matto. Dunque filosofi non valgono e imperatori nemmeno; le leggi, i decreti, i magistrati non solo laici, ma ecclesiastici faranno eglino la prova? Ricordate i processi d’impotenza, gli esperimenti di virilità ordinati e a posta vostra vergognatevi. Inoltre considera come non fossimo già noi altre Bestie che davamo malo esempio all’uomo, bensì egli stesso ci venisse a trovare; i Cammelli e gli Elefanti invano nei penetrali più reconditi dello foreste cercavano asilo ai vicendevoli affetti; lubrico o curioso l’uomo fin costà li perseguitava. L’Aquila ridotta in servaggio renunziò a generare, e un giorno me ne disse le ragioni, le quali sono due, e magnanime del pari: la prima per non consegnare ostaggi in mano alla tirannide, la seconda per impazienza dell’esame inverecondo dell’uomo. Che più? Colpa era nostra se togliendoti ai boschi con ogni maniera di eccitamenti ci stimolavate a consumare davanti alle vostre femmine e a voi l’atto della generazione, affinchè i vostri pigri sensi destandosi e il sangue meno circolando inerte dentro le vostre vene vi dessero abilità di mettere stentatamente al mondo un figliuolo come un fico annebbiato? Per ultimo in Francia, e tu sai, quando si rammenta Francia, egli è come dire il non plus ultra della sapienza, della gentilezza, della civiltà eccetera degli uomini (almanco così ci facevano sapere gli stessi Francesi), alla corte del re cristianissimo, in mezzo ad una pleiade di matrone e di donzelle certo ufficiale portava ostensibilmente in rilievo sopra la punta delle scarpe la immagine del Dio Priapo per insegna della sua carica ch’era di sopraintendere alle cortigiane cioè femmine di partito ed aveva nome re dei ribaldi28; in seguito il re dei Francesi lo tolse via; dicono per astio, dacchè egli vedesse ogni di più i suoi sudditi, disertata l’ombra dei gigli di oro, ripararsi a quella delle scarpe del re dei ribaldi. Ora odi questa. Alla fiera di S. Lorenzo certi medici solenni dubitando intorno al sesso di uno Scimmione deliberarono volersene chiarire: uno di loro (poichè la scienza sia la più sfacciata femmina ch’io mi abbia incontrato nel mondo) non seppe trovare spediente più dicevole di quello che cacciargli le mani sotto e tastargli, voi mi capite, sapientissimo re. Lo Scimmione arse d’ira così che, postergata ogni referenza per la parrucca (avvegnadio il caso accadesse nel 1740, tempo classico in materia parrucche), gli lasciò andare un potentissimo schiaffo29. Sodo! che gli stette come collana alla sposa. Questo atto, che ebbe virtù di rimescolare il sangue al pudico Scimmione, appo gli uomini era tenuto in conto di pratica religiosa, di giuramento o di altrettale cerimonia. Là sul Gangeantico divoti e divote, ma più di queste che di quelli, si portavano in pellegrinaggio a venerare e baciare le reliquie vive pendenti ai Bramini colà donde loro pendevano30. A casa tua in qual maniera giuravano ed anche facevano giurare i tuoi progenitori? Abramo patriarca, volendo cavare da Eleazaro suo servo un giuramento che lo legasse davvero, gli disse propriamente così: mettimi le mani fra le cosce e giurami per lo Signore Dio del cielo e della terra, che non prenderai al mio figliuolo per moglie figliuole de’ Cananei31. Elcazaro mise le mani fra le cosce del patriarca Abramo e giurò quello ch’ei volle: allora Abramo si buttò giù a dormire fra due guanciali ed a ragione, conciossiachè indi a breve il servo fedele gli conducesse a casa Rebecca figlia di Batuelle figlio di Naha. Peccato inestimabile fu, che ai tempi nei quali io Asino vissi, siffatto rito di giuramento dimenticassero gli uomini, avvegnadio essi l’arieno potuto provare con cotesti signori, i quali mandavano giù sacramenti falsi come bisciole. Ma torniamo al pudore: quale si fosse quello dello Scimmione voi l’avete visto: adesso mirate quello del papa. Eletto una volta colui che presumeva di fare le faccende di Dio sopra la terra non riputavasi vinto a dovere se prima accomodatolo sopra a certa seggiola adattata all’uopo non avevano riscontrato i testimoni della sua virilità, i quali quanto meglio erano rinvenuti solenni, tanto più estimavasi la elezione gaudiosa e di auspizio felice; di che poi i popoli notiziati menavano gazzarre, luminarie e falò, ed i cattolici di tutte le cinque parti del mondo piangevano lagrime di tenerezza. Dicono che siffatta cerimonia venisse ordinata a cagione della papessa Giovanna, la quale certo dì invece di partorire una bolla partorì una figliuola: ma questa avventura i cattolici sempre ostinatamente negarono e gli eretici vieppiù cocciuti affermarono: quelli produssero libri ed autori, questi autori e libri; i primi dissero che i secondi mentivano per la gola, i secondi rinaprocciarono i primi di essere più bugiardi della luna: allora questi chiamarono gli altri figli di Belzebub, razza di vipere, con altrettali galanterie, questi altri quelli progenie di Satana, con simili rifioriture per giunta, e il Diavolo rideva di tutte e due; sicchè la cosa rimase più incerta di prima, essendo questo uno e non ultimo dei vantaggi che gli uomini ritraevano dalla vantata facoltà di ragionare. Però io, da Asino prudente, di tutte siffatte novelle mi lavo le mani concludendo col dire, che appo gli uomini santo era stimato e religioso quello, che le Bestie per naturale verecondia reputavano impudico32.
Nè anche nei parti portentosi ebbe balia di superarci la razza umana; imperciocchè di cosa poteva ella vantarsi? Di Giunone forse che toccando un fiore ingravidò? Di Drapaudi dia Indiana, che contrasse matrimonio con cinque mariti in un punto solo e partorì figliuoli, il tutto senza offesa della sua virginità? Suonavano a doppio cotesti cari Indiani! Gli altri esempi si passano. Ora ci raccontano naturalisti e storiografi, come per le pianure di Nisa e della Lusitania presso Lisbona Cavalle ed Asine per impregnare non avevano a fare altrochè voltarsi acconciatamente dalla parte dove spirava il vento Favonio per sentirsi piene di animali, che nati mostravansi davvero figliuoli del vento, avvegnadio nel corso rapidissimo appena stampassero l’orma sopra la sabbia del deserto o dei liti del mare33. Gli Scarabei ringraziavano anche il vento: facevano tutto da sè, e così le Pulci, le quali schive di maschile contatto, vergini solitarie giorno e notte si affaticavano indefesse a creare Pulci emulando le sante cenobite che chiuse in cella vigilano a recitare un diluvio di paternostri per la maggiore gloria di Dio e il benefizio del genere umano.
Raccontano gli uomini essersi prodotti i loro anni a mirabile età; se questo fu vero accadde in tempi lontani dai miei, che, mentre io vissi, la vita media dell’uomo toccava i quaranta anni appena e sembra che a un dipresso la faccenda camminasse sempre così, avvegnadio quantunque nel 1817 io la trovassi calcolata a trentuno anno e nove mesi per ogni centinaio di uomini, e nel 1789 a ventotto e nove mesi, pure Ulpiano che fece i suoi ragguagli da Servio Tullio a Giustiniano la stabilisce a quaranta e con esso consente Emilio Marco nelle sue osservazioni alla legge Falcidia. Un centenario vivo occorre sopra diecimila morti; e nei censi ordinati dagl’imperatori Claudio e Vespasiano fra tutti i popoli soggetti all’impero s’incontrarono in Bologna un Fallonio di cento cinquanta anni e in Rimino un Marco Aponio di pari età. La stoffa della vita si logora presto fra le mani della Morte, e si consideri quanta parte dell’avara elemosina fatta agli uomini dalla Natura si prenda il sonno, quanta le altre necessità, quanta le malattie e le cure, non reputerai figura rettorica, se Giobbe l’assomigliò ad ombra che passa, e Pindaro al giro volubile di un cocchio, che corra il palio ai giuochi di Elea.
Tacendo dei molti giunti ad età più breve, mi stringo a ricordare due re dei Tirii, padre e figliuolo, di cui il primo visse seicento e l’altro ottocento anni; questo riporta Senofonte nel Periplo. Fra gli altri non trovo chi la impatti con loro, se ne togli i patriarchi ebrei, i quali non solo pareggiano ma superano. Quanti anni durassero è noto; più di tutti Matusalemme che annoverò novecentosessantanove anni, però importa chiarire che gli anni biblici non corrispondevano a gran pezza a quegli dei tempi miei. Alcuni popoli di Oriente, in ispecie gli Egizi, ad ogni volgere di stagione coniavano un anno, per modo che in uno dei miei ce n’entravano quattro dei loro: gli Arcadi segnavano tanti anni quante volte vedevano la luna piena; ora stando alla maniera egizia di computare, i 969 anni di Matusalemme si riducono a 242 e tre mesi; età mirabile invero, non però impossibile, e tale da credersi senza contrasto.
