Della morale letteraria/Lezione II

Lezione II. Della letteratura rivolta unicamente alla Storia

../Lezione I ../Lezione III IncludiIntestazione 7 novembre 2024 75% Da definire

Lezione II. Della letteratura rivolta unicamente alla Storia
Lezione I Lezione III
[p. 282 modifica]

LEZIONE II.

Della Letteratura rivolta unicamente alla Storia

Abbiamo nella prima lezione stabilito questo fondamento: che tutte le arti s’hanno a dirigere alla utilità di chi le professa. Abbiamo dimostrato che l’utilità delle arti a chi le professa non risulta che dal commercio sociale: onde ognuno cambia le proprie facoltà fisiche e morali, o il loro valore assolato o relativo, col valore delle merci possedute dagli altri: questa perpetua circolazione cospira al nutrimento, al calore e alla vita di tutta la società. Abbiamo detto che le arti letterarie [p. 283 modifica]riguardano direttamente le passioni e le opinioni della società, e che quanto più il letterato riscaldando il cuore e allettando l’immaginazione governa la ragione degli uomini, tanto ha maggiore capitale da poter trafficare a proprio vantaggio. Questo prodotto del capitale letterario s’è diviso in tre specie diverse I.

Agi della vita; II. Gloria del nome; III. Soddisfazione dell’animo. le sue S’è inoltre veduto che questi tre prodotti non possono conseguirsi tutti ad un tempo. S’ha dunque a scegliere e s’ha per conseguenza ad esaminare. Abbiamo esaminata la prima specie di traffico, cioè della letteratura con la ricchezza, e ridottasi la questione a minimi termini apparve che la letteratura ove sia drizzata unicamente ad essere cambiata per oro sarà rare volte di profitto e d’onore a chi la professa. Però che la letteratura avendo per naturale istinto di esercitare le passioni, e d’illuminare le opinioni, mancherebbe al suo istituto perchè non potrebbe adulare se non le passioni e le opinioni di que’pochi che possono somministrare danari e favore. Or questi pochi sono per l’eterno destino della società in lite perpetua con la universalità degli uomini; e nel tempo stesso l’esperienza mostra che non [p. 284 modifica]sono nè i più docili, nè i più giusti tra i cittadini d’una nazione; al letterato per conseguenza non rimarrebbe che di scrivere seguendo le passioni, le opinioni e i capricci di questi pochi; e però chi scrivendo ha per unica meta il danaro trascurerà l’utilità universale, e così perderà la fede pubblica, ed acquisterà nel tempo stesso servitù di cuore, di pensiero, e di vita.

Or la servità nuoce alla letteratura, il che ben vide Omero quando cantava nell’Odissea: Giove scema la metà del vigore e della virtù agli uomini nel giorno stesso ch’ei cominciano a menare vita servile. Nuoce anche alla umana felicità perchè non v’è nè più cara, nè più sacra, nè più necessaria cosa a’mortali quanto la libertà de’ moti del cuore, e la magnanima indipendenza della mente; e più nelle lettere. Alla perdita della libertà s’aggiunge quella del pudore che è il più nobile e mite freno degli animi nostri; e non può certamente esser lieto dell’arte sua chi per mezzo di essa acquistando da un lato danaro, perde dall’altro la stima dei suoi concittadini; ragionamenti da’ quali si è conchiuso, che chi studia per danaro non può riuscire buon letterato, e quand’anche pur vi riuscisse, non troverà la felicità alla quale aspirava. Or perchè da noi cercasi di rivolgere [p. 285 modifica]la nostr’arte al profitto migliore della vita nostra, e avendo conosciuto che a ciò i letterati non giungono mercando oro e favore co’loro studi, vediamo se possono sperare utile migliore ove aspirino alla seconda specie di guadagno, che noi abbiam detto essere quello della gloria. E veramente o giovani, soave cura è quella con cui l’amore della gloria porge le merci più generose, e l’impazienza e vanità di questa passione è così mista di compiacenza secreta e di nobiltà, che quantunque sia forte la passione più feconda di false speranze, vive non pertanto più permanente di ogni altra nelle viscere umane, e cresce cogli anni, ed alimenta l’ingegno nel languore della vecchiezza, e lo ristora nella infermità delle forze, e lo anima ne pericoli, e lo consola della rapidità della vita e della certezza della povertà e della morte.

Ma qui si tratta se questa passione di fama giovi alla generosa e libera vita, e se la letteratura ove non cerchi che la sola riputazione possa rendere in alcun modo meno infelice colui che le consacra tutte le forze e tutti i pensieri. Al che mi pare di potere decisamente rispondere che questo guadagno della gloria non riesca a menomare nè di un atomo pure la nostra infelicità, e che anzi la fomenti in tal modo [p. 286 modifica]che molte altre passioni le quali sono inerenti all’amor della fama, e molte disavventure, e moltissime noie insociabili dall’ambizione, amareggino ed accorcino piuttosto la vita, e non lascino per solo conforto se non se la speranza di trovare sotterra quella tranquillità che vanamente si è cercata nel mondo; la qual mia sentenza perchè si mostri anche a voi così ragionevole quale si presenta nel mio pensiero, io continuerò nel metodo, dell’antecedente lezione.

