Storia della vita e del pontificato di Pio VII/Libro II - Sommario V

Libro II - Sommario V

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LIBRO V






SOMMARIO


Condizioni deplorabili di Roma: gli ecclesiastici sono deportati: si sciolgono le congregazioni romane. Sono 4 cardinali chiamati a Parigi. La consulta romana crea i dipartimenti del Tevere e Trasimeno. Si sopprimono i monisteri d'ambo i sessi, e si esigge giuramento dai pensionati. L'anello piscatorio è in mano al Miollis. Utili disposizioni adottate dal governo francese per il progresso delle scienze, delle lettere, delle arti e del commercio. L'arcadia promove lo studio della lingua italiana, accordasi un livello all'accademia di belle arti. Pio VII dal carcere fa sentir la sua voce, e risponde energica lettera al cardinal Caprara, che lo invita a dare l'investitura ai vescovi. L'abate Emery pubblica in Francia i suoi scritti universalmente lodati. A Napoleone che vuol conoscerlo, è presentato dal cardinal Fesch, ha seco lui lungo colloquio. I cardinali, che si rifiutano dall'assistere al matrimonio di Napoleone vengono tradotti in varie città di Francia. È decretata la vendita dei beni ecclesiastici. Con le dovute riserve autorizza il papa i creditori dello stato all’acquisto. Provvidenze stabilite per le sedi di Parigi e di Firenze. Il pontefice in Savona veglia al bene della chiesa. [p. S5 modifica]Si adottano severe misure contro vari cardinali e diversi ecclesiastici che si credono consiglieri e fautori del papa. Le persecuzioni che divengono più severe si estendono anche al pontefice e ai suoi familiari. Metternich domanda d'inviare un agente austriaco a Savona e l'ottiene. Conferenze del papa con quell'incaricato. Canova torna a Parigi, e coglie l'occasione di parlar libere voci a Napoleone: rifiuta le offertegli onorificenze. S'intima un consesso, che chiamano concilio nazionale. Opposizioni insorte. Saggia condotta di Emery, e sublime risposta data all'imperatore. Và una deputazione di vescovi a Savona, conferisce col papa, che resiste alle lusinghe e alle minaccie. Cede Pio VII alle arti loro: immediatamente si pente, fa richiamare i vescovi che aveano già riprese le vie di Parigi. Durano le vessazioni. Muore Emery onorato dall’imperatore. Và una deputazione di cardinali a Savona. Condotta del cardinal Roverella. Tentativi fatti dagl'inglesi per la liberazione del papa, che da Savona con ogni cautela, e con immensi disagi è trasportato a Fontainebleau. Vi giunge estenuato dai patimenti ed infermo. Ivi è onorato dalle primarie famiglie di Francia. Si adoperano nuove arti per abbattere la sua costanza. [p. 5 modifica]

LIBRO V


D
opo aver ammirato la costanza di Pio e di averlo seguito nelle sue peregrinazioni, debito della storia è ricordare quali fossero in tanto fremito di passioni, in tanti civili rivolgimenti, le condizioni di Roma. La città tenuta dai francesi ignorava la sorte del suo sovrano: sapeasi peraltro come egli rifiutando con dignità le blandizia, con apostolica fermezza le opposizioni, incessantemente pregava, e come meglio eragli dato, opponeva salda barriera al progresso dei mali. Vedeva Roma le file dei generosi diradarsi ogni giorno: le proscrizioni toglievano i vescovi alle diocesi, i parrochi alla cura delle anime, i generali degli ordini alla direzione dei loro istituti per deportarli a Vervins nell'alta Piccardia, a Commercy, ad Auxerre nella Champagne, a Arey sull’Aube, a Chalons sul Marne, a Vanzier nell'Ardenne: nè le sole città della Francia, ma quelle pure dell’alta Italia destinavansi stanza a coloro, che rifiutaronsi dal giuramento. Sommò a cinquecento il numero degli ecclesiastici negli stati pontificî, che vidersi puniti d'esilio: essi nelle varie provincie del vasto impero divennero oggetto di ammirazione ai buoni, di scherno ai perversi. Scioglievansi in Roma il sacro [p. 6 modifica]tribunale della penitenzieria, l'apostolica dateria, le congregazioni dei vescovi e regolari, del concilio e di quanti sono frà noi ecclesiastici dicasteri: i prelati destinati agli uffici, nei quali le questioni agitavansi e risolvevansi di tutto il mondo cattolico, inviavansi a Parigi: e a Parigi pure spedivansi con immense spese gli archivi famosi del vaticano e di castel s. Angelo, che la rivoluzione del 1798 avea rispettati. Il giorno cinque gennaro 1840 si posero i suggelli sugli oggetti appartenenti alla santa sede. L'anello piscatorio, che era stato consegnato al prelato de Gregorio delegato dal papa alla spedizione delle bolle e dei brevi, passò in mano del generale Miollis. Pochi cardinali rimanevano ancora nella bersagliata città, sospettosamente guardati da coloro che teneansi in mano il potere. Erano questi: Di Pietro, Despuig, Casoni, Della Porta, Vincenti, Ersckine e Consalvi. Riceverono essi da Parigi un messaggio, col quale Bigot ministro del culto invitavali a recarsi immediatamente in quella città, offerendo loro il trattamento accordato ai cardinali francesi. Più tardi sollecitavali il generale Radet ministro della polizia in Roma. Era forza obbedire. Di Pietro, cui il pontefice confidava partendo il grave incarico degli ecclesiastici affari, nominava in sua vece delegato apostolico il segretario del concilio Emmanuele de Gregorio.

Il. E perchè sparissero gli antichi ordini governativi volle la consulta romana in due dipartimenti diviso lo stato: si chiamò l'uno del Tevere, l’altro del Trasimeno: città principali Roma e Spoleto. Si restringevano per imperiale decreto le diocesi, si diminuiva il numero delle parrocchie: sopprimevansi tutti gli ordini monastici, gl’istituti religiosi, le congregazioni regolari: si prendea possesso dei loro beni: accordavansi pensioni agl'individui che, spogliati dell'abito religioso, prestavano il giuramento voluto: negavasi a coloro che rifiutavansi da questo atto. Pochi e segnati a dito erano sacerdoti secolari e regolari, canonici, parrochi, magistrati e pubblici funzionari, ai quali mancò il coraggio di negare l'adesione al governo: i renitenti, giudicati uomini pericolosi: quelli, e furono vari, [p. 7 modifica]che dopo aver prestato giuramento di fedeltà all’imperatore, vinti da rimorso, si ritrattarono, scortati dalla forza, giovani si deportavano alle prigioni di stato, vecchi si riunivano nelle stanze di san Calisto1. Severo ordine di polizia imponeva alle claustrali di abbandonare la modesta tranquillità del ritiro, che avevano scelto: esecutori della dura legge i gendarmi, tempo a lasciare coi monisteri le loro pacifiche abitudini per rientrare nel secolo, accordavansi ventiquattr'ore. Le vecchie, le inferme che non ebbero casa che potesse riceverle e sostentarle, per disposizione governativa, furono collocate in quattro conventi.

IIT. A compensare in qualche modo i gravi danni sopportati dai sudditi pontifici, il governo imperiale pensò alle scienze: a spese del pubblico erario si provvidero gl’istromenti necessari alla specola del collegio romano: i parafulmini che per comando di Pio eriggevansi nella basilica vaticana, si condussero a fine: si provvide al commercio, le allumiere della Tolfa e gli scavi delle miniere di ferro in Monteleone nell’Umbria, interrotti per le vicende dello stato, si ripresero, si proseguirono con energia: inviavansi a pubbliche spese diversi giovani a Parigi, onde applicarsi alla scuola delle mine, della veterinaria e di arti e mestieri. Come in Toscana, così in Roma caldeggiavasi lo studio dell’italiana favella: l’arcadia, meglio che a pastorali canti, si volle destinata a promovere la coltura del patrie idioma: alla famosa accademia di belle arti assegnavasi vistoso appannaggio.

IV. Nel fondo del suo ritiro vedea Pio VII le calamità della chiesa; i pericoli dei cattolici, le angustie del clero e gemendo pregava. Vedea conculcate l’ecclesiastiche leggi, violata la santità dei sacramenti, usurpata la giurisdizione episcopale, distrutti i monisteri e i conventi, [p. 8 modifica]e in tante afflizioni non cessava di sollevare con apostolico zelo la voce per confortare gli oppressi, consigliare i dubbiosi, confermare sulle vie del dovere coloro che aveano resistito alla forza delle minaccie, e al prestigio delle promesse: vedea balestrati quà e là, chiusi nelle prigioni i suoi ministri, e pure come meglio eragli in tanta perversità di tempi concesso, alla piena dei mali coraggiosamente opponevasi. Stupivano i suoi carcerieri, cui era ignoto come e con quali mezzi potesse il pontefice prigioniero accorrere sollecilo ora su questo ora su quel punto del cattolico mondo, ove maggiore manifestavasi il bisogno di far sentire la sua voce, e raddoppiavano i rigori e la sorveglianza. Chiedea incessantemente l'imperiale governo che fosse da Pio VII data la canonica istituzione ai vescovi delle sedi vacanti; cercava il cardinal Caprara arcivescovo di Milano commovere il santo padre, esponendogli il tristissimo quadro della condizione in cui crano ridotte tante chiese vedovate dei loro pastori, dichiarandogli che non esiggevasi nelle apostoliche bolle menzione alcuna della nomina imperiale. Negavasi il papa alle domande del cardinale arcivescovo, cuì rispondeva; « Dopo le tante novità introdotte nel nostro stato, dopo le violenze usate contro gli ecclesiastici, la deportazione di tanti vescovi, della maggior parte dei cardinali, fra i quali Pacca detenuto in un forte, dopo lo spoglio sofferto dal patrimonio di san Pietro, dopo essere stati assaliti a mano armata nel nostro stesso palazzo, trasportati da un luogo all’altro; tenuti sotto stretta custodia, impediti di parlare, di vedere i vescovi, dopo tanti attentati, contro i quali i generali concili, le apostoliche costituzioni fulminarono le censure ecclesiastiche, come potremmo noi riconoscere e secondare gli ordini di un governo che ci tolse la libertà, senza prevaricare, senza porci in contradizione con noi medesimi, senza cagionare un grave scandalo fra i fedeli: che direbbero come noi, vinti dalla stanchezza dei patimenti sofferti e sopraffatti dal timore di sofferenze maggiori, abbiamo traditi i nostri più santi doveri e quei fatti approvati che condannammo pubblicamente? Vostra eminenza, [p. 9 modifica]aggiungea Pio VII, pesi le nostre ragioni alle bilancie del santuario e non a quelle della umana prudenza. Sa Iddio se amaramente ci duole il non poter dare alla Francia un attestato della nostra predilezione, e se desideriamo di rinvenire un compenso per conseguire lo scopo in modo conveniente alla circostanza, al nostro ministero, al nostro dovere. E come potremmo in affare di tanta importanza procedere con sicurezza noi che vedemmo strappati con violenza dal fianco i nostri consiglieri, noi cui fu tolto ogni mezzo pel disbrigo di tali cose, noi infine che non potemmo ottenere pur uno dei nostri segretarî? Del resto, se si vuole restituita alla chiesa la pace, è forza togliere le novità, contro le quali abbiamo sino ad ora reclamato senza profitto. Ci si renda la nostra libertà, la nostra apostolica sede: non sia ai figli negato l'avvicinarsi al loro padre, ai fedeli al loro pastore. A noi i cardinali, alle loro sedi i vescovi restituiscansi e la desiderata concordia tornerà a sorridere sulla terra. Noi non possiamo, conchiudeva egli, lasciare indifeso il patrimonio della chiesa, senza renderci spergiuri, senza mancare ai nostri essenziali doveri». 2