Gli uomini, poichè esagerarono oltre i limiti del vero o del verosimile l’età loro, presero a lesinare su la nostra: ai secoli che presumeva avere vissuto il Pappagallo dettero di bianco; l’annosità del Cervo, del Coccodrillo, dell’Aquila e del Cigno negarono addirittura; e poichè nella selva di Senlis, regnando Carlo VI, fu preso un Cervo col collare, intorno al quale si leggevano le parole: Cæesar hoc me donavit! (e registrala nel taccuino; dono di Cesare era un collare) il Cuvier bisticciando almanaccò ch’egli era potuto venirci di Lamagna dove gl’imperatori costumavano assumere il nome di Cesare; il Cervo tutto al più vivere quaranta anni. I trecento anni di vita a gran pena acconsentivano all’Elefante, anzi prima ch’eglino portassero le fedi di nascita non li vollero credere. Baia il Luccio preso negli stagni del castello di Lautern il quale mercè una iscrizione attaccata alle sue pinne faceva sapere avercelo messo l’imperatore Federigo 267 anni fa; giunterie i Barbi di 100 anni e la Tartaruga dei Forster vissuta un secolo e più dopo la sua cattura: panzana il racconto dell’Hufeland sul Falcone ricondotto in Europa dal Capo di Buona Speranza con la collana di oro al collo che presentava inciso il motto: a S. M. Giacomo re di Inghilterra, 1610. Io badava ad ammonirli che non si sbilanciassero, perchè sarebbero stati confusi e presto; non vollero dare retta, e quando venne fuori un certo naturalista a ragguagliarci come gli fosse occorso un Rospo vivo nel cuore di una quercia gli fecero addosso la canata: non basta,quando il signor Guettard34 confermando la cosa assicurò essere stati rinvenuti Rospi vivi dentro una muraglia murata da parecchi secoli, gli mandarono a dire che mettesse più olio dentro la lucerna e meno vino nel bicchiere e che aveva preso un gambero per un pero scambiando Rospi con frane, fessure, spaccature; significando i Francesi tutti questi svariatissimi oggetti con l’unica parola crapauds; finalmente un giorno la Natura annoiata della presunzione umana gliela fece vedere in candela e da una calcaria spaccata per forza di mine appartenente alla età vetusta dei terreni di transizione cacciò fuori quattro Rospi vivi; pochi mesi dopo aprendo il viadotto nella lavagna tra San Leggero e Nancy venne alla luce vivo un Petrodattilo, pipistrello, immane grande quanto un’Oca, animale antidiluviano35. Come avessero coteste Bestie vissuto costà, la Natura non lo volle dire, in quanto a me, io mi addormentai sazio di giorni (nonostantechè per figura rettorica abbia detto altrove che furono brevi e infelici) nel seno di Abramo; ricordo un Mulo mio cugino che per ottant’anni si mostrò vispo e gagliardo per le vie di Atene, onde argomenta tu a quale età arrivassero i miei figliuoli legittimi, se tanto visse un bastardo, in ispecie quelli, che a furia di percosse e di travagli non erano condotti al lumicino. Adesso favellerò delle orecchie.
Delle orecchie? Sì certo, delle orecchie, come quelle che non solo davano ornato al mio capo, ma erano arnese superlativo di sapienza, e questo è chiaro, imperciocchè se il cervello spillava i concetti e la bocca gli spargeva sopra le generazioni dei viventi, le orecchie ne raccattavano i germi. Chiunque pertanto possedeva orecchie più lunghe, quegli era disposto a fare meglio copiosa provvisione d’idee; onde i sordi si ebbero in conto di morti e non poteva essere a meno: io poi fui donato di orecchi mirifici.
Il conte di Buffon, forse come francese un po’ astioso della squisita delicatezza mia a deliberare le acque, dichiara che se io non tuffo il naso lo faccio per la paura delle orecchie. O Numi consapevoli, si può egli sentire di peggio! Tanto varrebbe affermare che il prelodato gentiluomo non beveva al bugliolo per terrore della sua coda. Gran parte del libro della Natura egli lesse a dovere, in qualche punto però gli caddero gli occhiali; al contrario il mio Poeta incerto, comecchè non fecesse professione di scienze naturali, tuttavolta mercè l’istinto divino degli altissimi Poeti, sbirciato di traverse il libro della Natura, potè penetrarlo nei più reconditi arcani intero, onde meglio esperto di lui disse:
Forse, che come il Caval da furfante
Tuffa il ceffo nel bere? Ei tocca appena
L’acqua; cotanto è garbato e galante36.
Per urbanità dunque, non mica per paura delle mie orecchie, io libo a fiore di labbri. E così dev’essere, dacchè in che, o come potrebbero atterrire i miei orecchi? Nelle scuole usavano metterli in capo agl’infingardi, affinchè gli altri garzoni tenendoseli dinanzi gli occhi s’infiammassero di bello ardore e la trista ignavia fuggissero. Non mancano scrittori autorevoli, i quali la contano altrimenti e dicono, che questo si costumasse non per emulazione, bensì per obbrobrio. La sarebbe lunga raddrizzare i becchi agli Sparvieri; tuttavolta poichè la Eternità si bevve il Tempo come un uovo fresco, a me non grava chiarirti quanti e quali fossero gli scerpelloni dei presentuosi, che digiuni di scienza come di pratica s’impancarono a giudicare. Se le orecchie mie fossero state simbolo di vituperio, quando Giove regnava, le avrebbero prese i Satiri, i Sileni e gli altri Dei minori37? Se ignominia (cosa più stupenda a dirsi), i primi cristiani le avrebbero date alle immagini di Gesù Cristo38? E lasciamo stare i santi; Apollo non fece dono al re Mida di un paio di orecchi di Asino? Tu avrai sentito da taluno raccontare, come Apollo e Marsia un giorno venuti a contesa fra loro per gara di eccellenza nel suono eleggessero re Mida giudice del piato, ed egli ignorante o maligno decretasse la palma a Marsia; di che incolleritosi Apollo per la sportula della sentenza, toccate le orecchie al re, di umane gliele convertisse asinine. Questa storia in parte è vera, in parte no: veri gli orecchi di Asino del re, falsa la pena e la cagione di quella; e non ci ha dubbio, imperciocchè se a tutti i Giudici, che pronunziarono sentenze inique nel mondo, fosse stato inflitto il castigo dì lasciare le orecchie proprie per prendere le mie, gli Asini nell’altro mondo sarebbero andati a dodici il quattrino, ed un Papero giunta. Il poeta incerto, che per molto levare a cielo ch’io mi faccia non potrò lodare abbastanza, espone il caso in quest’altra maniera:
«Onde Mida, che gli Asini oltraggiava,
Da Bacco fu con sua vergogna e danno
Castigato com’ei si meritava.»
Però non Apollo, bensì Bacco ornava il re Mida di orecchie di Asino, perchè conoscendosi anch’egli Asino a prova e non lo potendo negare a se stesso, imparasse a comportarsi da galantuomo con gli Asini e trattargli con carità.
Cambise re di Persia sospettando, macchinasse insidie contro la sua vita il fratello Smerdi, lo fa ammazzare; più tardi egli stesso crepò e non ci pensava. Un Mago salta su e fintosi Smerdi, regna sul trono di Ciro; di qui le sue disgrazie. Durante il giorno nascondeva il mancamento sotto le bende, ma la notte se le levava: vero è bene che prima di mettersi a letto e sfasciarsi spegneva il lume. La cosa camminava pe’ suoi piedi se la sultana non avesse avuto il capriccio di tastare, e la sultana che non doveva tastare, almeno in capo, si accorse una volta del fiero caso. Tacque la feroce, ma alla dimane, adunati i satrapi, gl’informò della soperchieria ed eglino vergognando meritamente di avere obbedito un re senza orecchie misero in tocchi il povero Mago39. Indi in poi i re non so nemmeno io che cosa avrebbero consentito a farsi tagliare, piuttosto che le orecchie. Come la croce era segno del cristiano, i nati di regia stirpe, quando non avevano di meglio, si scoprivano le orecchie per farsi conoscere e, quelle viste, gli uomini ad una voce gridavano: "non ci casca dubbio, egli è Re."