Abbiamo allora considerata la letteratu ra rivolta principalmente ed unicamente all’acquisto della ricchezza. Ora consideriamola rivolta principalmente all’acquisto della gloria. Egli non può negarsi che quanti storici, oratori, e poeti pervennero a lasciar tanta riverenza e tanta riconoscenza, ed amore di se medesimi nella memoria de’ tempi e de’ popoli tutti furono mossi dall’amore della gloria; ma è ad un tempo innegabile che dove si percorra attentamente tutto il viaggio della loro vita tra le opinioni e le passioni de tempi, si conoscerà che la loro gloria presso i posteri non è infine del conto se non se il risarcimento degli affanni, e della persecuzione che ebbero a sostenere dall’invidia, e dalla cecità de’ loro contemporanei. E ove pure mi si opponesse [p. 287 modifica]l’esempio del Petrarca e di tant’altri che furono venerati a’loro tempi, e godono altissima fama nelle generazioni de’ posteri, due ragioni s’hanno a rispondere: primamente che pochi hanno in sorte indole naturale pari a quella di que’ pochi grandi che associarono alla contentezza della vita la celebrità del nome; e per questa ragione parmi che gli esempi arrecati non servano tanto alla regola generale, quanto alla eccezzione: in secondo luogo (e questa è ragione radicale) che gli uomini celebri allegati, e specialmente il Petrarca, non hanno goduto di qualche contentezza, libertà, e tranquillità di vita se non appunto perchè la gloria non fu l’unica loro mira, nė la perpetua e prepotente passione dominatrice del loro pensiero, bensi perchè rivolsero i loro sensi alla nobiltà dell’animo, e si armarono delle lettere contro le turpi passioni e contro l’ignoranza del volgo de’ potenti e i capricci della fortuna. Però se noi divagheremo dal nudo soggetto, e lo adombreremo di questioni secondarie, difficilmente giungeremo a conoscerlo: giova dunque ripetere che s’hanno a considerare gli uomini letterati come unicamente aspiranti alla celebrità, sacrificando per conseguenza, a questo desiderio tutti gli altri beni [p. 288 modifica]della vita e questa non è ipotesi metafisica, bensì idea generale composta da infinite esperienze di fatto siccome apparirà dal processo del nostro esame.

Il desiderio di fama non può per se stesso rendere meno misero l’uomo letterato, per certe cause potenti, ed inerenti alla natura. La gloria è desiderio inestinguibile, che pari all’amicizia si accresce di ardore e di forza quanto più si alimenta. Inoltre è soggetto a’confronti, e a’ confronti palesi: e quanto più l’uomo aspira ad avanzare in riputazione, e quanto più avanza, tanto più si vedrà minor della fama di tanti e tanti altri che per più corso di tempo, e per maggiore fortuna o valore d’ingegno ebbero ed avranno sempre maggiore celebrità. Nè le umane passioni hanno pur troppo, o giovani, maggior flagello di quello della rivalità, la quale genera il verme vile, secreto, maligno dell’invi dia, l’umiliazione del confronto, e finalmente il terribile e l’ultimo de’mali dell’uomo, la disperazione cioè di poter soddisfare le proprie più care e più necessarie passioni. A queste cause che rendono infelice chi coltiva le lettere per sola avidità di fama, s’aggiunge il disinganno che sovente sparge di tenebre e di timori e di fastidio tutto lo splendore, tutta la superbia, e [p. 289 modifica]tutte le fatiche di chi dopo aver sudato per molti anni e vegliato, dopo aver sacrificato alla gloria le comodità della vita, la pace domestica, e spesso la stima vera e reale de’propri concittadini, s’accorge finalmente che la fama sua non è che rumore nel mondo. E di questo disinganno sono pieni i libri de’ più celebri e più gloriosi letterati; e Dante che pur visse infelicissimo, bastandogli di consolazione nelle persecuzioni, di nutrimento nella indigenza, e di rifugio nell’esilio il fuoco e la casa magica della gloria, esclamò spesso:
Ahi che il mondan rumor non è che un fiato

          Di vento, che or vien quinci ed or vien quindi
          E muta nome perchè muta lato.

E il Petrarca ne’ trionfi scritti quando rivoltosi in età più matura alla filosofia, si toglieva dagli occhi quel velo che aveva sì dolcemente illusa la sua gioventù tra gli studi, cantò con dolore:

     Ah ciechi! il tanto affaticar che giova?
          Tutti torniamo alla gran madre antica
          E il nostro nome appena si ritrova.

