L'asino (Guerrazzi, 1858)/Parte II/Della nobiltà dell'Asino
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DELLA NOBILTÀ
DELL'ASINO
§. XI.
Nobiltà presso gli uomini, e presso gli Asini. Scrittori intorno all’Asino. Lorenzo il magnifico. Differenza tra cervello e giudizio. Thackernay. Imperatore Solucco e conti della limonata, duchi della gelatina, barone dell’acetosa, principe della schiacciata unta. Conte Pestel Viltà toscana. Agonia di titoli in tutti i Governi. Cane abbandona un re spergiuro. Alberi inutili, alberi nobili. Coda di Volpe, impresa di re. Le Vacche e i Frati sono parenti nell’India. Il Diavolo si trasforma in re. Carnevale del 1836 in Toscana. Lo czar Niccolò I. Asino abbreviatura di Corte. Statua di Napoleone convertito in Carlo III. Famiglie nominate dell’Asino in Roma. Asinelli di Bologna. Asinacci di Parma. Carlo V chiama i Francesi asini, e perchè. Asini cavalcature di onore. Sileno, Bacco, Vulcano, Fauni e Satiri montati sugli Asini alla battaglia dei Giganti. Macchiavello, Federigo re di Prussia, e Voltaire Frati benedettini di San Mauro lodano gli Asini. Scienza di Governo. Il Vangelo all’indice dei libri proibiti. Asino della Santissima Annunziata. Diatriba. Prete Merino, e Beatrice moglie di Federigo Barbarossa. Patria dell’Asino. Felicità del mondo di trovarsi fra gli artigli dell’Aquila austriaca. Responsorio sull’Asino. Conclusione.
Nobile fui e nobile mi vanto. Non mi tirate dietro la lingua nè mi fate il manichetto, imperocchè in quattro parole ci chiariremo. Ditemi prima, nobiltà presso gli uomini che fosse e poi vi dirò quello che fra gli Asini era. Nobiltà umana andò principalmente composta di prepotenza e di soperchierie; più tardi di servilità ad un uomo per tirannegiarne migliaia, di titoli per superbire, di ricchezza per oziare. La nobiltà a casa mia al contrario denotò serie di opere illustri per cui le fece, come benefiche a coloro, pei quali le furono fatte, di padre in figlio compite nella medesima casata. Primo fondatore della nobiltà fu Caino, altri pretendono Nembrot, tali altri Ismaele e non manca chi metta innanzi Esaù; chiunque di questi ed anco veruno di questi si fosse, merita considerazione vedere come, diversi su la persona, cadano d’accordo sopra la qualità della medesima, che tutti i rammentati nel mondo ebbero fama di maligni, torbidi, soverchiatori, uomini insomma di corrucci e di sangue; i miti coloni e i tranquilli pastori si tennero in conto di plebe, nati a far numero, logorare le biade, quando ne avevano, e servire; i cacciatori chiamaronsi nobili e signori, perchè attesero a cacciare gli uomini come le Bestie. I primi so che caddero lapidati; ma chi più dura la vince e alla perfine vennero a capo. La galera, o mio re, fu inventata dai ladri, i quali per assicurare la rapina, dissero ladro qualunque avesse di ora innanzi rubato a loro; nè si rimasero a dirlo, ma fabbricarono tutto l’arzigogolo delle leggi; grottesco edifizio, monumento di riso inestinguibile, se in fondo ad ogni titolo, di delitto, gli uomini, per temperarne la buffoneria, non avessero posto il carnefice, come il gloria Patri alla fine dei salmi. Guarda e vedrai che l’azione stessa fu o non fu delitto, secondo i tempi e i luoghi; nè basta: fu delitto o gloria, secondochè la benediceva o la malediceva la Fortuna; però Diomede, pirata caduto nelle mani dei Macedoni e tratto davanti ad Alessandro, gli disse in barba: — ora che tiro fu questo di farmi arrestare? Perchè con una sola nave io mi procaccio la vita mi vuoi chiamare pirata e tu che rubi il mondo con grosse flotte pretendi il nome d’imperatore? Rovescia la berretta e pensa che tu saresti Diomede se io fossi Alessandro; inoltre bada ch’io rubo per malignità di fortuna ed angustia di averi, mentre tu arraffi per agonia di fasto e per non saziabile avarizia; se il mio stato migliorasse, quasi quasi potrei cimentarmi a promettere che diventerei galantuomo; almeno mi ci proverei; ma tu quanto più ti empi hai fame.
Alessandro che, preso pel suo pelo, in ispecie quando non aveva bevuto, era dolce come pasta di zucchero, gli rispose: — Dunque, se vuoi rubare in pace, vieni a rubare con meco — e lo promosse a grado cospicuo nella onoratissima professione delle armi1.
Nobili furono i baroni che ebbero un giorno stanza e costume comune coi Nibbi. Calati al piano, tornarono ai montani castelli con la preda; quivi godevansela in santa pace senza un rimorso al mondo, chè anche in questo erano pari agli Uccelli di rapina: quando poi la mano toccava il fondo del sacco, la castellana metteva in tavola il tagliere con un paio di sproni, avvertendo per via di questo simbolo che già di per sè parlava aperto e poi veniva schiarito dalla fame, che se il barone voleva mangiare andasse a buscarselo2. — Questo dicasi intorno alle origini della nobiltà generata su la punta delle dita; delle altre sanguinarie e spietate ti fanno fede i guiderdoni stessi. I Cartaginesi per ogni uomo trucidato in guerra donavano l’uccisore di un anello: gl’Iberi innalzavano intorno al sepolcro del defunto tanti obelischi, quanti erano stati i nemici trafitti da lui: nei banchetti degli Sciti non poteva bere alla tazza circolante intorno alla mensa se non colui che avesse morto un nemico; le leggi ordinavano presso i Macedoni, che in obbrobrio della ignobilità sua, quale aveva le mani nette di sangue ostile, cingesse intorno alla vita un capestro; fra gli antichi Germani chi era vago di condurre moglie doveva dare un capo tagliato in baratto della sposa. Dei Romani basti ricordare Siccio Dentato che di spoglie opime possedeva un flagello. Più tardi i re, gli imperatori, i papi la caterva dei minori potenti e municipii perfino venderono a contanti la nobiltà; Genova in specie ne cavò buona somma di danaro per sopperire ai bisogni del pubblico, o la dettero in premio (non sono io che lo dico, bensì Cornelio Agrippa cavaliere dorato, dottore di leggi e di medicina, astrologo di Sua Maestà Carlo V) ai ruffiani, agli avvelenatori e ai parricidi, agli adulatori, ai calunniatori, agl’imbroglioni, ai traditori, agli assassini, alle spie, ai padri infami, ai mariti becchi3. Io leggendo dapprima queste gravi cose stetti in forse se le dovessi credere o piuttosto attribuire a soverchio di bile del mordace scrittore, ma vincendomi l’autorità del nome, volli prenderne più minuta informazione e veramente trovai che le parole dello Agrippa erano tanti evangeli; nè ciò soltanto presso i principi pagani, che sarebbe stato meno male, ma tra i cristiani altresì; anzi, tra i cristianissimi, peggio che altrove. — Troppi gli esempi e sazievoli d’invereconda disonestà; basti tanto, che certo scrittore francese rinfacciava alle casate più illustri di Francia non trovarsene pure una, la quale non dovesse o l’origine o lo incremento della sua ricchezza alle arti meretrice di qualche nonna o bisnonna. La nobiltà dell’asino rimase inalterata; nè a re, nè a imperatori, nè a papi io detti in balìa le mogli e le figlie; tradimenti e spiagioni io non conobbi mai, puri sempre potei levare i miei zoccoli al cielo; quale mi vide il primo giorno del mondo mi trovò l’ultimo; di fuori mantenni tenacissimo le orecchie lunghe, dentro la osservanza alle regole dell’onesto vivere civile.