Dicono ancora che il barbiere del re Mida costretto con giuramento ad osservare il segreto su le orecchie di Asino cresciute al padrone non potendo tenere il cocomero in corpo, cavata in terra una buca, quivi si sfogasse: onde poi essendovi uscito sopra un canneto, le canne mosse dal vento susurrassero: — Il re Mida ha gli orecchi di Asino. —
Io dovrei serbare la lode di certo mirabile attributo dei miei orecchi in altra sede più nobile della orazione, ma la voglia mi scappa di farla palese. Innanzi che gli uomini avessero inventato il barometro io gli sovvenni coll’uffizio dei miei orecchi, e a questo parte mi mosse amore e parte vaghezza di svergognarli, dacchè non aborrivano città e principi tenersi a stipendio certi impostori, che vantandosi astrologhi si mangiavano il pane a tradimento; e quanto i prognostici superassero in sicurezza i loro lo feci vedere il giorno, nel quale il conte Guido da Montefeltro domandò al suo astrologo Guido Bonatti se tempo sereno sarebbe stato domani, e il Bonatti rispose: — «per punto di stelle te lo imprometto bellissimo» ed io giuoco, interruppe un villano, che pioverà a bigoncio e piovve. Il conte avendo visto a prova il suo astrologo vinto dal villano mandò per esso e gli disse: — contami un po’ dove fosti a studio ed in che parte tanta scienza apprendesti? In verità, rispose prontamente il villano, da casa non mi appartai, le orecchie dell’Asino mio furono maestre, perocchè quando molto egli le scuote dà indizio di vicina piova40. Nè questo pregio fuggì al Poeta che si compiacque celebrato co’ versi:
«E quando ei raspa e che zappa col piede
O tien gli orecchi a terra è chiaro segno
Che vicina la pioggia egli prevede.»
Però cancellami dal debito della paura delle orecchie il bere garbato e mettimelo a credito della buona creanza. Anche gli Asini conoscono il Galateo.
Terzo de’ miei pregi il latte dell’Asina, nè già io lo voglio lodare, perchè i denti sconquassati riassodi o giovi al veleno, alla dissenteria e alla gastrite, o bevuto col mele sia emmenagogo (sconci di tali laidezze che le non si ponno dire, tranne in greco) o mitighi il dolore delle mammelle41: io soprattutto l’ebbi in riverenza come quello che le nature spossate da ogni maniera di stravizii e di lussuria teneva ritte nel mondo. Era inestimabile gaudio pel cuore mio contemplare migliaia di uomini, in ispecie italiani, barcollanti su l’orlo del sepolcro, trattenuti da cascarvi dentro per virtù del latte di Asina e poi in compagnia del mercurio e del vescicante consultava il modo di prolungare loro cotesta aurora boreale di vita; qualche volta anche la gruccia veniva a dirci la sua. Francesco I re di Francia ridotto al verde si riebbe mercè del latte di Asina, per consiglio di un medico Arabo. I repubblicani mi bandirono addosso la crociata per questo, ma io non ci badava, parendomi onoratissimo soccorrere un unto del Signore senza avvertire più oltre; essi però abbaiavano: — «che re e che non re? costui fu pagano, romano del basso impero, capo senza fronte e di cervello grosso: creatura tutta carne, bestiale d’istinto, con la lascivia del Montone, e In fame del Lupo, ricercatore nell’arte della inverecondia e del nudo, non della grazia; lettore del Rabelais per succhiarne il sugo del cinismo e spuntarne la filosofia come scorza; in somma protettore dell’Aretino, spregiatore del Tasso42, arcifanfano come un Francese, bugiardo come un Ebreo, traditore come un Turco; aizza i Fiorentini a guerreggiare Carlo V e sottomano palleggia con lui; giura in fede di gentiluomo volere restarsi privo dei figli, innanzi che abbandonare gli alleati e già gli aveva derelitti segnando la infamia di Cambray; poi si fa ragione della ingiuria ed impedisce che i mercanti fiorentini stanziati a Lione co’ proprii denari sovvenissero le fortune pericolanti della patria: in fè di Dio, oh! va che hai fatto la tua a ritardare con le mammelle della tua moglie il suo viaggio all’inferno!»
Allora sentendomi a un punto trafitto e commosso risposi: — come può essere questo? Vedete i Francesi, che pure si vantano uomini maiuscoli nel mondo di qua e in quell’altro di là, nel 1856 gl’innalzarono una statua nella corte del Louvre e per di più equestre. Se fosse stato il tristo diavolo che dite, non doveva sembrare vero a costoro che l’oblio con un gran sorso di acqua di Lete ne avesse bevuta la memoria.
— Ahi! Asino cattivo, che ti fa ciò che in Francia si almanacca? — latrarono i repubblicani più forte, che mai: i Francesi una volta cacciarono Dio dal tempio e vi misero Marat; più tardi le ceneri di Rousseau e del Voltaire gittarono in cantina per levare simulacri a Francesco I. Italiano. Asino sei e negli esempi patrii tu hai ad ammaestrarti. In Italia fu concordato dagli Ebrei come dai Samaritani che la memoria degli uomini preclari per eccellenza d’ingegno fosse dal flusso e dal riflusso delle umane passioni messa fuori; avessero tutti a venerare in quei grandi l’orma che piacque di stamparvi Iddio; le colpe e gli errori a lui stesse perdonare o punire. Però i sepolcri del Dante e del Machiavelli in ogni tempo come cosa sacra custodironsi in Santa Croce. I Gesuiti osarono in Inglostad ardere le opere ed anche l’effigie del Segretario Fiorentino, spingersi fin sotto alla sua tomba non osarono, e se ci vennero ci fecero proprio la figura dell’Orso sotto l’albero, innamorato invano delle mele che par gli ridano sul capo.
— Bene via, ripresi allora, vada all’inferno se non ci è anche andato Francesco I: siami pregio almeno avere restituito la bella salute ad un prelato romano; il poverino per troppo di studio, che gl’insegnava metafisica Tullia di Arragona43, era lì lì per tirare il calzetto. I medici industriandosi guarirlo gli prescrissero bere latte di Ciuca, e quanto più tepido meglio per lui; ond’egli senz’altro ordinò che, fatta salire la Somara per la cordonata al primo piano, gliela mungessero all’uscio. Però il palazzo non gli appartenva; un principe romano più copioso, come sovente accadeva, di nobiltà che di quattrini gli aveva dato a pigione il primo piano: ora a costui scendendo un giorno nello androne venne fatto incontrare qualche cosa che nei palazzi dei principi non si dovrebbe incontrare; ond’è che preso da izza a cagione di quella turpitudine significò risolutamente al prelato che mai più si attentasse far salire l’Asina in palazzo. Indarno il pretato oppose po’ poi non era cotesto il finimondo e gli avrebbe fatto toccare con mano che degli Asini in palazzo tutto dì ne salivano; il principe stette sodo al bando: la quale notizia essendosi sparsa per Roma e sentendone ogni uno raccapriccio ed affanno, un poeta interpretando il sentimento comune, dettati questi due versi in vendetta della offesa natura, gli appiccò all’uscio del prelato:
«Ahi! duri tempi, o barbaro consiglio
Alla madre impedir che allatti il figlio!»
— Di male in peggio, obbiettaronmi i repubblicani; mancarono vipere al capo di Medusa? Perchè sentisti pietà di tali che non l’ebbero mai per alcuno?
E qui vedendo dall’occhio strabuzzato e dal furioso scompigliarsi le chiome che il mio repubblicano mi minacciava una tremenda, vera forse e certamente lunga storia, soggiunsi pronto:
— E il latte di Asina fece la mano di Dio per tôrre le rughe e mantenere la pelle fresca; però le patrizie romane studiose di conservare i doni di Venere si lavarono nel latte di Somara settanta volte il giorno, essendo che questo numero fosse giudicato dai pittagorici portentoso di arcana virtù, e dagli storici come dai poeti dell’antichità sappiamo che Poppea soleva menare seco viaggiando mandre di cinquecento Asine per bagnarsi nel tiepido latte quante volte gliene pigliasse talento44.
— Insomma, proruppi impazientito, voi mi avete fradicio. La bellezza fu mai sempre cosa eccellente e parve ragionevole che un’anima leggiadra togliesse a domicilio un corpo formoso, e se io vi porsi modo ad acquistarla, mantenerla e ricuperarla smarrita, voi me ne dovreste grazie; se non volete, pazienza! ai vostri soprusi io ci ho fatto il callo; anche la Natura vi donò il ferro per ridurlo in zappa e procurarvi il vivere, e voi lo convertiste in piccozza e vi rompeste il capo. Se siete matti o bricconi, che ci abbiamo a fare noi? Come ci entro io? Poichè il genere umano cadde in disperazione di potersi migliorare, invece di apporre le sue colpe altrui doveva legarsi un sasso al collo e gittarsi in mare.
