Cadore (Lorenzoni)
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ANTONIO LORENZONI
CADORE
CON 122 ILLUSTRAZIONI
BERGAMO
ISTITUTO ITALIANO D’ARTI GRAFICHE - EDITORE
1907
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
Officine dell'Istituto Italiano d'Arti Grafiche.
INDICE DEL TESTO
INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI
Pieve di Cadore dalla via di Lamagna
(Fot. Cassarini).
" Sei grande. Eterno co ’l sole l’iride G. Carducci. |
el semicerchio di Alpi, che partendo dai Lessini digradanti a Verona, e, scendendo giù giù, verso Venezia, cingono, come diadema, la pianura veneta, belle, distinte sul fondo oscuro dei colli spiccano nell’azzurro le Alpi bellunesi. Alle radici di quelle cime acuminate, scialbe si spiega, quasi ventaglio semiaperto, la regione cadorina. Ouell’ultimo lembo settentrionale di terra italiana conservò sempre una unità di linguaggio, di sentimenti, di costumi, di leggi così meravigliosa, da formare, fino alla caduta di Venezia, una piccola repubblica alpina.
Il popolo cadorino addentrato nei recessi alpini visse una vita la cui storia conta pagine di abnegazione mirabile, di libertà indomita, di fedeltà inconcussa. Sono pagine, che il mondo ignora, o conosce appena, solo perchè al Cadore mancarono poeti e narratori che ne tramandassero la visione gloriosa.
La storia preromana della remota regione è segnata solamente da qualche monumento, la romana è oscurissima, oscura la medievale, ma pronta a rivelarsi dai documenti finora poco studiati.
Prima che le aquile di Roma si fossero portate nelle vallate del Veneto, queste avevano di già i loro abitanti. Le valli del Piave, del Bòite, del Brenta, dell’Adige avevano accolto un fiotto di quell’onda di gente celtica, che, col nome di Reti, s’era estesa sui due versanti delle nostre Alpi orietali Della loro dimora in Cadore parlano le spade di tipo gallico, le collane, gli elmi trovati nelle valli cadorine. Gli Euganei, dai Veneti cacciati dalla bella pianura e sospinti sempre più al nord, cercarono anch’essi rifugio in questi recessi: lo attesta una loro lapide scoperta a Pozzàle e un’altra a Lozzo di Cadore, e lo dicono i vasi di terra cotta e di vetro finamente lavorati, gli utensili di bronzo e gli oggetti femminili rinvenuti qua e là nel Cadore. I Veneti seguirono gli Euganei e Veneti ed Fuganei furono, a poco a poco, assorbiti dal vigoroso elemento retico. I Romani sopravvenuti, probabilmente, quando Tiberio e Druso (15 d. C.) conquistarono la Vindelicia e il Norico, assoggettarono i Reti abitanti da tanto tempo nelle vallate poste al di qua e al di là delle Alpi venete e fusero talmente nella propria la lingua retica, che Graziadio Ascoli potè riscontrare nel Comelico, la parte settentrionale del Cadore, una vera isola ladina.
Fra i Reti assoggettati vi dovettero essere anche i Cadorini. Inutile ricamare etimologie: il nome Cadorini appare, la prima volta, in una epigrafe encomiastica scoperta, a Belluno, nel 1888: l’epigrafe fu posta da Papiria al marito Pudente ...patrono Catubrinorum. Catubrini, dunque, si chiamavano gli abitanti delle vallate a nord di Belluno e Catubrium, di conseguenza, il paese da loro abitato, I Catubrini doveano essere tra quei Raetica oppida di cui parla Plinio, benchè egli nomini solamente i Feltrini e i Tridentini.
I Romani guadagnarono la valle del Piave, facendo prima centro militare il Castrum Lacbatii (Castellavazzo), poi, risalendo il fiume, posero un Castrum intorno all’odierno Montericco, dominante le vallate del Piave e del Bòite. Lo attestano una statuina romana, un genietto elegantissimo, una patera di rame portante la scritta Marti Cornelia L. S. Ossa e molti altri oggetti dell’età romana ritrovati negli scavi di Montericco e in altri luoghi del Cadore. Al Catubrium i Romani tenevano assai per i boschi ricchi di ottimo legname da navi: e in Cadore, in grazia degli offici governativi, si stabili e acquistò terreni qualche famiglia romana. Insistente nel Cadore e nel Veneto il nome della famiglia Saufeia, ricchissimi romani dei tempi di Cicerone, di cui godevano l’intimità. Le monete battute col nome di Lucius Saufeius ci apprendono, che egli era uno dei tribuni aerariales, mandati tra questi monti dai lontani padroni.
Siamo, naturalmente, in pieno paganesimo celtico, modificato dal romano venuto dal sud per il Piave. Il Cristianesimo vi penetra dall’est per il Tagliamento e il Màuria con S. Ermagora e Fortunato, e, quasi, contemporaneamente, dal sud, con i messi di S. Prosdocimo evangelizzatore di Padova, Feltre e Belluno.
Fin dal primo secolo, o poco dopo, sorge intorno a Montericco il pagus e con esso i primi edifici destinati al culto: al pagus concorrono le plebes disperse nei vici cadorini: ivi si forma la plebs maggiore, nome, che resterà, poi, allo stesso centro abitato.
Nella dissoluzione dell'impero romano il Cadore fu quantità trascurabile ai vinti e ai vincitori. I barbari entravano in Italia per altre vie ben più facili delle strette gole cadorine. Per la vicinanza di Aquileia, i Cadorini ebbero sentore, e la leggenda paesana lo afferma, della irruzione di Attila, e Attila restò anche per essi il flagellum Dei. Dei vari domini barbari, che si succedettero, poterono lasciare nel Cadore qualche traccia solamente quelli che si consolidarono per qualche tratto un po' lungo di tempo. I Goti estesero anche ai Cadorini la legge de metatis. I Longobardi distrussero l'ordinamento municipale e importarono l'ordinamento comunale longobardo: i sudditi erano liberi solamente nei riguardi privati. E in questi interessi privati, emanazione, come opina saggiamente il Schupfer, più delle idee germaniche (uso e spirito delle corporazioni in senso economico) che dello spirito latino, conviene ricercare l'origine e il senso della parola Viciniae, o Fabulae, nucleo remoto del comune italiano. Le Viciniae, o Fabulae erano un accordo dei vicini per la polizia dei campi e dei boschi, poi passarono a indicare un gruppo rurale di uomini, che decidono dei pascoli, dei boschi e delle cibarie. Le deliberazioni si tramandano di padre in figlio e formano la tradizione orale, avente forza di legge; quando, nei tempi posteriori, le deliberazioni si metteranno in iscritto, verranno chiamate Laudi. Questa specie di
legislazione economico-sociale perdurò da quei lontanissimi tempi fino alla caduta di Venezia: in tutto il Cadore andare a faula significò, sempre, andare a Consiglio.
Coi Franchi venne la divisione in Contee e delle Contee in Centene: il Cadore formò precisamente una centena della contea del Friuli. Caduti i Carolingi, continuò a dipendere dal Friuli. Ottone primo staccò il Cadore dal Friuli, per aggregarlo al margraviato di Carintia e, per conseguenza, al ducato di Baviera di cui la Carintia era un feudo. Lo stesso imperatore frazionò le grandi in piccole Contee, o Comitati e allora (974) il Cadore formò un Comitato a sè. Allo spegnersi della dinastia sveva, Aquileia diventa indipendente sotto il governo dei suoi patriarchi: i patriarchi reggono il Cadore per mezzo di un subdomino.
Nel 1138, un Collalto era feudatario del Cadore per conto di Aquileia. Guecello Da Camino figliuolo di Gabriele e di Matilde di Collalto ha in eredità dallo zio materno Alberto la Curia del Cadore. I Da Camino dal nucleo di possessi ereditati, parte per investitura, parte per acquisto e per patti coi patriarchi, estendono la loro signoria su tutta la regione cadorina, salvo alcune montagne rimaste ai vescovi di Frisinga, La signoria dei Da Camino dura da Guecello figlio di Gabriele (1138), che assistette a Venezia all’umiliazione del Barbarossa con homini trenta e, poi, andò a visitare il sepolcro di Cristo per la redenzione dell’anima sua e a sconto de’ suoi peccati, a Rizzardo sesto, battuto sui campi di Sacile dai Patriarcali e morto, quando stava per scuoterne il giogo secolare (1335): il Cadore, sotto Baquino terzo, ha il suo primo Statuto (1235). Segue un decennio di dominazione tedesca (1337-1347). Morto Lodovico il Bavaro, il marchese di Brandenburg col conte Enghelmaro di Villanders mandato da Carlo quarto, tenta invadere il Cadore, ma le genti del patriarca Bertrando unite a tutti i Cadorini battono i Tedeschi (1347).
Con questa vittoria ottenuta da armi italiane e paesane comincia e continua fino alla dedizione del Cadore a Venezia il dominio diretto di Aquileia. Durante questo tempo, il Cadore fissa, a poco a poco, la sua divisione amministrativa. Le decanie longobarde si trasformano, con altro valore, nei dieci centenari cadorini: il centenario comprende alcune vicinie, e le vicinie un gruppo di Regole. Il patriarca Bertrando sanziona questo stato di cose.