Però il nome, l’origine, i fatti e i detti miei furono tolti dagli uomini bene avvisati per argomento di poemi, di storie, di rime forbite e di prose di romanzi. Di quelli poi che amici non miei, bensì della mia fortuna, dopo avermi perseguitato con un diluvio di lodi, allo improvviso mutato vento, mi dissero: raca! anzi pure: — ammazza! ammazza! — codardissimi ribaldi indegni dell’onore di una mia zampata io non conservo memoria; come con una scrollatina di groppe dispersi eserciti di Zecche, che mi si erano annidate addosso, così sollevando al cielo il pensiero cacciai cotesti schifi dall’anima mia. Ma fra gli amici fedeli della sventura sempre caro mi tornerà ed onorato alla mente il nome di Gessner, comecchè tedesco, che dettò il libro: De antiqua honestate Asinorum; secondo a lui, ma distante di poco, viene nella mia tenerezza il Passerati, il quale tessè lo Encomium Asini con ingegno per avventura pari e generosità maggiore che non dimostrò Pietro Contrucci pistoiese, il quale buscò sei scudi per comporre l’elogio di monsignor vescovo Giraldeni4. il Tischebein (notate bene la venerazione dei tedeschi per l’Asino), che fu direttore insigne della Reale Accademia di Napoli, disegnò immagini stupende rappresentanti la nascita, le avventure e la morte dell’Asino; per la quale cosa se in parte fui, come Alessandro Magno, infelice, non trovando Omero, che di me cantasse la Iliade5, in parte i cieli più che a lui mi si mostrarono cortesi, facendomi dono di un tale, che me la dipingesse. L’Heinsio (sempre tedesco) si onorò onorandomi col panegirico De laude Asini. Cornelio Agrippa conclude la declamazione de Vanitate Scientiarum coll’Encomium Asini. Il Paolino scrisse un trattato de Onographia, Plinio il Vecchio nella Storia naturale, Aristotele ed Eliano nelle Storie degli Animali, l’Aldovrando nel trattato de Quadrupedibus solidis, di me parlarono sparsamente cose dotte quanto leggiadre. L’Egadio, il Pierio nei Geroglifici, l’Haseo nella Diatriba, Giovanni Maggiora e Francesco Widebran spesero con grato animo, ed utile non mediocre le forze dello ingegno intorno alle faccende dell’Asino. Apuleio, l’autore della Luceide, il Firenzuola e Niccolò Macchiavello accrebbero lustro alla propria fama scrivendo dell’Asino e per di più di oro. Monsiù Jannin, frammento trentaseimilionesimo del cervello umano domiciliato a Parigi, nel libro dell’Asino morto e della Fanciulla decapitata scrisse di noi così saviamente, come asinescamente (per accomodarmi ai modi della favella umana) in altro suo libro della Italia. Ho detto poc’anzi, che il mondo cessò lasciandoci col desiderio della Iliade, e non mi ritratto; però di poemi noi non patiamo difetto. Nei giornei, nei quali mi toccò a portare basto nel mondo, io lessi con ricreazione stupenda dell’animo sbattuto la Dionomachia o guerra dell’Asino di Salvatore Viale consigliere della corte di Bastia, vera coppa di oro, il quale in tanta malignità di secolo volle insegnare ai giudici suoi colleghi di terraferma, come sia onorata e vantaggiosa impresa promuovere gli Asini, non già perseguitarli. Un Borsini sanese cantò dell’Asino a Malta, ma invece di confidare alle Grazie una lettera d’invito per le Muse, affinchè queste andassero a spruzzarli i versi coll’acqua benedetta d’Ippocrene, inavvertentemente pose loro nelle mani un precetto con intimazione a pagare dentro le ventiquattro ore una cambiale scaduta rimastagli in tasca con altri quattro o sei gemelli, ond’è che le Muse, di simili faccende ignorantissime, reputarono ch’egli fosse Cursore, non Poeta e fuggirono via a tiro di ale come Piccioni spaventati. Ugo Foscolo, giacinto greco educato dai soli d’Italia nello Hypercalipseos pose sopra le mie labbra forti e sacri documenti, e di ciò lo ringrazio, ma nonostante la riconoscenza, che gli professo, devo dolermi di lui per due cagioni: la prima è di avermi descritto scorticato, la seconda di avermi apposto su le groppe l’ale. Scorticato, metto addosso ai cristiani raccapriccio e spavento, e pochi vi ebbero uomini cui bastasse il cuore di sostenere la vista di un Asino scorticato, mentre al contrario un Asino calzato e vestito gli è tutta altra cosa. In quanto all’ale poi io protesto recisamente che non mi si addicono, e comecchè nel nobilissimo municipio di Empoli da tempi remoti fino ai miei s’incocciassero a far volare i loro Asini, si conobbe a prova ch’egli era tempo perso; e gli uomini Empolesi hanno gittato via ranno e sapone in questa testardaggine di volermi mandare in alto a volo, non già nel lavarmi il capo. A tempo debito non mancai di avvisare gli Asini, badassero bene ad astenersi dalla superbia e stessero fermi a reputarsi Bestie essenzialmente quadrupedi; e chi mi diede retta se ne trovò bene.
Il mio Poeta incerto leva gli Empolesi a cielo per cotesto fatto cantando:
Ben mostran gli Empolesi aver cervello,
Quanto conviensi ad ogni Uom dabbene,
Che l’Asino mutar fanno in uccello,
Però con inestimabile amaritudine dell’animo in questa parte dal mio Panegirista discordo, e dico risoluto che può darsi benissimo gli Empolesi mostrino, così praticando, cervello; ma quanto a giudizio è un altro paio di maniche; una cosa è cervello ed un’altra è giudizio: di vero il primo si frigge ed il secondo no.
Invero quale profitto cavarono gli Asini dalla protervia empolese? Gli Asini sospinti in alto, compito il volo, tornarono in terra più Asini di prima, tutti vi persero la reputazione e quasi tutti vi si fiaccarono il collo; chi ci rimise due gambe sole portò il voto a santo Antonio. Qualcheduno (ogni famiglia conta i suoi scapestrati e avventurosa quella, che non ha da vergognarsi di peggio, qualcheduno de’ miei cugini, a cui riuscì mantenersi in alto più di quello che avrebbe pensato egli ed altri, disprezzò i consigli della esperienza. Misero! troppo tardi conobbe che tutti i nodi giungono al pettine, e che Dio non paga il sabato, ma paga.
Il signor conte di Buffon fu veramente un signore di garbo; egli serbò l’anima linda quanto la parrucca, e non è dir poco, imperciocchè se andando per via gli accadesse gualcirla un tantino, tornava a casa per farsela rimettere in sesto6. Ora il signor conte si degnò pigliare la mia causa in mano e difendermi a spada tratta; questo io non posso mettere in dubbio senza peccare della più brutta colpa che deturpi l’Asino e l’uomo altresì, la ingratitudine, ma al punto stesso mal posso dissimulare che il suo panegirico poteva fondarsi sopra base più solida assai. Che quel fiore di gentiluomo mi componesse l’elogio come il tristo barbiere da Firenze rase la barba al pellegrino per lo amore di Dio7, io non lo voglio credere; piuttosto penso che, avendo preso lo impegno di trattare di tante Bestie, non potesse dilungarsi soverchiamente sopra di me ed in questa fiducia, come Animale discreto, io gli perdono. Tuttavolta ebbi per vera la opinione del signor Thackernay, il quale con bella ingenuità nella Fiera degli scemi affermò non essere pervenuto il chiarissimo signor conte Buffon, nonostante l’egregio volere, a rimettere l’Asino in quel credito come merita. Donde i savii ricavarono la massima che veruno amico, per isviscerato che sia, può avvantaggiare i fatti tuoi meglio che da te stesso, e stringendo la esperienza dentro un proverbio, ne composero la regola; chi fa da se, fa per tre. Siccome i vecchi i quali sembra che abbiano sempre torto a venti anni, si conosce a quaranta com’essi abbiano quasi sempre ragione; così non intesi a sordo ed ora è quello che intendo fare e fo.
Io troppo bene so e confesso, che umile schiatta non toglie, all’opposto accresce gloria alla eccellenza dei fatti, nè a Brandissa principe di Schiavonia, nè a Pertinace imperatore nocque essere figliuoli di carbonaio, nè a Marco Settimo di muratore, nè a Telefane di marangone, nè a Poro ch’emulo fu del magno Alessandro di barbiere, ad Ottagora di cuoco, a Tiridate di granataio, ad Olinomo di ortolano, a Tarquinio di mercante, a Varrone di beccaio, a Caio Mario, a Vespasiano e a Francesco Sforza di bifolco, a Pizzarro e a Sisto V di porcaio, comecchè per questo ultimo alcuni lo contrastassero invano. Gifford e De Varinge furono ciabattini, l’ammiraglio Hapson sarto, Brundley mugnaio, Lafitte garzone di cassiere, Oberkampit fu mandato via da Munster a calci nel postione, e se di tutti volessi dire andrei più in là delle litanie dei santi. Ottimamente però adoperava Temistocle quando palesandosi senza tanti misteri bastardo vantò incominciare la nobiltà propria da se, mentre finiva quella di casa sua in colui, che gli rinfacciava la bastardigia. E sopra le altre meritevole di molta lode parmi la legge di quel despoto del Mogol (stirpe di Tamerlano, che incominciò pastore), in virtù della quale quegli che o per sufficienza propria o per regio benefizio era stato promosso a gradi supremi doveva portare sul turbante la insegna dell’arte da lui prima o dai maggiori suoi esercitata, onde per quanto si distendeva l’impero ampio dell’India ti capitavano davanti Satrapi cui facevano nome o la lesina o le forbici o il pennato; e questa nobiltà mi parve, come nel vero ell’era, più onorevole assai dell’altra, che vidi ai tempi miei aduggiare le terre di Europa, la quale io non so se per prendere a scherno, o piuttosto per ritrarre come fa la Scimmia i gesti umani un certo bello umore di taitano chiamato imperatore Solucco introdusse nei suoi dominii coi titoli di conte della limonea, duca della gelatina, barone dell’acetosa e principe della schiacciata unta e via discorrendo. Tutto questo va d’incanto e gli batto le mani, ma chi si sente cuore da continuare la traccia luminosa dei suoi antenati non repudii la sua prosapia. Ai tempi miei io vidi un Giorgio Czerni serviano non pure respingere, ma stendere con un colpo di pistola ai suoi piedi il padre. Giorgio si travagliava a rivendicare la Patria dalla immane tirannide dei Turchi, il padre compro dal Sultano gli si opponeva armato; incontraronsi un giorno e fu sventura; Giorgio gli disse: — sgombrami davanti, la terra è grande, noi non ci possiamo combattere. —
— Anzi dobbiamo, rispose il padre, se non deponi l’arme, brigante! — e gli andò incontra con la scimitarra ignuda. Giorgio butta in terra la sua e ripiglia: — se la passi sei morto. — Il padre impresse un’orma oltre la scimitarra, un’orma sola col piede sinistro e cascò morto. Il figliuolo lo tolse ai morsi delle fiere dandogli sepoltura; altro poi non gli dette, non preghiera, non lacrima e neanche parola. Nei tempi antichi di Roma Giorgio nero8 avrebbe avuto altari e voti; ai miei tremavano al solo rammentarlo, non bastava il fiato a nessuno per maledirlo: gettavano sopra la sua memoria frettolosi e trepidanti l’oblio come gli assediati rovesciano corbelli di terra sopra la bomba caduta. — E parimenti ai tempi miei un giovane russo rinnegò il padre, tuttochè fosse conte a governatore della Siberia: chiamavasi Pestel ed aveva con altri parecchi congiurato ai danni di Niccolò I; presolo, dopo un tal poco di processo lo condannarono a morte. Il padre, infame e ladro, prima che lo menino a guastarsi, vuole vederlo: entrato in carcere, a ostentazione di zelo servile lo svillaneggia e gli domanda qual fine si proponesse nella ribellione del principe legittimo; cui il figlio pacato rispose:
— Contarvi tutti i motivi menerebbe a lungo nè voi li potreste capire: bastivi questo che volevamo liberare la Russia da governatori come siete voi9.