Udite, in quante guise beneficai la ingratissima razza umana. Il mio polmone bruciato e sparso per casa ne cacciava le Bestie venefiche; gli escrementi misti con olio rosato ed introdotti caldi nelle orecchie ne guarivano la sordaggine ed anche la itterizia, a patto però che oltre all’essere tepidi fossero i primi; l’orina presa sul principiare della canicola levava le volatiche; unita al nardo sanava l’apoplessia; il sego alle margini il colore primitivo restituiva; dicendomi dentro l’orecchio che ti aveva morso lo Scorpione, col fiato io ti cacciava via il veleno da dosso; con la cenere dei miei denti rassodai nelle gengive i tuoi sgominati da qualche percossa; con quella del mio zoccolo temperato con l’olio ti sanai dalle scrofole; faceva bene anche all’epilessia bevuta per un mese a due cucchiari il giorno; il fegato pesto e impastato con miele e prezzemolo pel male del fegato, e all’epilessia se stillato in sugo e bevuto per quaranta giorni alle sei e cinque minuti della mattina; lo stesso dicasi per la infermità della milza; gli argnoni pesti e mescolati col vino giovano alla vescica; il cervello affumicato con foglie di cavolo, i testicoli salati e bevuti nell’acqua e meglio nel latte, la secondina della mia consorte, principalmente se sgravata di maschio; il cuore di Asino (ma bisogna avvertire fosse nero e mangiarlo a cielo aperto durante i due primi quarti di luna), la carne e il sangue bevuti stemperati nell’aceto per quaranta giorni, tutte queste parti di me operavano miracoli nel morbo comitale; la borra e il letame con l’aceto arrestava le emorragie, la midolla liberava dalla rogna; la milza di Asino che avesse vissuto di molto, strofinata sul seno della donna lo empiva di latte; la cenere del genitale macinata con piombo e olio faceva crescere i capelli agli zucconi per simpatia; i Francesi non conobbero il segreto o piuttosto lo dissimularono, perchè non fallissero l’olio di Macassar e l’acqua di Lobo; Anassilao lasciò scritto che accendendo il liquore emanato dalle Ciuche dopo l’amplesso maritale quanti stavano attorno apparivano col capo di Asino; ai tempi miei questo fenomeno veniva da se senza fuoco e senza liquori; per le impotenze, per la sterilità, per le spossatezze valevano un tesoro il testicolo diritto bevuto nel vino o portato intorno al braccio a forma di monile, la spuma genitale raccolta: dentro un pezzo di stoffa rosata e chiusa in argento, l’olio dentro al quale sia stato immerso sette volte mentre bolliva un membro di asino, e poi disteso per benino sopra le coscie, eccetera; settantasei infine sono i rimedii che si cavarono dall’Asino, dodici particolari dall’Onagro il quale, se diritto intendi, troverai essere Asino non ancora incivilito, e così in tutto ottantotto, e non bastarono a salvarmi dalle bastonate!45
Per crivelli la mia pelle fu giudicata sovrana e di questa si lavorarono scarpe eterne, non dirò quanto quelle che usava il Cardano per economia ch’erano di piombo, ma poco manco46, e cartapecora e zigrini. Dei tamburi più tardi. Con le mie ossa gli antichi fabbricarono arnesi in parte buoni e in parte no, e il mio Poeta con molta imparzialità lo ricorda nei seguenti versi:
«Se in cornamusa o in zufol piacer prendi
Son le sue ossa a bella posta fatte,
E ne puoi dadi far, se a giuoco attendi.»
Si licet, io non vorrei tacere un altro mio pregio e m’ingegnerò toccarlo per via di metafora a cagione della reverenza dovuta alla tua maestà. Il concime (capisci dirittamente), il mio concime valeva un Perù per letaminare le terre umide, nè questo ha da parerti piccolo vanto, perchè: dove mai la generazione degli uomini nata nella prima meta’ del secolo decimonono sopra le terre di italia non fosse servita almeno di fimo per istabbiare la generazione che venne fuori nell’altra metà del medesimo secolo, in fede di asino non si sarebbe saputo mai, che diavolo fosse ella uscita a fare nel mondo.
La mia carne, a parere di quanti sostennero un assedio di otto mesi, prende la destra su quella del Fagiano. Narrasi dal dottissimo Oleario come massima fra le delizie dei re di Persia fosse bersagliare gli Asini (ed egli aggiunge, si trovò a vedere saettarne fino a trentadue) e poi mandarli a corte dove i cuochi, mercè loro industrie, acconciavanli in manicaretti di più maniere con molto gusto dei cortigiani47. Galeno afferma, la carne Asinina adoperata per cibo generare certe morbosità, e le nomina; ma egli è chiaro che e’ prende un granchio: e non vo’ altra prova che questa: gli Ateniesi, i quali (se le piccole cose si possono senza temerarietà paragonare alle stragrandi) furono i Parigini della Grecia, proclamarono prelibata la carne dell’Asino48. Mecenate, di cui la mensa, testimone Augusto, fu quella di un parassito49, promosse a tutto uomo in Roma le vivande di carne asinina50. Il Malatesta Baglioni, traditore di Fiorenza, durante l’assedio fece accomodare Asini in pasticci e mandò a regalarne la signoria51; sul quale proposito persone bene informate raccontano, che i Priori avendone tolta troppo grossa satolla ne rilevarono una sconcia indigestione, ed aggiungono ancora che a parecchi di loro accadendo di generare con quella crudezza di carne di Asino sopra lo stomaco, tramandassero a modo di fidecommesso di padre in figlio ai discendenti loro certo ticchio asinino che non riescirono mai di cavarsi da dosso: ma questa materia si lascia alla disanima dei savii.
Anzi la testa sola di un Asino nella nostra Patria, o mio re, fu pregiata ottanta sicli di argento, i quali io lo conto che ragguaglino a un migliaio di scudi fiorentini52.
— Ch’è questo che odo d’intorno? Nè anche un francese ardirebbe gloriarsi così! Il fatto accadde, ma quando? Quando Benhadad tenne distretta di crudelissimo assedio la città di Samaria. In tempo di penuria anche i Topi valgono; nell’assedio di Casilino dorante la seconda guerra punica un Topo fu venduto dugento danari; il compratore scampò; il venditore morì di fante, è vero, ma ebbe il piacere di andare all’inferno con la tasca piena di monete53.
Ed io rispondo: non perfidio, però di teste umane ne avrieno date dodici alla crazia e più, se ne volevano; ma dacchè io sono condotto a ragionare di prezzo consideriamo il valore comparativo delle Bestie e dell’uomo. Plinio il vecchio nel libro ottavo della storia naturale registra che il senatore Quinto Arrio ebbe il coraggio di pagare un Asino quattrocentomila sesterzii, che tornano a cento mila lire fiorentine o poco meno; ciò pure attesta il mio Poeta in rima:
Dico Marco Varron, che un Asinello
Fu visto sì gran prezzo comperare
Che non valse mai più Bestia di quello.
Nè gli Asini soli così, ma i Pappagalli eziandio in onta ai rabbuffi di Catone il Censore contro la gioventù romana, che andava girelloni per le vie di Roma col Pappagallo sul dito come costumavano i damigelli nei tempi di mezzo col Falcone in pugno; anzi parecchi patrizii non vergognavano entrare col Pappagallo in mano in Senato; e cotesto austero vecchio non rifiniva mai di ammonire che con quella razza di costumi la Repubblica era ita, ma non la volevano intendere; quindi vennero Giulio Cesare e Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone e l’altra caterva di belve incoronate.
Il Pigafetta viaggiando nell’America vide pagare un Cane grande di Europa venti uomini; uno piccolo due: per un Cavallo gl’incoli della costa di Arguin offrivano dodici ed anche quattordici schiavi: il vescovo di Soissons studioso di comparire da pari suo a prendere possesso della sedia, a cui l’aveva assunto il pontefice, barattò cinque servi della mensa vescovile, tre maschi e due femmine, per un Palafreno. Degli uomini venduti, il maggior prezzo fu quello dell’eunuco Pezonto, che Seiano pagò a Caio Lulorio Prisco sette milioni di lire54 libidine, cupidità e valore mostruosi tutti. A prezzo andante gli uomini costavano dai quattrocento scudi ai seicento, e troppo spesso anche meno. In Affrica li davano per una boccia di acquavite e, se nessuno gli accettava, come Cani arrabbiati ammazzavano. Il maggiore Lang narra di certa madre, la quale flagellò a sangue i figliuoli disvoluti da lui, scusandosi col dire che reietti così da tutti non poteva essere a meno che non fossero stregati.