Venezia, intanto, stende il suo dominio sulle terre dal patriarcato aquileiese e, poi, su Aquileia stessa; il Cadore fu invitato a unirsi alla Repubblica. I Cadorini, per le antiche relazioni commerciali con Venezia, erano proclivi a farlo, ma, prima, vollero essere sciolti dal giuramento di fedeltà verso il patriarca. Ottenutolo da Lodovico di Teck, ultimo patriarca con dominio temporale, si diedero a Venezia al grido unanime: camus ad bonos ventos! Vi andarono, ma portando essi stessi le condizioni della dedizione: Venezia le accettò tutte. Da quel tempo, per ben 377 anni, il Cadore visse con leggi proprie protetto dal Leone di S. Marco. Francesi e Austriaci si succedettero, ma nel popolo cadorino rimase inalterata, indomita l’aspirazione alla libertà, aspirazione, che si sviluppò in quel sentimento di pura e alta italianità, che, nel 48, scrisse quelle pagine gloriose, di cui ritroveremo l’eco nei più ardui colli alpini e la visione intera nelle anime della generazione cadorina, che sta per tramontare.
⁂
L’arte provvida ministra della storia di un popolo non lasciò molto di notevole in Cadore.
Lontani dal mondo, segregati dai centri artistici, i Cadorini non poterono sviluppare un senso artistico profondo. Oppressi dai bisogni della vita, relativamente poveri per la natura del suolo, mancanti di grandi famiglie di Mecenati, mal poterono portare un gran contributo all’arte.
Prima del trecento, il culto si svolge nelle cappelle del pagus e dei vici. Sono cappelline umili, sorgenti in mezzo ai villaggi, o su qualche poggio. L’arte non la conoscono nella linea architettonica e nello sfarzo interno. La semplicità del sentimento religioso si traduce nella semplicità delle linee dimesse: una capanna con pareti in muratura biancheggia tra le case di legno, annerite dal fumo. Nell’interno, la poca luce entra dall’ampia porta e dalla piccola fenestra oblunga, alta sulla parete. E alle pareti qualche tela di poco valore e sui muri glorie e leggende di santi e volti di Madonne e di Redentori dipinti a fresco da mani, per lo più, inesperte. L’arte giottesca mandò qualche riflesso fin tra questi monti. La chiesina di S. Margherita e il vecchio coro di S. Niccolò portano affreschi antichissimi della maniera di Giotto. Pure affrescata era la vecchia chiesina di S. Daniele, pendente dal M. S. Daniele altissimo sperone del Tudàio.
Le piccole chiese cadorine conservano le linee modestissime fino alla metà del quattrocento, epoca in cui comincia ad apparire lo stile gotico, che continua per tutto il cinquecento. Ma anche le chiese gotiche nulla hanno di grandioso, nulla di splendido. Piuttosto che chiese sono cappelline modeste, che tradiscono la povertà dei mezzi e, spesso, la grossolana coltura del maestro muratore. Il gotico viene importato da Mistro Culau murador de Carnia: egli ne eresse tre: quella di S. Antonio in Candide (1538), quella di S. Leonardo in Casamazzagno (1545), quella di S. Caterina in Auronzo (1553).
Le case private valgono ancora meno: solo un secolo dopo, la famiglia Poli erigerà un palazzo signorile a Mare con buona linea architettonica e ricchezza di marmi (1643) e un altro a S. Pietro. A Pieve abbiamo, sullo stesso genere, il palazzo Sampieri e, a Candide, quel tozzo palazzo Gera, ove l'arte sorride soltanto nelle inferriate ad occhio, in ferro battuto, graziose inferriate, sormontate da un fregio sbocciante in fiore.
La pittura lascia uno sprazzo di bellezza negli affreschi di S. Orsola in Vigo. Nel cinquecento Tiziano rivela al mondo il nome del suo bel paese, ma il suo bel paese, o per fortuna di cose, o per mancanza di tempo, o per la povertà delle chiesine della patria pur cara, non ha alcun lavoro, che possa indiscutibilmente dirsi suo, mentre gli altri Vecelli sparsero le loro tele mediocri in quasi tutte le chiese cadorine.
Nell'ultimo secolo, l'architettura ha prodigato di molti e costosi lavori. Il Segusini vi eresse alcune chiese e nelle chiese vecchie e nelle nuove il De Min e T. Da Rin moltiplicarono tele e affreschi. Ma nell'architettura è un continuo sforzo di rinnovare la linea classica, di riprodurre gli atri a colonne e le rotonde cupole, sforzo inutile anzi stridente, dove tanti fasci di guglie acuminate, tante dolci curve di valli e di schiene di poggi contrastano colla fredda linea classica e quel biancore sfacciato dei muri stona colle iridi dei colori e le grigie dolomiti e i pascoli verdi e i boschi e le terre nereggianti. Già i palazzi e i templi del Cadore sono le aeree dolomiti, come di altre Alpi cantava bellamente G. Manni:
Diurne faci al grande altar son gli aurei
del sole eterni rai,
son di notte i quieti astri le lampade,
che non si spengon mai.
E da pascoli in fior fuma invisibile
l'incenso, e mane e sera
fuma il respiro a Te di tutto l'essere.
come una gran preghiera.
⁂
Tutti i paesi del Cadore, salvo Pieve, che domina le due vallate del Piave e del Bòite e Danta alta sui monti, tra il Pàdola e l'Ansièi, si allungano lungo le correnti dell'acque, o riposano sui molli declivi dei prati. E i corsi di acque, ora rombanti in profonde valli, ora scorrenti nitidamente al sole, ora ridotti a limpidi ruscelli nei pianori alti, segtiano le vie e le divisioni della regione stessa.
In quel ventaglio semiaperto formato dal Cadore il Piave da Tèrmine accompagtia lo stretto nastro di terra cadorina, che si protende verso Belluno.
A Peraròlo, Piave e Bòite uniscono le loro acque, abbracciando quel primo gruppo di monti, che, come tozzi torrioni, fanno siepe al Cadore dalla parte di mezzogiorno. Il Piave, volgendo un po’ ad oriente, segue la valle più ampia della regione, fin presso la confluenza dell’Ansièi, nè dimentica di raccogliere la Piòva e di bagnare con essa l’ime radici dei paeselli di Oltrepiave. Corsa la valle del Comèlìco, a S. Stefano, piega decisamente ad oriente ed esce tranquillissimo rivo sull’altipiano di Sappàda, ricercando a nord le sue sorgenti al bianco Peralba. Il Piave col Cordèvole, facendo, quasi, cerchio delle lunghe braccia, racchiude i monti e le piagge erbose a settentrione di Sappàda e la valle deliziosa di Visdènde: col Cordèvole e col Pàdola abbraccia, in un molle amplesso, tutto il Comèlìco, racchiudendo il tributo d’acque del versante italiano.
Pàdola e Ansièi stringono la destra del Comèlico e le larghe basi dell’Aiàrnola, del Giralba, del Col d’Agnello e di altri colossi dolomitici. Il Boite, salutata a Cima Banche la Rienz, chiude, ad ovest, la bella regione alpina colla meravigliosa conca di Ampezzo, s’inabissa sotto i paesi di Oltrechiusa, e, quasi vergognoso di Pieve, s’avvolge alle radici del M. Zucco e riporta al Piave padre il saluto della valle e dei villaggi cadorini sparsi sul suo fianco sinistro, mentre le poche acque del Rite ricordano che al di là del Bòite v’è Cibiana e, al di là dei boschi, v’è tre paesini distanti dal Cadore e nascosti ad esso, i tre paesini di Oltremonti, che, sebbene lontani, vollero appartenere e appartengono, sempre, al Cadore.
La regione ha confini naturali delimitati: essa forma un altipiano, dolcemente inclinato a mezzodì, incluso fra il Tirolo meridionale e le provincie di Udine e di Belluno: i lembi estremi sono segnati da linee di monti e le acque tutte nate dai loro fianchi lo intersecano e si accolgono tutte nel Piave, che comincia ad essere un gran fiume proprio quando abbandona il Cadore. Nell’altipiano cadorino, riguardando ai costumi e alla lingua, dovremmo comprendere il distretto di Badìa nella Val Gardèna, il distretto di Livinallòngo nella valle del Cordèvole (Àgordo), due distretti appartenenti al circolo del Pusterthal. Vi comprendiamo, senza esitare, il distretto di Cortina di Ampezzo, perchè per posizione geografica, per costumi, per lingua e per storia è perfettamente cadorino. Perfettamente cadorino, nonostante che esso, fin dal 1518, si sia dato all'Austria e sia, tuttora, un suo dominio per la soverchia scienza geografica e topografica posseduta da chi determinò con l'Austria i confini settentrionali d'Italia, nel 1868.
Il Cadore ha segnato il suo confine, verso Belluno, con un gruppo di case, chiamato, per l'appunto, Tèrmine.
Tèrmine è, quasi, un posto avanzato del Cadore, giù lungo il Piave, nel punto ove i monti alti colle nude roccie precipitando a bagnarsi nel fiume, par chiudano, a nord, la vallata.
Se dirave che 'l mondo xe finìo
Tanto l'uno co l'altro i xe (sono) incrosài, (incrociati)
direbbe il bonario Cicogna, descrittore in versi dialettali slombati della Val Beluna e del Cadore. Il villaggio addossato ai monti sente ruggire il Piave e lo vede correre a rovina, ma non lo teme, come non teme la valanga, che, scrosciando, quasi annualmente, dai monti opposti, lungo la vallata del Pissa, precipita nel fiume e scuote le casette linde, per non lasciare, nell'estate, che un rivolo d'argento, scioglientesi in un candido velo, ondeggiante nell'aria, lungo le roccie a picco.