Qui nota di traforo, che mi è mestiere di andare tra barbari in traccia di esempi di virtù civile; in Toscana civilissima per mille centi per avventura un solo si sarebbe sentito fiato d’imitare il Pestel; gli altri tutti, parmi udirli, avrebbero detto:
— Pur troppo, signor padre, conosco che ell’ha ragione da vendere: ma che vuol’ella? i compagnacci mi hanno traviato; io me ne pento proprio col cuore, ecco. Ma, dacchè lei ha buono in corte non potrebbe trovare modo di farmi uscire da questo salceto pel rotto della cuffia? —
Che ti mancava egli, sciagurato! Tu hai di tutto a isonne: chè si dimenino quelli i quali per pisciare sul suo bisogna che si piscino in mano, la capisco, ma a muoverci, noi non ci possiamo che scapitare. Io farò quello che posso, ma a un patto però...
— Quale, signor padre?
— Che tu scriva la tua confessione generale, raccontando senza preterire un iota come le cose stanno, quali i compagni e quanti, come si chiamino, dove abitino, la parte da ciascheduno di loro compita: insomma tutto.
— La mi faccia dare penne, carta e calamaio.... dal canto mio mi proverò contentarla....
Io non posso rinnegare i miei padri; dei Capponi di mercato nell’altro mondo fu detto, uno è buono e l’altro cattivo; gli Asini buoni mostraronsi tutti; a me, al padre, al nonno ed al bisnonno miei palpitò sempre un cuore di gentiluomo sotto la pelle pelosa, e parmi meglio, troppo meglio portare il pelo sul muso che dentro il cuore, come costumarono parecchi della razza umana, se dobbiamo credere quanto ci porgono le storie di Aristodemo fortissimo capitano dei Messeni10 e di Leonida Lacemonio. Plutarco nega il fatto, ma se si fosse condotto a vivere fino ai giorni miei avrebbe visto come si moltiplicassero nel mondo gli uomini dal cuore peloso, non più pei moderni Aristodemi e Leonidi argomento di forza, bensì per ripararlo da ogni senso di misericordia e di vergogna.
Nobile sangue io sono, nè per derivare da gentile prosapia vo’ buttarmi giù dalle finestre; e se a Dante Alighieri fu lecito vantarsene in Paradiso, laddove appetito non si torce, non veggo ragione onde abbia a vergognarmene io.
Tu hai da sapere, o re, che mentre io vissi venne l’andazzo nel mondo di tali forme di reggimento chiamate democrazie, le quali comparse appena svanirono come brina disfatta dal sole; però non le disfece il sole, bensì un’afa di viltà comune e di corruttela sterminata. A quei tempi io conobbi la gente nuova banditora solenne di popolesca uguaglianza spasimare dietro titoli puerili, peggio che non avessero fatto i discendenti dai ceppi vecchi: e se taluno ostentò aborrirli, non lo morse mica la modestia, all’opposto la superbia, parendo a lui che distinzione fosse non andare distinto (il che era vero), e considerando ancora che le croci appese al petto non partorivano neppure il benefizio di quelle che si dipingevano sopra i cantoni. Io per me credo che i principi per giuoco immaginassero un giorno di appuntare il ritratto delle Bestie sul petto agli uomini in segno di onore, ma accortisi poi che la prendevano sul serio tirarono via e continuarono, ridendo sotto i baffi, a dar loro della Bestia quanto ne volevano.
Il Cane ottenne appena una volta la cittadinanza tra le Bestie cavalleresche; poi fu scartato, e non senza ragione, perchè onesto ed utile. Cristiano I di Danimarca, memore che il suo Cane Wildbrat lo aveva seguitato fedele nella sventura da tutti i suoi derelitto, ordinò sopra le insegne di onore ponessersi le lettere T. I. W. B. le quali, non ti so dire il come, significavano Wildbrat fu fedele. Certo veruna azione più degna di questa io per me giudico somministrasse mai argomento ad ordine di cavalleria11; e appunto per ciò cadde indi a breve in disuso. Ho inteso raccontare da uomini dotti che il Cane perse il privilegio in Inghilterra quando il Levriero di Riccardo II chiamato Math, del suo signore piuttosto amante che amico, uso a precorrergli quando andava a cavallo e a metterli per vezzo le zampe sopra le spalle, lo abbandonò ad un tratto passando dalla parte del duca di Lancastre. Pertanto, se deve vituperarsi il Cane che il padrone misleale e traditore abbandonò ed all’opposto tenersi in pregio coloro che gli si strinsero attorno ministri e complici del tradimento, delle sue truci vendette e delle sue anche più truci paure esecutori immanissimi, io per me rinunzio a intendere che sia infamia e che cosa magnanimità. Egli è certo che se le Bestie apparivano per indole propria malefiche, non erano assunte all’onore d’insegna cavalleresca, e per chiarircene basta un colpo d’occhio: i Romani si presero l’Aquila, rapacissimo tra gli Uccelli; i Francesi prima ebbero il Gallo, simbolo di lascivia, ma trovando poi che, quantunque salacissimi fossero, lo istinto della rapina superava in loro d’assai, vollero l’Aquila; l’Aquila si tolse per insegna l’Austria; le Aquile la Russia e la Prussia e, per più divorare, assegnarono loro due becchi; i Frigi e i Traci il Porco cignale, i Goti l’Orsa, i Vandali il Gatto, gli Unni l’Avvoltoio incoronato, i Normanni i Leoni; insomma, io non la finirei più, se volessi riferire partitamente le Bestie feroci reali e imperiali convertite in simboli di dignità, anzi, non contenti delle belve vere, andarono a immaginarne delle fantastiche, come sarebbero Dragoni, Grifi, Sfingi, Sirene, Arpie, Serpenti volanti e simili.
Pertanto cavaliere del Cane non si trovò chi consentisse essere salutato, mentre la Volpe la quale in casa ai Cani gli è quasi una bolla sul naso, piacque tanto ad un re, che nella ingenua tirrannide se ne fece impresa. Lo re Arrigo, racconta l’antico cronista Mostrelet, quinto di nome, faceva trarre dietro a sè la sua insegna, la quale fu Coda di Volpe inalberata in vetta alla lancia a foggia di pennoncello, cosa che ai pratichi delle faccende del mondo in cotesti tempi dette da pensare assai12 — ed anche oggi ne dà. Qui cadrebbero in acconcio molte belle ed utili considerazioni intorno alle Volpi ed intorno alle Code messe in confronto agli spettabili viri dei tempi miei, come le vite parallele di Plutarco co’ suoi bei paragoni dietro; ma la è cosa che menerebbe troppo per le lunghe; voglio sperare che durante la eternità mi capiti un ritaglio di tempo per condurre a fine quest’altra opera; per ora mi basta riferire, come nella culla antica della Sapienza e delle Bestie, l’India, troviamo esaltata la Vacca per modo, che dalla sua coda trassero argomento di nobilissimo ordine cavalleresco.
Nella marea degli accidenti umani una volta parve che la vera uguaglianza avesse a mettere radice fra gli uomini e le Bestie, e questo baleno di fraternità lasciò vestigio nel linguaggio degli uomini: di vero ad un Leone o Tigre o Pardo che fosse, il quale da pari suo giocasse di granfie e di zanne, conferivasi il titolo di nobile Leone; ad un Mastino, che dove metteva il dente levava il pezzo, davasi del nobile Cane; se ad un Cavallo accadeva di vincere il palio e tu lo leggevi per le gazzette celebrato nobile Cavallo; per converso qualche imperatore o re o granduca commetteva taluna di quelle scappate che in collegio si sogliono rimeritare col cavallo o con la penitenza del pane dell’acqua, ed ecco le compre gazzette predicarlo imperatore cavalleresco, re e granduca cavallereschi; ancora ed era da ridere questa; puta: la Francia sperava riuscire a tirare dalla parte sua l’imperatore di Austria ed allora gli spediva la patente di cavallo; l’imperatore le faceva sotto cilecca, ed allora nei diarii francesi l’imperatore tornava uomo; così sillogizzando appariva aperto che, a mente dei Francesi medesimi, Bestia diventava chi loro desse retta ed uomo ridiveniva chiunque gli accomiatasse, come la tela di Lucca. Dunque, se co’ Cavalli scambiarono gli uomini cotali fratellevoli uffici, ho che ci voleva, Signore, ad estenderli anche agli Asini? Più che mezzo cammino era fatto, e poi gli aveva allargati con altre Bestie tanto cattive, quanto io sempre mi condussi da persona dabbene. Nella China, figuratevi voi, chiamavano i soldati Tigri; in Europa non si chiamavano, erano: nella India e altrove parve bello ai principi chiamarsi alla libera Tigre, Iena prima, seconda e terza; in Europa all’opposto vollero godere finchè durarono il benefizio dell’equivoco: Iene non si dissero mai e si mostrarono sempre. Su per le storie si legge che certo papa si mise a sedere nella cattedra di San Pietro come una Volpe, resse come Leone e morì come un Cane13; però questo si diceva per via di paragone, chè tali non erano i suoi titoli veri. Altri si attentarono a muovere passo più largo, dacchè rammentai come un uomo si trasformasse in Asino e un Lupo in monaco e più tardi in canonico.