Un Asino morto, per testimonianza dell’egregio chimico francese Payen, pagavano fino a quaranta franchi: di un cadavere umano, fosse pure quello di Galileo, non ne avrebbero dato più di quindici; il buon chimico vergognando che i suoi fratelli abborrissero di cavare dalle loro cuoia perfino quel misero partito, tutto infiammato di generoso sdegno prese a vituperare, come si meritava, cotesta scandalosa ritrosia: che cosa è, diceva il magnanimo con accesse parole, questa pretensione di rimpiattarsi sotto terra? Devono i morti di garbo tirarsi indietro da giovare ai viventi? Scapitano per avventura di credito gli Asini, se della pelle loro ne fanno crivelli? E così Dio volesse che, come ottimi a sceverare il grano dalla pula, i crivelli valessero a separare i buoni dai furfanti, i grandi dai mezzani più fastidiosi assai dei piccini. Urlano forse i Cavalli superstiti al sacrilegio se i muscoli dei loro defunti convertironsi in colla? Torna indietro il sole, si ecclissa la luna, se le pelli dei Capretti e dei Cani si foggiano in guanti? Oh che troveranno di strano gli uomini se qualche donzella tenera vada a nozze calzata con le cuoia di suo padre o balli la polka al suono delle minugia di sua madre concie per bene e stirate sopra il violino? Bando a siffatte leziosaggini; queste fisime via. Oh morti in Santa Croce, che ci state a fare? Quanto date per Michelangelo? Quanto per Vittorio Alfieri? Per Macchiavello quanto? Trenta lire; — trentacinque lire; — quaranta lire! — e ci ha chi voglia dire altro? Liberati in massa senza tara i corpi di Michelangelo, dell’Alfieri e del Macchiavello a Mardocai Roscildo per lire quaranta, a carico suo la senseria e l’uno per cento di diritto all’asta. Sta bene: ma dopo ciò quello che mi parve strano, e lo parrà anche a te e meritevole di riso infinito si è che in cotesta età, con siffatti uomini in Francia, proprio presumessero istituire la repubblica e per giunta democratica, e maravigliaronsi poi se cotal razza di repubblicani volesse mettere ogni cosa in combutta compreso le mogli, bandire Iddio dal cielo senza neanche dargli il certificato di ben servito, e subito appresso saltasse ad acciuffare pel collo i fratelli repubblicani di Roma e gli strozzasse; alla fine trafelando di afa repubblicana traboccasse giù genuflessa gemente e piangente invocando feste, forni e forche.
Altro è impazienza di tirannide ed altro amore di Libertà. Un perduto può ammazzare il tiranno, ma la Libertà non si fonda che da un filosofo vero, e non si pratica tranne dai popoli virtuosi.
E d’uopo, Achille, alzare
Nell’alma il proprio altare,
Disse il Parini e santamente; ma se andate a contare queste novelle al popolo incarognito fino all’osso nei vizii, che gli fanno carne da tiranni ed anima da demonii, e’ torna lo stesso che bandire la castità in chiasso.
Non solamente istituto fondamentale degli Asini fu la schiettezza, ma anche volendo non potevano mettere di mezzo nessuno; e questo è il meglio, conciossiachè, più che non volere, giovi non potere commettere peccato: e se buono reputi quello che resiste alle tentazioni, abbi per ottimo colui che le fugge. Le femmine degli uomini non si astennero da artifizio veruno per dare ad intendere che di quattro anni o sei erano meno attempate (miserabile vanità!); io stesso ne conobbi alcune, e non mica volgari, bensì gentildonne, le quali a suono di francesconi ottennero che il parroco le ringiovanisse sopra la fede di battesimo: la Ciuca mia portava in bocca la fede di nascita; dai suoi denti incisivi, conoscevi il momento in cui venne al mondo cinque minuti più o meno; qualità che possedemmo comune col Cavalli, bestie anch’esse di garbo.
Vantarsi in tutto essi seppero, ma in che cosa furono a noi superiori gli uomini? Per avventura nell’agilità? Prendi delle Bestie la più grande e la più piccola e conoscerai, come anche in questo li vincessimo. Galba primo nei giuochi floreali espose all’ammirazione nei Quiriti un Elefante ballerino sulla corda e della danza pirrica, duellante nel circo a modo di gladiatore, mattaccino come i mimi e gl’istrioni sopra i teatri; anzi destro a fingere, scontorcendo la persona i dolori del parto55; e dirimpetto alla Pulce questo è nulla. Socrate, tra le altre belle notizie che seppe procacciarsi, conobbe quanto saltassero le Pulci, per via della esperienza che dico: formata prima con la cera la stampa del piede della Pulce la depose sopra la sua fronte, dond’ella, spiccato un grossissimo salto, andò a posarsi sul labbro inferiore di Cocrefone, il quale gli stava dappresso: misurato poi lo spazio, trovò che ragguagliava a seicento volte il piede della Pulce, e forse non era tutto quello, che la vispa Bestia poteva percorrere; non pertanto vedi se di questi slanci erano capaci l’Esler, la Cerrito, la Fuoco e di simile risma femmine; eppure malgrado questa incontrastabile superiorità, mentre gli uomini accendevano luminarie, staccavano Cavalli, facevano pazzie per coteste saltalrici, l’unghia avversa del pollice umano minacciava continuo i funerali alla Pulce. Stranezze e forse invidie umane56.
Per magnitudine di corpo io non ne parlo nemmeno: tra i pesci ricordo il Serpente marino ai tempi miei apparso a parecchi uomini degni di fede, lungo da due in tre miglia, e non ne videro la coda: degli uccelli allego il Ruch, uccello che, a dire di Marco Polo, si porta via l’Elefante57! Fra i quadrupedi per opporci alla grandezza umana basto io solo. Millantano gli uomini acutissimo di vista fra loro quello Strabone siciliano, che dal capo—Lilibeo scoperse l’armata cartaginese uscire dal porto di Cartagine e contò il numero dei vascelli; e la lontananza, se non era 130 miglia, poco ci mancava58; ed io contrappongo a Strabone la Lince che specola gli oggetti attraverso un’asse della spessezza di un palmo: che se gli uomini non vogliono prestare fede alla mia Lince, nemmeno io crederò al loro Strabone, molto più che Strabone significa guercio, e tu giudicherai anche questa, poichè qui ci stai a posta. Hanno creduto degno di peculiare menzione negli Annali Rusticello, soprannominato Ercole, perchè sollevava un Mulo59; di noi che quotidianamente sollevavamo uomini di grasso e di sapienza gravissimi veruno prese ricordo. Tocchiamo un tasto più importante; parlerò di favella. Già altrove qualche cosa ne dissi; qui confermo il già dello. Un tempo fu che per economia adoperammo linguaggio comune al vostro. Bacco, attestano gli antichi, ci dotò di idioma umano60, ma non è vero; lo adoperavamo prima che Bacco uscisse dalla coscia di Giove dove, morta Semele, compì i nove mesi per venire a bene nel mondo. Parlai, come è scritto fino su i boccali di Montelupo, a Balaam, ma in cotesta occasione di gran lunga superai l’uomo; e non sono io che lo dico, bensì un reverendo padre Gesuita; ed in che, e come io montassi a cavallo al Mago intendo che lo udiate con le parole stesse del reverendo, onde nel medesimo punto facciate tesoro dalla forbita locuzione e dell’ottimo giudizio dei padri Gesuiti dilettissimi miei. Ecco dunque in che razza di modo nelle sue — Riflessioni — sull’Asino che parlò a Balaam il padre Casolini della compagnia di Gesù.... ragiona.... ho detto ragiona? Sasso gittato e parola detta non si tirano addietro; vada per ragiona: «Notate in questo fatto con attenzione due privileggi mai concessi a verun quadrupede. L’Asino vide l’Angiolo, e l’Asino parlò. È regola di teologia, che nessun occhio mortale non sia capace di contemplare uno spirito se da Dio per ispecial privileggio non fia elevata la sua naturale potenza e resa capace della vista di uno spirito: mentre se tale non fosse stato, oppure avesse assonto corporali spoglie, il profeta ravvisato lo avrebbe con la naturale sua vista. L’Asino dunque vidde l’Angiolo non veduto da Balaam: adunque fu elevata la sua potenza e resa capace della vista di un Angiolo, ed ecco il primo privileggio concesso solo all’Asino. Nè d’inferiore condizione è il secondo prodiggio che l’Asino parli, perchè la loquela umana essendo una spiegazione dei concetti del cuore con la quale ragionevolmente esponesi lo interno sentimento, questa pure venne concessa all’Asino che parlò e non parlò, con sensi stravolti quali sono quelli profferiti da altri addestrati animali".
Narrasi da Plinio il vecchio, che sotto il consolato di Quinto Catulo o di Marco Lepido un Gallo fu udito ragionare su quel di Rimini, paese a quanto sembra fino da cotesti tempi classico pei miracoli61, e parve strano e così anche a noi, non già che i Galli parlino, bensì ragionino. Tito Livio attesta e Plinio conferma, che i Bovi in Roma anco appresso la prisca gente si dilettassero favellare latino62 e a vero dire cotesto vezzo i Bovi a Roma non cessarono mai; sononchè ai tempi miei parlavano in italiano e ne facevano prova i compilatori della Civiltà cattolica.