Non lungi da Tèrmine, la Tovanella, lasciando stormire il vento fra gli abeti del suo bosco, che sa le eterne questioni tra Bellunesi e Cadorini e il laudo celebre di Jacopo Sansovino, che l'assegnò al Cadore (1540), da un angusto e dirupato burrone esce all'aperto sulla via di Lamagna nel largo piazzale formatosi co' suoi candidi e fini ciottoli.
E proprio alla Tovanella cominciano i ricordi dell'epico 48, un anno in cui la nostra patria combattè nello slancio ideale, preparando cogli insuccessi le vittorie dell'avvenire. Il Cadore, in quegli anni fortunosi, si trovò al suo posto, pronto a difendere le porte d'Italia. Il primo aprile di quell'anno, tutte le rappresentanze cadorine riunite a Pieve, nello storico palazzo della Comunità, proclamano, come i loro padri: votiamoci a San Marco! I fratelli Veneziani rispondono: Voi siete sull’Alpi la sentinella della libertà italiana.... I vostri padri opposero i loro petti forti, come i vostri monti, all’invasione dello straniero.... volate in massa ai confini, giurando la sua cacciata. La patria vi sta preparando una pagina di gloria....
Pietro Fortunato Calvi, il cavaliere senza macchia e senza paura, eletto dalla Repubblica Veneta a capitano dei Cadorini, in pochi giorni, istituì i corpi franchi, fortificò i passi più importanti del Màuria. Tre Ponti e Venàs e, udito che gli Austriaci, per comando del Nugent, si avanzavano da Belluno per la vallata del Piave, si portò a Tèrmine.
Sopra la strada di Lamagna (dal ponte della Tovanella a Tèrmine), i Cadorini preparano mine: l’unico cannone vien posto sulla strada stessa: dietro gli anfratti e le roccie sporgenti si celano i fucilieri: Calvi è tra i Lancieri (uomini armati di sola lancia, o ferro simile a lancia). Il 7 maggio, i Tedeschi avanzano dalla strada. A un cenno intempestivo, scrosciano e rovinano le mine, spazzando via solamente la testa della colonna nemica, la colonna si ritira a Tèrmine. I nostri la inseguono, ma son costretti a rioccupare le loro posizioni: il forte luogo fu scampo all’invasore fugato alla Tovanella. I nemici, la mattina dell'otto, escono dalle case di Tèrmine, per conquistare le posizioni cadorine tra Rucòrvo e Rivàlgo. La strada è barricata, le nuove mine pronte, le batterie di sassi, dette per ischerzo di sassonia, poste sul pendìo della terrazza, il cui orlo sorpiomba alla strada, aspettano solo un cenno, per precipitare dall'altezza di 150 metri. La colonna nemica si avanza sulla larga via in ordine serrato. Al primo colpo del cannone cadorino piomba sulla colonna nemica con orrendo fracasso una valanga di sassi, di massi, di travi, di terra. Un turbine di polvere, di fumo, di fuoco avvolge la valle tutta; e, dopo qualche istante, s’apre lo spettacolo orrendo di cadaveri frantumati, di membra staccate dai corpi, di visceri raggrumati colla terra e l’ultimo agitarsi dei moribondi sulla via e nel Piave poveri soldati morti, che vanno silenziosamente a deriva, per portare a Belluno l’annunzio dell’eccidio; e, tra i boschi, un correre pazzo di sbandati, cercanti la salvezza nella fuga. La Marmora poteva ben scrivere: onore eterno ai Cadorini!
E Ospitale riposando nella quiete alta del suo seno erboso sogguardava la pugna, forse pensando alla ironia del suo nome. Il paesino antico certo prese il nome da un ospizio ivi aperto sulla vecchia via. Esso esisteva nel secolo decimo; i Caminesi gli concessero privilegi, nel 1314. Degli antichi tempi resta solo una finestra gotica, conservata non si sa come, nelle varie trasformazioni dell'ospizio. Dei fasti della carità nulla sappiamo, degli eccessi della brutalità umana l'incendio del 1511, di cui, forse, pagavano la pena i Tedeschi del 48.
Giù nella vallata, che s'apre a bacino, tra i lavori fatti per domare e dirigere la corrente del Piave, si schierano le seghe di Candidòpoli (la città di Candido Coletti), brutto nome di presunzione classica in una regione, ove la natura profonde tanti bellissimi nomi. É un grandioso stabilimento di seghe, lasciato da Candido Coletti alla Comunità cadorina, per impedire il monopolio del legname e col ricavato erigere, a Pieve, un istituto di educazione. Non incontrò, pare, il gradimento di molti Cadorini interessati, se N. Talamini potè far dire all'ombra del fondatore i loro auguri non soverchiamente gentili:Ohimé che sento di mia gente un grido,
Per invocar le folgori roventi
Sull'edificio, che da me nomai!
O la fiumana, che il travolga seco
Nei vortici frementi!
In ogni modo, il monopolio continuò, l’istituto di educazione è di là da venire e le seghe ingoiarono alla Comunità cadorina parecchie migliaia di lire.
La valle continua profonda, tortuosa. L’uomo rapisce alla destra del fiume solo qualche magro campicello, sempre in procinto di esser trascinato, invisibile contributo alla laguna veneta. Alla sinistra le roccie nude sovrastano all’acque e sostengono verci pendî, macchiati di cespi, e rotti da valloncelli, che ricercano i fianchi diruti della montagna e sui pendî verdi, come segregati dal mondo, riposano gruppi pittoreschi di case. Il Picco di Mezzodi, piegando la testa altera, sembra accennare ai due fiumi, che, dominati dai due torrioni massicci del M. Zucco, uniscono le loto acque in faccia a Peraròlo.
Peraròlo, sprofondato nell’ima valle, si addentra con la vecchia contrada lungo il Bòite, sul cui sfondo dai boschi nereggianti sorge e domina, visione fantastica, la massa scialba dell’Antelào. Il centro si stende e s’allunga, come ali spiegate al volo, in due altre contrade; l’una sale lungo la via di Lamagna, chiamata in questo punto la Cavallèra, l’altra si protende verso Belluno. Di fronte, al di là del Piave, ma unita al paese con un bel ponte di legno, sorride gaia la borgata di Zordo, Nulla di veramente artistico in questo pittoresco paese. Modesta la Villa Lazzaris - Costantini, disegnata dal Negrin, dove la regina Margherita soggiornò per due stagioni estive (1881, 1882). La bella chiesa, disegno dello stesso Negrin, così bene intonata nella linea e nel colore col paesaggio della valle, fu abbattuta, meno il coro, nel 1897, per l’instabilità del sottosuolo corroso dalle infiltrazioni del Bòite. Il vecchio campanile scrostato, solitario tra le case della vecchia contrada, sembra guardare le nuove ville massiccie in muratura, come un vecchio smarrito tra una folla di gente nuova: guarda la vecchia contrada e pargli ravvisarla, guarda i monti alti e le valli e li riconosce, ma il resto gli è interamente ignoto. È il Bòite, che s’è presa la cura, nel 1823, di trascinare Peraròlo nel Piave, in quella innondazione, che nella tradizione e nel poema latino di A. De Lorenzi Perarolensis ruina, rimane ancora col nome di Rovina del 23. La notte del 13 di ottobre di quell’anno, una frana, caduta nel Bòite, ne fermò il corso. Alle quattro pomerid. del 14, il fiume, rotta la diga, si precipitò in colonna alta, formidabile su Peraròlo. Il paese scomparve nei gorghi e uno strato di ghiaia alto due metri segnò il luogo, ove, poche ore avanti, sorgeva. La rovina del 23 eccliss òla memoria di quella del 16 ottobre 1708, che con una rude carezza lasciò il loco di Peraròlo Come un osso nudo, seriza carne, né pelle.
Il Piave, incanalato in una gola stretta e profonda, urla, strepita, romba, spumeggia, ma s’accontenta soltanto di portare sulle sue acque, fino a Peraròlo, il legname, la ricchezza del Cadore.
Peraròlo è l’emporio di tutto il legname cadorino. Le taglie e le travi portate dalle correnti del Piave e del Bòite, tutte convengon qui d’ogni paese. Per questo, opina il Ciani, il paese fu detto anche Porto della laguna, poi, Ponte porto e, ora, Peraròlo, da per il ruolo del legname.
Fin dal tempo dei Romani, l’abete, il pino e il larice del Norico e della Rezia era ricercatissimo per la costruzione delle navi, tanto che a Belluno e a Feltre c’è.
collegi di dendròfori. Venezia attrasse a sè quel commercio e, fino dal 1473, assegnò al Cadore un campo, presso la chiesa di S, Francesco della Vigna, per l’approdo delle zàttere.
