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a fuggirlo ov’ei ti conduca al vizio e alla servitù. Lo stile di questa mia poesia è frutto dello studio dell’arte mia, ma della sentenza che racchiude, devo confessarmi grato all’amore solo con cui ho coltivati gli studi, perchè amandoli fortemente e drizzando ad essi tutte le potenze dell’anima, ho potuto serbarmi illibato ed indipendente in mezzo ai vizi e alla tirannide de’mortali: — Ed un’altra volta richiedendolo io in che consistesse la indipendenza dello scrittore risposemi: — A me par d’essere liberissimo perchè non sono nè avido, nè ambizioso; — Così forse il seme che quel grand’uomo sparse nel mio cuore fruttò le sentenze di cui ho tessuto questi discorsi.

Ma io vi ho dianzi parlato di fatiche e di veglie, e di pericoli, e di servitù a cui il letterato che non coltiva gli studi se non per obbedire al proprio genio, e per procacciarsi la soddisfazione ne!l’animo, è spesse volte soggetto. Nè io voglio illudervi: non solo è spesse volte soggetto, ma sempre, e da ogni umana vita ed azione la fatica e il dolore e i pericoli sono inseparabili. Così ordinò la natura che rattempra la luce con le tenebre, e la primavera col verno, e la gioia con la tristezza, stabili questa eterna ed incomprensibile vicissitudine di tutto quello che esiste. Ma con