Per questo disinganno vediamo nella storia letteraria tanti uomini, che pur poteano lusingarsi di vera ed utile gloria, e che nondimeno dopo i primi e nobili tentativi si rimasero da [p. 290 modifica]ogni lavoro ed anteposero di vivere ignoti, benchè forse nell’ozio e nell’oscurità non trovarono la contentezza e la pace a cui si modestamente aspirarono; perocchè sembra decreto eterno, universale, immutabile della natura che nel cuore di tutti gli uomini corra perennemente il torrente d’una passione la quale mantenga il moto e la vita; e questo torrente è più impetuoso e più pieno quanto più sono elevate, vigorose ed attive le facoltà morali degli individui. Il danno peggiore che a noi possa fare la filosofia si è quello di svelarci le vanità della vita, di elevarci a contemplazioni nel cui laberinto noi dobbiamo necessariamente perderci, abbagliati dallo splendore delle cose superiori all’uomo, ed acciecati e atterriti dall’oscurità universale della natura; e finalmente avviliti dall’ostinato e perpetuo silenzio con cui l’universo risponde sempre alla nostra infaticabile ed altera curiosità. A quest’ingegni maggiori degli altri, e maggiori per loro sventura, si squarcia il velo dell’illusione, per cui vedono unicamente il silenzioso e sterile e interminabile campo del disinganno, ove nè fragranza di voluttà, nè incantesimo di natura può mai ministrare consolazione veruna. Quindi quel funereo pirronismo nel cui regno quando una [p. 291 modifica]volta dopo lungo viaggio di meditazione s’è giunti, non è più possibile di sottrarsi; quindi il silenzio delle passioni e la noia di tutte le cose; quindi si spiegano le cause del suicidio di tanti filosofi dell’antichità, i quali lo consumarono non tanto per lo spavento delle umane sciagure, quanto per fatale convincimento dell’inutilità della vita. Allora anche la gloria a cui tanto pur si anelava negli anni della gioventù, appare non più sopra il carro illuminato del sole da milioni di secoli, ed applaudita dal canto d’infinite generazioni, ma bensi come scheletro nudo, muto, a cui si applica un nome qualunque: e in vero qual mai differenza tra un nome ed un altro? sono tratti di penna, suoni di voce, segni d’arbitrio. L’istoria ci tramandò tre Socrati, cinque Platoni, otto Aristoteli, sette Senofonti, venti Demetrii, venti Zenoni, due Sallustii, Conone astronomo e matematico illustre Conone storico illustre, eppure è ancora indeciso se questo nome è il senso che vi si associa abbia ad attribuirsi a due persone o ad una sola; nè con quale distribuzione nè con quanta equità. Oltre queste considerazioni che affliggono sovente l’immaginazione, e precidono a mezzo volo il corso de’ grandi intelletti, sono anche amareggiati più spesso dalla [p. 292 modifica]cieca ingiustizia degli uomini. E come mai il poema del paradiso perduto doveva lusingare Milton di tanta immortalità, come consolarlo delle sue tante sventure nella vecchiezza, se poichè l’ebbe scritto e stampato, niuno emolumento trasse dallo stampatore, niuno applauso dal pubblico, niuna fama, niun suono insomma di lode? Rimasesi quel divino poeta nel lungo esilio, cieco, povero, allontanato da una moglie a cui egli non potè perdonare la infedeltà, abbandonato da’ suoi concittadini per l’indipendenza de’ quali egli aveva con arditissimo cuore affrontati danni e pericoli, dimenticato dall’universo; e trent’anni dopo che egli consunto dall’afflizione e dalle infermità ebbe pace sotterra, ov’ei scese con l’amara certezza di seppellire nella medesima fossa il suo nome, trent’anni dopo sfolgorò la gloria dėl poema di Milton... ma Milton giacevasi cenere fredda, insensibile; i sacri occhi chiusi in notte eterna non potevano più essere compensati delle lacrime che avevano si lungamente versato su le persecuzioni e la ingratitudine dei mortali. Camoens, che nella Lusiade.diede un nobilissimo poema epico al Portogallo e all’Eu ropa, visse poverissimo e ramingo tra i naufragi e le carceri; il suo cuore che aveva tanto [p. 293 modifica]palpitato e tanto sentito per versare un tor rente di piacere e d’affetto nell’anima degli altri uomini, il cuore di Camoens cessò di battere sul letto di uno spedale. L’infelice Torquato che nell’ultima sua lettera scritta nell’agonia dicea ch’ei vedeasi giunto mendico alla sepoltura, vedeva almeno nel tempo stesso la corona che Roma gli aveva preparata; vedeva gli applausi d’Italia, e la morte stessa che spargeva cipressi ed allori su le vie d’onde fra poco dovea passare il suo funerale. A queste miserie irrimediabili e qual mai cuore pietoso può riconsolare i sepolti? Non pochi tra gli egregi letterati soggiacquero alla pazza ingiustizia del mondo e della fortuna; ma più numerosa è la schiera di coloro i quali vivendo si videro di molto posposti ad uomini mediocri, ed infami. E memorabile esempio sarà sempre in Italia quello dell’Ariosto il quale campava la vita in tollerabile povertà, tollerabile, ma povertà sempre, sì ch’egli in età già provetta e bisognoso di mensa più lieta e di tetto più riposato scrive nelle sue satire:

     Apollo tua mercè, tua mercè santo
          Collegio delle muse, io non mi trovo
          Tanto per voi da poter farmi un manto;