La Francia e l’Austria mantennero quel commercio e a Venezia e a Tolone affluiva il legname cadorino, dichiarato da una commissione anglo-francese per uno dei migliori del mondo. Al presente, il commercio continua, ma esso non può sostenere la concorrenza dell’estero più oltre di Ferrara, Verona e Venezia. Da anni ed anni il Cadore domanda al governo la costruzione dì un breve tronco di ferrovia, che lo unisca a Belluno e da anni ed anni il governo promette e non mantiene. Ora che sorgono fortezze e difese militari nelle vallate e sui monti cadorini, giova sperare che le necessità militari unite ai bisogni economici di una regione segregata dalle città, finiranno per accontentare un popolo laborioso, che per l’Italia avendo profuso sangue e sostanze, mal comporta nell’anima fiera l’abbandono larvato di promesse vane. Il giorno in cui si prolungasse la ferrovia fino a Pieve, il benessere del Cadore sarebbe assicurato per doppio motivo: per l’industria del forestiere e per il commercio del legname.
Il legname condotto per vìa fluviale ha bisogno d’infinite e lunghe cure.
Le piante destinate al taglio vengono martellate con una piccola scure, in primavera, o nell’autunno, per l’anno seguente. Le piante si abbattono in maggio, o in giugno, e, talvolta, anche in marzo, o in settembre. Le piante tagliate si scortecciano. si squadrano coll’ascia, detta anche lada, e, poi, se ne fa il disbosco. Esse lungo le risine, vie concave formate di giovani travi fissate al terreno con profondi piuoli, scivolano, sibilando, a valle e si radunano negli stazi, lungo il fiume.
Qui, i mercanti vengono a segnare e a far la tappa (altro segno convenzionale) al legname comperato.
Le taglie e le travi si buttano, poi, nel fiume e que’ morti della montagna da maggio a dicembre, gran menàda, o da febbraio a marzo, menadòla, guidati dalle lunghe pertiche, munite all’estremità dall'anghièr, uncino di ferro a due punte, maneggiato abilmente dai menadàs, gli antichi dendròfori, vanno silenziosamente al Cìdolo.
Il cìdolo è una chiusa artificiale di robuste travi traversali, fermate poderosamente alle roccie. Alle travi traversali si appoggia una cancellata mobile di altre grosse travi verticali con tanto intervallo tra loro, che lasci libero il passaggio dell’acqua e rattenga il legname fluitante. Le taglie e le travi arrivano, si avvicinano, si dispongono, s’addossano, come mandra, che agogni all’uscita. Alla metà di luglio, s’alza la sbarra e i legni sfilano lentamente e ognuno entra nella roggia, che lo condurrà alla sega del proprio padrone. In quei giorni di febbrile lavoro, al Cìdolo ferve Feraròlo, e più al cìdolo sul Piave, ove passano, ogni anno, circa 210 mila taglie e 10 mila travi, che al cidolo sul Bòite, ove passano, ogni anno, circa 60 mila taglie e 20 mila travi. E il legname cadorino non passa tutto per i cìdoli perchè
il carettier per le precipiti
vie tre cavalli regge a un carico
di pino da lungi odorante.
Gran parte del legname vien ridotta in tavole dalle 132 e più seghe, poste lungo la vallata del Piave, da Peraròlo a Longaròne. Le assi si uniscono e legano in zàttere su fondo di travi; le travi si uniscono e legano in barche. Zàttere e barche dirette dagli zattèri, che sanno tutte le insidie dei gorghi e tutta la forza del fiume, si dirigono lentamente alla loro destinazione. Qualche piccola parte del legname vien condotta, per la via di Lamagna, fino a Belluno, sui carri.
La via di Lamagna, a Peraròlo, comincia a salire rapidamente. Essa, ora si serra strettamente al M. Zucco, ora s’avanza arditamente sul burrone precipite del Piave e domina Caralte, antico, grazioso, sorridente villaggio, adagiato sur un vero pianoro. protetto alle spalle dagli alti monti e tolto alla vista di Peraròlo dal rado bosco di verso il Piave.
Mano mano che la strada sale, l'orizzonte sulla vallata s'allarga e nuove cime scialbe, come moventisi per incanto, spuntano, sorgono dai boschi e si dilatano ad occupare lo spazio.
Damòs con l'antica chiesina evita lo sguardo curioso dei passanti e s'addossa timidamente al M. Zucco. La vecchia strada della Greola, ora chiamata Via della Regina, sparisce tra boschi di abeti e di giovani pini e risaluta, a Valle, la via di Lamagna.
La vallata inferiore del Piave scompare e s'allarga in mite declivio Val Calda. Tra i radi abeti di destra si intravede la bianca chiesa del Crocefisso e Montericco e Sottocastello. Nella bassura, verso il Boite, Tai mostra il suo tozzo campanile e appoggiata ad esso, come pigmeo a un gigante, l’umile chiesetta: pittoresche riposano al sole le vecchie case rustiche.
Pieve, che allegra siede tra’ colli arridenti e del Piave
ode basso lo strepito
allunga fino a Tai la sua contrada sulla strada solatìa, a ridosso del M. Contràs e il campanile massiccio e la torre della Comunità, a cavaliere del collo fra il Contràs e Montericco, spiccano in alto.
Montericco severo protegge le tre vallate e, nell'azzurro, sorgenti dai boschi scintillano le Marmaròle care al Vecellio.
Pieve è il più importante centro storico di tutto il Cadore. Intorno alle rovine del castrum romano crebbe, a poco a poco, la plebs maggiore di tutti i villaggi cadorini, si svolsero le istituzioni e si venne formando l'unità della piccola repubblica alpina.
In Pieve, Bertrando patriarca sanzionò i diritti del Cadore e Venezia pose la sua rocca contro le incursioni nordiche. Ivi, nel 1447, sorse il palazzo della Comunità e la sua torre severa colla campana dell'arrengo (1491); distrutto (1518). fu tosto riedificato per volontà di popolo (1525).
Da quel palazzo partì, nel 1848, il grido della riscossa contro lo straniero e in esso la patria unì le sue più care memorie.
Al palazzo della Comunità mal corrispondono gli edifici circostanti alla piazza, tranne, forse, il palazzo Sampieri e Sòlero, e, più lontana, casa Coletti, già di Tiziano Vecellio l’oratore, a cui fu lasciata, con gusto raro in questi paesi, ove domina la smania del moderno, l’antica, semplicissima, ma graziosa facciata.
Poche sono le chiese di Pieve e di poco valore artistico. La chiesa del Crocefisso fra Pieve e Tai, detta così per un Crocefisso di grandezza naturale, trovato, dice la pia tradizione, dai bifolchi, che aravano in Val Calda, se è il santuario a cui accorrono tutti i paesi del Cadore, pure per l’arte architettonica non ha nulla di notevole.
La chiesa arcidiaconale fu costruita su disegno dello Schiavi e sotto la direzione di S. Boni (1814-19). Con insigne esempio d’insipienza fu allora, abbattuto il coro dell’antichissima chiesa; il coro era affrescato, su disegni di Tiziano, da tre suoi scolari Marco di Tiziano, G. Fante, Em. Armfeler. La facciata attuale, non troppo bella per la pesantezza e disarmonia delle parti, è disegno di Giovanni Miglioranza, architetto vicentino. L’interno della chiesa ad una sola navata seria, decorosa: la adorna un quadro della Madonna col Bambino al seno e, intorno, alcuni Santi, attribuito a Tiziano.
La tradizione paesana non interrotta e gli scrittori cadorini concordemente affermano che il quadro è veramente di Tiziano e tutte le figure sono membri della famiglia del sommo colorista cadorino. Sicchè la Madonna sarebbe Lavinia, la formosa figliuola di Tiziano, a lui più cara al mondo di ogni altra cosa; S. Giuseppe, il fratello Francesco; S. Tiziano vescovo, il figlio Pomponio, prete punto degno di stare in quellarcompagnia e sotto quel manto; il chierico inserviente sarebbe lo stesso Tiziano.
Il Ciani, parlando del quadro, sembra lavori su documenti: lo dice dipinto da Tiziano, nel 1565, per la cappella della sua famiglia e moraleggia sulla pietà del suo grande concittadino, ma quando ci descrive una Madonna col bambino al collo e non al seno, un S. Andrea e non un S. Giuseppe, quasi quasi ci farebbe sospettare di non aver avuta molta famigliarità col quadro in parola. I signori Cavalcaselle e Crowe lo ritengono di Orazio Vecellio, figlio di Tiziano. Le ragioni de’ due illustri critici d’arte spiegano egregiamente le ingiurie sofferte dal quadro da parte degli uomini e del tempo, ma non persuadono ad attribuirlo interamente ad Orazio. L’atteggiamento e la fisonomia del chierico, un vero autoritratto di Tiziano, tanto simile a quello del Prado di Madrid, le belle forme di Lavinia, quasi eguali alla Madonna della Sacra famiglia con i ritratti della famiglia dei donatori di Dresda, in cui Lavinia, come in altri quadri servì certamente da modello, l’intensità viva e il movimento delle figure tutte tenderebbero a dar ragione alla tradizione più che alla critica. Forse tradizione e critica si accorderanno nell’affermare che il quadro è veramente del vecchio Tiziano, ma che in esso, come faceva negli ultimi anni del padre, lavorò anche il figliuolo Orazio.