V. È in questo modo sublime, che Pio VII contraponeva la costanza alla forza, alle umiliazioni la preghiera, alle violenze il coraggio. Non mancavano intanto uomini tementi Iddio, che in mezzo alla divergenza di opinioni, alla tempesta che agitava la navicella di Pietro faceano sentire al popolo parole di verità. Segnalavasi fra questi l'abate Emery superiore generale di san Sulpizio. Pubblicava questi i nuovi opuscoli dell'abate Fleury, cui aggiungeva i suoi scritti. Fu letto il suo libro in Francia e in Alemagna, fu letto in Italia e piacque. Lo accusava Fouché: deferivasi l'affare al consiglio di stato. L'egregio teologo andava perduto senza la valida difesa del signor di Fontanes, che il disse dotto professore della parigina università, [p. 10 modifica]savio, moderato così da formare il decoro e l'ornamento del clero. Gli elogi di Emery sul labbro d'un uomo lodato fecero impressione profonda nell'animo imperiale. Napoleone desiderò di parlare con l’animoso difensore del papa in Parigi. Fu chiamato a Fontainebleau; Fesch ebbe l'incarico d'introdurlo. Meravigliavasi l'umile sacerdote di tale invito e obbediva. Dimorò tre giorni nella imperiale residenza prima di essere ricevuto. Egli pregava nella cappella del castello, quando, giunto il momento, veniva il cardinale di Lione a chiamare il vecchio teologo francese, l'introduceva all'imperiale presenza e allontanavasi. Lessi, disse l'imperatore, il libro vostro. L'ho quì sul mio tavolino. Veramente nella prefazione avvi qualche punto che non è molto leale, ma insomma è una bagattella. Ragionavano quindi fra loro e interessante riuscì il colloquio del possente signore con l'ottuagenario teologo. Parlavagli di Carlo Magno, di cui si dicea successore: rispondevagli Emery che i papi non dal solo Carlo Magno tenevano i temporali dominî, dappoi chè questi sino dal quinto secolo erano considerabili. Lodava Napoleone il pontefice, ma il dicea influenzato dai cardinali: vedete, aggiungea, se io potessi trattenermi un quarto d'ora col papa, le nostre controversie sarebbero felicemente ultimate. E perchè, rispondea al sire il venerando abate, la M. V. non permette che venga egli a Fontainebleau? È questo ciò che io desidero fare, replicava l’imperatore: e voglio che a lui si rendano gli onori istessi ch'ebbesi allorchè mosse da Roma per consacrarmi. Durava ancora la conferenza quando si annunciò che i re di Baviera, di Wurtemberga e di Olanda domandavano l'udienza. Aspettino, disse egli, e proseguì il colloquio con Emery, che presentavagli un suo nuovo libro, ove quel dotto uomo, avea raccolte le opinioni di Bossuet e di Fénélon in favore della chiesa romana3. Il congresso tenuto ispirò all'animo imperiale un vivo sentimento di venerazione per l'abate superiore generale di san Sulpizio. [p. 11 modifica]

VI. In conseguenza della pace segnata a Vienna da Champagny per la Francia, da Leichtenstein per l’Austria, conchiudevasi trattato di nozze fra Napoleone e l’austriaca arciduchessa Maria Luigia. Era il matrimonio civile celebrato il dì primo di aprile 1840 a san Cloud, ove invitati, intervennero i ventisei cardinali residenti a Parigi. Tredici di essi rifiutaronsi il dì seguente d'assistere alla religiosa ceremonia nella gran sala del Louvre4. Dopo due giorni il ministro dei culti Bigot de Prémeneu, scrivea al signor di Champagny, che dopo la condotta tenuta dai cardinali, che rifiutaronsi dall'assistere alla celebrazione del rito nuziale, questi non dovevano più ammettersi a corte. Furono costretti a deporre la porpora per vestire gli abiti neri. Non mancarono essi di diriggere all'imperatore le loro difese. Non furono valutate. Erano infatti più tardi allontanati da Parigi e tradotti in varie città della Francia5. [p. 12 modifica]

VII. Sorgente d'immense amarezze era a Pio VII la nomina del cardinal Maury all'arcivescovato di Parigi, e del prelato Osmod alla sede arcivescovile di Firenze. Governava il primo la chiesa di Montefiascone nello stato pontificio, l'altro quella di Nancy in Francia. Riceveva egli nel fondo della sua prigione la desolante novella che in Roma il governo per la estinzione dei debiti dello stato, decretava che con i beni ecclesiastici i creditori fossero soddisfatti. Vide il pontefice che i suoi sudditi erano per sì fatta guisa obbligati o a tradire la loro religione, accettando di partecipare all’ingiusto spoglio del santuario, o a sopportare la perdita dei loro crediti e vedersi per questo fatto con le proprie famiglie all’indigenza ridotti. Scrivea pertanto al suo delegato apostolico in Roma, che il di lui animo paterno commosso da un sentimento di compassione verso i fedeli suoi sudditi, avvisava ai mezzi di conciliare, per quanto eragli possibile, la giusta loro indennità colla conservazione dell'ecclesiastico patrimonio: compendiando in quattro articoli le facoltà, comandavagli di autorizzare i soli, veri e legittimi creditori degli stati pontifici di ricevere in compenso dei loro titoli, i beni della chiesa, con patto di non deteriorarli, con animo di restituirli a tempo opportuno allo stato, e con l'obbligo infine di sovvenire, a seconda delle proprie forze, e gl'individui e le chiese, a cui gli acquistati beni fossero appartenuti. Alle persone da questo spirito animate concedea facoltà e di comperare, e di ritenere in affitto i fondi rustici e urbani, i conventi, e persino le chiese, ma con l'obbligo di non profanar queste, di conservar quelli nel loro stato. Permettea in fine l'acquisto dei sacri arredi, delle suppellettili, degli oggetti appartenenti al culto, purchè non fossero serbati ad altri usi, e sì avesse animo determinato a renderli, previa la restituzione del prezzo. Queste provvidenze sapientemente adottando il pontefice, le proprietà della chiesa, come meglio potevasi in tanta calamità di tempi, si conservarono. E poichè con queste misure vide il diritto della santa sede con l'interesse dei suoi sudditi conciliato, tutte le sollecitudini rivolse a richiamare sulle vie del dovere e [p. 13 modifica]della verità i vescovi, che se ne erano allontanati con grave scandalo di tutti i buoni. Aveano i vicarì generali delle diocesi di Parigi e di Firenze, d'Astros e Corboli, domandate su questo grave argomento istruzioni dall'apostolica sede: rispondeasi loro con due brevi dal papa, che queste novità erano dai sacri canoni condannate. Non fu possibile questi brevi officialmente notificare a coloro cui vennero diretti: ma seppelo l’imperatore e se ne dolse, li videro i vicari a cui erano destinati e valsero ad essi siccome norma, pervennero ai prelati, che col loro procedere aveano amareggiato il cuore del santo padre in pari tempo e il mondo cattolico scandalizzato, e ben conobbero quanto il loro procedere avea il supremo pastore della chiesa crudelmente oltraggiato.

