Della morale letteraria/Lezione III

Lezione III. Della letteratura rivolta all'esercizio delle facoltà intellettuali e delle passioni

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Lezione III. Della letteratura rivolta all'esercizio delle facoltà intellettuali e delle passioni
Lezione II
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LEZIONE III.

La letteratura rivolta all’esercizio delle facoltà intellettuali, e delle passioni.

S’io avessi a giudicare da quella specie di tristezza con cui ho meditata e scritta la precedente lezione, e dalla mesta attenzione con cui parmi l’abbiate ascoltata, se inoltre questo giudizio avesse per mira più il vostro diletto che la vostra utilità, dovrei senza dubbio pentirmi di ciò che vi dissi, e convincermi che le verità le quali udite non dilettano, non devono essere mai palesate. E così certamente avrei fatto, se non fossi nel tempo stesso persuaso che niuna verità, la quale miri a far più libero l’animo dalla opinione falsa degli uomini e dalle chimere della fortuna, niuna di si fatte verità va taciuta, tanto più che quel lume che nuoce da una parte dissipando molte amabili chimere dell’uomo, giova poi doppiamente nel mostrare quali sono i conforti e i piaceri reali a cui gli uomini potranno più sicuramente affidarsi. Che ciò sia vero lo vedrete, o giovani, nel discorso d’oggi. Perocchè [p. 318 modifica]se la speranza di agi domestici, e di cariche sono lusinghe che piacciono ad una parte della gioventù; se la passione della gloria riscalda di fiamme generose l’anima vostra, e fa che il vostro cuore vi batta con più fermo e più nobile desiderio, io quantunque vedessi la falsità e la poca durata di queste lusinghe, non avrei mai dovuto disingannarvi, perchè nuocerei fortemente a voi stessi e alle lettere, ove non avessi da sostituire conforto più certo e più lungo. Ma se al contrario il desiderio di ricchezze e di fama servono anzi a contaminare la felicità e delle lettere e de’ loro, cultori; s’io posso presentare alla vostra scelta altri frutti della letteratura più dolci e più certi che confermino più felicemente per voi, e più utilmente per gli studi e per la patria l’amor delle muse, io anzichè pentirmi di ciò che ho detto fino ad ora disanimandovi, dovrò lodarmi se per mezzo appunto di questo affliggente disinganno sarò giunto a procacciarvi più lunga e più bella, e più durevole consolazione.

Or come dianzi avete fatto, così pure oggi importa sommamente che il vostro pensiero attenda di continuo al soggetto del discorso, ed è che ogni arte deve essere dall’artefice rivolta alla propria utilità: principio essenziale che noi abbia[p. 319 modifica]mo applicato alle arti letterarie. Or le utilità d’ogni individuo in società consistendo nelle comodità della vita, nella estimazione pubblica, e nella soddisfazione dell’animo, chi professa letteratura deve mirare all’acquisto di questi tre beni. Ma perchè tutti e tre non possono nè insieme, nè perfettamente acquistarsi, bisogna maturo esame per iscegliere o quello de’tre che più giova, o se pure a tutti si aspira, fare in modo che la ragione tempri il desiderio onde ei mali, ed i vizi, e le difficoltà annesse all’acquisto di questi tre beni siano preveduti e rimediati. Per giungere a questo esame, ed a questa scelta, ed a’mezzi infine di questo temperamento abbiamo dovuto ripartire ognuno dei tre beni astraendolo dagli altri, perchè nudo e schietto in se stesso possa essere conosciuto in tutte le sue vere e perpetue sembianze. Nella prima lezione appartenente a questo soggetto s’è parlato della letteratura rivolta principalmente ed unicamente all’acquisto delle ricchezze; nella seconda lezione recitata ieri s’è parlato dell’acquisto della celebrità considerandola anch’essa come principale ed unico scopo del letterato; nella lezione d’oggi tratteremo della soddisfazione dell’animo. La prima lezione quindi si può considerare [p. 320 modifica]come risguardante all’economia; la seconda’ alla vita civile; e questa d’oggi alla filosofia.

Ma dopo una serie d’osservazioni e di fatti abbiamo veduto nelle due antecedenti lezioni che l’intento d’acquistare ricchezze non fa felici i letterati, primamente perchè si corrompe la letteratura, in secondo luogo perchè si vende la libertà della mente, finalmente perchè le ricchezze e gli onori sono incerti nell’acquisto, fuggitivi nel possesso, e sottoposti insomma in tutto e per tutto all’arbitrio degli uomini e delle sorti. Quanto alla gloria l’abbiamo veduta soggetta ad altri inconvenienti che turbano forse più la umana felicità; eppure gli uomini nulla oprano se non se mirando alla felicità. Inconvenienti della gloria ci apparvero la insaziabilità, la incertezza, le persecuzioni religiose e politiche, l’ingiustizia del mondo, le risse letterarie, il falso amor degli applausi, in cui questa passione naturalmente degenera negli animi falsi e negli ingegni mediocri e quindi la cecita, i vizi, la perfidia, e tutti in somma que’ veleni che fanno torbide, amare, e micidiali tutte le fonti degli umani conforti. Ma il pessimo de’mali prodotti dalla passione della gloria è il disinganno; poichè rotto appena lo splendido velo di cui questo fantasma si veste, quel mon[p. 321 modifica]do d’illusioni ch’egli illuminava, dileguasi, e l’uomo che a quelle visioni si consolava, che viveva in quel mondo incantato, e per cui si nudriva la mente e riscaldava le proprie passioni, rimansi desolato, misero, errante nelle tenebre e nei deserti; e brancicando quà e là senza più mai sapere a qual altro asilo ricorrere: il che con altre parole fu da me detto, ed or giova ripeterlo, ed io vi prego ( nè altra cura mi muove se non quella del vostro bene), vi prego di ripetere a voi sempre questa massima, e di meditarla, e di confermarla colla vostra stessa esperienza e col vostro proprio ragionamento: il peggior danno che possa arrecare all’uomo la filosofia, il male che solo pesa più di tutti i beni che ella produce, si è il pirronismo delle idee, e il freddo silenzio delle passioni, per cui l’uomo diventa o cattivissimo, o infelicissimo. Ma questo male ha per radice funesta l’amore della gloria che quanto più diviene eccessivo e sicuro, tanto più si disinganna da se medesimo, simile al fuoco che parco riscalda ed eccessivo distrugge. Non è dunque diretto il mio discorso se non a mostrarvi che come la sola ricchezza non basta a’progressi delle lettere e all’acquisto della felicità de’ letterati, così la gloria che pure è l’unico eccitamento [p. 322 modifica]delle lettere. ha bisogno di essere temperata, e soprattutto in modo da fuggire la sventura annessa alla gloria, quella cioè del disinganno.