La signora Sara Trammer ci assicura avere incontrato un Porco che sapeva parlare, leggere e scrivere63; non dice se fare di conto, ed una volta ch’io m’imbattei in lui avendogli chiesto, che scesa di testa fosse stata quella d’imparare tante belle cose le quali non mi parevano punto necessario per finire insaccato, mi rispose: averlo fatto perchè gli uomini si vergognassero della ignoranza in cui giacevano, e da per loro stessi attendessero a curarla, nè sperassero mai che i principi assoluti ci provvedessero: infatti a loro garba possedere sudditi obbedienti, non dotti, e questo disse aperto ai Milanesi l’imperatore Francesco I di Austria, buon’anima sua; eppoi la dottrina rende gli uomini prosuntuosi fino a pretendere che un plebeo in piedi sia più alto di un principe in ginocchioni; e questi sono sofismi che non si possono tollerare. I principi procurarono inocchiare il vaiuolo come quello che guastando i corpi farebbe rari i granatieri, i giandarmi e i guastatori; inocchiare la ignoranza non procureranno, perchè frutterebbe guai forse pari a quelli che cascherebbero in capo ai Gesuiti se predicassero il Vangelo.
Leibnizio nella Misnia incontrò un Cane che favellava; veramente egli discorreva tedesco, ma anche il tedesco fu linguaggio umano64. Agrippina moglie di Claudio possedè un Merlo che parlava a distesa; e Tito e Domiziano, fratelli meno dispari che altri non pensa, ebbero Storni e Rosignoli cui fecero con ottima riuscita insegnare le greche e le latine lettere65. Anzi il Signore di Chateaubriand raccontando i casi dei popoli dell’Orenoco dispersi dagli invasori ustulanti la terra, ci afferma essersi estinto perfino l’idioma di quella povera gente, o conservato da qualche Pappagallo, che nelle americane solitudini fa risuonare all’improvviso taluna voce della lingua morta con quelli che la favellavano, come il Merlo di Agrippina trutilava per l’aula dei Cesari qualche parola greca66. Se la toscana in antico avesse posseduto i Pappagali che ci erano a tempo mio, la lingua etrusca non si perdeva di certo.
Tu avrai sentito dire da molti, che Ottaviano Augusto insidiando astutamente la repubblica romana la spense: bugiardi tutti; chè un uomo per quanto mascagno e gagliardo egli sia, contra un popolo nulla può. Questo è troppo alto Cammello, onde taluno vi si arrampichi sopra, s’egli non s’inginocchia. La tirannide entra in città per la porta di tramontana, quando le virtù n’escono da quella di mezzogiorno: ed io lo vo’ dire dieci volte e cento, e se adesso ch’è morto il mondo non giova a persona ripeterlo, io lo dirò per me; la tirannide non vince la battaglia se i popoli non disertano il campo. Dove sono rimasto? A Ottavio Augusto. Or via tu giudica, o re, se repubblica potesse durare a Roma con questa generazione di uomini. Quando Ottavio mosse contra Marcantonio, certo romano con industria sciagurata insegnò ad un Corvo le parole: — Salute, Ottavio, capitano invitto! — e ad un altro: — Salute, Antonio, capitano invitto! — Così il valentuomo stavasi apparecchiato a tutto. Ottavio vinse e quando venne trionfante a passare dinanzi alla casa di costui, dal Corvo che egli teneva sul pugno fu lietamente salutato. Sorrise blando il nuovo sire, e seco stesso pensò: veramente amico nostro è questi, imperciocchè anche durante la dubbiosa fortuna patteggiasse per me. E già stavano le Oche per menare a bere i Paperi, allorchè l’altro Corvo udendo di casa le prodezze del fratel suo, punto da gara di onore ecco balza sul davanzale della finestra ed a sua posta si mette a gracchiare: — Salute, Antonio, capitano invitto! — Il riso a mezzo del tiranno si mutò in baleno degli sguardi truci e facendo fiaccare il collo all’adulatore in un filo di paglia, fu cagione della morte dei Corvi, avvegnadio rientrato costui pieno d’izza in casa, pigliasse entrambi pei geti e sbattutili quattro volte e sei di contro alla parete gli sfracellasse67.
Fammi grazia di sentire quest’altra, che vale California con l’Australia per giunta. Il Cardinale Farnese nel suo palazzo di Roma fra gli altri famigliari faceva le spese ad un Corvo: un dì avvenne che, mentre il cardinale passeggiava, gli si accoppiasse il Corvo mesto in sembiante e con faccia dimessa; la quale cosa dal cardinale avvertita,quasi giuocando lo interrogò: — Quid cogitas, Bestia? (Bestia, a che pensi?) A cui prestamente il Corvo e con parole aperte rispose: — Cogito dies antiquos, et annos aeternos in mente habeo (Penso ai tempi vetusti, e nella mente rumino i secoli, che non hanno fine). Di che rimasto sbigottito il cardinale, e giudicando essere stato il Diavolo quegli, che aveva suggerito le parole al corvo, ordinò gli schiacciassero il capo. Per me che era Asino e’ mi sembrò marchiana che il Diavolo scegliesse per lo appunto un versetto del salmo settantesimo sesto da porre nel becco al Corvo; nè la sentenza suonava diabolica davvero: tutt’altro; all’opposto angelica, e insegnamento notabile al cardinale di fare altrettanto: ma poichè egli stesso dichiarò che il Diavolo fosse, e il Diavolo sarà stato, che a petto di un cardinale io non mi ci posso mettere.
Merita venire riferita anche quest’altra che io trovai registrata nel giornale dei reverendi padri Domenicani. Un gentil uomo di Padova nudriva in casa certa Gazza, dentro la quale tenevano per sicuro avesse trasmigrato l’anima di Marco Tullio: non si potrebbe di leggeri significare con parole il bene pazzo ch’ei gli aveva posto addosso, considerando come le risposte argute di quella dilettassero maravigliosamente il beato Giovanni da Schio quante volte recavansi a visitarlo. Ora accadde, che un tristo servo vinto dalla ghiottoneria arrostisse la poverina ed alla chetichella se la mangiasse. Il beato Giovanni quel giorno venuto in casa al gentiluomo, non vedendo occorrergli secondo il consueto la Gazza festosa, ne muove ricerca e sente come con rammarico grande della famiglia la si fosse smarrita. Allora (dice il giornale veh!) il servo del Signore forse per rivelazione di Dio prese ad aggirarsi per la casa dicendo: — Gazza amica, dove sei tu? — Dallo stomaco del servo proruppe immediata una voce che rispose: — Padre mio, sono qui dentro — e poi a parte a parte narrò tutto il miserabile successo. Quale e quanta la meraviglia degli astanti immagina tu, ma a mille doppii superò lo sbigottimento del servo, avvegnadio la Gazza per parecchi giorni continuasse a favellare dallo stomaco di lui con profitto infinito della salute dell’anima di tutti i fedeli accorsi per udire il prodigio68. Molti saranno per fare, non ne dubito, copiose e dotte considerazioni in proposito: io mi ristringo a due; la prima è che le Gazze parvero a chiunque le cibò pietanza sconsacrata, e la seconda, che il beato Giovanni da Schio poteva ricavare da cotesto successo argomento per predicare al gentiluomo la carità, avvegnadio se il suo servo ebbe a mangiare carne di Gazza, segno indubitabile egli fosse che male spese gli faceva il padrone.
Anche le Ranocchie parlarono un giorno, ma avendo imposto loro silenzio Cesare Augusto, si misero la coda fra le gambe e tacquero69. Io per me le compatisco, se non poterono nè vollero mettersi a repentaglio con quello, che più tardi fece chetare Bruto, Cassio e quanti altri non vollero disimparare la libertà. Mecenate in memoria di questo prodigio fece incidere la immagine della ranocchia nel suo anello e se ne serviva per sigillo70. Non può negarsi che modello di vero cortigiano fosse costui: messere Baldassare Castiglione gli avrebbe appena potuto reggere il bacile.
A dirla schietta, del parlare come costumano gli uomini io me ne teneva, ma quando mi accorsi in quali usi adoperavano la favella costoro, mi feci coscienza di conservarla più oltre. I sensali di mercanzie con la parola gabbavano i compratori; i diplomatici trecconi di sangue umano ne ingarbugliavano il mondo, i preti ne seminavano la bassezza e l’errore, dei principi taluni ne tradivano i popoli e poi davano ad intendere essere stati traditi, i gesuiti ne crocifiggevano il senso comune, i giudici ne trucidavano la innocenza, le mogli ne mettevano di mezzo i mariti, i mariti le mogli, le sgualdrine e i bertoni, ambedue; quando, dico, conobbi che la lingua era diventata, corda, la quale non rispondeva al tasto: arnese degli eredi di Giuda, puh! la sputai di bocca come noce bacata.