Merita considerazione il caso che il Diavolo, quando volle tentare la gente assunse sembianza e portamento di re, da re si trasformò quando si ripromise vincere Cristo avvegnadio gli proponesse dargli tutti i regni della terra se, chinato al suolo, l’adorasse. Ora reali appaiono la investitura offerta e il tributo. In forma di re si mostrò accora a san Martino cantandogli la medesima storia: — adorami, ch’io sono Cristo! — ma san Martino ch’era cornacchia da campanile gli disse: Olà, i Paperi meneranno a bere le Oche? Se tu fossi Cristo, non già la corona di oro, bensì quella di spine, io ti vedrei in capo! — Pensate un po’ voi che cosa avrebbe detto al papa se gli si fosse presentato davanti con una barbuta di tre corone di oro sopra la testa e gli fosse bastata la fronte di chiamarsi vicario di Gesù Cristo in terra!
Ma torniamo agli Asini. Il conte di Buffon nella storia della mia famiglia espone: che un Asino non è altro che un Asino14. Bella scoperta in fede di Dio! Oh che temeva egli mi confondessero con qualche i procuratore generale? Comunque sia, noi altri Asini fummo ab antiquo co’ vincoli di sangue congiunti ai Cavalli; i Muli informino.
La nuova schifilità degli uomini per la nostra razza muoveva a compassione e a dispetto se ponevasi mente, oltre le cose già sparsamente narrate, a Omero, cieco dabbene che non dubitò un momento di paragonare Merione e Menelao ad una coppia di Asini15.
Giacobbe, santissimo patriarca, dal capezzale della morte benedicendo i suoi figliuoli padri d’Israello, donde dovevano discendere i cristiani come le giunchiglie nascono dalle cipolle, forse augurava ai figli suoi che a Coccodrilli, a Ippopotami o a Rinoceronti rassomigliassero? No signore: noi lo abbiamo già visto: egli nella sua sapienza ispirata dall’alto paragonò Issacar a un Asino ossuto che giace fra due sbarre. Però, trovandomi io Asino a caso nel febbraio del 1856 a Firenze in piazza della Signoria, nel vedere da un lato tutto un popolo, così femmine sfacciate che uomini codardi, immerso fino alla gola in solazzi plebei e, nel considerare dall’altro come non fosse bastato a contenerlo nè l’amaritudine della perduta Libertà, nè la ignominia della dominazione straniera, nè l’angoscia del sangue sparso peggio che indarno su i campi di battaglia e di quell’altro degli assassinati che, fresco ancora su le selci della città, domandava vendetta, nè l’albo degli spenti per la Patria svelto alla preghiera del santuario, nè il pudore dei mesti che intisichiscono l’anima nello squallido esilio, nè le memorie del truce morbo che scuote le catene e spera romperle, nè il senso delle presenti miserie già gravi, nè il presagio delle future gravissime, dissi fra me: io voglio essere appeso alla prima fune che incontro se l’anima del patriarca Giacobbe non è giunta a Firenze per la ferrovia e, salita su la torre del palazzo Vecchio, non ha rinnuovato sopra questo popolo con la pala la benedizione che compartiva una volta al suo figliuolo Issacar.
Proseguo a esporre gli onori tributati alle Bestie. Caligola, come sai, volle promuovere il suo Cavallo Incitato a consolo, e tu comprendi, Sire, che là dove Caligola impera o Tiberio od anche Claudio tiranno imbecille e insanguinato, se i consoli e i senatori non appaiono di peggiore razza che di Cavalli, la è grazia di Dio.
Nerone, per testimonianza di Sifilino16, gratificava di toga senatoria i Cavalli usciti vincitori dal circo, volendo in certo modo significare che un Cavallo con la toga addosso si può scambiare con un senatore; e il medesimo senza scrupolo di coscienza tu puoi asserire dell’Asino; imperciocchè a prova conosciamo falso il proverbio, che la barba non fa il filosofo, e vera all’opposto la sentenza maligna di Lorenzo il Magnifico testè riportata, che con quattro braccia di panno rasato si fa un uomo dabbene.
I re della Guinea si astenevano religiosamente dalle carni del Leopardo per la ragione, ch’essendo in cotesta contrada tenuto il Pardo re delle Bestie, avrebbe recato malo esempio un sovrano che divorasse un suo simile, comecchè di specie un cotal poco diversa. Per la qual cosa, quando l’anima della czar Niccolò I, giunta nel luogo dove vanno le anime dei regnanti dopo morte, stese la mano per agguantare il premio destinato pel massimo sostenitore dell’autorità principesca dicendo: — io fui l’ausilio dei re, — il principe della Guinea si oppose favellando di forza: — adagio a prendere; se tu sovvenisti i re, io fui la provvidenza dei Gatti—pardi — e il premio andò diviso tra queste due colonne della regia legittimità.
Non vollero i moderni assumere per emblema di cavalleria Asino nè Cane, e nelle parti di Norvegia ai tempi di Osteno un Cane fu intronizzato e riverito re. Gli Etiopi e i Toembarii altri re che non fossero Cani scartarono come figure a bazzica, dichiarando che, esperienza fatta tra re uomini e re Cani, avevano trovato da preferirsi i Cani, prima perchè avevano quattro zampe, e poi perchè morti della loro pelle se ne faceva guanti17.
Nei tempi vetusti, quando più fioriva la eccellenza degli ingegni rari, la mia immagine si adoperò come simbolo superlativo delle Corti, e non sapendo io adoperare parole più acconcie nè meglio ordinate di quelle di cui si valse un poeta dabbene per significare la cosa, soffri in pace, o re, che io te le reciti tali e quali le appresi a memoria, imperciocchè mi venisse assicurato una volta essere la pazienza gran parte della virtù dei giudici, ed è sopra tutto la mia. Cesare Caporali, chè tale ebbe nome il poeta dabbene, descrivendo il libro della vita di Mecenate, ecco come la ragiona in rima:
«Questo era un libro miniato e fatto
Di propria man di Acilio allor liberto
Di Mecenate, e ci era il suo ritratto;
Ma non si ritrovava uom così esperto
Tra i libri che snodar quella scrittura
Sapesse e far l’oscuro senso aperto.
Non che mutato il corpo o la figura
Fosse alle lettre no, ma sbigottiva
La intricata perpetua abbreviatura,
Perchè ogni lettra semplice serviva
Per sillaba, sebben d’altra maniera
Pare che l’Arcidiacono le scriva;
Ma acciò se ne abbia una perfetta e vera
Notizia, ancorchè poco alfin c’importe
Che scriven quasi ogni sillaba intera,
Vi do un esempio: un volea scriver Corte,
Questa voce bestial che nella rima
Meritamente ha per compagna morte,
Giungeva al C ch’era una lettra prima
Un po’ di coda, e ciò con gran giudizio
Ed alla T due virgolette in cima.»
La coda nella C facea l’uffizio
Della sillaba cor, e quei due segni
Sul capo al T dell’altra erano indizio.
E così già quei pellegrini ingegni
Scrissero abbrevïando e c’intricaro
Forse ancor qualche enimma in quei disegni;
Perchè ponendo queste lettre a paro
Segnate con la coda e con le orecchie
La Corte avea la forma di Somaro."
E forse seppe il senso arcano di questa cifra quell’altro poeta che arguto e breve cantò:
«Chi disse Corte misurò le teste.»
Nè mi mancò l’onore delle statue; me le dedicarono gli Ambraciotti liberati per virtù mia dalle insidie dei Molossi18. Me l’eressero in Grecia anche i Naupliani, e la ragione paleserò più tardi19, e in Roma niente meno che Augusto ottimo massimo come il papa adesso; ed anco di questo discorrerò a suo tempo. Comecchè non ci fosse pericolo che l’adulazione, la servilità o la ignoranza mi votassero statue, tuttavolta memore che mentre la repubblica romana serbava fiore di verde, Publio Cornelio Scipione e Marco Popilio censori, furono come segno di matta ambizione remosse dal foro; e Catone censore stette tanto all’erta affinchè le persone meritevoli davvero le ottenessero, che appena l’ebbe Cornelia madre dei Gracchi e figlia degli Scipioni; ricordando meco stesso eziandio20 che alle statue degl’imperatori romani, segato il capo di colui che finiva, vi sostituivano il capo di quello che incominciava il regno; pratica, la quale vidi anche ai miei tempi messa in opera a Lucca per la statua di Napoleone, decapitato prima e poi trasformato in Carlo III21 di gloriosa memoria presso quelli che se ne ricordavano, tenendo fitte nel pensiero le statue dei pontefici traboccate periodicamente dopo la morte loro22 nel Tevere, le 360 di Demetrio Falereo, quelle che ogni tribù di Roma eresse a Mario Graditano, abbattute in un giorno, le prime dagli Ateniesi, le seconde da Silla, e le altre innumerevoli di tanti principi e capitani.