VIII. Era compresa da meraviglia tutta Parigi, godeano i fedeli, fremevano i ministri, sdegnavasi l'imperatore in vedere come ad onta delle cautele e dei rigori adottati potesse il pontefice alzare di tempo in tempo la voce per accorrere al bisogno dei fedeli, riparare i danni, che minacciavano la chiesa. Numerosi erano i soldati che stavansi a guardia delle savonesi terre, i delatori più numerosi, severi i custodi, la vigilanza rigorosa e continua. Personaggi eminenti si allegarono in sospetto. Si pensò che i cardinali di Pietro, Gabrielli e Opizzoni, rilegati a Nemur non fossero estranei alla pubblicazione dei due brevi, che aveano fatto sentire la voce del pastore supremo della cristianità alla Francia e all'Italia. Arrestati nel loro domicilio, vennero come malfattori tradotti nelle pubbliche carceri di Parigi, da dove uscirono il giorno undici febraro 1811, per esser trasportati nelle prigioni di Vincennes. Eguale sventura colpì il prelato Emmanuele de Gregorio, il teologo padre Fontana, e il vicario della metropolitana di Parigi abate d'Astros accusati d'avere la promulgazione dei brevi pontifici favorita e promossa. S'ebbe crudeli rimproveri in consiglio di stato il figlio dell'antico ministro del culto consigliere Portalis, che venne dalla sua carica di direttore della imperial biblioteca destituito, perchè creduto benevolo verso Pio VII e i suoi [p. 14 modifica]ministri6. Si videro imprigionati i cardinali Vincenti ed Ersckine, deportati i canonici, i sacerdoti che opponevansi al possesso dei vescovi illegittimi, i quali osarono, senza esserne dal pontefice investiti, immettersi nelle amministrazioni di varie sedi in Italia ed in Francia. Partivano da Parigi ordini fulminanti del duca di Rovigo contro quanti in Savona avvicinavano il santo padre. Ugo Maret asceso in tribuna prendea a declamare contro i diritti del papa, contro la potestà pontificia: annunciava egli che la chiesa gallicana avea di nuovo come dottrina invariabile accettate le dichiarazioni dell'assemblea del clero7. Sulla porta delle stanze abitate dai famigliari del papa si affissero comandi severissimi, dai quali non doveano decampare coloro che avvicinavano il santo padre. Un diligente scrutinio della polizia fu quindi portato su quanti erano e documenti e fogli e lettere presso loro esistenti. Trovarono fra questi la corrispondenza del cardinal di Pietro, le suppliche dirette al papa per dispense, per grazie spirituali. Si posero gl'imperiali suggelli su questi fogli e nel dì susseguente, mentre Pio VII stavasi nel giardino del vescovado, fecesi rigorosa perquisizione nelle stanze tenute dal santo padre. Si esaminarono gli oggetti, si lessero le carte, si portò l'attenzione anche sulle vesti usate dal papa. Ad ogni articolo che veniva in loro mano si apponeva il suggello: sulle carte, su i breviari, e perfino sull'ufficio della beata vergine venne impressa l'aquila dell'impero: furono spezzati i pontifici suggelli: le carte sequestrate e chiuse diligentemente in un sacco, andarono a Parigi a subire nuovi esami. Al nuovo insulto mostravasi Pio [p. 15 modifica]indifferente e tranquillo. Superbi giungevano da Parigi i rimproveri, acerbissime le parole: diceasi che ormai il secolo illuminato ben distinguea dalle dottrine di Cristo quelle di Gregorio VII: aggiungeasi dal ministro dei culti, che sarebbegli tolto ogni mezzo di nuocere, che gli verrebbe interdetta ogni comunicazione col clero, che vedrebbesi isolato. Intimavagli il prefetto di polizia con risolute parole, che doveansi in seguito visitare le carte a lui inviate e da lui trasmesse. Risposegli il pontefice « non avrebbe mai riconosciuta attorno a sè persona alcuna rivestita di tal carattere; che continuerebbe egli a rispondere a tutte quelle carte che gli sarebbero presentate. » Si rese invisibile al papa il generale Berthier, furono sospesi i dispendi della mensa che, senza alcun limite, avea sino allora sostenuti il governo e a tanto si giunse da dare all'augusto sovrano e a quei pochi che viveano al di lui fianco il quotidiano assegno di bajocchi cinquanta per ciascuno, da servire al loro comune mantenimento. Mormoravasi per Savona: gli stessi cittadini pagavano le liste. Se ne scrisse a Parigi, e dopo quindici giorni tornò il governo a sostenere le spese. Erano pochi giorni trascorsi della perquisizione, quando gli si tolse dal fianco l'ajutante di camera Andrea Morelli, che dopo aver subiti i costituti, era inviato a Fenestrelle: tradotto quindi nelle pubbliche carceri di Parigi, vi fu sostenuto finchè durarono le sofferenze di Pio8. Paolo Campa, che come amanuense serviva al pontefice, e Petroncini cameriere di Doria vennero anch'essi sul principio del nuovo anno sottoposti ai costituti e mandati a Viterbo. Mentre lusingavansi di potersi restituire in seno alle proprie famiglie, l'ordine di Miollis aprì ad essi le porte di Fenestrelle. Credeasi che il prelato Doria potesse godere [p. 16 modifica]grande influenza presso il papa, e il giorno trentuno gennaro venne rilegato a Gaeta9. Giovanni Soglia, Ceccarini chirurgo, Moiraghi primo ajutante di camera e Bertoni parafreniere, andarono anch'essi ad ingrossare il numero dei detenuti in quella prigione di stato. Crebbero a tanto le strettezze che si soppresse ogni esterno segno di rispetto al pontefice: si raddoppiavano le vigilanze e per interdirgli lo scrivere, gli si tolsero le penne e l’inchiostro. Erano Salmatoris e Berthier richiamati a Parigi: comandavasi al prefetto di Montenotte barone Chabrol, che almeno con dolci parole aveva sino allora temperato l'asprezza di durissimi fatti, di assumere col magnanimo prigioniero un contegno più aspro e modi più minacciosi. Ubbidiva questi agli ordini sopraggiunti e all’animoso Pio imponeva di chiudersi nel suo appartamento. Sono vostro prigioniero, rispondeva egli tranquillamente, si serrino pure le porte: mi troverete voi rassegnato.

IX. Questi erano gl'interni ordinamenti: gli esterni concorrevano tutti a rendere più affannosa e più dura la condizione del papa e la sua separazione dal cattolico gregge più dolorosa e crudele. Conoscea i bisogni della chiesa, i doveri che gli erano imposti, vedea le sedi vescovili dell'Italia, della Francia, della Germania vedovate dei loro pastori, e come il suo cuore avrebbe in sì grave bisogno voluto, non eragli dato provvedere a tanti mali, asciugare tante lacrime. Come grande era il suo amore, così grandi erano le cautele, grandissima la sorveglianza che la polizia adoperava all'esterno. Godea peraltro l’animo suo nel sapere come, emulando le virtù cristiane dei primi secoli della chiesa, i cardinali, i vescovi, la maggior parte del clero lodavano la costanza, l'invitta fortezza ammiravano del supremo gerarca e ne imitavano l'esempio. I maggiori travagli, le sofferenze maggiori erano sempre eccitamento a maggiori virtù. Intatto serbavasi il dogma, [p. 17 modifica]intatta la disciplina, vivissima l'ubbidienza, sincero l’attaccamento verso il capo visibile della chiesa.

X. Le misure di supremo rigore verso il papa e i suoi famigliari che abbiamo descritte non erano ancora adottate, quando in occasione delle nozze dell'austriaca arciduchessa Maria Luisa, giungeva a Parigi il conte di Metternich. Profittando della opportunità, domandava questo sagace ministro di stato all'imperatore la grazia d'inviare a Savona un agente austriaco per ossequiare il pontefice e trattar seco lui degli affari religiosi che riguardavano l'impero. Per le variate condizioni fra i gabinetti di Austria e di Francia, era quasi impossibile il rifiutare al gran cancelliere della corte il sollecitato favore. Il signore di Champagny pertanto ne partecipava l'avviso al generale Berthier10. Sceglievasi a questo incarico il conte di Lebzeltern, distinto cavaliere, che vedemmo rifiutare in Roma gl'inviti del generale Miollis, perchè avea questi oltraggiato il signore di Vargas ambasciatore di Spagna presso la santa sede, a di lui ordine imprigionato. Rimarrà sublime documento storico il dispaccio che il giorno sedici maggio diriggeva questo inviato austriaco al conte di Metternich. Vidi il santo padre, scrivea il giovine diplomatico, e si mostrò soddisfatto delle premure del mio augusto sovrano: egli ama ancora Napoleone: Napoleone è un principe, disse il papa, che possiede qualità eminenti: ma voglia il cielo, aggiunse egli con un sospiro, che conosca i suoi veri vantaggi. Se si avvicina alla chiesa chiamerà sopra di se e sopra la sua discendenza le benedizioni del cielo. Vi fu duopo, rifletteva il conte di Lebzeltern, di tutto il concorso delle amarezze, dalle quali fu compreso il cuore di Pio VII, per costringerlo ad adottare un rigore dal quale rifugge l'animo suo veramente paterno. È quando l'inviato austriaco facea al papa presente gli enormi danni ond’era [p. 18 modifica]minacciata la chiesa e la santa sede, se non cercava i modi di uscire dal doloroso stato in cui si trovava, questi risposegli: noi tanti mali li abbiamo ben preveduti, e questo è il più crudele dei pensieri, dai quali giorno e notte siamo occupati. A rimuovere siffatti danni è che noi incessantemente preghiamo. Il vedere interrotte le nostre communicazioni col clero delle diverse chiese, il trovarci separati dai vescovi della Francia c'immerge in un profondo dolore. Sebbene, aggiungeva il papa, abbiamo perduta la libertà, e sono i nostri passi segnati, pur non cessammo, per quanto eraci dato, di vegliare sul cattolico gregge da Dio confidato alle nostre cure11. Noi non chiediamo pensione alcuna: noi non vogliamo onori: l'elemosine dei fedeli ci basteranno: desideriamo solo che siano ristabilite le nostre relazioni con i vescovi e con i fedeli: che non si tolga al padre l’occuparsi dei propri figli. Ci basterà soltanto che le suppliche dì costoro ci pervengano liberamente e che ci si diano i mezzi di esercitare il nostro apostolico ministero. Mentre l’incaricato austriaco licenziavasi dal papa, suggerivagli di manifestare liberamente all'imperatore i suoi bisogni, i suoi desideri. Dolente il pontefice rispondeagli: egli ben sa la nostra assoluta solitudine: le nostre querele, le nostre istanze reiterate al prefetto ed al generale debbono essergli manifeste. La visita dell’austriaco diplomatico riusciva di molto sollievo a Pio VII, che il licenziava per rivederlo dopo due giorni. Consegnavagli allora un breve [p. 19 modifica]diretto all’illustre ministro d'Austria: nobilissimo documento dettato da uno spirito di tenerezza, di gratitudine, di confidenza, che tutta svela la grandezza del suo animo amareggiato dalla persecuzione non meritata: assicuravalo quindi che avrebbe ai bisogni del clero germanico come meglio potevasi provveduto.