Nè provai pentimento di essermi lasciato andare in balìa dello sdegno, però che avendo fra tutte le lingue scelto quella che tanto onorò Dante e gli altri della sacra schiera ed era bastata per manifestare al mondo così ampia gloria d’ingegni divini, quindi in breve con amarezza ineffabile io la contemplassi deturpata da straniere abbominazioni, le quali ella, non che non rifugisse, da insana libidine riarsa provocava; pari e per avventura peggiore all’Oliba della Scrittura, che scorgendo sopra la parete dipinte le immagini dei Caldei71 ne delirò i nefandi abbracciamenti. Così dal capo alle piante tutta una lue, la polluta, ardì ascendere i pulpiti e quinci piovere su i capi degli assembrati un influsso pestilenziale quasi aria maremmana; occupò le aule dei tribunali, barbari sensi vestendo con barbarissime voci, e forse fu provvidenza onde il male non usurpasse le sembianze del bene; come Porco in brago, s’impantanò per la melma delle leggi rendendo paurosa una materia assurda, e malvagia nel modo che il fruscio della coda attestava la presenza del Serpente a sonagli; sbordellò pei Darii, e su la bocca di oratori, i quali presumevano, svergognati! essere della Patria svisceratissimi, e non sapevano e non curavano parlare d’Italia nè anche in lingua italiana.
Nè a farli vergognare bastarono gli esempi buoni e le generose parole del Monti, del Giordani, del Perticari, del Costa, del Gioberti, del Cantù, del Leopardi, del Botta, del Cesari, del Parini, del Foscolo, di Alfieri massimo e di altri benemeriti italiani; la piena superava gli argini; non cessavano costoro di gridare continui alla gente Ausonia: curate, che nè anche da una fessura spiccichi l’umore maligno, che poca acqua basta alla rovina della barca: avvertite al fanciullo olandese che, scorto il pelo nel dicco, vi oppose il cappello appuntellandolo con le spalle e quivi stelle finchè il marangone non venisse a turarlo. Tullio ripigliò Marcantonio per avere recato nell’idioma latino le parole nuove piissimus e dignus e facere contumeliam: e per testimonianza di Quintiliano ei non la perdonava nè anche al figliuolo suo. Tiberio orando domandò perdono al senato di essergli sfuggita dalla bocca la parola monopolio, straniera di origine; volle eziandio da certo decreto si cancellasse la parola greca, la quale suona quanto in volgare smalto su le orerìe ed altra equivalente vi se ne sostituisse; non trovandola, per via di perifrasi si rimediasse; vietò al soldato indotto come testimone di favellare greco davanti ai tribunali: parvero coteste fisicaggini e non comportabili pedanterie; al male pertanto fecero male; e di un buco aprirono una fossa. Non parendo ai valentuomini testè ricordati ottenere credito abbastanza cercarono tutta l’antichità, e gli ammonimenti e supplicazioni loro si affaticarono rendere vie più autorevoli con le sentenze di Cicerone il quale scrivendo ad Attico così si esprime: — adesso vedi quanto più sottil cura io mi dia dello studio della lingua, che degli umani casi e di Pisone. — Nel terzo de Oratore, contro chi guasta la materna favella occorre una maledizione che appena contro colui, il quale tradisce la Patria, si potrebbe pronunciare maggiore: qual sia quegli che il patrio idioma vilipende e deforma, non oratore, non poeta, ma nè anche deve reputarsi uomo. — Più accesamente Plutarco afferma, la infamia di perdere la lingua superare assai quella di perdere la libertà. Santo Agostino anch’egli nella città di Dio dichiara peccato gravissimo contro la civiltà lasciare corrompere la lingua. Sentenze tutte, ch’ebbero ai tempi miei commento qualche volta favorito dalla fortuna, più spesso contrariato, ma sempre grande e magnanimo. Così Nicola I di Russia non pensò potere attutire mai l’anelito immortale dei Polacchi per la libertà della Patria se non istrappava dalle fauci di cotesto popolo la lingua; e vi si sbracciò smanioso con partiti in parte subdoli, in parte violenti, ma non ne venne a capo, perchè le lingue furono scritte da Dio sopra le labbra degli uomini, e:
«Sillaba di Dio non si cancella.»
La guerra funesta dell’Ungheria tra i Maggiari e gli Slavi, che ridonò all’Austria maligna ugnoli e becco per sbranare più tardi ambedue, trasse causa principalissima dalla pretensione dei primi d’imporre il proprio idioma ai secondi; e ciò si ricava dalla scrittura di Paolo Bourgoing intorno alle guerre degl’idiomi e delle nazionalità. I Rumeni, ausonio sangue abbandonato in mezzo ai barbari, come nei giorni di sventura sagrificavansi vittime preziosissime agli Dei infernali, dopo lungo secolo sollevarono il capo e chiesero la libertà, perchè seppero conservare la patria lingua. L’olio non si mesce coll’acqua, sbattuto con forza la intorbida, cessato lo scompiglio torna a separarsene. Dio e la Natura non consentono che un popolo possa divorare un altro popolo e mandarselo in sangue: non si porta in terra la ragione dei Pesci che abitano il mare. Edgaro Quinet amico della Italia, e francese dei pochi quanto buono altrettanto gentile, parlando con la eloquenza che ci viene dal cuore della gente rumena dettò questa pagina nobilissima, che io qui rammento, onde mostrarti, come agl’Italiani non facessero difetto consigli nè esempi: «principale argomento pei Rumeni sta senza dubbio nella lingua; ella è il diploma della nobiltà loro in mezzo ai barbari; ne vanno alteri e con ragione. Vantansi averla religiosamente conservata, e quanta costanza, quanta tenacità costò loro la custodia del sacro retaggio! Destandosi dall’antica morte, essi per molto cercare che facessero non rinvennero intorno a sè monumento scritto, non autore nazionale, che porgessero testimonianza dei tempi che furono. In mezzo al buio profondo della loro storia, per trovare il punto del cielo altro non gli sovvenne che un eco vetusta nella bocca dei villani, dei montanari e dei cacciatori. Lo studio delle origini, studio di lettere altrove, per essi è vita. Da per tutto schiavi, grancirono la tavola, che unica loro avanzava di Libertà, scegliersi e conservare la favella diletta.»
«Vita nazionale, averi, opere delle proprie mani, di ogni cosa insomma gli hanno fatto scemi; nonostante i conati dello straniero per isradicarla o corromperla la lingua non potè loro rapire. Qual meraviglia pertanto se cotesto popolo si appigli a tale monumento vivo, che solo rappresenta gli altri e basta per tutti? Che ci è da stupire s’egli si ostina a mondarlo da tutta quisquiglia ascitizia e pone una specie di passione amorosa in opera siffatta? Se una parola slava o russa o «austriaca scartata gli paia auspicio di sicura vittoria; se una parola indigena raccolta su la bocca del popolo gli venga gradita come una conquista; se il tesoro antico di rancore, di disprezzo, di abborrimento e di fastidio non potendo rovesciare sul nemico minaccioso e presente, lo avventino almeno contro le parole, le sillabe, le locuzioni, le frasi, le lettere stesse, con le quali gli odiatissimi barbari il materno idioma deturparono e appestarono? Chi si ammirerà, che una gente da tanti anni infrenellata e imbavagliata cancelli come a sfregi di doloroso servaggio il vocabolario imposto dalla dominazione straniera e cacci via perfino il suono della voce e le maniere della pronunzia degli oppressori72?»
Così italiani uomini da secoli in bando dalla Patria al materno idioma furono pii; spietati e crudeli i rimasti a casa. Come nell’uomo la vita che fugge si ritira al cuore per sostenere quivi l’assalto della distruzione, la libertà del popolo cacciata altrove si restrinse nella lingua. Se la tirannide imperversa bestiale, potete simile alla lampada di Gesù in segreto sotto il moggio alimentare la vostra lingua di casti pensieri e di sensi magnanimi, finchè non torni improvvisa a splendere sul candelabro; dove poi la tirannide non lo contenda, drappellategliela stietta e vermiglia di carità patria davanti agli occhi onde ne pigli spavento e lasci riaversi la libertà caduta; così costumano gli Spagnuoli nel circo di Tori per salvare cavallo e cavaliere traboccanti a rifascio per terra. Finchè la lingua vive, la libertà non è morta. Ponete mente, Italiani; quando la lingua vostra sarà guasta intera per vile abbiezione di voi altri tutti, la infamia ne farà un tappeto da morto e ve ne cuoprirà la bara: allora l’Italia avrà reso l’ultimo fiato davvero.
Ma che dico io? Dove sono? E a cui favello? — Da secoli il mondo passò, la Italia è morta.