mentre nel tempo stesso e di doni principe[p. 294 modifica]schi e di lussso era piena non dirò se la casa o il postribolo di Pietro Aretino, uomo di mediocre ingegno e d’anima rozza; a tanto giunge la cecità di coloro che vanno giudicando le muse, ed assegnando con le loro sentenze la fama de’ letterati. Nè devesi questa ingiustizia contro l’Ariosto apporre all’ignoranza del secolo, perchè ognuno sa che quello fu anche il bellissimo tra tutti i secoli dell’Italiana letteratura, e delle arti belle quando Leone X, quando Michelangiolo, e Raffaello, e Bernardo Tasso, e Niccolò Machiavelli, e il Bembo, e il Casa, il Trissino, il Fracastoro, e tanti e tanti fiorirono uomini egregi e Principi cari alle muse. Anzi quest’esempio unito a tanti altri, di cui si può dire tessuta la storia letteraria, deve ognor più confermare gli uomini i quali per mezzo delle lettere non cercano che la sola gloria, che questo intento tuttochè generoso li renderà infelicissimi in vita, benchè forse celebri dopo la morte. Colui che aspira alla gloria deve in tutto e per tutto avere la consolante filosofia di quegli uomini, che nelle infermità della vita sperano con somma rassegnazione nella immortalità dell’anima, e godono in certo modo de’guai presenti e transitorii, perchè sono certi d’essere risarciti con beni futuri ed eter[p. 295 modifica]ni. Ma quanto, o giovani, non è più espediente e più dolce la speranza dell’immortalità dell’anima, anzichè quella dell’immortalità del nome! Però che l’uomo che si conforta ai premi d’un’altra vita, e che nel suo modo di giudicare sa che egli lascia tutte le proprie lagrime, e tutte le umane infermità alla terra, è in ciò affidato dalla idea della sapienza, della clemenza e dell’onnipotenza d’Iddio; idea che converte la speranza, in certezza, che libera la fantasia dal timore dell’umana ingiustizia e della instabilità della sorte, e lo colloca in luogo ove nè lo scettro della forza, nè le lusinghe della frode hanno più alcuna possanza. Inoltre chiunque aspira alla celebrità, e per lei spende affanni e sudori, dopo d’essersi accertato che non può lusingarsi d’ottenerla com’ei merita mentre vive, qual mai nutrirà certezza di conseguirla dopo la morte? La gloria che il giudicio degli uomini gli contese in vita, è pur sempre in balia di questo stesso giudizio; la letteratura è pure soggetta se non nella sua sostanza almeno nelle sue infinite apparenze diverse alla diversità dei gusti, e tale coronato da’ contemporanei, è oggi come il Marini ed il Trissino condannato e dimenticato. E non sempre il mondo e la posterità sono equi giudici per avventura come pare che [p. 296 modifica]lo sieno, come infatti sono assai giusti verso questi due poeti, il primo de quali diè in una pazza licenza, l’altro in una pazza servitù di gusto letterario. Bensì una storia delle riputazioni letterarie sarebbe libro fecondissimo di nuove materie a chi lo scrivesse, ed utile e di curioso diletto a’ lettori, e molti vedrebbonsi specialmente in Italia liberati dalla oscurità ove da tanti secoli stanno nascosti, molti altri balzati dalla sede ove con meraviglia e dolore di pochi saggi stanno anche a’di nostri dominando le scuole. Chi dunque può accertare della fama meritata, quell’uomo che le sacrifica ogni comodità di vita ed ogni pace di cuore? Però le lettere ov’ei le drizzi unicamente alla gloria, non possono in verun modo assicurarnela nè in vita nè in morte; e quindi questa passione non sodisfatta gli sarà sempre sorgente di dolore ov’ei al contrario la presumeva di felicità. Perchè come mai senza un accecamento di ragione potranno sperare felicità dalla sola gloria gli uomini letterati, artefici, e scienziati, mentre appunto questa felicità della fama dipende in vita dalle passioni degli altri mortali, ed in morte della cieca stabilità delle sorti? Perocchè la fortuna o con imprevedute rivoluzioni del mondo, o con lentissimo moto perenne [p. 297 modifica]distrugge gli egregi monumenti delle lettere e delle arti; seppellisce nella dimenticanza le lingue e fa sparire dalla memoria degli uomini anche i nomi de’ grandissimi popoli. Così fu d’infiniti libri degli Egizi, e degli antichissimi Italiani; così delle opere di mille scrittori greci e latini, e di tante meraviglie della musica, della pittura, e della scultura d’Atene e di Roma. Le statue stesse che ne rimangono son più veramente prova che eccezione di questa sentenza; perchè gli insigni maestri, i quali le produssero non ci tramandarono insieme il loro nome. Noi che pure ammiriamo ed imitiamo quei loro lavori, ignoriamo a quale scultore assegnarli, e forse la fatica di un artefice, il nome del quale non sopravvisse sino a’ di nostri è ingiustamente ascritta dalla nostra ignoranza al nome di qualche altro artefice ch’era forse di minor merito. E quanto alle scienze, il caso sovente, e sempre l’opinione degli uomini, fanno sottentrare nuove opinioni e nuovi sistemi che atterrano i precedenti, onde tale filosofo che fu reputato al suo tempo sommo interprete della natura, fu nell’età che seguì o malignamente, ma vittoriosamente calunniato e deriso, o giustamente impugnato da promotori d’altri sistemi quali, come tutte le cose terreue: devono [p. 298 modifica]essere immaginati, combattuti, vinti, e obliati. Corso e ricorso perpetuo di molti errori, e di pochissime verità, di insufficienti esperienze e d’ipotesi immaginarie che pur giovano all’intento della natura, che sembra essere di tener sempre in moto le passioni e l’ingegno di tutti i viventi. Ma io voglio omai accordare ciò che sarebbe d’effetto micidiale alle lettere ove non s’accordasse; ed è che il letterato abbia non solo lusinga ma piena certezza morale che quand’egli scriva con eloquenza e con verità, il suo nome volerà chiaro ed eterno per le bocche degli uomini; alla quale certezza aggiungeremo che egli sia siffattamente innamorato della gloria che la scorga in tutta la sua bellezza, e che con la fantasia degli innamorati le ascriva un non so che di divino, per cui egli accompagnato da questa divinità della gloria possa superare la morte e vivere oltre il sepolcro. Così dunque sia, ma ne risulterà forse che egli viaggi meno misero sulla terra, e che ove non la sapienza e la dignità dell’animo l’accompagnino, ma il solo amor della gloria conseguirà la riposata e facile vita a cui ogni uomo aspira naturalmente? Per soddisfare a siffatta questione e per vedere se la gloria basta al letterato, ci si affaccerebbero infiniti documenti nella sto[p. 299 modifica]ria delle lettere, de’ quali io mi contenterò di eleggerne uno memorabile fra gli altri tutti. Giovanni Locke per universal consenso arricchì il suo secolo del libro più eloquente e più utile fra quanti mai illuminano il mondo: più eloquente perchè non solo è scritto con tutta schiettezza di lingua e rigore di stile, e calore di pensiero che è reputato in ciò esemplare da tutti gli Inglesi, ma ben anche perchè è disegnato con mirabile architettura di parti, eseguito con profondità di ragionamento e dotato di quel fuoco magico della persuasione a cui il solo stile e il solo ragionamento non giungono, ma che nasce da un certo vigore di concepire le idee e da cert’amore nell’esporle; doti che dagli antichi greci e latini erano creduti doni celesti, onde consacrarono tempii ed altari alla Dea della persuasione. Alla bellezza del libro di Locke aggiungesi, come si è detto, il merito dell’utilità, non tanto per le verità ch’egli espose, quanto per gli errori che dileguò. E infatti la metafisica platonica e cartesiana che ingombrò di tanti paradossi la strada delle scienze ne’secoli antichi e moderni, e il gergo delle scienze scolastiche si dileguarono appena pubblicato quel libro; e chi volesse esaminare i sistemi d’Elvezio, di Rousseau, di Bonnet e di altri [p. 300 modifica]d’ogni nazione sino a Kant che tornò all’idealismo, s’accorgerebbe che se gli errori sono di questi autori, il fondo della verità de loro libri è tutto desunto dalle teorie del libro di Lo cke. Le prove di questo libro erano sì evidenti, e tale la forza dell’eloquenza con cui vennero esposte, che per i primi dieci anni niuno osó turbare nè la pace nè la fama di quell’autore. Ma poichè s’accorsero che quelle verità non si ristavano nella sola teoria, ma che s’erano rivolte alla pratica, primi fra tutti gli ecclesiastici inglesi, e quindi maestri e discepoli di sistemi ideali si sfrenarono si direttamente sul libro, e dal libro che era per se stesso insensibile, i più maligni e i più accaniti rivolsero le loro vendette sull’autore, al quale perch’era anch’egli, come noi tutti, uomo di carne e di sangue, vollero far parere amara la vita e terribile la vendetta per mezzo della calunnia, della povertà e dell’esilio. Che se Giovanni Locke non si fosse armato di onestà, di fortezza, e di tutte le virtù che lo studio dell’uomo e la rassegnazione ai decreti della natura possono somministrare a’ letterati; s’egli al contrario non avesse amata che la gloria, e vedendola perseguitata, piagata e derisa, avesse, come pur molti fanno considerate come sue proprie [p. 301 modifica]quelle piaghe e que’ vituperi, quest’altissimo ingegno non sarebbe egli stato infelicissimo nel tempo stesso, e non avrebbe egli forse conosciuto che le lettere rivolte all’acquisto della fama, o deludono, od affliggono chi le coltiva? E non sempre, come avvenne a Locke, i nemici della gloria de’letterati sono i faziosi, i fanatici ei maestri di trivio, ma sovente accade che due uomini grandi i quali hanno per se stessi un trono indipendente ne’ regni delle scienze, se lo contendono al pari de’ conquistatori, e poichè non hanno armi da guerreggiare generosamente, combattono con la penna tinta nel fiele e nel sangue. Chi può contendere al Tasso la gloria di eccelso poeta? Chi al Galileo la gloria di eccelso filosofo? poteano bene i pedanti fiorentini e i cortigiani ferraresi invidiare ed affliggere il Tasso: dovea l’inquisizione atterrire la verità e le labbra del Galileo, e strappare con la minaccia de’ tormenti una falsa abnegazione da quel divino intelletto. Ma la loro gloria poteva ella essere offesa da tali nemici? Ma la gloria dell’uno poteva mai mancare alla gloria dell’altro? Eppure esiste in Italia un libro che Galileo scrisse nell’età già savia di trent’anni, dove non v’è insulto, non sofisma, non amarezza che il Galileo non versi su [p. 302 modifica]la Gerusalemme del Tasso. Alcuni pensieri su l’arte poetica, pensieri degni di quel sommo intelletto, che adornano quel volume, sono affogati nello stile grammaticale, ove quel grand’uomo recita ad un tempo da sofista e da poetastro, assottigliando il fumo e gonfiando le minime cose. E di questi deplorabili fatti sono pieni gli annali della letteratura d’ogni nazione ove non l’ignoranza nè la superstizione, ma la dottrina combatte contro la dottrina, la filosofia contro la filosofia, e talvolta l’onestà contro l’onestà. Pascal dopo d’avere fatto una critica religiosa e ragionata al libro di Michele Montaigne, infervoratosi poi nelle sue speculazioni teologiche, lacera di due tratti di penna il nome del filosofo francese, e ne’pensieri cristiani in un luogo lo chiama sciocco, ed infame in un’altro. Ognun sa la lite tra il Newton e il Leibnizo, e nel tempo stesso l’ipocrita riservatezza con cui quell’illustre inglese si diportò in quella battaglia ove per onore di gloria cercò accusar l’altro d’usurpazione. D’altra parte quante prigioni piene di letterati nelle rivoluzioni politiche, quanti esili ove gli uomini più illustri si videro per ogni terra vagabondi, quanti roghi fumanti del sangue arso di uomini che con la fama loro tennero [p. 303 modifica]aizzata l’invidia de’ loro contemporanei. Una teoria diversa da quelle che un altro uomo ce lebre insegna, un’idea sola, una nuda parola che offenda il gusto, un emistichio plagiato da un altro, bastano a muovere sanguinose persecuzioni, contro il dotto ed infelice Abelardo e a far ardere nel rogo il medico Michele Servet per ordine di Lutero, ed attizzare la discordia e gli improperii scambievoli, e gli odi di Rousseau e di Voltaire, e a profanare in ogni secolo di dolore e di vituperi gli altari di Pallade e delle Muse. Aggiungi il potere matto dei principi per cui Caligola voleva esiliare dalle Biblioteche i libri di Virgilio e di Livio e far guerra per conseguenza a tutti i letterati viventi; aggiungi finalmente la fatale cecità anche de principi più saggi che pur sono uomini e sottoposti a tutte le umane infermità, onde Vespasiano cacciò d’Italia tutti i filosofi, ed allora apparirono nella loro putrefazione e amarezza tutti i frutti della celebrità quand’è prefissa ed unica meta della letteratura. Ed ecco la decantata felicità della gloria la quale si riduce a ciò che Petrarca già vecchio, e più celebre, e più tranquillo, e men disgraziato di quant’altri mai sian nel mondo vissuti tra gli studi, ripeteva agli amici. Petrarca vide e con[p. 304 modifica]dida miseria della celebrità, onde scriveva nelle lettere senili: Haec fama, hoc mihi praestitit ut noscerer et vexarer.