Ora da quanto si è nelle due precedenti lezioni trattato, molti di voi potrebbero appunto inferire che se le lettere non possono direttamente rivolgersi nè alla beatitudine della ricchezza, nè a quella della gloria, le lettere vanno abban donate e neglette, essendo misera pompa e campo sterile di utile messe, e frondoso soltanto di piante velenose e di fiori caduchi: così che voi cadeste appunto in quel disinganno che è l’unico scoglio che l’uomo deve accuratamen te schivare: al che giungesi, credo, con la verità e l’applicazione di questo principio a cui piacciavi di attendere perchè forma la prima parte di questa lezione ed è — Che tutti ignorano l’essenza, la mente e le forze della natura; ignorano la causa che li fa pensare, volere, operare: ma che tutti nondimeno vivono quasi avessero un fine certo e determinato e sapessero d’onde parta e dove finisca la loro vita. —

Gli agenti che secondano eternamente le leggi della natura, la quale pur vuole l’esistenza del genere umano, e che malgrado l’arcana ignoranza di noi stessi ci fanno vivere in questa sicurezza e speranza; questi agenti sono le no[p. 323 modifica]stre passioni; il che è evidentissimo ad ogni nomo che sente ed agisce. Queste passioni si esercitano sopra tutte le umane istituzioni. le quali come tutte le cose dell’universo hanno origine e leggi dalla natura. Così le arti letterarie stanno, come si è detto, nelle facoltà e nei bisogni dell’uomo, e servono ad esercitare le nostre passioni e le nostre opinioni nella comunicazione della società. Distruggerle non si può, perchè la natura è per se stessa inviolabile dall’uomo; bensì la nostra ragione può applicarsi con più o con minore frutto sovr’esse. Si applica con maggior frutto quando si ritraggono le lettere all’intento destinato dalla natura; si applica con minor frutto quando si lasciano inutili, finalmente la ragione si applica con dannoso e pessimo frutto quando veggendo l’inutilità delle arti letterarie, inutilità dipendente da noi soli, si vorrebbe distruggerle, allontanarle e per sempre dal nostro pensiero. Or gli uomini che la natura creò alle lettere non possono assolutamente giungere a distruggerle in se stessi, massime se le loro radici hanno preso luogo nel nostro intelletto per mezzo dell’educazione; e quindi volendo distrug gere la passione a cui siamo creati distruggiamo noi stessi. Ciò si ha a dire di tutte le altre [p. 324 modifica]passioni che esercitandole in noi stessi sino alla sazietà ed al fastidio, sino insomma a conoscerne la vanità, cadiamo finalmente in quel disinganno che ci fa non curanti di noi e di tutto quello che esiste, e che d’uomini e forti ci rende fanciulli e pusillamini, e supertiziosi.

Oh se con questo avvertimento voi meditaste gli annali tutti in cui stanno scritti gli errori, le virtù, le passioni, i delitti, e le opinioni degli uomini, quanti mortali appunto vedreste a cui questo terribile disinganno fu causa di sciagure irrimediabili e di vituperio e di morte. Io non vi ritornerò a rammentare il suicidio di tanti filosofi, i quali non afflitti dal tormento ma noiati dalla vanità delle passioni cercarono scampo sotterra. E certamente, oltre le triste riflessioni che li guidarono a passi tardi ed incerti sino al sepolcro e ne prolungarono l’amarezza del viaggio, essi che erano pure uomini soggetti a tutte le leggi della natura, accorrevano a disperati e crudeli combattimenti che l’instinto della vita oppone pertinacemente a chiunque si delibera di abbandonarla. Ma il disinganno delle passioni appare più funesto appunto negli uomini che si reputavano e sono anche a nostri di reputati i più possen[p. 325 modifica]ti ei più felici. Nè il mondo tutto intero ardiva resistere alla possanza d’Alessandro, nè la fortuna fu nemica mai della sua gloria, nè la stessa filosofia poteva in verun modo non perdonare gli stessi vizi di quell’eccelso mortale, a cui la natura avea data bellezza, ingegno e valore; a cui l’educazione nella filosofia avea somministrato il tesoro delle scienze e la costanza ne’ sublimi principii della morale: ma egli acquistato avea sommo potere, somma, gloria somma soddisfazione di passioni, e quindi sazietà e noia di que’beni medesimi a’ quali aveva si affannosamente aspirato.