XI. Se in mezzo a tante tempeste vediamo talvolta risplendere una luce serena l'animo si rallegra e trova per essa nelle amarezze un conforto. Canova l'artista per eccellenza, l'amico, l’ammiratore delle virtù di Pio VII, era a Parigi. Ve lo chiamava Napoleone per modellare il ritratto della figlia dei Cesari. Quando era presentato a corte, dicea l'insigne statuario al potente signore della Francia, ch'era venuto per soddisfare ai di lui voleri, col desiderio di restituirsi al più presto in Roma per riprendervi i suoi lavori. Parigi, dissegli Napoleone, al presente è la capitale: restatevi: farete bene. Disponete, o Sire, rispondevagli sommessamente l’artista, della mia vita, ma se deve questa impiegarsi a vostro servizio, è forza ch'io torni in Roma appena saranno compiuti i lavori per i quali, comandato, quà venni. Io debbo modellare il ritratto della imperatrice: la rappresenterò sotto la figura della Concordia. Napoleone sorrise, e quindi in tuono amichevole aggiunse. Divenne Parigi il centro delle arti belle: i capolavori antichi si trovano fra noi; manca solo l'Ercole Farnese, che è in Napoli: l'ho per altro a me riserbato. Ah lasci, replicava allora Canova, ah lasci almeno qualche cosa all'Italia! I monumenti antichi formano collezione e catena con altri infiniti oggetti, che umana potenza non può trasportare da Roma e da Napoli. In Italia, soggiungeva l’imperatore, si faranno nuovi scavi: io voglio ordinarli. Ditemi: Pio VII ha egli speso molto in iscavi? Alla scarsezza dei suoi mezzi era sprone e compenso l’amore per le arti, rispondeva Canova; la sua intelligenza giunse a creare un nuovo museo. E i Borghese, dicevagli l'imperatore, hanno versato grandi somme nei loro scavi? Essi li conducevano in società, acquistavano quindi la porzione del socio: a questo passo faceasi Canova a dirgli, che [p. 20 modifica]avea il popolo di Roma un sacro diritto su quanti sono monumenti che riveggono la luce del giorno: e un prodotto intrinsecamente annesso al classico suolo di Roma, è il retaggio ottenuto dalle vittorie del popolo re. Non possono i cittadini pertanto, non può l’istesso sovrano alienare tanta dovizia di arte. Ho pagato, aggiungea Napoleone, quattordici milioni le statue di Borghese. Alla domanda se poteasi con poca somma ottener molto negli scavi da praticarsi, rispondea affermativamente Canova12. E quando il giorno quindici ottobre fu l'artista ammesso di nuovo all'imperiale presenza, questi faceasi a domandargli qual fosse l’aria di Roma e se era anche insalubre nei tempi antichi. Citavasi Tacito, dicevasi che i soldati di Vitellio caddero infermi, perchè dormirono all'aria aperta sul vaticano: non seppero però l'imperatore e l'artista riscontrare sul libro il passo13. Profittava di quell’incidente Canova destramente per dirgli, che pesavano su Roma sventure di gran lunga maggiori. Ha perduto il sovrano, quaranta principi di santa chiesà furono allontanati da essa: i ministri delle potenze cattoliche, oltre duecento prelati e moltissimi ecclesiastici esularono dalla città. Sire, la vostra gloria mi permetta parlarvi liberamente. Roma un giorno ricca e potente, geme oggi nella miseria. Diceagli l’invincibile soldato, che avea un grande impero, sessanta [p. 21 modifica]milioni di sudditi e che disponea di novecento mila baionette: noi faremo Roma la capitale della Italia e vi aggiungeremo Napoli. Che ne dite? Ne sareste contento? Le arti potrebbero ricondurvi la prosperità. Canova, nel cui animo altamente era impresso il principio religioso : ah sire! diceagli, i lavori dei romani portano tutti l'impronta della religione: questa salutare influenza ha salvata l'Italia e Roma dalla rovina: tutte le religioni sono benefattrici delle arti, ma la più splendida loro proteggitrice è la vera religione, la nostra religione cattolica romana. Di una cappella, di una croce si contentano i protestanti: essi non porgono la occasione di eseguire i pregevoli capo lavori, dei quali noi siamo ricchi. Era Canova interrotto da Napoleone, che rivolto alla imperatrice esclamava: Egli ha ragione; i protestanti niente hanno di bello: un'altra seduta accordava Maria Luisa al Fidia dei tempi, che mentre ritraeva le sue sembianze, assumendo da se stesso una missione di pace, senza essere interrogato, mostrandosi tutto intento all'opera sua, osava all'imperatore parlare di Pio VII. Forse imprudenti potrebbero giudicarsi le sue parole, ma tacque Napoleone e prestò attento l'orecchio all'artista, che senza desistere dal suo lavoro, parlando il dolcissimo accento veneziano, diceagli sommessamente: ma, sire, perchè la maestà vostra non si riconcilia in qualche modo col papa? L'imperatrice guardava Canova con meraviglia, mista ad un'interna soddisfazione: rispondeagli il potente monarca: perche i preti, o signore, vogliono comandare da per tutto. Ah! se ai papi, replicava Canova, non mancava l'ardire, terrebbero essi il dominio d’Italia! Voi, giunto all'apice della grandezza, non permettete, o sire, che i nostri mali si accrescano. Se Roma non è da voi sostenuta, tornerà essa quale era quando i pontefici dimoravano in Avignone. Molti sono gli aquedotti in quella immensa città, moltissime le fontane: eppure queste si disseccarono, quelli si ruppero, divenne Roma un deserto, bevvero i cittadini le acque limacciose del tevere. Queste osservazioni, che dalla storia son confermate, fecero un'impressione sull’animo imperiale profonda in modo da fargli esclamare con forza: ma [p. 22 modifica]perchè mi si fà resistenza? E che? Non sono io forse l'arbitro della Francia, di tutta l'Italia e di tre gran parti della Germania? Non sono io il successore di Carlo Magno? I vostri veneziani ebbero essi pure brighe con i pontefici, diceva all'artista, che ardiva rispondergli: essi mai giunsero al punto, che la maestà vostra ha toccato. In Italia, conchiudeva Napoleone, il papa è tutto tedesco14. Erano queste le luminose prove di devozione e di ossequio, che rendea Antonio Canova al padre dei credenti, al principe sventurato15. Quest'uomo eccellente, i cui pregi del cuore quelli eguagliavano della mente, rifiutando la dignità di membro del senato, tornava in Roma.

XII. La virtù di Pio VII doveva esser posta a più duri cimenti. Afflitto dalla prigionia, spaventato dai soldati, guardato a vista dai carcerieri, sorvegliato dai delatori, avea egli resistito alle minaccie e al terrore. Si vollero usare nuove arti: si pensò di assalirlo con le dottrine, e non più alla durezza del soldato, alla sagacità della polizia, ma a persone rivestite di sacro carattere confidavasi la difficile missione. Convocavasi a Parigi un congresso, cui si dava il nome di ecclesiastico comitato, composto dai cardinali Fesch, Maury e Caselli, dall'arcivescovo di Malines, dai vescovi di Nantes, di Treveri, di Evreux, di Vercelli, dall'abate Emery e dal padre Fontana16. Il ministro dei culti Bigot proponeva vari quesiti, perchè fossero discussi e dichiarati in [p. 23 modifica]consiglio. Ricercavasi principalmente qual fosse il mezzo legittimo di dare ai vescovi la istituzione canonica, allorquando il papa si ricusasse costantemente dall’accordare le bolle a coloro che erano nominati dal principe. Decideva il consiglio che dovea questo articolo discutersi in un concilio nazionale17: proponeva pertanto di spedire una deputazione al pontefice. Gli sforzi fatti dal ministro dei culti, perchè si adottassero i suoi pareri e le proposizioni sovvertitrici della autorità della chiesa romana, riuscirono inefficaci. L'animoso abate di san Sulpizio scrivea al presidente del comitato ecclesiastico, che il consentire alle ministeriali domande era un attaccare di fronte i privilegî della sede apostolica, un abbattere tutti i principî della ecclesiastica disciplina. La voce del venerando teologo, del vecchio rispettabile che non tradiva la propria coscienza per piacere all'imperatore, prevalse nell’assemblea18. Narrasi che il cardinal Fesch, persuaso a quei detti, abbia osato presentarsi al nepote per dirgli: tutti i vescovi resisteranno: voi non potreste farne che altrettanti martiri. Napoleone mostravasi commosso e dichiarava che avrebbe provveduto ai bisogni con ja saviezza imposta dalle circostanze: sedotto [p. 24 modifica]più tardi dalla voce de' suoi adulatori, abbandonava i sani propositi per ritornare alle antiche esigenze. Ma altre e più nobili prove di coraggio dava Emery. Senza lasciarsi imporre dall'esterno apparato di grandezza, della quale in quella occasione circondavasi l’imperatore dei francesi, senza temere la presenza del più formidabile dei Cesari, dei consiglieri, dei grandi dignitarî dell’impero, che avea chiamati, perchè quell’assemblea riuscisse al cospetto del pubblico imponente e maestosa, parlò parole di verità con quel coraggio che può essere ispirato soltanto dal sentimento religioso19.