Quando gli uomini con la buona mente si ebbero l’accompagnatura dell’ottimo cuore, molto pregiaronsi facendo di me alle inclite stirpi nome e casato. Sopra tutti si distinsero i Romani nati a vincere e a governare il mondo; colà tu incontri le famiglie Vinnie e Lucrezie soprannominate Asinelle; Asinii gli Agrippa, i Balbi, i Celeri, i Capitoni, i Dentoni, i Galli, i Lucii, i Marcelli, i Pollioni, i Pretestati, i Quadrati, i Rufi, i Sabini, i Salonini, i Torquati; Asinoni i Claudii e i Sempronii; gente Asinia la Cornelia. Plinio il vecchio nel libro nono della Storia naturale registrò il nome di un tale Asinio Celere che ai tempi di Caligola pagò una Triglia ottomila sesterzii che ragguagliano a tremila paoli fiorentini poco più poco meno, e tenuto conto della differenza sul valore della moneta, circa ventunmila paolo. Asinio Pollione, imperando Cesare Augusto, rifabbricò l’atrio del tempio della Libertà, e tu vedi se ai tempi di Augusto potesse torsi questa scesa di testa altri che un uomo battezzato a mio nome, perocchè tornasse proprio al chiudere della stalla dopo fuggiti i Bovi23. Asinio Gallo nipote di Pollione, congiurando contro la vita di Claudio, sperò, spento il tiranno, restituire ai Romani la Libertà. Zio e nipote repubblicani serotini non vollero andare capaci che, finito il vino, bisogna levare la frasca, e l’ultimo vino della Libertà Romana si erano bevuto Mario e Silla quando fra lo strepito delle armi soffocarono la voce delle leggi24. Asinio Epicade fece carte false per liberare Agrippa dal confino della Pianosa e ci si ruppe il collo, peggio per lui! o che credeva il grullo, che avessero a venire meno i padroni alla morte di Augusto? Contro la terribile fecondità della Tirannide non la sgarra nè anche la Morte, imperciocchè venuti meno all’astuto oppressore della Libertà romana e Lucio e Caio e Marcello ed Agrippa lasciò erede Tiberio25. Lo avrei dato per giunta al Diavolo di trovare peggio anche col microscopio del signor Amici, senatore in Toscana al tempo della Costituzione buon’anima. Tiberio donò dugentomila sesterzii ad Asellio Sabino, il quale compose il dialogo tra il Fungo, il Beccafico, l’Ostrica e il Tordo che si disputavano il primato, mentre faceva bruciare le storie di Cremuzio Cordo e mettere a morte chi le leggesse. Esempio antico dalla liberalità del tiranno, quantunque avaro (e Tiberio era avarissimo), verso gli scrittori di cose frivole o lascive, e di rabbia contro cui scuota con forti parole le catene dei servi; e ciò va d’incanto, però che i primi sovvengano al tiranno nell’opera della oppressione, i secondi lo avversino, nè il tiranno possa starsi sicuro finchè non abbia sigillato la bocca ai generosi e gittato in mare il sigillo26. Però mentre durai in vita non rifinii mai di ragliare: — o popolo, ama e venera qualunque si faccia a rampognarti i tuoi vizii, che molti veramente sono e incomportabili, conciossiachè quegli desidera la dignità e prosperità tue: abborri poi chi ti piaggia scusandoti e addormentando la tua coscienza: costui, ci è caso, che abbia inviato lo straniero dominatore per avvelenarti. Nelle plebi stupidamente guaste non incontrai fortuna; nei giovani magnanimi, onesti, modesti e virili a cui il ben piacque sì, ed oltre la speranza.
Asellio Claudiano e Marco Asellione, rammenta la storia, patrizii ammazzati senza processo da Settimio Severo imperatore, e fu tenuto dei buoni; ed a ragione, perocchè meno scellerato assai di Caligola, di Tiberio e degli altri: nè la bontà del tiranno è di altra fatta: cui meno sbrana abbi per ottimo27. Anzi un solenne patrizio studioso di toccare le colonne d’Ercole della sua riverenza per noi, fece in maniera di essere appellato Lucio Bestia, quasi Panteon di quanti animali vivono al mondo, e noi grati all’animo benevolo, volendo in qualche parte guiderdonarlo, lo donammo della nostra eloquenza, ond’ei riuscì tale che, se non fosse altro, in voce la impattò con Marco Tullio, per la quale cosa Catilina lo deputava a ribattere la orazione del consolo, avvertendo i congiurati che la perorazione ce la farebbero essi con la strage dei Senatori28.
Dei cristiani in generale, e dei frati in particolare, già dissi e lo allegai in argomento della religione mia; per causa di onore, si mostrarono propensissimi sempre di tormi in presto il nome i Fiorentini, quantunque non lo abborrissero nè manco gli altri italiani, come ne porgono esempio gli Asinelli che fabbricarono a Bologna la famosa torre pendente, e gli Asinacci di Parma, di cui messere Alighieri fu cittadino grande e molto innanzi nella grazia di messere Galeazzo Visconti29. In Firenze dunque il nome di Asino e Mulo equivalse un giorno a quello di Lapo e di Bindo. Durante il secolo di oro della repubblica fu celebrato assai messere Asino, fratello del magnanimo ghibellino Farinata degli Uberti; ed in Firenze come in Roma una famiglia intera volle chiamarsi dell’Asino; il canonico Moreni, che fu sì dotto, pubblicò certi sonetti di un prete dell’Asino membro di questa amplissima casata: anzi è cosa degna di considerazione, che di lei furonci fino a sette priori; e doveva essere a causa del proverbio: fu notato, e di questo lascio la verità a suo luogo, come i Fiorentini, durante la repubblica, paghi del nome e di quel briciolo di onore fatto alla famiglia dell’Asino, con poco lodevole consiglio le altre qualità di lui o trascurassero o abborrissero, mentre per lo contrario nel Principato all’avvenante che inasinavano, il nome di Asino prendevano in dispregio. Eppure se dovessi dire la mia, mi sembra che i Fiorentini, col principato o senza, stessero incardinati nell’Asino; così vero questo che appunto i reppublicani di Firenze per essere prole romana, e se ne vantavano, sopportando molestamente di chiamarsi vinti in questa faccenda dagli avi provvidero che certa famiglia appo loro si chiamasse degli Animali197, e i ricordi dei tempi ci hanno conservato come uno di questa gente detto messere Forese, capitano dei guelfi fuorusciti, andasse ad assaltare Reggio quando re Carlo di Francia mosse ai danni di Manfredi di Svevia, re delle due Sicilie30. Nè, se tu bene intendi, uomini italiani armati contro signore ascitizio sì ma ormai naturato in paese, in pro di straniero novello, non potevano essere condotti che da uno di casa Animali. — E così consultato ai tempi miei risposi, quando un altro reale di Francia mulinava di mettere in pratica a carico di certo altro reale di Napoli l’antico proverbio: — a carne di Lupo zanne di Cane. — Imparate, io diceva, dalla Volpe, che assassinata dalle Pulci stava cheta come olio, e richiesta perchè scrollandosi alquanto non le cacciasse via, favellò così: ci tengo queste perchè oramai sazie; se le scuotessi ne verrebbero altre assetate, le quali mi berebbero il po’ di sangue rimastomi nelle vene. Fate senno ed avvertite alla sapienza della femminetta di Siracusa supplicante li Dei affinchè preservassero incolume Dionisio il giovane, non già perchè buono, ma perchè, comportandosi egli più malvagiamente del padre suo, era a temersi che il suo successore, tocco l’estremo della empietà, mettesse i popoli alla disperazione31. Guai al popolo che non sa affrancarsi dalla vecchia tirannide se non per virtù di tirannide nuova:
Come d’asse si trae chiodo con chiodo!
S’egli si sente gagliardo di fare da se, e per se, stia fermo, avvegnadio i successi politici, come i corpi organizzati, contengano una ragione di vita che gli fa nascere, e nati, crescere, maturare, declinare e morire; però, quanto più hanno vissuto, più si accostano al termine; ciò posto, guardati da barattare un trono nuovo con altro rosicchiato dai tarli del rancore, della vendetta, della paura e dagli altri infiniti che Dio manda a rodere inevitabilmente i troni dei tiranni della terra.
Mi rincresce proprio pei Francesi i quali, a tempo mio, nel bandire le strepitoso virtù che Dio aveva diluviato addosso a loro lanciavano campanili fino alla Luna, ma io non posso astenermi nè voglio da rammentare che lo imperatore Carlo V soleva chiamarli alla scoperta Asini, e ne disse il motivo: però ch’egli gli avesse veduti sempre obbedire servilissimamente a chiunque saltava il ticchio d’inforcarne il groppone32. E che sia così, lo conferma il caso accaduto in Toscana nel secolo decimottavo, il quale fu questo: certo marchese, non mi ricordo il nome, vantando alla presenza del granduca Giangastone dei Medici l’affetto sviscerato che ogni francese sentivasi per natura disposto di portare al re, aggiunse ch’essendone stati sparati parecchi, avevano conosciuto come fossero usciti al mondo coll’arme del re (che allor faceva fior di giglio) impressa nel cuore. A cui Giangastone, gran maestro di argutezze, rispose: che se per gli altri era cortesia credere questo fatto, a lui poi ne correva obbligo, dacchè i suoi sudditi, in segno dell’amore verso la casa Medici, nascevano tutti con la sua impresa, ch’erano le palle rosse in campo d’oro; della quale verità il signor marchese avrebbe potuto molto agevolmente chiarirsi, e senza sparare nessuno.