Ecco il domatore del mondo, il distribuitore di tanti imperi, l’adoratore de’poemi d’Omero, l’alunno delle scienze della Grecia, colui che era adorato per Iddio, e che Dio s’era egli composto nell’ubriachezza della sua gloria, eccolo nella fine della sua vita, poco dopo i trent’anni, astrologo scrupoloso per agitare in qualche modo la sua misera empietà; eccolo prostrato, superstizioso ardere incensi tremando, immolare vittime ai Numi, e cercare un’altra passione più potente di quella ch’egli aveva già dissipata; ma questa passione non era quella che avea posta in lui la natura. Le sterminate vittorie di Selim II nell’Europa e nell’Asia ridussero [p. 326 modifica]quel feroce conquistatore a non sperare e a non temere più nulla, a una solitudine ingloriosa, e colui che prima atterriva con un solo decreto, scritto con la sua spada, viveva poscia atterrito dai versi del Corano, e stanco e nauseato dalla gloria della terra, aspirava alla celeste beatitudine, e disperando di conseguirla la domandava versando lagrime e rileggendo atterrito dalla penitenza e dal digiuno il libro di Maometto. Carlo quinto si rinchiuse ne’chiostri dopo un regno sì glorioso, dopo sì felici conquiste; poi anelando la morte si fece seppellire e far l’esequie prima che fosse morto; ivi patì che i suoi figliuoli l’uno re delle Spagne e dell’America, l’altro imperadore della Germania gli contendessero il pane che potea prolungarli la vita. Luigi XIV, che pur crediamo beato pel titolo di grande, morì governato dalla druda e segnò l’editto di Nantes sacrificando per la superstizione d’una meritrice, più milioni di sudditi con che diminuì la popolazione, l’industria e il commercio del suo regno e arricchì e l’Olanda e i paesi protestanti co’ quali egli aveva guerreggiato siìlungamente. E quant’altri mai fra gli uomini illustri de’ secoli lontani e vicini non ci sono documenti terribili, che poichè s’è saziati ed infastiditi della passione [p. 327 modifica]che per decreto della natura esercita tutte le facoltà della misera vita, s’è finalmente costretti o ad abbandonare disperatamente la vita stessa o a strascinarla fra le angustie, le superstizioni e i terrori! Onde mal conosceva il cuore degli uomini quel filosofo Cinea nel discorso ch’ei tenne a Pirro per distorlo dalle conquiste. discorso riprovato da Platone nella vita di quel capitano. Costui adunque veggendo allora Pirro che allestito già s’era per pigliar le mosse verso l’Italia, trovatolo disoccupato gli mosse queste parole. Assai bellicosi sono, o Pirro per quel che si dice i Romani, ed hanno sotto di se ben molte genti valorose in combattere: e se pur Dio ne concede di vincerli, a chi servirà una tale vittoria? A questa interrogazione Tu domandi, o Cinea, rispose Pirro, una cosa che è per se manifesta. Soggiogati che sieno i Romani, non sarà ivi nè barbara nè greca nazione veruna che ardisca di farci contrasto, ina avremo subito in nostra mano l’Italia tutta della grandezza, del valore e del poter della quale aver dei tu notizia più che verun altro —. Qui Cinea fermatosi a pensare un poco. — Che farem poi? — E Pirro non comprendendo per anche qual fosse la di lui intenzione. — Ivi presso, rispose, è la Sicilia, che già ci stende le mani, Isola felice e assai popolosa, la quale con [p. 328 modifica]tutta facilità può essere presa. Imperciocchè ora da che mancò Agatocle, essa è, o Cinea, tutta piena di sedizioni, nè v’è chi ne governi la città, e tutto vi si regge dalla sagacità di quegli oratori che piaggiano il popolo. — Ben è probabile, soggiunse Cinea, ciò che tu dici: ma le vittorie su la Sicilia saranno poi termine alla nostra conquista? — Dio seguì allora Pirro, ci faccia pur vincere ed ottenere buon esito e la conquista della Sicilia non sarà se non un preludio di quelle grandi imprese che farem poi. Conciossiachè chi mai tra tener ci potrebbe dal passar di là in Libia e a Cartagine che v’è sì di presso, la quale fu quasi presa anche da Agatocle che si partì di nascosto da Siracusa, e traversò con una flotta di poche navi quel piccol tratto di mare? E quando inpadroniti ci sarem di que luoghi; vi sarà mai chi dir voglia che alcun de’ nemici che ora ci oltraggiano contrastare, ci possa? Questo nò rispose Cinea: imperciocchè ben manifesta cosa è che dopo che acquistata ci avremo così grande possanza ricuperar potremo la Macedonia, e signoreggiare con sicurezza a tutta la Grecia. Ma ottenutosi questo da noi che poscia faremo? — Pirro allor sorridendo, staremo, disse, in un pieno riposo e ce la passeremo, o mio buon Cinea, ogni di fra le tazze e le Muse in liete ricreazioni tra di noi. - Co[p. 329 modifica]m’ebbe Cinea condotto Pirro col ragionamento a questo passo. — E che, disse, che mai c’impedisce ora di passarcela se vogliamo in fra le tazze, e le Muse, e le Grazie, e starcene in riposo fra noi conversando, se già senza darci veruna briga in pronto abbiamo quelle stesse cose per procacciare le quali siam per andare a sparger sangue, a sostenere fatiche, ad incontrar pericoli e a fare e a riportare molti mali? La conclusione del filosofo è veramente calzante, ma è pari a quelle di certi argomentanti che credono di avere sciolta la questione perchè non vedono tutti i nodi primitivi e secreti ne’ quali si avvolge; onde a torto dai moralisti è altamente lodato questo discorso di Cinea; perchè s’egli è ottimo per se stesso ove si guardi assolutamente e per così dire il diritto della filosofia, è non pertanto dannoso ed inutile ove si rivolga praticamente ed al fatto della natura. Perocchè la natura si ride di queste vane prediche ed esortazioni, ed ella che ha stabilito un moto perenne di cosa in cosa, hà anche ab eterno creati gli agenti secondari di questo moto, i quali, come abbiam detto, nelle cose umane sono le passioni degli uomini. Or poichè dunque vi furono e son sempre conquistatori dotati di facoltà e di bisogno di guerreggiare, l’estinguere in essi questa passione [p. 330 modifica]è del tutto inutile impresa. Infatti Plutarco stesso aggiunge che Cinea con la sua filosofia diede piuttosto molestia ed afflizione a Pirro di quello che lo distogliesse dal suo proposito; tuttochè del resto Cinea fosse ed amico caro e familiarissimo di quel re, e il più reputato tra suoi consilieri, e dotato di tanta facondia che Pirro confessava che più città gli avea esso Cinea conquistate con la eloquenza, che egli medesimo con gli eserciti. Ma l’eloquenza non vale contro la natura; bensì l’unico mezzo sarà il secondarla; restiamo sempre fissi nell’idea che ogni uomo ha passioni sue proprie, che o non soddisfacendole mai, o soddisfacendole sino alla sazietà, distruggerebbe l’elemento che la natura gli ha dato quasi per elemento della sua vita.

Parvemi necessario di risalire e di svolgere come feci questo principio onde si veda, che quantunque la ricchezza e la gloria non giovino alla felicità dei letterati, non però si distruggono le lettere nè si ritirano da esse gli ingegni. Bensì s’ha da vedere come tolta la speranza d’esser felici per mezzo delle lettere cercando ricchezze e ambizione, si possa giungere colle lettere stesse all’intento della felicità, che è pur l’unico ed universale e perpetuo sospiro degli uomini. Quel principio, o giovani, [p. 331 modifica]che governò tutti i ragionamenti sì dell’orazione inaugurale, sì delle due lezioni da me datevi su la letteratura, e la lingua, e che governò questi miei discorsi su la morale letteraria, quello stesso principio ci guiderà alla meta che noi cerchiamo, e forse non si vagherebbe in tanti laberinti se si fosse sempre guardato al lume che ne porge. Ed è, che essendo la letteratura, la facoltà di diffondere e di perpetuare il pensiero. facoltà somministrata dalla natura all’uomo per mantenere le tante comunicazioni del suo stato essenzialmente sociale, deve rivolgersi interamente all’ufficio a cui la natura l’ha destinata; cosi crescerà bella e felice, e sarà di ornamento e di prosperità a’ suoi cultori, diversamente quanto più si devierà dal suo intento, tanto più andrà degenerando, e sarà sterile a chi la professa de frutti che prometteva, come appunto le piante più fertili si vanno isterilendo ove siano trapiantate in terreno che non sia proprio alla loro vegetazione.