XIII. Atteso due lunghe ore, entrava l'imperatore in mezzo all’adunato consesso, parlava a lungo di se, del papa, dei bisogni religiosi di Francia, domandava i modi di porre un’argine alla piena dei mali, che minacciavano l'impero: il solo il più facile nol voleva. Poichè ebbe cessato dal dire, rivolto all'abate Emery in tanto numero di uomini ragguardevoli per dignità ecclesiastica, domandavagli : che pensate, signore, della autorità del papa? Interpellato direttamente, spiacque al sacerdote di san Sulpizio la deferenza, guardò modestamente i cardinali, i vescovi che gli sedevano al fianco e quasi scusandosi di esporre il primo le sue idee, risposegli: sire, io non posso avere su questo punto opinione diversa da quella che trovasi insegnata nel catechismo dato per vostro comando a tutte le chiese di Francia. Alla domanda che cosa è il papa? si risponde ch’egli è il capo visibile della chiesa, il vicario di Gesù Cristo, a cui tutti i cristiani debbono ubbidienza. Ora può un corpo rimanere senza il suo capo, senza colui, al quale per diritto divino devesi obbedienza? La risposta semplice, ma [p. 25 modifica]invincibile sorprese Napoleone. I vescovi, i consiglieri si agitavano sui loro seggi: proseguiva tranquillamente l'abate: ci s'impone in Francia il dovere di sostenere i quattro articoli della dichiarazione del clero: bisogna, o sire, ricevere la dottrina nella sua integrità: il papa è capo della chiesa, al quale deve sottomettersi docilmente il mondo cattolico: i quattro articoli decretati dall’assemblea, furono dettati non per limitare la papale potenza, ma perchè siagli concesso quello che gli si deve, e qui facevasi a svolgere l'argomento con animo coraggioso, con profondità di dottrina: dichiarava in appresso che se pensavasi di adunare un concilio, gli atti di esso non avrebbero alcun valore, ove il concilio istesso fosse disgiunto dal papa. Altre cose e gravissime aggiungeva il dotto Emery, così che interpellato da Napoleone, se fosse egli di avviso, che annuirebbe il papa ad un messaggio che andasse a proporgli se in caso di rifiuto poteva dopo sei mesi il metropolitano dare l'investitura in suo nome, rispondeagli il coraggioso vegliardo: il papa l'avrebbe negato, perchè il concederlo equivaleva ad annullare il suo diritto d'istituzione. Rivolto allora l'imperatore ai vescovi disse: ah volevasi dunque da voi, che io commettessi un errore, quando m’impegnaste a domandare al papa cosa ch'egli non deve concedermi! Già disponevasi bruscamente a troncar la seduta, quando fissando lo sguardo sovra uno dei vescovi, che stavasi pensieroso, fecesi a domandargli se tutto quello che rispondeagli Emery intorno alla definizione tratta dal catechismo che tanto avealo colpito, era vero. All’affermativa risposta sorse in piedi e si dispose ad abbandonare la sala. Temeano i vescovi che fosse l’imperatore offeso dalle libere parole del vecchio teologo e studiavansi di scusarlo come uomo aggravato dagli anni. Voi vingannate, rispondeva l’imperatore : Emery è un uomo assennato: è un rispettabile ecclesiastico, che possiede la sua questione e dottamente la svolge. E così che io amo che mi si parli. Siano pure discordi i nostri pareri: in questa sala, signori, deve ognuno professare liberamente la sua opinione. Verità sublime che dovrebbero i monarchi scolpire profondamente nell’animo. Usciva l’imperatore dall’ [p. 26 modifica]assemblea e passando innanzi all'abate superiore di San Sulpizio, mostrava al modesto vecchio con la cortesia del saluto quanta in lui fosse affezione e rispetto20. Fu grave sventura che quell'uomo in conseguenza della sua età cadente o in sequela delle vive emozioni provate in questa memoranda sessione o per ambedue le ragioni cessasse di vivere dopo brevissima malattia21.

XIV. Il prigioniero di Savona inerme, guardato a vista, isolato dai suoi, turbava in Parigi i sonni del possente signor della Francia: i bisogni della chiesa crescevano, crescevano gli scandali: reclamavano i popoli i loro pastori, si mormorava, tumultuavasi in alcuni luoghi. Consigliato, stimolato Napoleone dai suoi cortigiani, decideva di convocare nella capitale dell'impero un concilio. A disporlo, con una lettera circolare invitava tutti i vescovi dell'impero francese, quelli del regno d'Italia ad una nazionale assemblea, che dovea celebrarsi a Parigi il giorno dieciassette giugno 1814. Molto speravasi da questo preteso concilio, la cui presidenza diceasi devoluta di diritto al cardinal Fesch come arcivescovo della chiesa più antica e più celebre della Francia, Lione. Prestava egli giuramento di vera [p. 27 modifica]ubbidienza al romano pontefice: la prestavano i vescovi congregati. Così parole ossequiose velavano tristissimi fatti. Una delle prime operazioni del conciliabolo parigino fu quella di eleggere una deputazione, che dovea recarsi innanzi al santo padre in Savona. Affidavasi questo incarico all'arcivescovo di Tours Luigi Maria di Barral a Stefano Bonsignori vescovo di Faenza nominato dall'imperatore patriarca di Venezia, al vescovo di Treveri Carlo Mannay , a quello di Nantes Giovanni Battista du Voisin. Giunti al cospetto di Pio VII presentarono dessi la lettera dei prelati francesi, dai quali dicevansi autorizzati a portare innanzi al supremo gerarca di santa chiesai voti e le rimostranze della Francia e dell’Italia. Diceasi in quel foglio che erano insieme. congregati in un solo pensiero , in un desiderio, in un voto solo, quello cioè di veder finalmente restituita al mondo la desiderata concordia, alla chiesa la pace. Per dieci giorni consecutivi erano essi ammessi alla presenza del papa: conferivano seco lui sù i mali risultanti dalla vedovanza di tante chiese, dall’agitazione, in cui tante coscienze erano poste. Il principe supremo della cristianità accoglieva le osservazioni e le preghiere dei deputati con una bontà rassegnata: dissero, che il concilio di Francia non avrebbe apportato alcun cambiamento canonico o sull’attual modo d'instituire i vescovi, o sugli altri punti di disciplina generalmente stabiliti, senza l'intesa, l'approvazione è il concorso dell’apostolica sede. Credesi, che giammai abbia Pio VII permessa la libera discussione, prevedendo in cuor suo l'imminente rovina e conoscendo i lacci tesi alla coscienza dei fedeli; fece bensì risplendere la sua pietà profonda, l' amor suo per la chiesa, l'inalterabile sua dolcezza, la sua affabilità interessante. Manifestava egli ai vescovi deputati il desiderio di assicurare il vantaggio della chiesa di Francia, ma libero e non prigioniero, ma circondato dai suoi consiglieri e non solo. Con energiche rimostranze si oppose alla riunione, ne mostrò l’inconvenienza, negò con fermo petto all’episcopato francese i diritti e i privilegi che esclusivamente appartengono alla santa sede. Chiedevano essi, con una spaventevole [p. 28 modifica]pertinacia, la istituzione canonica dei vescovi nominati dall'imperatore: volevano in avvenire, se fossero decorsi sei mesi dalla nomina stessa senza la conferma apostolica, doversi questo diritto trasferire al metropolitano, o ad uno dei suffraganei in caso di nomina dell'arcivescovo. Offrivasi al papa il ritorno in Roma a condizione di prestare il giuramento di fedeltà e di obbedienza imposto ai vescovi dal concordato del 18041 : diceasi che in caso di rifiuto sarebbe permessa a Pio VII la residenza in Avignone, ove potrebbe esercitare liberamente a giurisdizione spirituale: che in quella città i ministri delle corti cattoliche avrebbero la residenza: promettevansi onori sovrani, trattamento di due milioni. Per ottenere questi benefici doveasi dal papa promettere di non far cosa alle quattro proposizioni del clero gallicano contraria: negl'inisidiosi discorsi dei vescovi deputati lasciavasi travedere la speranza, che il gabinetto delle Tuileries era disposto a discutere altri punti: della erezione in Olanda e in Germania di nuovi vescovadi, della dateria, delle missioni e di quanto è necessario al libero esercizio della pontificia giurisdizione. Dopo lunghe discussioni, dopo l'esame di diversi progetti, cominciavano oramai i deputati a persuadersi che le arti loro non avrebbero espugnata la fortezza di Pio. Raddoppiarono per altro i loro sforzi, proposero nuovi patti, senza ottenere quell’assenso formale, che in qualche modo autorizzar potesse quel preteso concilio e avvalorare le speranze dei nemici di Roma, e del pontefice posto a così duro cimento Ben vide Pio VII quali insidie gli erano tese, e magnanimo per lunghi giorni sostenne le prerogative dell’apostolico seggio22. Fedeli a [p. 29 modifica]quanto aveano promesso a Parigi, tormentavano il papa e nelle reiterate udienze, ora si studiavano di spaventarlo col quadro lacrimevole dei mali provocati dalla sua resistenza, ora favellavano di uno scisma sicuro, che avrebbe sconvolta la chiesa, ora andavangli sussurrando all'orecchio, che non eravi tempo a perdere, che l'imperiale volere li richiamava a Parigi. Diffidente Pio VII dei propri lumi, abbandonato a se solo, oppresso, straziato dall'insistenza dei prelati, incerto di quanto accadeva in Francia e in Europa, dopo aver opposta lunga e valida resistenza23, promise di dar la conferma e la istituzione canonica ai vescovi nominati dall'imperatore, di estendere il concordato dell'anno 1801 alle chiese di Toscana, di Parma e Piacenza, e di aggiungere al concordato istesso la clausola da Napoleone proposta. Questa vittoria conseguita quando minori in essi erano le speranze, fu conseguenza dell'estremo abbattimento di quell’animo vulnerato da tanti affanni. Speravano essi trionfare di lui, ma fu breve la gioja, immediato il riparo. Profittando eglino di quel momento, sotto i suoi occhi posero in iscritto quella promessa, perchè fosse rattificata dal papa: ma esso rifiutavasi dal sottoscriverla. La nota comprendevasi in quattro articoli24. Preludiava questo

[p. 30 modifica]tristissimo fatto l’altro non meno disastroso del concordato di Fontainebleau. Eransi appena i prelati francesi allontanati dal suo fianco, quando il pontefice prese a riflettere sulla gravezza del passo, che aveva segnato. Vide egli che in Francia potea facilmente abusarsi di una promessa, che la noiosa insistenza degl'inviati aveagli tratto di bocca e pianse. Narrarono i suoi familiari, che smaniando passò il s.padre la notte: intesero i suoi lunghi sospiri, udirono le sue parole mostranti vivissimo pentimento. Era sorta appena l'aurora quando chiamato a se Ilario Palmieri, domandavagli se i vescovi francesi erano ancora in Savona: inteso che aveano ripresa la via di Parigi, cadde in un abbattimento profondo.