Nè solo gli uomini illustri e le stirpi famose provvidero al proprio decoro prendendo nome da me, ma eziandio le città, i fiumi e i monti. Samad, figlio di Elpaal, edificò nella tribù di Beniamino la città Ono, che dal greco voltato in volgare suona Asino. In Sicilia occorrono due fiumi detti Asinasso e Asnario, celebri entrambi, ma il secondo troppo più del primo per lo scempio crudele commesso in mezzo a quello dei mal capitati Ateniesi, il quale, senza potere ripararlo, contemplando dall’opposta riva Nicia virtuosissimo capitano, acceso di magnanima passione, così favellò a Gilippo lacedemonio condottiero dei Siracusani: — Ti prenda pietà, o vittorioso nemico, non di me, che pure sono inclito per patite sciagure, bensì di questi Ateniesi, considerando come si alternino mutabili le fortune della guerra, e com’essi, quantunque volte la esperimentarono felice, usassero misericordia verso dei tuoi33.
In Toscana v’ebbe un paese noto col nome di Asinalunga, piacevole e dilettoso molto, dove incontrai un fabbro di certo organo miracoloso, il quale rendeva la musica, e fosse qualunque che il maestro avesse suonato sopra i suoi tasti34. Mirabile a dirsi! In ogni canto d’Italia frugando trovai frammenti di genio divino, i quali se fossero raccolti insieme e montati dalla Fama sopra corona di oro varrebbero a temperare, se non a guarire la superbia matta dei nostri amici di Francia, che fa frizzare gli occhi del Mondo peggio che sugo di cipolle. — Più notabile di Asinalunga tu avresti veduto nei pressi di Firenze il monte Asinario. Disputarono i geologi un pezzo intorno le materie che formarono cotesto colle, ma io so di certo ch’egli andava composto di frammenti come il monte Circello di Roma, con la differenza che i frammenti del Circello erano cocci di stovigli romani, e quelli di monte Asinario erano cocci di Asini fiorentini. Dicono che se costà avesse continuato lo scarico degli Asini rotti in Firenze, il monte Asinario prima che il mondo cessasse avrebbe superato in altezza il Delawagiri, ma il Padre Eterno mandò a dire ai fiorentini facessero senno, la torre di Babele ricordassero, e Pelle ed Ossa sopramessi l’uno all’altro dai Titani; non volere scalate in paradiso da nessuno; molto meno da mucchi di Asini rotti. Allora i Fiorentini non mandarono più i cocci degli Asini a monte Asinario, ma gli sperperarono per i cimiterii urbani e suburbani con mirabile benefizio di loro, però che quinci di ora innanzi muovesse un’aura di Asino, la quale mista col profumo dei fiori di arancio e di giaggiolo (iris fiorentina) faceva sì che in primavera Firenze paresse il paradiso terrestre redivivo.
Altro e non meno notabile argomento di onore ci viene dall’essere stati in ogni tempo ed in ogni paese eletti per cavalcatura ai Numi, ai santi, agli uomini per potenza o per dottrina supremi, nonchè gestatori di cose sacre ed illustri. L’Agnello che comparse nel mondo per cavare il tallo del birbante di dosso all’uomo, andò sempre su l’Asino; ond’è che scrittori dotti quanto pii affermano che pei lunghi ed onorati servizii resi al Santo dei santi fummo insigniti della Croce di onore35, ed il fatto lo prova, dacchè sopra la più parte degli Asini, ma non su me che vengo di altra razza, vediamo impressa una lista nera lungo la spina dorsale traversata da un’altra che dal collo scende giù per le spalle sul petto. Alcuni pretesero che cotesta lista non si avesse a considerare Croce, bensì Pallio, che a sua imitazione costumarono i papi di mandare ai patriarchi, ma, esaminata bene la cosa, fu conosciuto che la lista attraverso le spalle dell’Asino era una vera e propria Croce di onore.
Da quel giorno in poi volendo per giunta alle altre (che davvero li dispensavano dalle nuove) abbondare i pontefici in prove che vicarii veri di Gesù Cristo essi erano, presero a cavalcare ordinariamente Mule, e i più santi fra loro, Asini addirittura. Narrasi dal monaco Tosti nella vita di Bonifacio VIII, come Celestino V quando entrò trionfalmente in Aquila montasse un Asino, e due re andando a pari con l’Asino lo accompagnavano36. Le cronache di cotesti antichi tempi ci attestano che l’Asino vestito in gala a canto a quei re non iscompariva e ci credo, come credo eziandio che nè anche i re a canto all’Asino scomparissero molto. I credenzoni del paganesimo avevano fede (ecco i frutti della ignoranza!) che la Pitonessa seduta sul tripode sentisse invadersi per di sotto da Apollo, il quale (considerate i gusti guasti!) da quella parte le dettava gli oracoli; a noi poi con più diritta fede è dato presumere che dal sedere che fece il pontefice sopra le groppe fatidiche dell’Asino gli venisse ispirata la virtù di rinunziare dopo cinque giorni al papato; per causa di umiltà e per la salvazione dell’anima — secondo che nella bolla di rinunzia a parole da scatola dichiarò cotesto santo padre santo37, avvegnadio corresse assai concorde opinione nel mondo che non tutti i santi padri avessero l’obbligo di diventare santi; all’opposto parecchi di loro furono proprio malanni, e Roderigo Lenzuoli, babbo specchiato di quell’angiolo di Cesare Borgia, informi per tutti. Me ne va il sangue a catinelle quando ripenso alle parole adoperate da Celestino V nella bolla di rinuncia, perocchè essendo, come Asino dabbene, del cattolicesimo piuttosto zelatore che seguace, conobbi com’elleno porgessero l’addentellato al malignare dei perversi Protestanti che, fondandosi sopra di quelle, sostenevano che paradiso e papato, a modo dei benefizii curati, non si potevano comulare sopra la medesima testa.
Qui però mi casca un dubbio nella testa, ed è che se le groppe dell’Asino poterono per avventura insinuare a Celestino V la renunzia al papato, per lo contrario la fama ed i modi di Asino, secondochè si racconta dagli storici di fede degni, fruttarono l’onore del supremo manto a Sisto V38. Basta, per non intricarmi troppo dirò che questa dell’Asino è, come sembra, una materia eminentemente papabile.
Ai tempi degli Dei bugiardi Sileno aio di Bacco cavalcò un Asino; qualche volta anche lo stesso Bacco, e segnatamente nella guerra che Giove ebbe a sostenere co’ Giganti figliuoli della Terra, dov’egli giunse in buon punto per liberare il Saturnio dalla stretta, insieme con Vulcano e tutta la famiglia dei Satiri, dei Fauni e dei Sileni montati sopra Asini; almeno così ci ragguagliano Iginio e il Vossio, i quali se non lo avessero tenuto da buon luogo e nè manco lo avrebbero raccontato39.
Il signor di Voltaire nel poema della Vergine di Orlèans mi diè per destriero di battaglia a San Dionigi quando precipitò giù dal cielo per sovvenire alla Francia cristianissima; ma io non faccio capitale su questo, conciossiachè quel figuro mi asserisca alato ed io ho già detto che le ali non mi si addicono; e poi non mi giovo dello autore nè del libro, vedendo quivi da lui levare i pezzi di una gloria purissima e imperitura della Francia, a mo’ del maniaco che lacera mordendo le proprie carni.
Timoleonte ormai fatto cieco per vecchiezza, e della Sapienza eterna specchio pur sempre, quante volte mandavano a dirgli i Siracusani che in città venisse per consultare intorno alle faccende della repubblica, era solito muovere di villa tratto da Asini. Che per la via questi gl’inspirassero i concetti, i quali poi erano trovati nei comizii migliori di tutti, può darsi; ne ho anche dubitato poco anzi in proposito di Celestino papa, ma non lo posso assicurare; piuttosto assicuro questo altro, che sebbene Plutarco raccontando il fatto taccia se i vettori della benna di Timoleonte fossero Asini o Cavalli, ell’è cosa notoria come a quei tempi in Sicilia non istanziassero Cavalli; ci andarono più tardi e generosi così, che vinsero in Elea, e Pindaro li celebrò da quel poeta ch’egli era: nonostante però la sopravvegnenza dei Cavalli, gli Asini si mantennero nella Sicilia in maggiorità, ed io ce la lasciai, illustre per non avere buttato via il fodero dopo tratta la spada contro il suo re; inclita per essersi lusingata di far parte da se stessa divisa dalla madre Italia; e per ultimo famosa per avere, smessi o negletti gli armamenti (indarno esperta dalle sue Sirene), posta ogni speranza nei garbugli britanni40.