La natura dunque dice al letterato; io ti diedi la facoltà di divenire eloquente perchè io voglio che tu esercitando le passioni degli altri, diriga la loro ragione; se tu così giungi ad adempire a’miei voleri, e sarai sodisfatto di te medesimo, ed avrai la estimazione e la gratitudine [p. 332 modifica]de’tuoi concittadini; ma colui che invece rivolgesse l’ordine del discorso, e ragionasse così: la estimazione e la gratitudine degli uomini sono cose utili; bisogna dunque procacciarsele perchè avrò per esse danaro, o fama; questi doni s’acquistano coltivando la letteratura, dunque io voglio essere letterato, colui dico che a tal modo rovesciasse il discorso,è chiaro che non avrebbe la mira alle lettere per se stesse e al decreto della natura, bensì al guadagno e alla fama. Or poichè per mille altre arti e passioni o buone o ree il mondo somministra fama e guadagno, è altresi chiaro che quest’uomo mescerebbe alla letteratura ogni specie d’industria e di vizio per ottenere ciò ch’ei desidera, e quindi corromperebbe le lettere e le svierebbe dal loro primo istituto.

Leggesi nei pensieri dell’imperatore Marco Aurelio quest’aureo consiglio ch’ei dava a se stesso. Segui il mestiere a cui ti ha destinato la natura e la fortuna; amalo dacchè l’hai potuto seguire e imparare; usa dei vantaggi reali che egli può dare per se medesimo, e non quelli che i tuoi pazzi desiderii vanno fantasticando; nel resto rimetti tranquillamente, il tuo cuore in tutto e per tutto nelle leggi della natura, la quale se tu la secondi ti benefica giustamente, se tu la sforzi ti punisce. Co[p. 333 modifica]si sottomettendoti alla natura sarai certo di non essere nè lo schiavo, nè il tiranno degli uomini».

La massima filosofica che Marc-Aurelio come imperadore riportava alla politica, il letterato la applichi all’arte sua. Esamini primamente ciò che la natura e la fama domandano da lui; hanno domandato lo studio delle lettere e dell’eloquenza; egli dunque deve seguirlo e impararlo. Ma egli deve esercitarla quest’arte; ci ponga dunque quell’amore conveniente alla dignità dell’arte sua, perchè egli quanto più l’amerà, tanto più crescerà il progresso e l’onore dell’arte e quindi i vantaggi di chi la professa. Ma quali sono i vantaggi, poichè tu di’ che nè alle ricchezze nè alla lode, due cose si desiderate dagli uomini, può felicemente aspirare il letterato; palesa dunque quali sono i vantaggi? Molti, o giovani, e belli, ed onorati. e sicuri, e tali che derivano tutti quanti dalla virtù dell’arte, e non temono minaccia di scet tro, nè ira di sorte, ma tutti stanno ingeniti ed inviolati nel cuore del letterato.

E per procedere logicamente, dividiamo questi vantaggi, che non hanno che fare nè con l’applauso, nè col guadagno, in due specie: la prima quella che si arreca alla società del genere umano, la seconda quella che si procura al proprio cuore. [p. 334 modifica]

Abbiamo assai volte detto che l’eloquenza è l’anima di ogni arte letteraria, dirige le opinioni degli uomini per mezzo delle passioni; fa sentire, e trovare, ed amare la verità rendendola chiara e soave; fa aborrire i vizi ed imitare le virtù dacchè e quelli e queste sono più o meno con perpetua mistura insiti nel genere umano.

Niuno può negare che un letterato ove riesca ad adempiere questi ufficii dell’eloquenza, non porti grande utilità alla patria: e s’è detto che la smodata avidità di danaro, e la libidine di cercar gloria, anzichè giovare all’adempimento di questo nobile ufficio, gli nuoce sommamente, perchè l’avidità fa vendere l’anima del letterato, e l’ambizione lo tiranneggia: ora nè chi è venale, nè chi è schiavo delle sue passioni può degnamente amare, nè drittamante seguire l’arte sua. Bensì colui che, siccome gli altri, aveano per unico fine o la ricchezza, o la fama, così ha invece per unico fine l’amore disinteressato, e l’onore generoso dell’arte sua, riescirà a far sì ch’ella ridondi di vantaggio alla patria. E veramente se vi è gioia nobile e pura sulla terra quella si è certamente, al mio parere, di dilettare e giovare i proprii concittadini, i quali per quanto l’invidia del mondo e la cecità del volgo, e la follia del caso si op[p. 335 modifica]pongono, saranno ad ogni modo liberali di stima e di gratitudine a quello storico, oratore o poeta che ecciterà in essi la cognizione del vero, l’amore del giusto, e i dolcissimi sentimenti della pietà e della virtù. Dunque seguendo unicamente danaro e fama, mal si consegue i vantaggi che la letteratura può somministrare alla patria; seguendo unicamente l’amore dell’arte non solo si reca utilità alla pratica, ma nel tempo stesso si acquista stima e riconoscenza; vero è che tale conseguenza del nostro ragionamento non potrà per avventura soddisfare che assai poco all’assunto di ritrarre l’arte in modo che ci renda meno infelici. Qualcuno dirà che la felicità che noi possiamo procacciare agli altri non è nostra in fine del conto, nè la stima e la gratitudine de’mortali è sempre sicura e si pronta da redimerci dalla povertà domestica e dalla oscurità in cui per alcun tempo giacciono anche gli ingegni più meritevoli.

Questa opposizione ci trae necessariamente a considerare i vantaggi che il letterato può procacciare non solo alla patria, bensì anche a se stesso malgrado l’ingratitudine della fama e del mondo, e cercarsi felicità nella soddisfazione dell’animo.