XV. I vescovi adunati nella capitale dell'impero ricevevano prove di benevolenza e di stima da quanti erano devoti al governo. A quelli, che credeasi avere influenza

[p. 31 modifica]maggiore, davansi prove di considerazione sovrana: ad alcuni furono aperte le porte del senato, ad altri quelle del consiglio supremo d'Italia.I buoni temevano, aumentavansi i dubbi nel vedere esclusi da quell’adunanza i pastori, che aveano rifiutato il giuramento al governo. È però ben consolante il riflesso che in mezzo alla corruzione del secolo, la voce della coscienza prevalse nel cuore dei vescovi e la maggior parte di essi si mantenne fedele al proprio dovere. A cento quattro sommava il numero dei padri a questo atto adunati, non dal pontefice , non dal primate della Francia, ma dalla volontà imperiale. Sei cardinali, nove arcivescovi nominati. Erano quarantanove prelati francesi, quarantatre italiani, due tedeschi, uno svizzero. Adunavansi nelle sale dell'arcivescovado: si trasferivano in forma pubblica alla chiesa metropolitana. Di cantici, di preghiere risuonarono le volte del tempio e a tenore del concilio Toledano decretavasi sulle prime che niuno dar si dovesse a dispute oziose, vane e ostinate, che tutto enunciare si dovesse con calma e con gravità in modo, che l'agitazione dei partiti non recasse pregiudizio alla mente: stabilivasi in fine, che niuno avrebbe lasciato Parigi prima della chiusura, ove la lontananza non fosse autorizzata e permessa dai padri. Si domandò individualmente a ciascuno se piaceva loro che si adunasse il concilio. Dubois de Sauzay arcivescovo di Bordeaux rispondea: salva l’obbedienza dovuta al pontefice: Maurizio di Broglio vescavo di Gand, Francesco Giuseppe Hiru vescava di Tournay, Stefano Antonio di Boulogne vescovo di Troies non mostrarono minor coraggio. Memoranda prova di animo virtuoso dava a quella assemblea il vescovo di Chambéry, col proporre di andar tutti ai piedi del trono per reclamare la libertà del supremo gerarca di santa chiesa. Appoggiarono generosamente quella mozione il vescovo di Gerico suffraganeo di Munster e vari vescovi italiani, frà i quali distinguevasi quello di Brescia. E già dalle prime sessioni prevedeva il governo, che i prelati a secondar: le sue mire non erano affatto proclivi. Formaronsi due partiti quello della corte, e quello della religione, ma a gloria dell’Italia e della [p. 32 modifica]Francia quello della religione trionfò. Il vescovo di Nantes Giovanni Battista du Voisin recavasi ogni giorno a Saint Cloud per informare l'imperatore di ciò che discutevasi nel consiglio. Venne proposto il cambiamento dell’attuale disciplina della chiesa sulla conferma ed istituzione dei vescovi, e si richiese quale sarebbe il nuovo metodo per le istituzioni canoniche, più non esistendo il concordato del 1801. Domandavasi che fosse deciso se l’indicarlo apparteneva al concilio. La commissione dei cardinali e dei prelati creata per esaminare l'imperiale domanda, ad onta dei maneggi dei vescovi ligi alla corte, dichiarava, che non poteva il concilio nazionale abrogare quella disciplina universale, che i concili ecumenici avevano confermata. L'inutile tentativo provocò nuove misure. Si propose un decreto modellato con qualche variazione sulle promesse fatte da Pio: si desiderò di spedire una nuova deputazione a Savona per ringraziare il papa delle fatte concessioni, ma questo invio non venne decretato dall'assemblea.

XVI. Contrariati i disegni governativi, scioglievasi all’improvviso quel preteso concilio: procedevasi all'arresto dei vescovi di Tournay, di Troies, di Gand, che eransi mostrati ardenti difensori delle prorogative della sede apostolica: temevasi, che l'arbitro della Francia, dell’Italia e di tanta parte di Europa stanco delle opposizioni fatte ai suoi disegni dall'inerme pontefice, dai cardinali e dai vescovi ch'egli avea congregati per servire ai suoi desideri, potesse prorompere finalmente in qualche misura violenta. Mentre in apparenza le sessioni interrompevansi del concilio, arti nuove ponevansi in opera, perchè quei vescovi che uniti insieme fortificavansi nel loro religioso proposito, assaliti individualmente variar dovessero nelle sentenze. I ministri del culto per l'impero francese e per l'italico regno assunsero l’incarico di chiamare ad uno ad uno i prelati delle respettive nazioni per indurli a sottoscrivere un foglio, in cui promettevasi di approvare il decreto, che doveva proporsi al concilio di adottare, cioè, la clausola d’aggiungersi al concordato. Prestaronsi al comando i ministri: studiando la tendenza e il carattere dei prelati ora [p. 33 modifica]allargando le speranze, ora esagerando i timori, tentò vincerli colle lusinghe, spaventarli con le minaccie. La maggior parte di essi, dolenti cella oppressione esercitata contro il supremo gerarca, fecero tornare a vergogna dei nemici della santa sede le arti, con cui si sperò vincere la loro costanza. Parve saggio consiglio inviare alcuni cardinali al pontefice per determinarlo a cedere agl’imperiali voleri. Scelti a questo incarico erano quattro vescovi francesi, cinque italiani, ai quali si aggiunsero i cardinali Doria, Dugnani, Roverella, Ruffo, De Bayane e l'arcivescovo Bertazzoli, chiamato da Lugo a Parigi. Lo stato di salute, a cui era ridotto Pio VII, oppresso da tanti mali, guardato a vista dai napoleonidi, isolato dai suoi, destò nell’animo di tutti gravissime apprensioni.

XVII. La sacra caravana che, servendo all’imperatore, non volea mancare ai suoi doveri verso il pontefice, giungea da Parigi a Savona sul cominciare del settembre mille ottocento undici. Questi sulle prime ricusavasi dal ricevere la deputazione, sinchè vinto dalle insistenze, per non accrescere i mali che affliggevano la chiesa, li ammise alla sua presenza. Sorpresi dalla dignità, con cui furono accolti, lessero sù i lineamenti del suo volto una espressione tanto profonda di tristezza da commovere gli animi i più efferati. Primo parlò uno fra i vescovi per deplorare i mali, che agitavano la chiesa: gli altri fecero eco alle animose parole; tutti unitamente pregarono volesse il pontefice restituire al mondo la pace; sentir pietà di tante diocesi prive dei loro pastori; concedere la istituzione canonica ai vescovi, che l'imperatore avea designati. Si oppose il papa con dignità e con coraggio, finchè non fu sopraffatto dai consigli del cardinal Roverella che, o ingannato o sedotto, avea fatalmente promesso di secondare le mire del governo napoleonico, consigliando Pio VII ad approvare il decreto emanato da un conciliabolo, da esso altamente disapprovato. E a chi si meraviglia in vedere come il Roverella giungesse a tanto, diremo che quel porporato, il quale avea in Venezia potentemente contribuito alla elezione del papa, ebbe fama d'uomo d'ingegno, e che

Giucci. Vita di Pio VII — II [p. 34 modifica]esercitava una specie d’impero sù i cardinali Doria e Dugnani d'animo timido e dimesso, i quali giuravano sulla parola del loro collega: che de Bayane francese, sopraffatto dai suoi connazionali, secondava il governo; che Ruffo, uomo di vasti talenti, ma non teologo o canonista, più a fazioni di guerra, che a discutere di bolle e di canoni adatto, facilmente furono vinti dal Roverella. Che questi molto aveva promesso all'imperatore apparve chiaramente per una lettera di Bigot di Préaméneu, ministro dei culti, trovata fra le carte del cardinale. Noi però non giudicheremo quest uomo che con le parole del suo collega cardinal Pacca. Scrive di lui, che intimidito dai passi violenti, che facevansi contro il papa e i membri del sacro collegio, manifestò sensi arrendevoli al governo di Francia.

XVIII. E grande fu l'ascendente da lui esercitato per piegare l'animo invitto di Pio ai suoi voleri. Serrati tutti com'erano intorno al detenuto pontefice, lo spaventarono, ne vinsero la fermezza. Compilò Roverella il breve emanato in conferma dei decreti del preteso concilio parigino, che la disciplina e i diritti della chiesa romana miseramente avea compromessi. Fa meraviglia il vedere come per quel breve, il papa non solo approva le misure arbitrariamente adottate, ma le loda, esulta di quell’atto come di lietissimo avvenimento, e lo riguarda come prova del filiale ossequio della chiesa gallicana verso la santa sede. Da Savona si annunciò per telegrafo la vittoria riportata sull’inerme pontefice, ma Napoleone, avvezzo a vincere su i campi di battaglia e a veder tutti sommessi ai propri voleri, non giudicò pieno il trionfo; l'opera dei deputati fu riprovata, il breve non accettato. Pretesto al rifiuto dicevasi il sentire la chiesa romana dichiarata madre e maestra di tutte le chiese: ragione vera l'inopportunità del momento di porre un termine alla prigionia del pontefice. Caduti i deputati in disgrazia alla corte, s'ebbero degno premio dell’aver tradite o per soverchio timore, o per ragioni mondane il venerando pontefice, le leggi della ecclesiastica disciplina.