Un altro quadro attribuito alla prima maniera di Tiziano, nella stessa chiesa di Pieve, la Madonna dipinta, dicesi, con succhi di erbe da Tiziano fanciullo decenne in casa Valenzasca, la vecchia donna che fila in casa Coletti a Pieve, la Madonna del Rosario a Candide, le tre tele riunite in una nella chiesa di Valle, la pala della Vergine con Santi nella chiesa di Vinigo, possono ringraziare la tradizione, che li onora, attribuendoli a Tiziano. Due dipinti esistenti in Cadore non furono mai messi in dubbio: l’angelo dipinto sur un balcone, che si conserva nel Museo di Pieve e la pala di S. Anna in Zoppè, nascosta e incoscientemente rovinata nel 1796, per salvarla dagli onori del Louvre. Angelo e Madonna sono orribilmente deturpati dal tempo e dalla passata incuria.
Cesare Vecellio ha, nella chiesa arcidiaconale, un grande quadro, rappresentante l'Ultima cena, ora posto in alto, sopra l’altare maggiore. Dietro lo stesso altare in una penombra dannosa s’erge appoggiato alla parete un tabernacolo di buona scuola cinquecentista con eleganti ornati su pietra e colonnine in verde antico e portelle dipinte dal Palma Vecchio. Nella sacrestia inferiore sono disposte in una luce non buona una minuscola e negletta Deposizione del Palma Giovane, una Madonna con Santi di splendido colorito di scuola veneta attribuita al Catena, una copia di un gonfalone dipinto da Tiziano, fatta da Pomponio Amalteo: i Francesi portarono via la tela originale e, in compenso, lasciarono piantato sulla piazza di Pieve l’albero della libertà: per ultimo, quattro portelle di deteriorata scuola fiamminga. Nella casa canonica v’è un quadretto del Cima e uno di Zorzi Sirtico.
L’altra chiesa di Pieve è una cappella di stile gotico così artisticamente fortunata da servire, ora da polveriera, ora da cantina: anche oggi conserva le belle finestre murate fino a due terzi e l’inferriate rudi conficcate nei lobi dell’arco,
Peggior sorte toccò all'antica chiesa di S. Maria: essa rovinò nei primi anni del trecento. Da quella chiesina usciva la confraternita dei Battuti, cantando con accento di tenerezza appassionata le pene e le glorie di Gesù e di Maria. Il canto mesto si ripercoteva lungo nelle vallate e si univa a quello della compagnia di Domegge e di Vigo.
Çente, c'andà for per la via.
vardà questa mia gran dolìa
del figlol de Santa Maria
che l'é mort çença gausone.
E Giovanni la conforta:
No plançé, sancta Maria,
che vov sè la mare mia
anderemo en Galilea
là m'avrè per compagnone.
E la processione intona la laude a Maria:
Oy dona del cel rayna
dita sè stela marina:
voy sé lus de la maytina
A chi vol a voy tornare.
A voy, vergene, tornemo
molto forte suspiremo.
cum la scova se batemo
per via eterna a lui trovare.
Il canto delle anime appassionate per Gesù e per Maria saliva, nella dolce prima favella nostra, dai piani a queste valli remote, legandole, per sempre, a Italia madre.
Pieve ha pure inaugurato (1880) il suo piccolo Museo, dove memorie tizianesche, lapidi eugance e romane, oggetti di scavo, monete, armi, utensili e fossili raccolti nella regione cadorina aspettano l’opera intelligente di uno studioso, che li ordini e li illustri con amore. Accanto a questa stanza chi brama di conoscere un po’ seriamente la vita, la storia, la fauna e la flora cadorina può imaginarsi di trovare una biblioteca, che raccolga tutto ciò che fu scritto in Italia e fuori sul Cadore, un archivio, che aduni le pergamene numerose sparse nei vari paesi, una sala, ove siano disposti i vari tipi di animali, un'altra, ove siano ordinate le piante, i fiori, l'erbe, i licheni, una terza, ove siano collocate scientificamente le diverse roccie e i minerali cadorini. Per ora, tutto questo è un bel sogno per Pieve, perchè la biblioteca cadorina, iniziata dal prof. A. Ronzòn, è a Vigo, un luogo tanto lontano e fuori di mano: le pergamene più o meno bene conservate sono ancora sparse per il Cadore, la fauna vive non studiata, l'erbario raccolto dal farmacista S. Venzo di Lozzo si può vedere a.... Firenze, nel Museo di scienze naturali, le roccie e i minerali aspettano chi li raccolga e li studi. Non è detto, però, che i sogni, messe da parte in nome della fraternità e della scienza certe gare paesane, che sotto, sotto sono causa di questa impotenza al vero progresso, non è detto che i sogni non possano divenire realtà. Occorre solamente che, data la preminenza a Pieve, come centro storico del Cadore, gli altri paesi non s'argomentino di essere, o di diventare piccole capitali di minuscoli regni.
Del resto, queste gare paesane sono un prodotto storico del costume e dell'ambiente cadorino.
I laudi e le regole antiche ridussero ogni più piccolo paese a un centro libero, intollerante di ogni fatto, che avesse solo l'apparenza di menomarne la libertà: i paesini divisi tra loro da barriere naturali vissero una vita propria legata alla grande Comunità solamente da interessi supremi. In questo ambiente il carattere cadorino potè conservarsi per secoli e secoli, riducendo le infiltrazioni provenienti dall'esterno. Robusto, sano, il Cadorino s'accontenta di poco, per vivere: indurisce nelle fatiche con stoica tranquillità. Combatte per tutto quello che stima suo diritto con la tenacia delle sue roccie. Orgoglioso della sua storia, ne rammenta i fasti con sincerità commovente.
Accorto abitatore delle montagne, che magnifica in patria e a cui torna dai lontani paesi con un pensiero di nostalgia, sa tutti i piccoli ripieghi e tende al guadagno con assiduità mirabile: il sospetto di perdere lo rende timido amico delle larghe istituzioni economiche moderne. Acuto d'ingegno, ha parola pronta, sagace, persuasiva, non disgiunta dalle molli flessuosità venete. Ospitale, accoglie con bontà cortese, senza trascurare le buone occasioni per fare il proprio interesse. Non molto istruito, perchè lontano dai centri popolari di coltura e, fino a pochi anni addietro, poco tenero della istruzione elementare, portato fuori dal suo campo pratico esprime il suo pensiero faticosamente, enfaticamente. Tale è il carattere della generazione, che vide il 48: la nuova, a poco a poco, va mutandosi per le novissime forme del pensiero critico e dei criteri morali, che l'emigrazione e la crescente frequenza dei visitatori importano di continuo.
Anche nella generazione nuova, però, permane vivissimo il ricordo dei grandi, che illustrarono la patria. Tiziano vive ancora tra essi, come tornava tra essi, sempre che avesse un po' di tempo, per rivedere i suoi monti.
A' tuoi monti tu pur dall'Adria ogn'anno,
Vinto da patrio affetto,
Tiziano, venivi ad ispirarti
Onde tanta di genio ala spiegasti.
Ecco il Ròccolo di S. Alìpio, un nido verde, gaio, appeso alla roccia nuda, a picco, contro cui batte e spumeggia il Piave risonante. Da quel nido verde in cui l'ombra nera de' carpini si intreccia con la sfumata, tenue ombra de' larici frangiati e un tappeto di smeraldo s'adagia sul declivio molle del poggio, Tiziano, narra il popolo, e lo conferma il grande quadro della Presentazione, ritraeva le Marmaròle. E non solo le Marmaròle. ma tutto il paesaggio cadorino balzava vivo, splendido nei quadri del sommo colorista. E nel paesaggio la flora de' suoi monti e le roccie a picco sormontate dai piccoli abeti abbarbicati ai greti e le verdi praterie spruzzate di cespugli in fiore e la cupa ombrìa delle selve e le dolomiti, ora emergenti da un mare di nebbia, ora velate quasi interamente da essa, ora fasciate dai boschi nereggianti: e la luce delle aurore e dei tramonti e gli spettacoli delle nubi in tempesta, o delle nubi pascenti sulle alte cime: e sul paesaggio ritratta la maschia femminilità cadorina dai morbidi contorni, dalle fresche, rotonde gote, dalle tumide labbra porporine, dallo sguardo vivo, scintillante, appassionato e, spesso, con loro i paffuti puttini del Cadore, la cui visione gaia rinnovarono Brustolòn e Besarèl e rinnova il Piazza di Lorenzàgo.
Il Cadore volle onorata la memoria del grande, che lo rivelò al mondo. Segnò con una lapide l’umile casetta, ove nacque colui che per le vie dell’arte preparava il risorgimento della patria. Il grande, ora, la guarda con pensiero grave dall’alto piedestallo su cui lo vollero innalzato i concittadini memori.
Il Dal Zotto ne espresse le linee severe e i Cadorini vi scrissero semplicemente: A Tiziano il Cadore (1880).
Essi, per l’artista, non dimenticarono coloro che soffrirono combattendo per la patria. Pietro Fortunato Calvi è ricordato coi morti nelle battaglie del 48, in un modesto monumento ai piedi della torre della Comunità: sui gradini, ai lati dello zoccolo, posano due leoni. Il leone di sinistra col capo appoggiato allo zoccolo pare rimpianga i prodi caduti, il leone alato di destra alza alteramente la testa, superbo dei ricordi del passato. E, in questi luoghi, i ricordi del passato soccorrono in folla, suffusi della luce della gloria.
Gli anni fortunosi della lega di Cambrai scrissero nella gloria del Cadore memorie incancellabili di dolori grandi, di fedeltà inconcussa a Venezia, di combattimenti vittoriosi contro il nemico comune. Tra Massimiliano imperatore e la Repubblica Veneta ardeva la guerra. Il Cadore, per i Tedeschi, fu la via aperta, per correre ai danni di Venezia.