Uno spirito, o giovani, o per meglio dire un’istinto ingenito, arcano, e che ha un non so [p. 336 modifica]che di divino vive e cresce, e regna nell’anima di tutti noi; cosa siasi, nè parola può esprimerlo, nè mente umana può conoscerlo; vero è che se è in tutti noi non è nè uguale nè simile. Ma questo è l’istinto che crea i pittori, gli oratori, i poeti, gli scienziati, ei filosofi; che rende inquieto affannato, ozioso, infelice l’uomo che lo possiede e non lo seconda; che invece rende soddisfatto, lahorioso, beato colui che gli sacrifica. La barbarie, la superstizione, e la fortuna possono contaminarlo e soffocarlo come i serpenti volevano far d’Ercole nella culla; l’educazione, l’esercizio e lo studio lo alimentano e lo invigoriscono. Questo è il genio a cui ogni uomo dell’antichità, e specialmen te i maggiori e più dotti greci e romani consacravano un’ara domestica per cui solo credevano di poter operare, e per cui giuravano: e Socrate gli avea, com’ei dice, consacrato un tempio nel proprio petto. La natura ha dotato tutti gli uomini di varie tempre, di varie fisonomie, e di vario istinto per fare quell’ammirabile discordia da cui risulta l’armonia sociale. Da queste varietà di caratteri e di tendenze risulta la varietà delle arti; e l’esercizio pieno, libero, felice di un’arte non risulta che da una facoltà apposita, e la facoltà presume i bisogni, ei bisogni non alimentati conducono [p. 337 modifica]se dolore e alla disperazione, come quando sono soddisfatti e nudriti partoriscono un piacere sicuro e una perenne soddisfazione. Così la natura che ci ha creati tutti all’amore e all’incanto inesplicabile della bellezza ci promette mille dolcezze anche nel solo vagheggiarle; ed ogni ostacolo ci affligge, ed ogni privazione forzata e perpetua ci fa smarrire sovente la ragione ed aborrire la vita. L’uso insomma inte ro, liberissimo e sicuro d’ogni nostra facoltà è il piacere maggiore, ed unico forse, a cui la natura ci ha destinati; nè v’è tesoro nè gloria nell’universo che possa pagare il sacrificio di quest’uso. Che se ad un uomo fosse dato per un mirabile artificio d’ali artificiali d’agguagliare il volo dell’aquila, e dominare dall’alto dell’Atmosfera tutta la terra soggetta, a patto però ch’ei rinunziasse all’uso de’ suoi piedi, e che non potesse più movere passo, quest’uomo non sarebbe fors’egli infelicissimo, malgrado la sua prerogativa su gli uomini tutti, dacchè dovrebbe per una facoltà artificiale e straniera ai bisogni ed agli usi della sua specie, perdere una facoltà naturale che quantunque volgarissima e comune a tutti, seconda nondimeno liberamente tutti i moti del suo corpo? Cosi avviene della facoltà d’un arte; l’amarla, il vagheggiarla, l’ono[p. 338 modifica]rarla, è tale compiacenza naturale e perpetuapoter esercitare per essa le forze che la nost natura ha riposte appositamente in noi stessi, è una soddisfazione si generosa e si inviolabile, che per questo solo piacere noi crediamo di essere compensati di tutti i sudori e di tutti i pericoli. E per sentire la verità di questa sentenza basta che ogni uomo rientri in se stesso e si richiami alla memoria le notti spese, gli ostacoli vinti, gl’interessi trascurati, le fatiche inavvedutamente quasi sofferte, le umiliazioni e gli scherni perfino superati, e solo per seguire un lavoro qualunque di scienza, di lettere, o d’arte ch’ei s’era proposto, quantun que nè da ciò si aspettasse lucro, nè si pensasse mai di esporlo alla lode d’occhio vivente, ma solo per compiacere alla forte e secreta tendenza dell’animo suo.

Queste facoltà morali sono proprietà tutte nostre, nè possono esserci violate dagli altri se non le vendiamo vilmente o ciecamente noi stessi; e siccome e per la quantità e per la qualità sono diverse in ogni uomo, così ogni uomo per seguire la natura e ritrarne i piapoceri a cui con questi doni ella lo ha riserbato, deve far l’uso maggiore e più libero delle sue facoltà, e non permettere quindi che le fal[p. 339 modifica]se opinioni del mondo o le lusinghe della fortuna possano in alcun modo incepparle. A questo mirarono que’ versi del Parini nel sonetto diretto all’Alfieri.

          Andrai se te non vince o lode o sdegno
          Lungi dell’arte a spaziar fra i campi;

dacchè in fatti la lode accattata per troppo amore d’applauso dalla timida adulazione degli uomini, e d’altra parte il biasimo pieno di livore con cui l’invidia e la malignità tentano di tiranneggiare gli ingegni sorgenti, sono le prime cagioni per cui molti non fanno nè tutto l’uso, nè il migliore del proprio ingegno, e lo abbandonano o alla mollezza della lode o alla se verità del biasimo.

Ma al nome del Parini la memoria mi riconduce a’ miei anni fuggiti, che pur non sono mai tutti nè fuggiti, nè perduti quando serbiamo come tesoro alcuna utile cosa di quelle che abbiamo imparato a quel tempo. La prima volta ch’io vidi il Parini, e a me allora come dice Antiloco presso Omero:

          Allora a me la Parca
          Il decimo ed ottavo anno filava,

intesi da quel poeta già vecchio recitare un ode che egli avea composta di fresco, ed è la bel[p. 340 modifica]lissima forse fra tutte le altre sue, e v’erano in essa queste due strofe.

I.
A me disse il mio Genio
     Allor, ch’io nacqui: l’oro
     Non fia, che te solleciti:
     Nè l’inane decoro
     De’ titoli, nè il perfido
     Desio di superare altri in poter.
II.
Ma di natura i liberi
     Sensi ed affetti, e il grato
     Della beltà spettacolo
     Le renderan beato,
     Te di vagare indocile
     Per lungo di speranze arduo sentier.
     


E mentr’io stavami intento all’artificio mirabile di questi versi, e alla novità soprattutto dell’ultimo verso ed ardiva lodarli — oh! giovinetto, mi disse, prima di lodare all’ingegno del poeta bada ad imitar sempre l’animo suo in ciò che ti desta virtuosi e liberi sensi, ed [p. 341 modifica]a fuggirlo ov’ei ti conduca al vizio e alla servitù. Lo stile di questa mia poesia è frutto dello studio dell’arte mia, ma della sentenza che racchiude, devo confessarmi grato all’amore solo con cui ho coltivati gli studi, perchè amandoli fortemente e drizzando ad essi tutte le potenze dell’anima, ho potuto serbarmi illibato ed indipendente in mezzo ai vizi e alla tirannide de’mortali: — Ed un’altra volta richiedendolo io in che consistesse la indipendenza dello scrittore risposemi: — A me par d’essere liberissimo perchè non sono nè avido, nè ambizioso; — Così forse il seme che quel grand’uomo sparse nel mio cuore fruttò le sentenze di cui ho tessuto questi discorsi.

