Pagina:Lorenzoni Cadore 1907.djvu/33


cadore 27

Ohimé che sento di mia gente un grido,
Per invocar le folgori roventi
Sull'edificio, che da me nomai!
O la fiumana, che il travolga seco
Nei vortici frementi!

In ogni modo, il monopolio continuò, l’istituto di educazione è di là da venire e le seghe ingoiarono alla Comunità cadorina parecchie migliaia di lire.

La valle continua profonda, tortuosa. L’uomo rapisce alla destra del fiume solo qualche magro campicello, sempre in procinto di esser trascinato, invisibile contributo alla laguna veneta. Alla sinistra le roccie nude sovrastano all’acque e sostengono verci pendî, macchiati di cespi, e rotti da valloncelli, che ricercano i fianchi diruti della montagna e sui pendî verdi, come segregati dal mondo, riposano gruppi pittoreschi di case. Il Picco di Mezzodi, piegando la testa altera, sembra accennare ai due fiumi, che, dominati dai due torrioni massicci del M. Zucco, uniscono le loto acque in faccia a Peraròlo.

Peraròlo, sprofondato nell’ima valle, si addentra con la vecchia contrada lungo il Bòite, sul cui sfondo dai boschi nereggianti sorge e domina, visione fantastica, la massa scialba dell’Antelào. Il centro si stende e s’allunga, come ali spiegate al volo, in due altre contrade; l’una sale lungo la via di Lamagna, chiamata in questo punto la Cavallèra, l’altra si protende verso Belluno. Di fronte, al di là del Piave, ma unita al paese con un bel ponte di legno, sorride gaia la borgata di Zordo, Nulla di veramente artistico in questo pittoresco paese. Modesta la Villa Lazzaris - Costantini, disegnata dal Negrin, dove la regina Margherita soggiornò per due stagioni estive (1881, 1882). La bella chiesa, disegno dello stesso Negrin, così bene intonata nella linea e nel colore col paesaggio della valle, fu abbattuta, meno il coro, nel 1897, per l’instabilità del sottosuolo corroso dalle infiltrazioni del Bòite. Il vecchio campanile scrostato, solitario tra le case della vecchia contrada, sembra guardare le nuove ville massiccie in muratura, come un vecchio smarrito tra una folla di gente nuova: guarda la vecchia contrada e pargli ravvisarla, guarda i monti alti e le valli e li riconosce, ma il resto gli è interamente ignoto. È il Bòite, che s’è presa la cura, nel 1823, di trascinare Peraròlo nel Piave, in quella innondazione, che nella tradizione e nel poema latino di A. De Lorenzi Perarolensis ruina, rimane ancora col nome di Rovina del 23. La notte del 13 di ottobre di quell’anno, una frana, caduta nel Bòite, ne fermò il corso. Alle quattro pomerid. del 14, il fiume, rotta la diga, si precipitò in colonna alta, formidabile su Peraròlo. Il paese scomparve nei gorghi e uno strato di ghiaia alto due metri