Venezia mandò a custodire il Friuli e il Cadore troppo tardi. I Cadorini, da soli mal poterono opporsi all’esercito invasore ingrossato dagli Ampezzani defezionati. Il castello di Pieve fu preso dal Sistraus e la piccola guarnigione veneta ignominiosamente impiccata. Il vincitore tentò ogni via, per indurre i Cadorini a parteggiare per la Germania. Essi, per tutta risposta, mandarono a Venezia un comitato, per implorare soccorso. Il governo della Repubblica, compresa la gravità della situazione, ordinò a Gerolamo Savorgnano di muovere per il Màuria, al Cadore, e all’Alviano di congiungersi con lui nella stessa regione. Il piano combinato portava: tagliar la via di Lamagna ai Tedeschi, l'ala sinistra da Nebbiù a Valle, la destra alle falde del Monte Zucco, il centro sulla via di Lamagna, presso il ponte di Rusecco. Il Sistraus, slanciatosi contro il centro, fu ucciso al principiar della mischia: la sua morte mutò la battaglia in un vero macello di Tedeschi. Veneziani e Cadorini, memori delle recenti offese, non danno quartiere. Caddero, in quella memorabile giornata, ben 1734 Tedeschi e, tra essi, tre giovani donne, che in abiti virili avevano seguito e diviso la sorte dei loro uomini. Rusecco, il torrentello ghiaioso e quasi sempre asciutto (Rio secco), passò nella storia per il glorioso fatto d'arme del 2 marzo 1508. Tiziano dipinse la battaglia di Rusecco, detta anche battaglia di Cadore, nel palazzo ducale di Venezia (1523). Il dipinto, bruciato nel 1577, fu ripetuto da Francesco da Ponte bassanese nel soppalco della sala maggiore. Lo cantò in un'ode latina il Cotta amico dell'Alviano e ne ripeté la memoria il poeta cadorino N. Talamini. Il genio di Carducci rinnovò la visione gloriosa coll'impeto fremente di un inno di guerra.
Sol de le antiche glorie, con quanto ardore tu abbracci
l'alpi ed i fiumi e gli uomini!
tu fra le zolle sotto le nere boscaglie d'abeti
visiti i morti e susciti.
– Nati sull'ossa nostre, ferite, figliuoli, ferite
sopra l'eterno barbaro:
da' nevai che di sangue tingemmo crosciate, macigni
valanghe, stritolatelo –.
Tale da monte a monte rimbomba la voce de' morti
che a Rusecco pugnarono:
Il generale Anhalt ebbe ordine, allora, di invadere, dalla parte del Màuria, l’indomita regione. I Cadorini tornati, in fretta, da Belluno lo attesero coi Veneziani a Vallesella e lo sconfissero completamente, uccidendogli 800 soldati (novembre 1506). Le battaglie di Rusecco e di Vallesella fiaccarono la potenza alemanna e le gole e le valli cadorine divennero terribilmente celebri nei ricordi degli invasori. Venezia, cessato l’uragano di guerre, che ne minacciò fin l’esistenza, inscrisse nel Libro d’oro i poveri abitanti del Cadore, in compenso della loro eroica fedeltà e valore. Si ebbero, dipoi, lunghi anni di tranquillità. Il vecchio castello, che, durante le guerre, fu abbattuto, ma tosto rialzato, nella pace, soggiacque miseramente. Le sue pietre servirono al coro della chiesa e ad altre costruzioni. Ma, ora, sulle sue fondamenta, irti di bocche ignivome si alzano i forti dominanti le valli del Piave e del Bòite e sul Bòite, là dove finisce il campo dei cannoni di Pieve per la brusca svoltata della valle, il forte poderoso di Col Vachèr ammonisce il nemico.
E, intanto, nell’ora di calma attuale verdeggiano i poggi e i pascoli intorno a Pieve.
Ad oriente, in una molle curva, l’ampia vallata digradante al Piave riposa sotto la gloria del sole, al meriggio, e avvolta nella grande, tacita ombra delle Marmaròle, a sera, ombra, che mirabilmente contrasta colla mole del Tudàio rutilante, come un sogno orientale. E nella vallata declive paesini e borgate disposti lungo il bianco nastro della strada, come vezzi di corallo, e intorno, intorno, boschi nereggianti, abbracciati dai piani erbosi e sovr’essi linee tozze di monti bianchicci, picchiettati di radi abeti e lungo il ciglione del Piave e dei torrenti brulle roccie denudate dalle acque e qua e là ciuffi graziosi di giovani larici.
Alle falde dello scialbo Trànego, s’adagia in una verde piana nascosta ai passanti Pozzàle, nido di memorie euganee e romane e culla degli avi di Tiziano. L’arte vi dimenticò un bel quadro di Vittor Carpaccio con firma autografa, Victor Carpactius Venetus e la sua brava data, pinxit MDXVIIII. L’hanno confinato, lassù in alto, sur una parete laterale della nuova chiesa e, benchè un po’ sciupacchiato dalla umidità, aspetta gli facciano una cornice degna e lo riportino sopra un altare a prendere il posto di qualche litografia nuovissima e volgarissima.
I Pozzalesi sono gente laboriosa, semplice e bonaria, che parla da secoli un suo dialetto molle, grazioso, con una cantilena tutta sua propria. Sono un popolo che, come i vecchi gondolieri della laguna, canta ancora nelle limpide sere lunate le ottave della Gerusalemme liberata, ridotte non si sa da chi, nè quando, nel loro dialetto.
Erminia, intanto, fra pedai e ombria
De selve e bosche sul ciavàl sen’ dea:
La man i trema e pi no cen la bria (briglia)
Tra viva e morta meda la parea.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Da Pozzàle parte, verso oriente, un sentiero largo, piano tra rigogliosi sicomori.
Da esso l’occhio spazia su tutta la vallata: è, forse, il miglior punto per dominarla completamente. La romantica stradicciuola scende, poi, rapidamente alla valle del Molinà fra il verde tenero dei pascoli e dei larici, e, prima di toccarla, s’incontra in Calàlzo, Calàlzo posa sopra un ripiano morènico,
. . . . . e l’incorona
Un magico orizzonte
Popolato di ville: e mostra a tergo
Le Marmaròle, che eternò la mano
Dell’immortal Tiziano.
È un paesino, che conserva ancora una intera contrada pittoresca di vecchie case di tipo cadorino, che in bellezza vincono mille volte le nuove case in muratura.
Una Concetta del Brustolòn in Canonica e quattro quadretti di Orazio Vecellio in chiesa formano tutto il patrimonio artistico di Calàlzo.
Il patrimonio morale è costituito dalla semplicità del costume e dal fiero coraggio degli abitanti. Lo seppe il maggiore Hablitschek, il 21 maggio 1848, quando, al suono delle campane, fu costretto dalle sole donne di Calàlzo a ritornare sui suoi passi per la Valle d’Oten e Forcella piccola. Calàlzo guarda Rezziòs, borgata al di là del torrente, riposante nel silenzio dei boschi, come un uomo noncurante del presente, memore solo de’ Foscari e de’ Collalto, che ad essa mandarono quadri votivi, e di Marco D’Aviàn cappellano di armata all’assedio di Vienna (1683). E Grea, la sorridente Grea, sporge dal poggio solatio sulla via bianca, come fanciulla curiosa, che s’affacci al balcone.
Giù, nel fondo della valle, il Molinà muove al lavoro le ruote della fabbrica di strumenti ottici iniziata da Leone Frescura e C. e. poi, sviluppata dal Ferrari e C., che, nonostante l’incendio del 1896, impose la sua merce ai mercati d’Italia e diventò una fortunata rivale delle fabbriche tedesche e francesi.
Le acque del Molinà, inabissate nella valle, risuonano sempre, rompendosi tra i macigni e corrono sotto l’alto ponte a due archi su cui passa la strada di Domegge. Sul ciglione della strada, sullo sfondo della valle dominata dall’Antelào simile a monile rutilante sospeso sui boschi nereggianti, sorride la chiesetta gotica del Molinà, delizia dei pittori. Vallesella, più bassa, si allunga di verso il Piave in una striscia di case bigie, rotta dal candore della nuova chiesa. Essa si ricorda con Danta di esser stata donata da Enrico l’Uccellatore al vescovo di Frisinga (925) e della sconfitta dell'Anhalt, nel 1509, come vede, ora, conservata dal genio militare la via per Lorenzàgo e la Carnia. Vallesella è frazione di Domegge.
Domegge e la vicina Lozzo, esistevano, già, nei tempi preromani, come lo affermano le lapidi euganee trovate. Lozzo, anzi, di Cadore richiama alla mente Lozzo atestino, grosso centro euganeo posto alle radici dei monti omonimi. L’omonimia de’ due paesi sarebbe, quindi, un argomento di più, per affermare la presenza degli Euganei in Cadore e, specialmente, nella vallata superiore del Piave. Una iscrizione tradotta certamente dal latino ci narra che la chiesa di Domegge fu fabbricata nell’anno 809 governando la chiesa di Dio Leone III Font. Massimo et imperando Carlo Magno re di Francia. Quel Magno dato a Carlo ancora in vita indica, probabilmente, che la iscrizione non fissava una data, ma consacrava una tradizione.