Requiem aeternam dona ei, Domine, ed io trapasso a ragionare delle qualità intellettuali e morali dell’Asino.
Note
- ↑ [p. 263 modifica]Plin., lib. 37, c. 70.
- ↑ [p. 263 modifica]Porcacchi, Descriz. delle isole del Mondo, p, 81.
- ↑ [p. 263 modifica]S. T. GERVAIS, t. I, p. 26.
- ↑ [p. 263 modifica]Sveton. in Nerone, c. 29.
- ↑ [p. 263 modifica]ELIAN, Hist. variæ, I. 2, 14.
- ↑ [p. 263 modifica]Porcacchi, Op. Cit., p. 164.
- ↑ [p. 263 modifica]
- ↑ [p. 263 modifica]Plin., l. 10, c. 6.
- ↑ [p. 264 modifica]Flavio Vopisco in Proculo a c. 12.
- ↑ [p. 264 modifica]Reg. III. c. 11, n. 3.
- ↑ [p. 264 modifica]Cantù, Storia di 100 anni t. I, p. 175.
- ↑ [p. 264 modifica]Michelet, Hist. de Franc., l. 5, p. 175.
- ↑ [p. 264 modifica]Gibbon. Stor. della Decad., c. 69.
- ↑ [p. 264 modifica]Fletcher, I grandi giorni dell’Avernia, p. 15.
- ↑ [p. 264 modifica]Epopea degli Anim., p, 250.
- ↑ [p. 264 modifica]Michelet, Op. cit., l, 1, p. 137.
- ↑ [p. 264 modifica]Porcacchi, Op. cit p. 30.
- ↑ [p. 264 modifica]Lettere di filippo sassetti, ediz. Lemonnier, p. 286.
- ↑ [p. 264 modifica]S. T. Gervais. Op. cit, t. I, p. 237.
- ↑ [p. 264 modifica]Bonnet, Observat. sur les Pucerons, t, 7.
- ↑ [p. 264 modifica]Plin, l. 7. c. 12.
- ↑ [p. 264 modifica]Sveton. in Claudio, c. 23.
- ↑ [p. 264 modifica]Gibbon. Op. cit., c. 5.
- ↑ [p. 264 modifica]
Nous allons tous tante que nous sommes
Par notre mère être élevés;
Peut être si nous étions hommes,
Serions nous aux enfans trouvés. - ↑ [p. 264 modifica]Aristotel. De Hist. Anim., l. 9. c. 47. Il Cavallo apparteneva al Re di Scizia; e riporta anche di un Cammello, il quale, accortosi dello inganno, ammazzò il suo custode.
- ↑ [p. 264 modifica]Barsle, Dict. Ipparca.
- ↑ [p. 264 modifica]Qualis artifex pereo. Sveton. in Nerone, c. 49.
- ↑ [p. 264 modifica]JACOB. Le roi des ribauds.
- ↑ [p. 264 modifica]Fatto narrato da Nobleville e Saleure medici di Orlèans. Stor. nat. degli Animali.
- ↑ [p. 264 modifica]Dupuy, Orig. di tutti i culti, t. 1.
- ↑ [p. 264 modifica]Gen.. c 24, n. 23.
- ↑ [p. 264 modifica]Queste già le sono baie degne affatto dell’Asino. I Padri Benedettini di S. Mauro, nell’Arte di verificare le date, parlando di Giovanni XII, deposto dal Concilio Romano, ordinato dallo Imperatore Ottone nell’anno 963, raccontano come questo Pontefice menasse vita scostumatissima e lasciassesi governare in tutto dalla vedova di Raniero: — e ciò, arrogano essi, per avventura diè luogo alla [p. 265 modifica]favola della Papessa Giovanna; giacchè intorno al fondamento di tale finzione si fecero ben mille congetture, t. 2, p. 97. E baia reputo eziandio il riscontro della virilità del papa: che importa questo? L’uomo, che si mostra in gonnella bianca, dichiara espresso che egli intende volere essere considerato per vecchia femmina.
- ↑ [p. 265 modifica]Constat in Lusitania circa Olisponem oppidum, el Tagum amnem equas Favonio flante obversas animatem concipere spiritum, idque partum fieri. Plin., lib 8. c. 67.
- ↑ [p. 265 modifica]Nuova Coll. di Memor., t. 4, p. 615.
- ↑ [p. 265 modifica]Boldracco Ingegnere delle mine Gazz. Di Genova, 22. febb. 1856.
- ↑ [p. 265 modifica]Racc. di Poesie cit.
- ↑ [p. 265 modifica]Voss. Osserv. a Pomp. Mela, lib. I, c. 5.
- ↑ [p. 265 modifica]
- .... Ipsam Christi imaginem asinins auribus pingere solebant: testis horum est Tertullianus. Agrippa. De van. sc., c. 102. — Veramente Tertulliano al c. 16 dell’Apol. non dice che fosse costume universale, bensì: — a mercenario quodam picturam propositam fuisse cum ejusmodi inscriptione: Deus Christianorum ononychites esse auribus asininis, altero pede ungulatum, librum gestantem et togatum.
- ↑ [p. 265 modifica]Erod. Hist., lib. 3, § 61 e seg.
- ↑ [p. 265 modifica]Landano. Comm. alla Divina Commedia, verso:
Vidi Guido Bonatti, e vidi Astente.
- ↑ [p. 265 modifica]Plin. lib. 28. c. 44.
- ↑ [p. 265 modifica]Felice Pyat. Ritrat. di Franc. I.
- ↑ [p. 265 modifica]Elzev., de elegant. latin. serm.
- ↑ [p. 265 modifica]Plin., lib. 28, c. 50. Bagni di latte costumò eziandio il cardinale di Roano per conservarsi la pelle candida.
- ↑ [p. 265 modifica]Di tutti questi rimedii fa menzione Plinio. lib. 28, passim, ed una opera singolarissima intitolata: Ragionamenti dottissimi e curiosi dell’illustre et nobile cav. Pietro Messia di Siviglia, nei quali filosoficamente trattandosi di diverse materie si viene in cognitione di molte et varie cose non più dette [p. 266 modifica]nè scritte da altri, tradotti dalla lingua spagnuola nella nostra italiana dal Sig, Alfonso Ulloa, t. 4. Ragionam. del contentioso, P. II, pag. 104.
- ↑ [p. 266 modifica]Cardiano, Vita scritta da sè stesso.
- ↑ [p. 266 modifica]St-Gervais, t. I, p. 23.
- ↑ [p. 266 modifica]Galen., Der aliment. fac., lib. 3. c. 2.
- ↑ [p. 266 modifica]Lettera di Augusto a Mecenate, con la quale gli chiede Orazio per segretario, che non ci volle andare. Sveton in Vita Horat.
- ↑ [p. 266 modifica]Plin. I. 8, c. 8.
- ↑ [p. 266 modifica]Varchi, St., I. II.
- ↑ [p. 266 modifica]Re II. c. 6, n. 28.
- ↑ [p. 266 modifica]Plin., l. 8, c. 82.
- ↑ [p. 266 modifica]Plin., lib. 7, c. 40.
- ↑ [p. 266 modifica]Sveton. in Galba c. 6. Plin., lib. 8. c. 2. Filostrato in vita Apollon. Thyanei.
- ↑ [p. 266 modifica]Celio Calcagnini. An. di S. G., t. 2, p. 187.
- ↑ [p. 266 modifica]Porcacchi, op. cit., p. 180.
- ↑ [p. 266 modifica]PLIN., lib. 7. c. 21, V. MAX., lib. I, c. 8, n. 14.
- ↑ [p. 266 modifica]Plin., lib. 7. c. 19.
- ↑ [p. 266 modifica]LACT. de Div. Iustit., lib. I, c. 21. Igin. lib. 2, c. 23.
- ↑ [p. 266 modifica]Igin. I, 8, c. 25.
- ↑ [p. 266 modifica]Ibidem. L. 8, c. 70.
- ↑ [p. 266 modifica]St-Gervais, t. 2, p. 240.
- ↑ [p. 266 modifica]Riv. Britan., t. II, p. 131.
- ↑ [p. 266 modifica]Plin. lib. 10, c. 59.
- ↑ [p. 266 modifica]Mémoire d’outre-tombe, t. I, p. 305.
- ↑ [p. 266 modifica]Macrob., Satur., I. 2, c. 4.
- ↑ [p. 266 modifica]Per questo e pel fatto antecedente, vedi Thomas-Cantiprat. et March. in Diario Dominic. sub. die 2 julii.
- ↑ [p. 266 modifica]Svet., In Octavio Augusto c. 94.
- ↑ [p. 266 modifica]Plin., lib. 3, n. 9.
- ↑ [p. 266 modifica]Ezechiel., c. 23, n. 5.
- ↑ [p. 266 modifica]Revue des deux Mondes, 15 gen., 1856.