XIX. Disperandosi oramai di ottenere dal papa [p. 35 modifica]concessioni maggiori, una lettera circolare del ministro dei culti, Bigot de Préaméneau, invitò i vescovi dimoranti in Parigi ad adunarsi nelle sale del suo palazzo. Giunta l’ora stabilita, fecesi a dire a quei prelati, che essendo le trattative col papa vicine ad una soluzione felice, il concilio era sciolto, dappoichè non voleva l'imperatore, al sopravenire delle nevi, vederli più a lungo lontani dalle loro diocesi. Alle parole del ministro dei culti l’animoso arcivescovo di Bordeaux battè palma a palma: gli altri seguirono quel movimento di gioia: il ministro ne fu sconcertato. Così si sciolse l'assemblea, così i suoi atti andarono dimenticati. Domandavano alcuni fra essi di adunarsi anche una volta a rendere grazie solenni a Dio per l'esito delle negoziazioni intraprese col santo padre: rispondea De Bigot, che non era ciò necessario: che mancavagli facoltà d’autorizzarli a quell’atto. L'italico ministro dei culti, ivi presente, aggiungeva, che meglio ognuno di loro fatto lo avrebbe nella sua cattedrale al cospetto del popolo: volevano altri che umili grazie a nome dei vescovi si rendessero al signore della Francia e pregavano il ministro non solo a permetterlo, ma a farsi interpetre di loro riconoscenza. Andassero, rispondea egli, tranquilli alla loro episcopale residenza, che ben esso ne avrebbe adempiuto le parti. Non potea egli del pari soddisfare alle domande dei vescovi che Napoleone avea nominati. Noi partinmo, dicevano, vicari apostolici delle nostre diocesi con la certezza di tornar vescovi effettivi, sia per la bolla del papa, sia per la istituzione del metropolitano. Potrà l’imperatore permettere che a discapito del nostro decoro, noi andiamo ad esporci alle contumelie e ai sarcasmi dei nostri nemici? De Bigot, imbarazzato da una domanda che non avea preveduta, rispondeva: avrebbe chieste le istruzioni opportune: e al vescovo di Savona, che prese a dirgli, se alla legge del ritorno era stretto pur esso, rispondea, che anche sul di lui destino avrebbe interpellata la volontà imperiale. Tosto partivano quelli, come avea stabilito il ministro: più tardi gli altri lasciavano Parigi, prima che cosa alcuna fosse sul loro conto deliberata. Così il nazionale [p. 36 modifica]concilio con sorpresa di tutti, si sciolse e per la città più non parlossi degl'imperiali decreti, della resistenza opposta dal papa, delle arti usate per superarla, delle istituzioni, degli atti emanati, della bolla e delle controversie che aveva eccitate.

XX. Le stagioni dell'inverno e della primavera del mille ottocento dodici trascorsero senza sensibili cambiamenti Per Savona e per Parigi circolavano voci assurde, contradittorie. Diceasi che il cardinale Giuseppe Doria, come legato apostolico, dovea recarsi a Parigi per istituire nelle forme canoniche i vescovi nominati: diceasi, che Colorno, villa reale dei duchi di Parma, sarebbe stanza assegnata a Pio VII; che avrebbe corte, congregazioni e seguito di cardinali e prelati pel disbrigo degli ecclesiastici affari: che ivi terrebbero la loro residenza gli ambasciatori delle potenze cattoliche. Parma, o altra città dell'Italia con territorio di cinque o sei leghe, diceasi accordata in sovranità al pontefice. Assegno di otto o dieci milioni di franchi. Prova di assicurata concordia, parlavasi di numerosa promozione di cardinali francesi. Voci erano queste che si spargevano, si multiplicavano palesemente per bisogno di calma: i fatti erano ben diversi.Il giorno quattro maggio pubblicavasi per il dipartimento di Roma e del Trasimeno un imperiale decreto, che dichiarava rei di fellonia quanti erano coloro i quali rifiutavansi dal giuramento: termine perentorio a prestarlo un mese, scorso il quale, i renitenti sarebbero giudicati da una commissione militare, confinati in città lontane, tradotti in esilio, spogliati per legge di confisca dei loro beni, privati di ogni civile diritto. Allo scroscio del tuono tenne dietro la violenza del fulmine. Le città lombarde e pedimontane, le anguste prigioni della Corsica e della Sardegna videro schiere di generosi, che per non mancare ai doveri della coscienza, rifiutaronsi dal giuramento. Le speranze di Roma venivano meno; la pace segnata a Vienna; l'imperiale maritaggio; la prole ottenuta; le conquiste di Tarragona, di Bajadar, l’esercito innumerevole, invincibile, la felicità del suo condottiero faceano giudicare impossibile la riscossa, rendeano ogni [p. 37 modifica]giorno più deplorabile la condizione della città già regina del mondo, divenuta provincia di Francia. Era ad essa impossibile il conservare le proprie forme, difficile l'adottare le altrui. Insopportabile divenne il peso imposto dalla conquista. Le leggi promulgate a Parigi stringovano ad una istessa condizione i popoli stabiliti sue rive del Baltico, alle falde dei Pirenei, sù i monti della Dalmazia e nella estrema Calabria. Speravano i francesi i loro usi, le consuetudini loro introdurre, innestare nelle conquistate provincie, e fra uomini d'indole, di costumi, di bisogni, d'inclinazioni diverse. Il clero, che opponevasi ad ordini incompatibili col proprio dovere, le autorità, che mostravansi inflessibili verso coloro, che negavano il giuramento, la polizia vigilante per iscoprire chiunque non parteggiasse per il governo contribuivano a desolar le famiglie, a rendere il vivere incerto e penoso: enormi le tasse: le confische frequenti: le famiglie monastiche disciolte; chiusi i cenobi; quà e là confinati e dispersi uomini rispettabili per cariche sostenute, per bontà di carattere, per intemerati costumi, per profondità di sapere.

XXI, Grossa di avvenimenti faceasi l’età, dappoichè avvicinavasi il tempo, in cui l'armata francese, la quale avea segnati tanti trionfi in Europa, dovea fra i geli del nord gran parte rimettere non di rinomanza, ma di fortuna. L'impero era in gran movimento per disporsi all'impresa, su cui andava ad urtare la potenza napoleonica. Facevansi grandi preparativi di guerra: le provincie soggette alla imperiale dominazione adunavano armi, preparavansi alla tenzione. Intanto il papa renitente e contrario ispirava seri timori all'imperatore dei francesi. Volle provarsi se delle minaccie inutilmente corse da lontano, i timori vicini fossero più efficaci. Ordini segretissimi, venuti da Dresda a Parigi, imposero una più stretta custodia: dappoichè potea temersi un qualche movimento per parte dei savonesi affezionati e devoti al travagliato pontefice. A Napoleone, che avea lasciato la Francia sino dal nove marzo mille ottocento dodici e trattenevasi da vari giorni nella capitale della Sassonia, vennero a fare omaggio l' [p. 38 modifica]imperatore d'Austria, il re di Prussia e i piccoli sovrani dell'Alemagna. Francesco primo, cui sommamente pesavano sul cuore le sventure di Pio, fece istanze le più premurose, perchè il capo della chiesa, fosse lasciato libero nell'esercizio delle apostoliche attribuzioni. Prometteva Napoleone al suo suocero di migliorare la sorte del venerando pontefice. Intanto stabiliva di allontanarlo da Savona, perchè era sorta in cuor suo la temenza che gl'inglesi, suoi giurati nemici, agevolmente potevano e aveano anzi tentato sottrarlo con un colpo di mano alla prigionia. Sensibile il re d'Inghilterra alle molte prove di simpatia dategli dal papa, l'avea fatto avvertire segretamente, che una nave da guerra dovea incrociare presso Savona, avvicinarsi a convenuti segnali, trarlo in luogo sicuro. Ad evitare le sorprese, volle assicurarsi di Pio VII, non meno che di Carlo IV di Spagna. Inviava l’ uno da Marsiglia a Roma, sempre asilo tranquillo di sventurati monarchi, dava le disposizioni per condurre l’altro a Fontainebleau.

XXII. Mostrarono gli avvenimenti, che non era agevole impresa il toglierlo da quella città senza provocare uno scandalo, e forse una popolare sommossa. Sebbene difficilmente gli agenti imperiali facessero penetrare i loro disegni, pure andavasi vociferando da molto tempo, che il papa doveva lasciare Savona. Stavasi in guardia il popolo, che aggiravasi fremendo innanzi al palazzo, ove custodivasi il santo padre; fidente in pieno giorno, cauto e guardingo al sopragiungere delle tenebre. E poichè videro i savonesi, che tutto disponevasi alla partenza, tumaltuarono, minacciarono. Avvicinavasi l'istante, in cui dovea Pio VII scender le scale del palazzo per assidersi nella carrozza già preparata, quando s' incominciò a gridare da ogni lato: non si parte, non si parte. Quel fremito spaventò i commissari di Francia che, pallidi, intimoriti, interdetti, scongiuravano Pio a farsi vedere dal popolo per calmarne lo sdegno. Pregato, presentavasi il magnanimo pontefice sulla loggia, e sollevando gli occhi al cielo e rivolgendoli sulla multitudine, meglio che trentamila assembrati sulla piazza, fecero profondo silenzio. [p. 39 modifica]Parlò egli e disse, che la prigionia e i mali da esso sopportati avrebbero fruttato sommo vantaggio alla religione cattolica: pregassero; avessero presente essere la obbedienza uno dei più cari doveri del cristiano. Distendeva quindi le mani in alto, e quasi volesse con bell’atto di amore tutto abbracciare il cattolico mondo, con una voce, che non avea mai tanto alto suonato, benedì al popolo ammutinato che, piangendo e fremendo, cominciò a replicare: non si parte, nor si parte. Un sentimento di timore e di venerazione s'impossessò di tutta la truppa, che prese il partito di ritirarsi, dappoichè ben comprese, sarebbe stata per allora più assai che temeraria, perigliosa impresa l’opporsi all’impeto popolare. Ricomposti gli animi, non dimettevansi i cittadini dalla vigilanza. Essi guardavano accuratamente il palazzo; ne vegliavano le porte; ne custodivano le vie. Fu duopo tentare nuove arti, escogitare nuovi mezzi per obbedire agli ordini di Parigi, senza cimentarsi col popolo. La frode. appianò la via, l'audacia condusse a termine l'impresa pericolosa.