A Domegge, è nato G. Ciani (1793-1867), l'Erodoto della storia cadorina. Nella sua Storia del popolo cadorino (1856-62) di Erodoto egli ha, spesso, la sincerità efficace della narrazione e la credulità ingenua, allargata, per soprassello, alla creazione fantastica di etimologie tanto da disgradarne un Carafulla. Gli resta sempre il merito di aver aperto la serie degli scrittori cadorini, che si occuparono della storia del loro paese e di avere adunato e disposto una grande quantità di materiale storico. Dopo lui, G. Monti di Candide riuni i documenti riguardanti Cadore e i suoi centenari sotto Venezia: G. Cadorin (m. 1851) s’occupò bellamente di Tiziano; Giov. De Donà delle memorie storiche. Il prof. Ant. Ronzon di Laggio (1848-1905), schietta anima cadorina e valente scrutatore di documenti, fin dal 1870, coadiuvato validamente da don Pietro Da Ronco, parroco di Lorenzàgo, immise nel racconto storico il metodo scientifico con acuta serenità obbiettiva. Gli Almanacchi cadorini, Il Cadore descritto, l’Archivio storico cadorino, le Memorie su Luigi Coletti e tantissime altre più o meno importanti pubblicazioni intorno alle cose patrie mettono il suo nome vicino vicino a quello del Ciani. Sventuratamente la morte impedi al valente professore di fondere in un solo lavoro organico i molteplici studi frammentari.
Ciò nonostante, i suoi scritti sono una miniera preziosa, indispensabile per chi voglia parlare con qualche sicurezza del Cadore.
Chi da Domegge alza gli occhi al Froppa di fronte (non lo si confonda col Froppa delle Marmarole) vede, tra gli abeti, qualche lembo bianco di una chiesetta sperduta nel bosco. E la chiesetta di S. Giovanni Battista. Li, vicino, fu l’eremo fondato, nel 1720, da un certo G. M. Pinazza; l’eremo diventò, presto, un convento francescano, ora soppresso. Fu l’unico convento, che mai abbia avuto il Cadore. Perchè unico e non vitale? Certamente per la povertà relativa del paese, per una spiegabile avversione a tutto quello che non è lavoro e attività pratica e per lo spirito d’indipendenza, il quale abborriva che al clero uscente dal suo seno si mescolassero elementi eterogenei. Il Cadore ebbe la fortuna di possedere, in tutti i tempi, un clero, che ne rispecchiò l’anima semplice, pura di una purezza vigorosa e libera, un clero, che per l’alto sentimento religioso e per il profondo sentimento umano e patriottico non subi le vicende di tempi nefasti alla fede e, perfino nelle lotte degli ultimi trent’anni, non acconsentì mai di dividere e, tanto meno, di porre in conflitto il sentimento di patria col sentimento di religione. La chiesetta occhieggiante fra le piante, ora è meta di festose gite primaverili, quasi ad inneggiare alla terra, che si scioglie dalle crude strette del ghiaccio, all’erbe, che si muovono, ai primi fiori, che sbocciano sulle pendici, sui poggi e nei campi. La spianata del Piave diventa, presto, un giardino in fiore e, a luglio, il declivio largo si disegna in rettangoli, in quadrati di frumento, di avena, di orzo e di segala; in campi di granoturco divisi in quadretti dalle piante di fagiuolo, che ricercano la luce avvolgendosi alle piante stesse del grano; in prati di erba molle, tenera, su cui posa a disegno, ora di elissi, ora di rettangolo, l’umile canapa stesa a disseccare; in terreni bruni messi a patate e in qualche raro campicello di gran saraceno disegnante co’ vaghi, piccoli fiori un tenue velo di rosa.
Il sole, nell’estate, incombe su questa conca bassa, come sulla costiera cadorina del Boite e con minor caldura nella piana di Cortina e sui poggi di Candide. Pieve è accarezzata e ventilata, anche nei meriggi, dalla corrente del Piave; le altre vallate, più o meno, risentono il ristoro delizioso delle correnti di aria fresca; Misurina ha, già, il clima dell’alta montagna. Nell’inverno, il freddo è intenso in quasi tutto il Cadore, ma, specialmente, a S. Stefano, ad Auronzo e nei tre paesetti di Oltremonti.
La strada, che attraversa tutta la fertile valle superiore del Piave, prima di raggiungere il ponte sul fiume stesso taglia in due Lozzo, basso paesino antichissimo, ove, in questi ultimi decenni, fu scoperta una vera necropoli romana. Lozzo, anche se non avesse quel sassato, brulla roccia, che gli sorpiomba quasi a picco, non sarare, davvero, un Treviso rifatto, o lo sarace, solamente in grazia della rima lozzato, estorta, torturando Lozzo.
La strada corre alla valle, avendo sempre di fronte tutto il largo, falcato pianoro di Oltrepiave, un pianoro caratteristico, tutto a prati e a campi coltivati, campi e prati, macchiettati di gruppi di larici dalla tenue ombra, di gruppi di abeti proiettanti sull’erbe le dense, cupe ombre.
Plòs solatio sorride, di contro a mezzogiorno, stendendosi a riposo sul dorso mollemente arcuato del largo poggio, un dorso di poggio coronato di boschi, di abeti e di larici e disegnato, come una scacchiera, di mille campicelli coltivati,
E Lorenzago aprica tra i campi declivi che d’alto
la valle domina.
Il campanile alto, fendente l’azzurro, protegge il paese disposto lungo la via del Mauria e, quasi, vorrebbe ricordare il gran defunto di S. Marco, forse, in relazione al titolo di Venezia auta (alta) dato dai Cadorini a Lorenzago, per ricordare la nobile città delle lagune.
Laggio accenna di lontano col campanile acuto: e Vigo si nasconde nel divino pianoro falcato, che il Tudaio (2491 m.) tozzo, il turrito Schiavon (2317 m.), il dentato Cridola (2581 m.), l’Agùto (2295 m.) e il Montanel (2241 m.) cinti fino alla metà di verde capo coronano, formando un semicerchio splendido sotteso, ad occidente, dalla linea odulata del Pian de Buoi.
La strada di Lozzo con molle curva ricerca il Piave e lo passa sul Ponte nuovo un arco imponente slanciato sopra un abisso di quaranta metri, sul cui fondo il fiume. quasi schivo di farsi vedere, corre via, per ricevere il tributo della vicina Piòva risonante con altro metro.
Dopo il ponte la strada si biforca in due rami. l’uno, per Lorenzago, s’inoltra nella Carnia per il Mauria, l’altro segue la vallata del Piave, stretta tra le prode ridenti dell’Oltrepiave e il dorso ripido e boscoso del Pian de Buoi.
A Treponti, una solitaria stradicciuola mette nuovamente sui prati e tra i boschi dell’Oltrepiave. Appoggiato al Tudaio, come la tenda del Beduino alle piramidi, tace Pinic, pittoresco villaggio di vecchio tipo cadorino. Dai balconi delle vecchie case pendono a ciocche i garofani in fiore. Agli eleganti ballatoi s’affacciano timide le belle giovani brune e, gettando dall’occhio cerulo e dal labbro di corallo il sorriso semplice e cortese, offrono al visitatore i fiori da esse educati con tanta cura. Il tipo moderno di donna di Oltrepiave e di Auronzo nulla ha che rammenti, anche lontanamente. le donne tizianesche. Alto, bruno, quasi aristocratico, negli occhi intelligenti rivela un fondo vago di tristezza: veste con proprietà ne' di feriali, con pittoresca eleganza nei di festivi.
Il nero scialle, ripiegato sul capo con arte inconscia, incornicia mirabilmente le linee fini del volto. Rade volte accade d'incontrarvi nelle vallate cadorine in tipi di giovani donne tizianesche. più spesso s'incontrano nelle fanciulle giovanissime, prima che le rudi fatiche ne sciupino la virile bellezza.
Le donne cadorine, nell'assenza degli uomini, emigranti all'estero per buona parte dell'anno, devono attendere a tutti i lavori della campagna. Falciano il fieno, mietono i grani, portano le legna dal bosco e il concime in pesanti gerle nei campi e nei prati. Naturalmente, per belle e vigorose che siano, come osservò anche la Regina Margherita, invecchiano prima del tempo. E l'Augusta Donna, forse, non le vide in lunga fila, curve sotto i sacchi di sabbia, rosse in viso e grondanti sudore, non le vide salire gli aspri sentieri del Piave e dirigersi alle move costruzioni di Laggio e di Vigo.
Vigo, il centro dell'Oltrepiave, è tolto alla vista della strada, che ne circuisce i confini dalla parte del fiume, dal Colle militare, su cui, ora, si sta erigendo un forte di sbarramento. Il nome del paese (Vicus) ne attesta l'antichità.
Al tempo della Repubblica Veneta era capoluogo della Centuria dell'Oltrepiave, a cui era unito anche Lozzo. Nell'Archivio comunale sono raccolte memorie e pergamene antiche, nella Biblioteca cadorina fondata dal Ronzon libri e manoscritti riguardanti il Cadore.