Ma io vi ho fino ad ora parlato della gloria applicandola a grand’ingegni, e l’ho riguardata soltanto nelle sue naturali e generose disavventure; nè vi ho ancora mostrato le sue false, bastarde, vituperose degenerazioni. Che se l’amore di gloria in chi veracemente e sommamente la merita è sorgente di calamità, quando poi vive in persone basse ed indegne non può se non contrarre tutta la viltà e la sciocchezza, e la malignità delle anime dalle quali è nudrito. E nondimeno se quanto avete fino ad ora ascoltato può iniziarvi nella cognizione della storia letteraria, ciò che intorno alla gloria mi resta di dirvi vi sarà necessario giornalmente nella pratica della vostra vita, e gli esempi sono contemporanei, concittadini, e domestici, e sempre in tutti i secoli, ed in tutte le città, ed in ogni genere di governi. Poichè dunque io non mi stanco di palesarvi ciò che mi sembra vero, voi dal canto vostro non istancatevi d’ascoltare ciò che non può esservi che di vantaggio; se non altro valga a procacciarmi una più lunga attenzione l’amore e la cura con cui mi [p. 305 modifica]studio di presentarvi questo argomento importantissimo alla prosperità delle lettere e della vita.

Voi, o giovani, dovete vivere fra non molto agitati dal desiderio d’onore, e in mezzo alle persone che tenteranno ogni ostacolo aperto o secreto contro di voi. Che se voi siete d’indole studiosa ed ingenua, ottima cosa sarà che ne siate prevenuti perchè possiate evitarli, o almeno guardarli senza stupore e tollerarli; e se al contrario alcuni di voi fossero per disavventura di tempra da seguitare l’esempio infelice di coloro che invidiano l’altrui fama, e che s’adoprano di sorgere su l’altrui rovina, troveranno qualche rimedio altresi nel mio discorso; poichè mostrando loro che queste arti maligne sono di poco giovamento e di verun decoro nel mondo, perverrà il mio discorso a distornarli da questa sinistra tendenza.

La passione della fama quale fu da noi dimostrata ne grandi ingegni, degenera ne’mediocri e ne’vili in libidine di applauso volgare, e di onori cortigianeschi: questa libidine ha per progenie naturale la invidia, l’avidità. e l’impostura. Chi aspira all’applauso volgare non adopera le male arti se non quando egli possa conseguire il suo intento, e le adopera più con cecità che con malizia. Ma chi cerca l’applau[p. 306 modifica]so per isgombrarsi la via degli onori e del danaro, colui è maestro d’ipocrisia, di falsità e di perfidia.

Vediamo come in un quadro la vita di coloro che aspirano soltanto ad applauso volgare; dotati di poco ingegno dalla natura, e volendo ad ogni modo ritrovare il maggiore vantaggio possibile s’introducono nelle accademie ove con lodi reciproche vanno cercandosi anch’essi alcune pagine d’elogi. Le congregazioni d’ogni specie valgono mirabilmente a queste pratiche, ove tutti stringono alleanza difensiva ed offensiva e niuno tra loro scrive linea che non sia certo di vederla lodata almeno da’ suoi confratelli: quindi la loro lode si diffonde tra il volgo facile a credere, facile a far eco, facile a rinegare, facilissimo nondimeno a dimenticarsi e delle lodi e de’biasimi ch’egli senza candore di coscienza, senza esattezza di giudicio aveva pronunziato il di prima. A queste se ne aggiungan altre meno solenni, ma non già meno operose. I linguisti per esempio che danno anatema ad un’opera per quanto possa essere utile e bella, se in essa s’accorgono d’alcun peccato d’idioma, peccato che non può esser lavato per se con acqua lustrale, e che danna in eterno l’autore ed il libro. Siffatti lin[p. 307 modifica]guisti se non giungono a far impazzire gli scrittori come fecero del Tasso, giungono talvolta a sconfortarli, massime nella prima gioventù, o a tormentare l’ingegno nelle prime scuole, le quali generalmente in Italia sono occupate da siffatti maestri. Inoltre l’Italia tutta si risente in fatto di fama letteraria d’un vizio antichissimo ch’ebbe origine e crebbe e contaminò e appestò, e poco meno che uccise (se minore fosse stato il vigore del genio Italiano) tutta la nostra letteratura, con le cattedre de’scolastici e con le istituzioni de’collegi. I discepoli infatti sì delle scuole che de’ collegi non uscivano atti che a gustare il Petrarca ed il Boccaccio, a conoscere ed applicare i precetti d’Orazio e le regole grammaticali del Bembo, e frutto sommo di questa istruzione erano poi i canzonieri e i poemetti e le tragediucce che empivano tutta Italia, scritte da signorotti e dedicate a signorotti: quindi gli elogi accademici, quindi l’esaltazione che i maestri guerci facevano agli alunni ciechi, e gli alunni a’ maestri; quindi la compiacenza di questi miseri applausi; che non potea più fomentare gl’ingegni ad aspirare con più veglie e sudori ad una gloria più estesa. La nazione tenuta nell’ignoranza non potea giudicare; e i maestri e gli alunni adulandosi scam[p. 308 modifica]bievolmente erano ad un tempo tribunali e parte nella distribuzione de’ premi. Una ridicola prova di questa verità, ridicola e miserabile a un tempo mi occorse sono alcuni anni,quand’io giovinetto cercando di conoscere di vista gli nomini che erano in qualche concetto negli studi,nota per imparare da essi letteratura, imparai invece esperienza di mondo letterario e conobbi presto per mia fortuna che chi ama gli applausi perde l’onore delle lettere. Viveva in Italia, e vive un uomo celebre per la sua inesauribile vena di comporre interminabili poemi, e per la sua generosità verso gli stampatori ed i letterati che lo rimunerarono con nitide edizioni ed encomi. Quest’uomo, prescindendo dal suo poetico errore, era del rimanente degno di gratitudine per la sua liberalità, e di rispetto per la tranquilla dignità della sua vita,e di compassione per la misera infermità che gli avea rapito il lume degli occhi. Raccoglieva a convito molti letterati dimoranti nella sua città illustre allora per un’accademia reale e per molti antichi personaggi che godevano di alta fama nelle scuole italiane. Trovaimi io pure benchè giovinetto ed ultimo, ultimo fra cotanto senno, e sul finir della mensa uno de’letterati richiese un giovine segretario dell’ospite [p. 309 modifica]perchè recitasse alcuna poesia. Ed ei recitò versi di alcuni poeti e tutti ascoltavano attentamente giudicandone ciascuno e liquefacendosi l’anima, finchè il vicino intuonò un sonetto; e nell’intuonarlo additò l’autore e l’autore era l’ospite cieco. Ad ogni verso fu interrotto da lodi e da meraviglie, e l’adulazione sfoggiata di que famosi letterati era tanta che taluno ascriveva il sonetto al Petrarca, tal’altro al Tasso, mentre il povero cieco umile in tanta gloria, non osando palesarsi s’alzò pregando i suoi convitati che lo favorissero la domenica seguente in campagna. Simili aneddoti non si trovano scritti ne libri, ma la lezione che somministrano si può abbondantemente raccogliere vivendo tra gli uomini.