Ma io vi ho dianzi parlato di fatiche e di veglie, e di pericoli, e di servitù a cui il letterato che non coltiva gli studi se non per obbedire al proprio genio, e per procacciarsi la soddisfazione ne!l’animo, è spesse volte soggetto. Nè io voglio illudervi: non solo è spesse volte soggetto, ma sempre, e da ogni umana vita ed azione la fatica e il dolore e i pericoli sono inseparabili. Così ordinò la natura che rattempra la luce con le tenebre, e la primavera col verno, e la gioia con la tristezza, stabili questa eterna ed incomprensibile vicissitudine di tutto quello che esiste. Ma con [p. 342 modifica]somma provvidenza appunto questa madre universale ordinò che tutti i mali annessi alla natura delle cose; e necessari al loro fine sieno non solo riparabili spesso, ma talora comportabili e dolci. Però vediamo le madri benedire i dolori senza de’quali non potevano stringere al loro petto un figliuolo, e vigilare le notti intere alla sua culla per procacciargli poche ore di sonno, e sacrificare e sostanze, e bel tà, e giovinezza, e salute per liberarlo dalle infermità e dalla morte, e sì questi dolori sono reputati dolci e onorati, che non tanto stimiamo la madre che li tollera con rassegnazione, quanto aborriamo come snaturata ed infame colei che al sentimento di altra passione, e sia pur nobile ed utile quanto mai, pospone gli affetti e i doveri di madre. Chi dunque è creato ad un’arte, non può mai dolersi de’mali che le sono annessi necessariamente; bensi dovrà ad ogni modo non accusare che se medesimo s’ei non li tollera, e se anzi non si giova di essi onde progredire nell’arte sua dalla quale soltanto la natura li comandò di sperare ogni soddisfazione dell’animo. E veramen te se v’è mortale che abbia da ringraziare la natura dei compensi ch’ella mesce a’mali necessari dell’arte a cui lo ha destinato, è certa[p. 343 modifica]mente il letterato, e niuno quanto il letterato merita taccia d’ingrato e di cieco s’ei non profitta di questi compensi. Poichè l’arte sua che riguarda perpetuamente le opinioni e le passioni degli uomini, che lo costringe ad osservare attentamente i moti del proprio cuore, e quelli degli altri, onde sapere come usar meglio dell’eloquenza, che lo inoltra nella storia del genere umano, nelle sciagure, negli errori, nei pentimenti di tutti gli uomini, che in una parola necessariamente gli fa vedere le sorgenti di tutte le nostre passioni, e il caso di tutta l’umana fortuna, gli somministra per queste vie i due mezzi più possenti a rinvigorire la sua ragione, l’esperienza ed il paragone. Queste due armi da cui è nudrito l’intelletto di tutti i mortali sono per la necessità dell’arte in esercizio perpetuo nella mente del letterato, e niuno meglio di lui può imparare a maneggiarle utilmente.

Egli allora vedrà che la sventura non è terribile Dea se non per que’mortali superbi che cercano di trascendere i limiti della natura a cui niuna possanza e niuna felicità sembra bastante, e quasi certissimi di vivere eternamente e di non discendere mai nel sepolcro, si querelano della natura e vorrebbero vincere [p. 344 modifica]le sue leggi. Ma allora la natura togliendo ad essi la vita della passione che li alimentava con quella mistura di un perpetuo piacere e dolore, non fa loro sentire se non l’impotenza dell’uomo, e l’amarezza e la vanità, e in fine la sazietà. Augusto dopo aver sottomessi i suoi concittadini e riportate le spoglie contese prima da Silla, da Mario, da Pompeo, da Cesare, da Bruto e da Marc-Antonio; dopo avere dominato per quarant’anni il più colto e il più popolato e il più potente degl’Imperi che abbiano mai esistito, e che esisteranno forse nel mondo, credevasi superiore alla natura e alle sue vicissitudini: perdè alcune legioni in Germania. Allora sdegnandosi d’esser’uomo e soggetto alle leggi comuni, sentì tutta la vendetta della natura. Percoteva la testa nelle pareti e riempiva il suo vasto palazzo di strida ridomandando le legioni sterminate di Varo. Quand’ anche avesse vinto tutti i suoi nemici, a che gli avrebbero giovato que’ suoi trionfi? I suoi più cari amici cospiravano su l’are domestiche contro la sua vita; ed egli s’era ridotto a piangere le infamie e la morte de’ suoi più stretti congiunti. Sciagurato! voleva governare il mondo, e acciecato da quest’ambizione, non seppe governare nè il suo proprio [p. 345 modifica]cuore, nè la propria famiglia. Negligenza fatale che la Dea sventura puni sul più splendido dei troni. Egli vide perire sul fior degli anni il suo nipote, il suo figlio adottivo, il suo genero: il suo nipote dal lato di figlia mangiò la lana del suo letto ov’ei giaceva in catene per prolungare alcune ore d’una misera vita: la sua figlia e la sua nipote dopo averlo coperto d’oscenissima macchia, morirono l’una di miseria e di fame in un’isola deserta, l’altra in carcere per mano di uno sgherro.Egli stesso infine, Augusto, videsi ultimo avanzo di una grande e sterminata famiglia; avanzo cadente, decrepito, abbandonato da tutti i suoi cari; e la moglie che gli restava non gli restò che per costringerlo nell’ora dell’agonia a lasciare un mostro per suo successore nell’imperio del mondo. Terribile Divinità dun que è la sveatura per gli uomini che alle sue prime lezioni non vogliono profittarne, e che non s’ammaestrano per mezzo dell’esperienza che i casi di tutti gli uomini e delle terrene vicende somministrano alla nostra ragione. Onde con profonda e santa filosofia cantò un poeta che la sventura è la figliuola primogenita di Giove, mandata su la terra ad istituire con dolcissimi affanni la virtù, e a punire inesora[p. 346 modifica]bilmente la follia e la superbia degli uomini. Se dunque, o giovani, volete ricavare il solo diletto che puro ed invidiabile può darvi la letteratura, giovatevi dell’esperienza e della filosofia. Quando uno scrittore è giunto a toccarvi d’ammirazione, a persuadervi l’anima a’ sentimenti più cari e più nobili dell’umanità, leggete la sua vita. Percorrete così la prosperità e la fortuna, gli errori e i meriti morali dei grandi ingegni, e la filosofia che li aiutò a divenire grandissimi artefici ed uomini ad un tempo meno infelici. E più ch’altri gli scrittori della nostra patria, di cui e con più fiducia potrete leggere le memorie storiche, e meditarle con più amore. I sommi scrittori vi saranno specchio di questa verità, che la morale letteraria è l’unico conforto degli scrittori.