La mia ventura volle che in me fallasse la sentenza di Gesù Cristo, la quale per gli uomini soltanto apparve vera: — nessuno in patria sua è profeta, — conciossiachè più che altrove in patria io mi trovassi festeggiato ed onorato. Infatti colà profeti, maghi, principi, regi, insomma personaggi grandi furono visti sempre cavalcare Asini come destrieri di battaglia o come palafreni di onore, e in questo convennero eziandio gentildonne e matrone. Abramo e Isacco s’incamminano in compagnia dell’Asino verso la terra della visione, dove il padre doveva ammazzare il figliuolo per amore di Dio, ed è chiaro come il sole, che queste cose senza la presenza dell’Asino non si fanno41. Moisè, reduce dal paese di Madian in Egitto, mogli, figliuoli, ogni altro bene o male che possedesse mette a rifascio sopra le groppe dell’Asino e va via42. Balaam chiamato a maledire Isdraello mette il basto all’Asino e va via43. Iair giudice si vanta possedere trenta figliuoli, i quali padroneggiavano trenta Asini e trenta città, e se ne poteva vantare44. Meglio avventuroso di lui Abdone fu lieto di quaranta figliuoli e di trenta nipoti che montavano settanta Asini45, la qual vista, si capisce, quanto dovesse riuscire deliziosa al cuore di un padre!
In quanto a gentildonne, mira Asa moglie di Otoniello e figliuola di Caleb che sospira su l’Asino quando chiede a suo padre la sopraddote46: odi Debora che desidera avere compagni al cantico della vittoria tutti quelli che siedono in giudizio e salgono sopra gli Asini47. Abigail per placare David e salvare capra e cavoli gli va incontro su l’Asino e con Asini carichi di uva passa e fichi secchi; e tanto piacque in cotesto arnese al re di giudea che, indi a poco rimasta vedova, la sposò e l’aggiunse al mucchio delle altre mogli48. La Sunamitide per far presto a rincorrere il profeta Eliseo affinchè tornasse a casa per resucitarle il figliuolo morto, qual Bestia credete voi estimasse capace di corrispondere con la prestezza all’ansietà materna? L’Asino49. I padri Benedettini di San Mauro, gran maestri davvero, sopra l’autorità di certo antico cronista informarono il mondo come i Saracini, un giorno folgori di guerra, costumassero combattere incavallati sugli Asini nel modo che i Greci facevano sopra Cavalli50.
Ne questo è tutto. In Mileto portarono a processione sopra un Asino la immagine della gran madre Cibele per bandire agli uomini che la Natura si appoggia sopra la generazione di cui noi insegnavamo la pratica e la scienza, ma non c’era di bisogno51.
Celebrandosi a Roma con solenne e devota pompa la festività di Vesta, menavano gli Asini a processione incoronati di pane, volendo dimostrare per questa guisa che gli Asini e i popoli di cui sono immagine devono contentarsi questi di paglia, quelli di pane, e non badare più oltre: col volgere del tempo andò smarrito il senso di questo simbolo, onde i rettori dei popoli, buttato via ogni ritegno, levarono le fasce alla massima e la esposero nella sua nudità; però a Roma dissero che al popolo dovevano darsi panem et circenses, a Venezia giustizia in palazzo e pane in piazza; a Firenze, Cosimo dei Medici primo granduca, correggendo ed ampliando, comprese la scienza del governo in tre F, le quali denotavano: Feste, Forni e Forche. All’Asino scorticato di Ugo Foscolo piacquero invece tre A, vale a dire: Ara, Aratrum, Arbor patibularius, musica pari con istrumento diverso. — Ben è vero che Gesù Cristo aveva predicato: non solo pane vivit homo; e ci vuole un alimento d’idee e di virtù per l’anima, come il corpo desidera cibare il pane di grano: ma ahime! ai tempi miei Gesù Cristo aveva di catti che la Corte romana non mettesse il suo Vangelo all’indice dei libri proibiti52.
A Firenze che fu salutata meritamente Atene d’Italia, coperto di gualdrappa vermiglia, ricinto attorno da bellicosa schiera di soldati toscani con un garzoncello in groppa io mi trovai a portare due barlozzi di olio alla chiesa della Santissima Aununziata, onde i frati ne alimentassero le lampade all’altare della immagine benedetta. Davanti e dietro sentiva mormorarmi: — Asino, Asino, dove vai? Cotesto olio servirà a friggere le frittate ai frati — ma io, niente nella mia fede crollato, mi volsi con brusca cera e favellai di forza: — chetatevi, eretici, cucitevi la bocca, sussorroni; i frati friggono con l’acqua! —
Per le terre argoliche portavano sopra le spalle dell’Asino ai lavacri la statua di Giunone moglie di Giove, e meglio avrieno fatto a legarle un sasso al collo e buttarla in mare addirittura, conciosiachè ella fosse la più fastidiosa femmina che mai tribolasse marito, e se mi fossi trovato presente quando giove le disse:
«.......... or siedi e taci
E mi obbedisci; che giovarti invano
Potrian quanti in Olimpo a tua difesa
Accorresser Celesti, allorchè poste
Le invitte mani nelle chiome io t’abbia53».
per me gli avrei gridato con gli zoccoli giunti: — ma fàllo, caro di mamma, fàllo, chè ti acquisterai l’indulgenza plenaria del sommo pontefice Pio IX.
Avrai per avventura udito raccontare come certo Asino una volta portando non so quali reliquie, nel contemplare i popoli genuflessi dintorno, a tanta superbia gonfiasse il cuore, da credere pazzamente che adorassero proprio lui, non già le relequie. Queste panzane le ha messe in campo Esopo che, essendo schiavo, pativa del bugiardo e del maligno. Con lunga orazione ho chiarito come gli uomini insanissero nel volermi Nume, ma io savio scappai di paradiso e, volendomici ricondurre, gli saldai a calci dove andavano andavano: oltrechè poi corse assai comune opinione fra gli uomini che Esopo, non potendo a cagione del suo misero stato riprendere alla scoperta i vizii degli uomini, se la rifacesse con noi riprendendo nelle Bestie i malvagi appetiti e i turpi fatti che non si attentava vituperare in loro, dando così al basto, non potendo l’Asino.
Qui sento mormorarmi dintorno: alla svolta ti provo; rovescia la medaglia. Eccola rovesciata. Su via, parlate, dite l’ultima. Lo so, lo so, voi volete appuntarmi che il carnefice mi tenesse ai suoi servizii: sopra le mie groppe si scopassero le femmine da conio; sopra il mio dorso menassero in trionfo ruffiani, barattieri, falsari e siffatta geldra di gente montati a ritroso con la coda in mano. Ahi! tristi che buttate in faccia altrui il peccato che voi spingeste a commettere. Non contenti gli uomini di dannarsi soli, vollero agguantarmi per la coda e con esso loro strascinarmi dentro all’inferno: infami tutti pretesero infamare la creazione! Come ottimamente notò Silvio Pellico, seguendo il costume dei tiranni non bastò loro farci miseri, anche vili ci vollero. Alla croce di Dio dopo avere portato sopra le mie spalle quei tocco di personaggi che ho detto, era onesto, era prudente mescolarmi con tanto sozza e malvagia marmaglia? Se gli uomini volevano ad ogni modo condurre attorno i ladri montati sopra Bestie di obbrobrio, non dovevano far altro che prendere l’uno l’altro a cavalluccio e correre di su e di giù per le vie. A qual fune poteva appigliarmi io? A qual santo votarmi? Mi accosciai gittando a terra il furfante, sparai coppie di calci, morsi ancora e fu tempo perso! Io riscossi la solita mancia di legnate e ne andai con le costole peste, il furfante ebbe rotto il capo, nè per tanto era la processione dismessa; e poi aggiungi che da me non si sapeva sempre distinguere quando mi mettevano sul groppone un galantuomo e quando un ribaldo, cosa difficile agli stessi uomini, e quindi immagina se agli Asini! Così avrei operato bene di scuotermi dalle spalle quel tristo prete di Merino, il quale tentò di ammazzare la reina di Spagna Isabella, e male quando i ribelli Milanesi mi ci misero Beatrice moglie di Federigo Barbarossa54. Vuoi tu vedere fin dove giunse l’umano consiglio insatanassato a pervertire i cuori più miti? Tu conosci l’Elefante buon diavolaccio nato proprio per vivere alla carlona: or bè; nel regno che già fu di Siam, non ci fa rimedio, ci dovè essere carnefice, e sotto pena di vita ebbe a ballare la frullana sopra le costole dei condannati all’ultimo supplizio. Badava il poveretto a far pianino, ma sì in meno che non si recita un paternostro gliele aveva trite come pepe. In Persia il truce ministero commisero ai Cani per naturale istinto amici dell’uomo55. Ma via, cotesta gente barbara e pagana io metto da parte, però non freno l’ira quante volte penso che già Spagnuoli, per testimonianza di Oviedo, pupilla un giorno degli occhi di santa madre Chiesa cattolica, educarono i Cani nel mestiero del boia56. Umane colpe sono queste, non mie; e se nella corsa scapigliata degli uomini pel pantano delle loro passioni qualche schizzo di fango m’impillaccherò la pelle, non per questo vien meno la chiarezza del mio sangue. La dignità di Asino mi contende aggiungere parola per isdebitarmi dalla calunnia57.
