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«cipale argomento pei Rumeni sta senza dubbio nella lingua; ella è il diploma della nobiltà loro in mezzo ai barbari; ne vanno alteri e con ragione. Vantansi averla religiosamente conservata, e quanta costanza, quanta tenacità costò loro la custodia del sacro retaggio! Destandosi dall’antica morte, essi per molto cercare che facessero non rinvennero intorno a sè monumento scritto, non autore nazionale, che porgessero testimonianza dei tempi che furono. In mezzo al buio profondo della loro storia, per trovare il punto del cielo altro non gli sovvenne che un eco vetusta nella bocca dei villani, dei montanari e dei cacciatori. Lo studio delle origini, studio di lettere altrove, per essi è vita. Da per tutto schiavi, grancirono la tavola, che unica loro avanzava di Libertà, scegliersi e conservare la favella diletta.»

«Vita nazionale, averi, opere delle proprie mani, di ogni cosa insomma gli hanno fatto scemi; nonostante i conati dello straniero per isradicarla o corromperla la lingua non potè loro rapire. Qual meraviglia pertanto se cotesto popolo si appigli a tale monumento vivo, che solo rappresenta gli altri e basta per tutti? Che ci è da stupire s’egli si ostina a mondarlo da tutta quisquiglia ascitizia e pone una specie di passione amorosa in opera siffatta? Se una parola slava o russa o