L’infelice Torquato credeva che la grazia o lo sdegno del principe e de’ suoi cortigiani potessero accrescergli o scemargli i mezzi necessari alla sua vita, credeva che il plauso o il biasimo di alcuni letterati invidiosi e ciechi potessero influire alla sua gloria. Ah! se avesse pensato alle lagrime che il suo poema facea versare su l’amore d’Erminia, e su le ceneri di Clorinda; a’sensi eroici ch’egli eccitava con le virtù di Tancredi e di Solimano; [p. 347 modifica]alla voluttà che ispirava colla pittura d’Armida, a tutta l’armonia dell’architettura, de’ caratteri, delle passioni, e dello stile di quel poema; se con questo pensiero si fosse poi nella sua coscienza confermato che egli aveva virilmente adempito a tutti i doveri dell’arte sua, l’infelice Torquato avrebbe egli strascinata si deplorabile vita? Sarebbe vissuto più povero di quello ch’ei visse?A che gli giovò la paura di perdere il favore del Duca? questa paura fu rimunerata colla prigione. A che dolersi dell’-ingratitudine del mondo? Doveva egli non prevederla, non conoscerla, non tollerarla con sublime rassegnazione? A che piangere perchè i suoi nemici non gli lasciarono un’ora di tranquillità? Ma questi nemici non erano gente, o ignorante, o abietta, o cieca nelle loro turpi passioni? Non avevano per armi l’invidia, la malignità, la venalità, la menzogna, l’impostura, l’adulazione? E non era tutta colpa di quel grande e poco prudente intelletto s’ei concedeva che la sua pace fosse in balia di sì fatti perversi? Afliggendosi per le loro persecuzioni li lasciava in loro potestà la dignità e le forze della sua ragione. Petrarca invece dominato anch’egli dallo stesso amore infelice, che fu anche la secreta cagione della pas[p. 348 modifica]sione del Tasso, lo rivolse all’arte sua, e con questo mezzo trovò sfogo e compenso a quella passione, ed eccitò negli uomini presenti e futuri, que’dolci ed ardenti affetti che gli viveano nel cuore. L’Ariosto vissuto anch’egli in tempi ingiustissimi ed in una corte sì maligna da vedersi trattare d’inezie e da fole il suo libro da uno de’ suoi principi, non amò tanto la ricchezza e l’applauso da trascurare la soddisfazione dell’animo ch’egli riponeva nella indipendenza delle sue opinioni e dell’arte sua: onde quando il Cardinale promettendogli maggiori emolumenti e lo splendore della corte, egli negò di seguirlo, dicendo che i primi emolumenti erano quelli dell’animo, e ch’egli dovea mantenersi libero nell’arte sua da cui solo sperava onore, e si professa di restituire anche quel poco che gli dava il principe se con questo poco che lo salvava dalla povertà si credeva di tenerlo in servitù.

Se avermi dato onde ogni quattro mesi
     Ho venticinque scudi, nè si fermi,
     Che molte volte non mi sian contesi,
Mi debbe incatenar, schiavo tenermi;
     Obbligarmi ch’io sudi, e tremi senza
     Rispetto alcun; ch’io muoia, o ch’io m’infermi
Non gli lasciate aver questa credenza:

[p. 349 modifica]

     Ditegli che piuttosto ch’esser servo
     Terrò la povertade in pazienza.
Or conchiudendo dico che se il sacro
     Cardinal compensato aver mi stima
     Con i suoi doni; non m’è acerbo ed acro
Renderli e tor la libertà mia prima.

Giovatevi dunque, per trovare le vie più sicure alla soddisfazione dell’animo, giovatevi dell’esempio dei grandi uomini. Le loro sventure vi sieno di norma, la loro filosofia vi sia di consiglio. Ma vuolsi soprattutto una grande e ferma costanza di mente ne’principii che si sono dopo molto studio adottati; quella costanza che preservò i grandi uomini nelle persecuzioni e nelle sventure inseparabili dalla vita. Locke, ch’io vi descrissi ieri l’altro perseguitato, calunniato, esiliato, visse nondimeno riposato e soddisfatto nell’animo, perchè come dic’egli, non gli parea d’aver seguito se non se la verità e la propria coscienza.

Così si può dire che l’allontanamento dagli adottati principii, e l’errare di opinioni in opinioni, e di perplessità in perplessità è la causa più crudele de’nostri mali. Il grande Newton che si era prefisso di non arrendersi se non alI evidenza, del calcolo e della ragione, e che con questo proponimento aiutato da un inge[p. 350 modifica]gno straordinario salì tant’alto nelle scienze, vinto dall’orrore sacro della religione s’immerse nelle dottrine teologiche ove nè calcolo, nè ragione umana possono più affidarci e guidarci. Commentò l’Apocalisse, e il mondo gli perdonò il ridicolo, rispettando anche la debolezza di quel sommo capo. Ma Newton anche negli ultimi anni vagando di superstizione in superstizione, s’atterri del sepolcro, e girava per le strade da morto in una carrozza ov’erano dipinte le ossa ed il teschio della morte. Nè la somma opulenza acquistata coll’onestà, nè la gloria immortale frutto del suo ingegno valsero a farlo felice, dacchè gli mancò la costanza ne’suoi principii. Tale è la diversità de’dolori e de’pericoli che essendo annessi all’arte nostra, naturalmente non possono se non eccitarci allo studio e alla passione dell’arte, dolori che noi perpetuamente ci andiamo procacciando assoggettandoci alla falsa opinione del mondo. Cantiamo dunque con Pindaro: fu già un tempo che un vile interesse non contaminava la poesia: ma quanti oggi sono abbagliati dallo splendore dell’oro: ingrandiscono i loro poderi si che l’aquila giri a fatica col suo volo intorno ad essi per l’intiero corso di un sole. — ∞ Ma non potranno dire al pari di me: le mie parole non [p. 351 modifica]sono mai lontane dal mio pensiero: amo i miei amici; odio i miei nemici, perchè amo la virtù e detesto la turpitudine: ma io non combatto i nemici coll’armi della calunnia e della satira. L’invidia non impetra da me che un disprezzo umiliante: io mi vendico si, mi vendico abbandonandola all’ulcera che le mangia la metà del cuore. Nè mai il gracchiare del corvo timido arresterà il volo dell’uccello ministro de’Numi, che traversa rapidamente le vie del sole. In mezzó al flusso e riflusso delle gioie e dei dolori che s’aggirano intorno al capo dei mortali chi può lusingarsi d’una costante prosperità? Io ho rivolti gli occhi intorno; ed accorgendomi che si è più felici nella mediocrità, ho compianto il destino de’ potenti ed ho supplicato gli Dei di non opprimermi sotto il peso di sì invidiata felicità. Io viaggio per semplici vie, contento del mio stato, riconoscente all’ingegno che i Numi mi hanno abbellito: amato da’ miei cittadini, ogni mia religione è riposta nell’usare degnamente dei doni del cielo; ogni mia gloria sta nel piacere che i miei versi recano agli uomini ed a me stesso; ogni mio piacere nel palesare liberamente ciò che mi sembra bello o nefando. Cosi m’avvicino alla ricchezza. Me beato se io giunto ai neri con[p. 352 modifica]fini della vita lascerò a’ miei figliuoli e alla patria la preziosissima eredità di ricordarsi di me palpitando di desiderio e di riconoscenza. —