Dal commercio epistolage dei letterati, ove fosse pubblico, avrebbesi una serie lunga di documenti della mala fede letteraria; si loda il libro all’autore che lo regala, e si accusa spesso con la stessa penna dietro le spalle: onde chi di siffatte lodi si fa bello, e si crede perciò coronato da Minerva e da Febo è ingannato, ed inganna; inganni reciproci, e cecità di mente la quale tutta deriva dall’amor dell’applauso; si palpa per esser palpato, si compra vilmente poche ore di fama perchè manca il coraggio e le forze [p. 310 modifica]di acquistarla generosamente con lunghi studi: ma questo applauso fa egli felice l’uomo letterato? Ed ecco pur sempre la somma della questione cui dobbiamo dopo ogni ragionamento ridursi: poichè se l’applauso comunque carpito bastasse alla felicità noi saremmo ingiustissimi se volessimo contenderlo o condannarlo. A ciò fia non molto risponderemo, ma giova che prima si vedano i costumi e i caratteri di que letterati che cercano l’applauso volgare con l’intento di ottenere per esso gli onori e gli emolumenti. Se quella di cui finora si è detto è genia cieca, questa di cui si dirà è perfida perchè nuoce per professione.

Di quali principii morali si valgono per trafficare la letteratura onde ottenere danari e cariche l’abbiamo esaminato nella parte prima di questo discorso, dove se n’è abbondantemente parlato; e s’è conchiuso ch’essi non possono essere per questo mezzo felici. Però si fatti letterati devono nelle nostre considerazioni tenersi necessariamente compresi nella categoria degli scrittori venali; ed a loro si applichi la conseguenza che s’è dimostrata. Ma perchè a trafficare la letteratura col danaro non giungono se non trafficandola prima con l’applauso, è necessario che si veda [p. 311 modifica]come questi si studino di farsi applaudire.

E primamente oltre alle accademie, e al commercio epistolare, alcuni come i letterati linguisti preti e nobili, di cui si è dianzi detto, un’altra scuola hanno alla loro meta ed è quella dell’influenza del governo e del favore dei grandi: Voi li vedrete esternare raramente in pubblico la loro opinione su i grandi letterati viventi, perchè temono di soggiacere per vendetta e di contrastare con la pubblica opinione; difficilmente o non mai animano la gioventù, perchè in essa sospettano nuovi e più forti rivali; pochissimo per lo più scrivono, o se scrivono non tendono mai che ad avere la stima di que’ pochi che possono contribuire onori e danaro, e che per lo più non sono atti a giudicare le lettere, e la stima di que’ tanti che siedono pro tribunali atti při a conoscere i difetti critici che le bellezze delle opere. Alcuni non hanno mai scritto e voi incontrate talvolta dei professori i quali, fra chi è si credulo da ascoltarli severamente e spietatamente vanno sentenziando i libri di quelli che o deboli, o lontani, o morti non possono giustificarsi; se nel tempo stesso cercherete un libro, una dissertazioncella, un verso del giudice professore non vi sarà dato mai di trovarlo. Giudici privati degli [p. 312 modifica]scrittori non hanno mai nulla scritto. Affettano sempre moderazione, e virtù, e buon gusto; ed ottimi in parole se ne valgono per gettar fiele sopra qualche piaga letteraria o morale di alcun altro che non vivendo con le adulazioni e i favori, è naturalmente sconosciuto, nè ascoltato mai; e quindi convertono in proprio merito le altrui colpe. Si fatta era la letteratura nella corte di Roma, e in tutte le capitali de’ piccoli principi, i quali avendo da governare un milione appena di sudditi o poco più non poteano non immischiarsi ne’ pettegolezzi delle loro città, e più de’ letterati che sono per se stessi i più frequenti e i più clamorosi.