Per patria io ebbi il mondo intero: talora mi piacque sostare in una città o provincia e parve le preferissi, ma poi levati di repente i tabernacoli, mi condussi altrove, sicchè il sole ed io ci potemmo vantare avere visitato tutta la terra nei suoi angoli più riposti. Tacciano pertanto le importune, iattanze degli Arcadi, dei Reatini58, dei Toscani e di altri cotali; io nacqui per tutti e tenni nelle mie zampe il mondo per la felicità del genere umano, nella guisa appunto che nei suoi artigli lo teneva l’Aquila di sua maestà l’imperatore di Austria. Siamo d’accordo sì, re Salomone, e non importa che tu mi ammicchi col capo; il mio ceppo primo ebbe teco comune il luogo dei natali, e non poteva essere a meno, colà nella terra genitrice di due religioni, di tanti profeti, di tanti legislatori, di martiri e di confessori, Dio pose il germe di me che certo fui meno illustre, non però meno utile di quelli alla stirpe di Adamo. Di ciò allego un testimone che vale mille, ed è la Chiesa cattolica, la quale componendo il responsario per la famosa messa dell’Asino, ci mise dentro questa strofa che io volto per comodo degli uditori:
«Robusto e snello
L’Asino bello
Ai sacchi potente
Venne d’Oriente59».
Molte cose potrei aggiungere illustrando più largamente il soggetto: mi piaccia meglio, come sempre, la cavezza della modestia piuttosto che la frusta dell’orgoglio. Tengasi intanto ognuno per avvertito che l’Asino può barattare un testone di nobiltà con tre paoli di gentilezza, e do fine; cosa dice il mio poeta anonimo?
«Di frutto il Ciuco e non di fiori ha voglia,
Chè, a dir di lui la stirpe, i pregi e il nome,
Gli è come dir poca uva e molta foglia60».
Note
- ↑ [p. 195 modifica]Agrippa, De van. scient., c. 80.
- ↑ [p. 195 modifica]Michelet, Hist. de France. L. 3, p. 311.
- ↑ [p. 195 modifica]Agrippa, De Nobilit., c. 8.
- ↑ [p. 195 modifica]Negli elogi d’illustri italiani pubblicati a Pistoia dalla stamperia Cino in 4 volumi si legge registrato in nota come certo vescovo, non ricordo se Rossi o Giraldoni, lasciasse tre zecchini al prete Pietro Contrucci, affinchè gli componesse l’orazione funebre.
- ↑ [p. 195 modifica]
Giunto Alessandro alla famosa tomba
Del grande Achille ec.
Petrarca, Rime. - ↑ [p. 195 modifica]Serie di vite e ritratti di Milano. — Vita del conte di Buffon.
- ↑ [p. 195 modifica]Volta! che barba lunga. — disse un giorno certo barbiere di Firenze al pellegrino, che passava per la via. — Che vuoi tu? questi rispose: io non ho quattrini per farmela fare. — Vieni via, soggiunse il barbiere, io te la farò a ogni modo per amor di Dio. — E il pellegrino si mise sotto; l’acqua si trovò a essere diaccia; il sapone scarso, sfilato il rasoio, la mano tremante conciavano il pellegrino come se dovesse servire di riscontro a S. Bartolommeo, e il poveretto piangeva e gemeva; quando ecco il cane del barbiere di su la strada si mise a [p. 196 modifica]uggiolare: — va, fallo chetare, dice il barbiere al garzone, e quegli va; ma ell'erano novelle, e il cane guaiva più di prima. O che diacine ha egli stamattina! — esclama il barbiere in collera, e il pellegrino, sospirato prima: — ah! forse fanno al tuo cane la barba per amor di Dio. —
- ↑ [p. 196 modifica]Serie di vite e ritratti, stampata a Milano. Czerni nell'antichissima lingua dei Daci significava nero; ma è una delle poche parole superstiti di cotesto idioma: così ci afferma Quinet.
- ↑ [p. 196 modifica]HERTZEN, op cit.
- ↑ [p. 196 modifica]Plin, lib. 2. c. 70.
- ↑ [p. 196 modifica]St-Gervais, t. 4.
- ↑ [p. 196 modifica]F. 4, p. 140.
- ↑ [p. 196 modifica]Tosti, Vita di Bonifac. VIII, lib. I.
- ↑ [p. 198 modifica]
- ↑ [p. 196 modifica]Veramente Omero non gli assomiglia ad Asini; bensì a Muli: tuttavolta il paragone sta in famiglia. Iliade 17. v. 940.
- ↑ [p. 196 modifica]Xihpilini Johannis, Excerpta Dionis Cassii in Nerone.
- ↑ [p. 196 modifica]St-gervais, t. 1.
- ↑ [p. 196 modifica]Pausania in Phoc., lib. 10.
- ↑ [p. 196 modifica]Plin., l. 34, c. 14.
- ↑ [p. 196 modifica]Plin., lib. 34, c. 18. Svetonio in Tiberio attesta i capi sostituiti chiamarsi esentili.
- ↑ [p. 196 modifica]E il giorno dopo a questa trasformazione ci si lesse uno scritto attaccato che diceva così:<
Fermati, passeggiero,
E mira il gran campione;
Il busto è di un eroe,
La testa di un. . . . . . . .(250) Gregor. Leti Vita di Sisto V.
(251) Serton., in Ottav. August., c. 29.
(252) Idem, in Claudio c. 13.
(253) Idem, in Ottav. Àugust., c. 19.
(254) Idem, in Claudio, c. 42.
(255) Spartianus, in Settim. Severo, c. 13.
(256) Sallust. nella Catilin. lo rammenta nei c. 14 e 17.
- ↑ [p. 196 modifica]Gregor. Leti Vita di Sisto V.
- ↑ [p. 196 modifica]Serton., in Ottav. August., c. 29.
- ↑ [p. 196 modifica]Idem, in Claudio c. 13.
- ↑ [p. 196 modifica]Idem, in Ottav. Àugust., c. 19.
- ↑ [p. 196 modifica]Idem, in Claudio, c. 42.
- ↑ [p. 196 modifica]Spartianus, in Settim. Severo, c. 13.
- ↑ [p. 196 modifica]Sallust. nella Catilin. lo rammenta nei c. 14 e 17.
- ↑ [p. 197 modifica]Franco Sacchetti, n. 229.
- ↑ [p. 197 modifica]Giovanni Fiorentino, n. 24.
- ↑ [p. 197 modifica]S. Tommaso nell’Opusc. de Regim. princip, l. 1, cap. 6.
- ↑ [p. 197 modifica]Gaffarelli, Curios, inaud. c. 1 § 3.
- ↑ [p. 197 modifica]Tucidide, Storie, l. 7.
- ↑ [p. 197 modifica]Il suo nome era Ferdinando Terrosi.
- ↑ [p. 197 modifica]Albert. Magn., l. 22. De Anim. terrestr., II f. 215; Gesner. de Quad. l. 1, c. 4.
- ↑ [p. 197 modifica]Tosti, Op. cit. l. 1.
- ↑ [p. 197 modifica]Idem. loc. cit.
- ↑ [p. 197 modifica]Facendosi conoscere in tutte la compagnie per uomo goffo, ignorante e semplice, ond’è che veniva chiamato Asino della Marca — poco più oltre: — tanto è che il comune degli scrittori, e delle bocche dicono che il Montalto si acquistò il papato con la industria di sapersi fingere semplice ed ignorante. LETI. Vita di Sisto V. lib. 2, p. 2.
- ↑ [p. 197 modifica]Igin., l. 2, c. 33 Vos., Osser. a Pomp. Mela, l. 1, c. 5.
- ↑ [p. 197 modifica]Plutarc., in Timoleont.
- ↑ [p. 197 modifica]Genes. 22, n. 3.
- ↑ [p. 197 modifica]Exod. 4, n. 20.
- ↑ [p. 197 modifica]Joseù, 15, n. 4.
- ↑ [p. 197 modifica]Jud. 10, n. 4.
- ↑ [p. 197 modifica]Ibidem 12, n. 14.
- ↑ [p. 197 modifica]Jud. 1. n. 14.
- ↑ [p. 197 modifica]Ibidem, 5. n. 10.
- ↑ [p. 197 modifica]Reg. I, 25, n. 20.
- ↑ [p. 197 modifica]Ibid, IV, 4, n. 22.
- ↑ [p. 197 modifica]Arte di verificare le date dei Padri Benedettini di S. Mauro, che citano Echingen, l. 12, c. 54.
- ↑ [p. 197 modifica]Suida, Lexicon, Onos.
- ↑ [p. 197 modifica]Propert., l. 4, Eleg. 1. Lattanzio Firm. Nel libro De falsa religione assegna questa causa alle corone di pane portate dagli Asini, c. 21.
- ↑ [p. 197 modifica]Iliad., l. 1.
- ↑ [p. 197 modifica]Crisp., Parad de Antiq. state Burgundi in Heinsio Laus Asini.
- ↑ [p. 197 modifica]Pietro Della Valle. Viaggio in Persia nel [p. 198 modifica]1600 Rivist. Britan., t. 11, p. 128.
- ↑ [p. 198 modifica]Id., id.
- ↑ [p. 198 modifica]Poteva aggiungere l’Asino mio, che gli uomini pretesero non solo infamare col mettergli su le groppe o fargli trarre enti sensibili, bensì ancora cose inanimate; come a mo’ di esempio la campana di San Marco, perchè suonò a martello per sollevare il popolo la notte in cui fu preso frate Jeronimo Savonarola; poi la esiliarono a San Salvatore dai frati di San Miniato, dove la prima volta che suonò fu per l’esequie di Tanay dei Nerli consigliere della condanna.
- ↑ [p. 198 modifica]Plin., lib. 8. c. 68.
- ↑ [p. 198 modifica]Vedi Responsorio degli Asini, n. 293—94.
- ↑ [p. 198 modifica]Raccolta di Poesie cit.