Ed ecco omai col termine di questo discorso terminata anche l’occasione ed il tempo di vivere in mezzo a voi; e certamente si agiata indipendente e tranquilla è la vita del professore nelle università, si nobile l’impiego di educare all’eloquenza e all’amore della patria la gioventù, si glorioso l’essere reputato cultore di quegl’ingegni che promettono di onorare un giorno l’Italia e di arricchire la vera e lodevole letteratura, ch’io se non avessi mirato che alle utilità degli agi e della gloria dovrei reputarmi infelice da che perdo imprevedutamente e ad un tratto gli emolumenti e l’onore che potessi sperar mai dagli studi. Ma perchè dopo molte e sventurate esperienze, dopo la osservazione di tutti i secoli, dopo mille lusinghe, mille perplessità, mille traviamenti della gioventù ho in tempo veduto che tuttociò che dipende dagli uomini e dall’accidente può esserci causa di piaceri e dolori di cui non possiamo essere a nostra posta regolatori e padroni, io ringrazio il genio e le lettere perchè mi hanno mostrata un’altra via la quale per mezzo degli studi può condurre ad un porto più onorato [p. 353 modifica]e sicuro. Onde giacchè non mi fu lasciato nè mi sarà forse ridato mai di porgervi mezzi da conseguire le arti letterarie, mi consolo almeno di avervi secondo la mia esperienza offerti quelli con che possiate schivare i danni che avvengono nell’esercizio delle arti, ed acquistare que’beni che soli si possono sperare incontaminati e sicuri. E ringrazio voi che li avete uditi con tanta attenzione, ed aggiungo questa preghiera: — Ripensate talvolta da voi medesimi a queste verità che vi ho palesate, avvaloratele di giorno in giorno col vostro ingegno, confermatele colla vostra esperienza, e se oggi vi sono sembrate asperse di rigida e cruda filosofia, vi appariranno un di e col crescere dell’età necessarie ed uniche alla utilità delle lettere e della vita. Ma tolga il cielo che voi dobbiate giungere a questa cognizione per gli aspri, lungi e ciechi sentieri per cui molti altri vi giunsero; e non trovarono se non nella vecchiaia quella pace e quella soddisfazione dell’animo che prima credevano riposta nelle ricchezze e nella fama, per le quali tanto si affannarono, tanto errarono, tanto piansero nella gioventù e nel vigore dell’età virile. — Tuttociò ch’io su questo soggetto ho potuto dirvi può essere in tempo di liberarvi da siffatta [p. 354 modifica]sventura e di far sì che voi non acquistiate una tarda saviezza al costo d’un inganno prematuro.

Ascoltate dunque la mia preghiera, e ripensate da voi stessi a ciò che in queste tre ultime lezioni vi ho detto: voi aggiungerete così ragioni alla mia gratitudine, se pure v’è caro il pensiero ch’io benchè disgiunto da voi possa esservi legato se non altro con la riconoscenza e l’amore. E certamente un nodo più sicuro e più stretto sarebbe stato quello dell’unione ne’ principii dell’arte; perocchè nè le fazioni delle scuole, che attizzano inimicizie tra i cultori della letteratura nè la diversità delle opinioni che, benchè frivole per se stesse, sono sovente gravissime e micidiali ne’ loro effetti avrebbero potuto frapporre omai alcuna lite fra voi e me, ed io acquistando sempre maggior speranza, e maggiore stima di voi, e voi maggiore fiducia verso di me, la nostra unione sarebbe stata infrangibile e sacra. Ma questo omai non mi è dato e poichè il miglior uso della letteratura si è quello di rivolgerla alla costanza dell’animo, noi acquistando colle lettere questa virtù sosterremo virilmente la presente disavventura, e in qualche modo la compenseremo se voi tutti ed io cercheremo almeno l’unione [p. 355 modifica]ne’ principii della morale letteraria, rivolgendo sempre gli studi all’amor della patria, all’indipendenza dell’opinione, ai nobili affetti del cuore, e alla costanza della mente. Ed io vi prometto che siccome non mi sono mai dipartito da questa morale, cosi il desiderio di esservi in alcuna maniera congiunto farà si che io non mi smuova da questo santo proponimento; ed oggi sarei più reo che mai se l’abbandonassi; da gran tempo la fortuna ed io ci siamo esperimentati, e se ella m’ha talvolta ferito non dirà certo d’avermi mai vinto.

Or dunque vivetevi lieti e memori talvolta di me, com’io non potrò mai dimenticarmi di voi, seppure non mi dimentico delle lettere e della patria, alle quali solo sono pur debitore; e l’anima mia benchè spesse volte agitata non è almeno inondata da turpi e sciagurate passioni. Amiamo dunque le lettere per questo frutto che ci somministrano, frutto non soggetto ad esserci carpito dalle usurpazioni della fortuna, nè corrotto dalla umana malignità; seguiamo la natura appigliandoci veementemente all’arte a cui ci ha destinati;seguiamo la filosofia rivolgendo quest’arte alla nostra propria prosperità. Acquistiamo la ricchezza dell’animo, e con essa sapremo usare delle ricchezze se l’arte nostra ce le potrà procacciare con [p. 356 modifica]onestà; o sapremo almeno far senza di esse e tollerare nobilmente la loro perdita. Acquistiamo la stima di noi medesimi, fuggiamo ogni rimorso di delitto, ogni vergogna di vizio, e saremo sicuri della stima pubblica; che se fossimo malignati da chi non ci conosce saremo certamente lodati e compianti da coloro che hanno diviso con noi le sorti della vita e gli affetti del cuore; la nostra gloria non sarà splendida, ma la nostra memoria sarà sacra.

La somma di questo argomento che abbiamo volto in tre lezioni si è che le passioni sono agenti perpetui nell’uomo; che da queste passioni derivano le arti, che le arti offrono vari vantaggi e vari danni. Che i vantaggi inerenti ad ogni arte, non derivano che dalla natura dell’arte stessa, e sono sacri, puri, liberi per l’uomo che la professa, che i vantaggi accessori non derivando che dalla natura dell’arte; non dal commercio delle opinioni nella società, sono incerti e caduchi. Che per conseguenza la letteratura avendo per vantaggio inerente la soddisfazione dell’animo, è l’unico a cui si deve mirare nell’esercizio dell’arte; che la ricchezza e la gloria essendo vantaggi accessori e dipendenti dagli uomini e dal caso non devono prefiggersi per unica meta. In se[p. 357 modifica]condo luogo i mali che accompagnano ogni arte come in tutte le cose, sono anch’essi o naturali o acquistati; i mali acquistati non hanno vigore nelle forze unite all’arte, e quindi sono anch’essi in balia della malignità degli uomini e della fortuna. I mali naturali hanno il compenso nell’arte stessa, e il consolarcene dipende da noi e dalla nostra esperienza; questi dolori sono utili lezioni quando siano susseguiti da una ragione proporzionata; sono colpi per cui la passione si rialza con più energia. Così la sciagura non che utile è insieme inerente alla natura dell’uomo. ed unita colla forza dell’anima perchè ella ha allora in se stessa le molle della ragione.