Alcuni intanto di questi letterati che cercano applauso per convertirlo in favore essendo o più facoltosi o più intraprendenti si pongono a viaggiare, vanno in corti di principi stranieri, fanno prova di letteratura, e di spirito, regalano libri, presentano dediche a celebri letterati stranieri ed a’ potenti ministri, scrivono novelle e meraviglie a’ letterati loro compatriotti e coaccademici, e mentre questi borbottano nelle loro celle romite, accattano voti e lodi da’ giornalisti, si fanno coniare medaglie, fanno quà e là proseliti, piantano come fanno i negozianti case di corrispondenza, e fattoriene lon[p. 313 modifica]tani paesi. Sommo applauso infatti si può ricavare per queste vie, e lo vediamo dalle lodi che l’Algarotti ebbe a suo tempo; ma quanto poca gloria, il fatto lo mostra; poichè mancatigli i fautori, gli va mancando il nome, e fra non molto chi parlerà più delle opere dell’Algarotti?

Questi vizi in cui la passione della gloria degenera si fattamente che d’amore diventa libidine, stanno talvolta anche negli uomini grandi; a tanto l’ambizione e l’orgoglio versano tenebre su la mente più illuminata. Tacerò delle lettere del giovine Plinio, che non ha fama se non per esse; ma a mio credere non è degno che la posterità abbia tanta cura di lui se non perchè fu nipote ed allievo del filosofo Plinio, e perchè fu amico di Tacito, e perchè fu console in Roma sotto l’imperio del grande Traiano. Quelle lettere familiari ed amichevoli pubblicate da Plinio sono pur chiara prova ch’ei presumeva assai gloria letteraria dal suo commercio epistolare, quasi, che l’universo dovesse accorarsi degli affannucci privati d’uno scrittore, che pochi altri frutti del suo ingegno aveva dato a’ Romani. Parlerò bensi di Cicerone il quale se pur meritava scusa dai contemporanei e ringraziamento dai posteri per [p. 314 modifica]le lettere familiari e specialmente per quelle ad Attico, perchè e sono dettate con ben altro stile che quelle di Plinio, e contengono aneddoti più importanti e più ricchi, mostrasi nondimeno si affannato di lode che scrivendo a Lucceio storico del suo tempo gli raccomanda: te plane etiam atque etiam rogo ut me ornes vehementius etiam, quam fortasse sentis, et in eo leges historiae negligas1.

Aveva egli bisogno Cicerone di questa bassezza, egli che era già stato chiamato e padre della patria, e reputato dottissimo delle scienze filosofiche del suo tempo, e riconosciuto sommo oratore; ei ch’era certissimo di vivere eterno tra’ posteri, che fu imperatore d’eserciti, consigliere di Bruto, antagonista di Cesare, nemico generoso e trionfatore per alcun tempo di Marc’Antonio che allora dominava la metà del mondo; egli in somma che era stato l’attore più illustre nel teatro più grande dell’universo e nell’epoca più luminosa de’ secoli?

Or se i vizi in cui l’amore di gloria si va corrompendo, appestano le anime d’uomini grandi, che dovremo aspettarci di quelli che per se stessi non hanno nè forza, nè diritto d’acqui[p. 315 modifica]starsi gloria veruna? Con quanta sfacciataggine maggiore, con quante cabale, con quanta perfida ipocrisia non cercheranno di procacciarsi se non altro quel rumore d’applauso che per breve tempo può avere apparenza di gloria? Ma ciò che prova quanto appunto la fortuna si rida dell’umana ambizione si è, che i passi ove Lucceio parlava di Cicerone, e quelli ove Tacito importunato forse dall’amico avrà parJato di Plinio, (perchè anche Plinio fa in una epistola la stessa poco modesta domanda a Tacito), Questi passi storici si sono perduti, e non restano più che le lodi che que’due ambiziosi accattavano; sono bensi restate quasi per loro di spetto e per monumento della loro vanità le lettere con cui Cicerone e Plinio cercano d’essere l’uno ingenuamente, l’altro immeritevolmente tramandati alla memoria degli uomini.

Or tu che ci hai palesate le calamità della gloria negli animi generosi e negli alti intelletti; e i suoi vizi ne’ cuori bassi e negli ingegni mediocri vorrai per conseguenza inferiore che le lettere non vanno coltivate per amore di gloria? Certo che questa vostra domanda è direttissima, nè può essere lasciata senza risposta: ma questo per ora sommariamente rispondo, che nè io potrei consigliarvi, nè consigliandolo [p. 316 modifica]riuscirei, di trascurare la gloria perchè ella è non solo naturale, ma bello; ed eterno desiderio degli uomini; però ucciderebbe la radice delle lettere chi potesse ne giovani estinguere questo fuoco che le alimenta; bensì come l’abuso d’ogni passione nuoce all’uso, ed il fuoco che prima manteneva ne’corpi il moto ed il calore, ove s’accresca oltremodo soffoca ed incenerisce, così siavi per ora provato che le lettere non possono vivere senza gloria, ma che ove siano unicamente rivolte alla gloria non possono se non accrescere il dolore, i vizi e il vituperio di chi le professa. Da qual altro rimedio sia temperata questa passione, e con che mezzo si possono rivocare le lettere a vero e certo vantaggio dei loro artefici, poichè trafficandole per danaro o per fama a ciò non si giunge, sarà questo il soggetto della lezione di domani. dacchè oggi il discorso si protrarebbe oltre ciò che il tempo e la vostra attenzione potrebbero comportare. Domani dunque con la terza parte di questo discorso chiuderò le poche lezioni che le imponenti circostanze e i decreti della fortuna mi hanno conceduto di scrivere.

Note

  1. Lib. v ad fam. epist. 12.