La chiesetta della Difesa, compiuta nel 1512 per un voto fatto nel 1509, ricorda l'invasione degli Imperiali. A sinistra dell'altare, in rozzo affresco, v'è dipinto un sa- cerdote, che celebra la Messa circondato da molti Cadorini in giubba rossa e calzoni bianchi, in alto il castello di Pieve e, più sopra, la Madonna e il tempietto votivo. Un'iscrizione dice: MCCCCCXIII ― ADI X DE DE ― CEMBRIO. SIANDO. ELP ― AESE. IN GRADA FOR ― TUNA. DATODESCHI ― EL PLEBANO, CON EL ― SUO POPULO, FECE. VO ― DO. DEFARE.VNA, GESI ― A. ALAUDE. DE LAMADONA. Evidentemente la coltura classica del Rinascimento non toccò queste vallate e l'arte epigrafica ebbe tempo di svolgersi, per venire alle enfatiche iscrizioni del Risorgimento italiano.
La chiesa parrocchiale a tre navate gotiche, costruite in tempi diversi, ha sulle pareti laterali del coro due quadri di T. Da Rin. Il quadro dei Profanatori del Tempio mostra la buona composizione, il tocco vigoroso e il colorito vivace del pittore cadorino e l'altro quadro Gesù in mezzo ai fanciulli manifesta l'evoluzione del Da Rin verso una tecnica e un criterio più moderno di concepire l'arte. Il Besarèl ha, nel primo altare laterale sinistro, una splendida pala scolpita in legno.
Molto più importante, nei riguardi dell'arte, è la chiesa di S. Orsola, dichiarata monumento nazionale.
La bella chiesina si proietta sullo sfondo dei boschi e sulle grigie dolomiti. Fu eretta, nel 1344, da Ainardo di Vigo, figlio di Odorico podestà del Cadore, per conto dei Caminesi. Gli affreschi furono ordinati da Pandolfo di Lienz, secondo marito di Margherita di Lisach in Carintia.
Grazioso nella sua semplicità l'ampio sporto, che protegge la facciata, adorna di due affreschi rappresentanti, quello a destra la Vergine e quello a sinistra il tradizionale S. Cristoforo, ma ridotto a proporzioni naturali. Lo stesso artista affrescÒ le pareti interne del piccolo tempio.
Gli affreschi narrano gli episodi più salienti della vita e del martirio di Orsola santa e delle sue undicimila compagne vergini e martiri, fantasiosa leggenda svoltasi dalla interpretazione di Undecimilla (undecima figlia), grazioso sopranome di Orsola. E il tema caro al Carpaccio e a Caterina Vigri, la santa bolognese. In una parte della parete a destra di chi entra. Orsola, la formosa figliuola di Dionnoc, re di Cornovaglia, riceve dal Papa la bandiera sacra, che deve condurla con le sue compagne invitte nella fede al valoroso Conon, conquistatore dell’Armorica. Nella parete di fronte, il corteo delle vergini, benedetti i due supplicanti, si prepara a partire.
A destra dell’altare, la flottiglia portante la primavera del sangue britanno, si avanza sul fiume a vele spiegate, sventola a poppa la croce bianca in campo rosso. A sinistra, le belle teste altiere e pensose cadono sotto le spade degli Unni, il cui capo Gauno invano anelò alle nozze della vergine cristiana. Continuando, sulla parete di destra raccolte in larghe casse le teste virginee in atteggiamento sereno, come di gente, che saluta nella sera precoce l’aurora di un giorno, che non conosce tramonto, riposano belle anche nella morte. Ai fianchi della porta, son dipinti episodi personali di Ainardo di Margherita da una parte. Ainardo morente consolato da S. Orsola: dall’altra. S. Orsola che conforta sul letto di morte Margherita di Carintia.
Sono squarci di un radioso poema di fede, ritratti con solenne gravità di forme, con profonda tenerezza di sentimento, con tecnica abbastanza sicura. Solamente l’incuria degli uomini ha potuto alquanto sciupare la vivezza dei colori.
Incerto l’autore: chi dice gli affreschi opera di Vitulino da Serravalle, chi di G. F. di Tolmezzo, detto il Tolmezzino, quello stesso che fece gli affreschi nella chiesa di S. Floriano a Forni di sopra: in questa ultima ipotesi, l’opera d’arte sarebbe stata eseguita intorno il 500.
Più antica ancora di S. Orsola è la cappellina di S. Margherita di Salagona, smarrita, ora, nel declivio dolce di Mellère, che digrada da Laggio in mezzo ai prati, dove un giorno si adunavano gli uomini della Centuria dell’Oltrepiave.
Sulle brevi pareti della chiesina esistono degli affreschi importantissimi per la storia dell’arte. Diversi i pittori, che li eseguirono: inesperto scombiccheratore di pareti quegli che volle dipingere S. Anastasia, che assiste al parto della Vergine. La leggenda col suo anacronismo un po’ evidente, forse, s’è spenta in Cadore, ma i contadini delle valli toscane cantano, ancora, sur una vecchia cantilena: cantavano Osanna e Sant’Anastasia si trovava al parto di Maria.
Gli angeli Gli Apostoli della parete a destra di chi entra e quelli della parete di fronte all’altare e parte delle figure della parete a sinistra appartengono a qualche mediocre affrescatore di scuola giottesca. SULLA VIA NAZIONALE DI SAPPADA. Fot. Cilan
Un terzo affrescatore, di parecchio tempo dopo, dipinse S. Susanna ed altri santi. San Susanna non ha nessuna relazione nella storia del culto in Cadore, se pure non stato dipinto per deferenza a quel tal Odorico De Susannis cittadino udinese e cancelliere del venerando Bertrando patriarca di Aquileia, presso a poco al tempo di Ainardo di Vigo. In questo caso, quegli affreschi sarebbero stati eseguiti nella seconda metà del secolo decimoquinto. Ed invero, il tocco sicuro, il movimento nobilmente grave e il medesimo carattere gotico eccellente con cui è scritto il loro nome. li avvicina agli affreschi di S. Orsola.
Alla vetusta chiesina di S. Margherita accenna S. Daniele alto sul monte omonimo, addossato, in apparenza, al Tudaio, Salutato dai falchi e dai camosci. sente ruggire alle spalle il Rin di Soandre e ricorda ancora i visi devoti di santi, dipinti sulle pareti della antichissima chiesetta, sulle cui macerie, a pochi passi, egli s’alza candido, come un’aspirazione alla serenità del cielo.
Dal bel piano di Laggio, cullato dal gaio mormorio del suo Rin, si parte una via bianca, che con lieve salita accerchia il monte e s’addentra nella valle del Piova. Limpidi ruscelli scendono e passano tra l’erbe a ristorare i pascoli: i larici a frangie sibilano lenemente al vento, con susurro più grave li accompagnano abeti e pini. Dai cespi in fiore, dall’erbe alte s’alzano carolando, trillando per l’aria libera gli ortolani. e A 1 X»
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Dall’alti) dei munti passa una melodia limila di fanciulle e la voce ars^entina si unisce al ci;)ncerto dei boschi e delle aciiue del ]^iò-a scorrenti nella vallata ombrosa, (’ridola si nasconde dietro il d(jrso tozzo dei monti vicini alternati di pascoli e custoditi dalli’ grigie bàite.
La valle si restringe e si dirama in altre minori: tra le piante sorridono, in alto, le guglie luminose della P’orcella Starezza: da lungi, chiudono il fondo della valle, ad oriente, i prati declivi di I,osco, rotti da maccliie nerastre di conifere. Un limpido ruscello, scendendo da uno.spacco di roccie a picco, passa attraverso la ’ia, e la costringe a seguire l’insenatura del monte.
Fissa a un masso una grigia lapide narra: 28 viaggio i8jf.S — ■pocJn dei nostri — fiti^aroiio — mille Anstriaei — . E il passo di Rindemèra, che con Rivalgo e Venàs fece, il 28 maggio del 48, il giorno più fortunato nella gloriosa difesa del Cadore. Gli Austriaci dovevano invadere contemporaneamente il Cadore da I.ongarònc, dal Màuria e- d.d Bòite. I Cadorini li attesero sulla strada del IMàuria, al Bisso della morte, strettissima gola chiusa tra monti aspri e scoscesi, pendente sul ’i’agliamento dall’altezza di cinquanta metri. Il passo fu barricato e sul ciglioiu- delle roccie.sovraemiuenti furon.. disposte le famose btitterie di Sassonia, già a.ssaggiate, in malo modo, dai ledesclii a Rivalgo. La mattina del 24 maggio, la colonna del capitano Oppell s’avanzava, per forzare il pas.so. Era bello, dice una relazione di alcuni Cadorini, che parteciparono ai fatti d’arme del 4.8. era bello 7’edere quella eoloiiìia dalla eosla di fronte al passo dilla Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/68 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/69 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/70 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/71 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/72 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/73 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/74 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/75 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/76 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/77 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/78 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/79 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/80 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/81 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/82 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/83 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/84 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/85 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/87 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/88 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/89 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/90 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/91 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/92 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/93 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/94 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/95 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/96 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/97 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/98 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/99 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/100 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/101 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/102 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/103 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/104 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/105 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/106 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/107 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/108 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/109 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/110 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/111 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/112 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/113 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/114 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/115 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/116 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/117 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/118 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/119 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/120 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/121 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/122 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/123 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/124 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/125 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/126 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/127 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/128 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/129 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/130 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/131 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/132 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/133 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/134 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/135 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/136 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/137 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/138 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/139 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/140 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/141 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/143 Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/144