XXIII. Cominciava a dirsi per Savona, che il colonnello Lagorse, stretto di amicizia al dottor Porta archiatro del papa, era incorso nella disgrazia sovrana. Egli che aveva il mandato di accompagnarlo segretamente, andava quà e là pel paese procacciandosi attestati da quanti erano o amici o contrari al governo. La fama della incontrata sventura correva attorno, prendeva piede, era creduta, compatita da tutti. Questo sentimento fecesi maggiore quando s'intese, che il principe Borghese il chiamava a Torino, di cui teneva il governo, per comunicargli le disposizioni che l'imperatore avea prese sul di lui conto. Intanto, mentre l'ingegnere generale dei ponti e strade andava disponendo quanto g giudicavasi necessario alla partenza, Lagorse continuava a mendicare attestati di buona coridotta dai cittadini, che il credevano perseguitato, e il voleano giovare di buoni uffici. Rassicurato dall’artificio, presentavasi sull’imbrunire della sera del dì nove giugno per dire al papa, che doveva partire. Sorpreso Pio VII all’annunzio, con l'accento di un rassegnato dolore, [p. 40 modifica]rispondevagli « sia fatta la volontà del Signore ». Erano le quattro di una notte oscurissima quando, perchè non fosse riconosciuto, gli si fece indossare una veste talare nera con croce vescovile al petto. Pochi erano famigliari al suo fianco: li benedì con effusione di cuore, montò in un legno di posta, che lo attendeva in luogo remoto. Così allontanavasi il papa da una città, che per lo spazio di trentaquattro mesi avealo ammirato saldo e magnanimo difensore delle pontificie prerogative. Dei suoi seguivalo solo Ilario Palmieri: custode sedeagli al fianco Lagorse. Fu doloroso il viaggio: ordipavasi ai postiglioni di sparger voce che conducevano Angelo Francesco Dania vescovo di Albenga diretto a Novi. Passarono Ponte Marone per temenza, che Genova potesse insorgere. Furono infinite le precauzioni usate a Savona, perchè l'allontanamento del papa fosse a tutti gelosamente nascosto. Per vari giorni recavasi il pranzo nelle stanze deserte: i magistrati di Savona in abito di costume recavansi a palazzo per far visita al papa, come fosse presente. S'imbandivano, si sparecchiavano le mense, andavasi a mercato a comperare le vivande: si apprestavano nelle cucine: dicevasi sommessamente all'orecchio di chi poteva parlare, la fortezza di Fenestrelle essere aperta a chiunque avesse non pur con la lingua, ma con gli occhi, con un movimento di testa, con un cenno equivoco rotto il segreto. Il palazzo era guardato dalle milizie; le stanze dagli aderenti: giuravano i gendarmi di averlo veduto or nel giardino, or nel terrazzo, spesso nella cappella: ad un incauto, che asseriva di averlo incontrato a Voltri, si avvisò segretamente si ritrattasse o avrebbe in carcere espiata la pena di aver veduto. Intimidito, dichiarò esser caduto in errore. Già discosto per oltre a duecento leghe era da quella città quando s'incominciò a sospettare, che il papa non fosse altrimenti a Savona. Fu universale il cordoglio, allorchè il dubbio divenne certezza. A Stupinigi, luogo di delizia dei re sabaudi presso Torino, rivide Pio l'arcivescovo di Edessa Bertazzoli, spedito d' ordine dei governo per darlo compagno al pontefice. Senza prender riposo, traversando le [p. 41 modifica]alpi marittime giunse alle falde del Cenisio, mentre era alta la notte. Il papa, cui non fu accordato indugio di breve ora, videsi obbligato a salire le nevose balze della montagna. La febbre, conseguenza del sofferto disagio, aggravò la condizione del magnanimo prigioniero. Si giudicò impossibile, senza evidente pericolo di vita, proseguire il viaggio e fecesi sosta nell'ospizio dei monaci, che sorge sulla sommità di quei monti. Si accrebbe la febbre; domandava il viatico, che in quelle vaste solitudini eragli amministrato dal Bertazzoli. Rassegnato ai decreti della provvidenza, il pontefice oppresso dai patimenti, si disponeva a morire. Grandi precauzioni si usarono per nascondere a tutti il pericolo. Ai viandanti tennersi chiuse per circa tre giorni le vie del monte: furono però riaperte, dacchè l’augusto ostaggio, riavutosi alquanto dal male, fece in cuore ai buoni rinascere la speranza, che avrebbe Iddio conservati a bene della chiesa i preziosi suoi giorni. In quel deplorabile stato venne per ordine giunto da Torino a lunghe giornate tradotto in Francia. Grandi furono le precauzioni adottate, perchè non fosse riconosciuto: la vettura assicurata, gelosamente custodita la chiave dal colonnello Lagorse: ove doveasi far sosta, la carrozza chiudevasi in una rimessa; il papa in quella: alle barriere, alle porte di Chambery e di Lione annunciavasi il vescovo d'Imola. In simil foggia fra gravi patimenti, giunse Pio VII a Fontainebleau: chiuse ad esso erano le porte dell'imperiale castello, perchè gli ordini di riceverlo pervenuti non erano da Parigi. Volevano gli umani eventi che il successore di san Pietro, otto anni prima accolto in quella reggia con sovrana munificenza, dovesse prigioniero trovare, unico asilo, le umili stanze di chi ne avea la custodia. Gli estremi disagi sostenuti nel lungo viaggio, la privazione di aria a cui videsi sottoposto, la rapida corsa, infine !o strazio morale ond'era da tanto tempo agitato il suo animo non mancarono di produrre gli effetti sinistri, che giustamente temevansi. Giacque infermo parecchi giorni. Più assai che agli ordini sovrani, alla crudeltà degli esecutori della volontà imperiale vuolsi ascrivere l'estremo rigore seco lui [p. 42 modifica]adoperato. Era interesse dei nemici della religione, che le forze fisichè e morali dell’augusto pontefice fossero estenuate: speravasi in tal modo trionfare di sua costanza.

XXIV. Per gli avvisi spediti alla capitale giungeva in fretta sul far del giorno un grande ufficiale di corte incaricato di aprire gli appartamenti: lo seguiva il dì appresso per fargli omaggio Campagny ministro, i cardinalie i prelati dimoranti in Parigi25. Riceveali amorevolmente il pontefice, che cominciava a riaversi dalla malattia sostenuta. Quando intese, che Bigot di Prèaméneau, ministro dei culti, domandava udienza, rispose con qualche risentimento: credere che nel cristianissimo regno non vi fosse ministro del culto cattolico. A chi giudica dalle apparenze parea godersi Pio VII amplissima libertà. Eragli partecipato in fatti tenersi nelle scuderie cavalli e carrozze a sua disposizione, starsi a tutti aperto l'accesso al castello, libero egli di ammettere nella imperiale cappella quanti volessero assistere alla messa del papa. Consolante in qualche modo dir si poteva questa prospettiva, se non che seppesi, che ai nove cardinali, detenuti in diverse prigioni di stato, non rendevasi la libertà e non era tolto il sequestro imposto sui loro beni. Alcuni di essi erano sostenuti a Vincennes, uno a Fenestrelle, un altro a Saumur. Pio VII severamente guardato; intercettate le lettere; i desideri, gli atti, le parole spiate: i pochi, che poteano avvicinarlo, erano muniti di facoltà rilasciate dai magistrati di Francia. Il pontefice avea il carcere di Savona cambiato con le dorate sale di Fontainebleau, sublime palagio, che per lo spazio di circa sei secoli era stato la cara dimora dei re francesi. Voleasi però far credere all'Europa, che il papa era amorevolmente trattato. La sua presenza contribuì [p. 43 modifica]efficacemente a ridestare in cuoro ai francesi il sentimento religioso. Le cure più tenere e commoventi, gli affetti più rispettosi furongli prodigati dalle grandi famiglie di Francia. Si distinsero su tutti i Montmorency-La-val, i de la Riandrich nel fargli pervenire nobili testimonianze di devozione e di affetto.

XXV. La Francia, la Germania, l'Italia o tanta parte d'Europa era doma; solo indomabile mostravasi il petto sacerdotale di Pio. Rassegnato ai voleri della provvidenza, fidente in Dio, che veglia al hene e alla integrità della chiesa, dal giorno venti giugno mille ottocento dodici al ventitre giugno mille ottocento quattordici non uscì mai dall'appartamento, che gli aveano assegnato. Sovente la muta di corte si presentava al castello, sovente i satelliti imperiali invitaronlo a diporto: costantemente rifiutavasi il papa. Assegnavasi, scorta di onore, una compagnia di gendarmi, il cui officio era il non perdere di vista l'augusto prigioniero: si pensò a Parigi, che quella guardia era rifiutata, perchè non volea il papa circondarsi di un'arma politica: sostituivasi un distaccamento di guide: il loro colonnello domandò più volte di accompagnarlo, ma egli ricusavasi dal secondarlo. Annoiato un giorno dalla importunità, risposegli: non salirò, signore, in carrozza al palazzo di Fontainebleau, che per tornare direttamente al Quirinale. Inutili riuscirono le premure, inefficaci i consigli: egli declinò sempre dagl’inviti, ad onta della deteriorata salute, del bisogno in cui era di respirare un'aria più libera e pura. Nei lunghi giorni in cui dimorò nel reale castello, si astenne persino dal visitare la cappella palatina, e celebrò il divin sacrificio in un altare eretto nelle sue camere: prostrato ai piedi di quello, offri a Dio le sue pene, pregò pel cattolico gregge, provvide ai bisogni della chiesa alle sue cure commessa. Quivi ricevè amorevolmente quanti, autorizzati dall'imperiale governo, prostravansi riverenti ai suoi piedi. Egli, benedicendoli, facea loro baciare la mano: pregato, applicava indulgenze agli oggetti religiosi, che érangli presentati; davà a tutti prove di [p. 44 modifica]bontà, di rassegnazione, di coraggio e di zelo. Prigioniero ed oppresso, mentre Napoleone toccava il più alto grado della umana potenza, spinto da ispirazione divina, annunciò più volte agli astanti il vicino trionfo della giustizia e li assicurò del suo non lontano ritorno alla città eterna, da cui l'aveva diviso l'ira dei tempi, la prepotenza dell’armi.

  1. Il vescovo di Tivoli che avea giurato, pentito del passo dato, il dì di san Pietro dopo l'evangelo, con molte lacrime, alla presenza del popolo, si ritrattò. Preso dai gendarmi venne trasportato in Roma e rinchiuso nel convento della Minerva.
  2. Imponeva Pio VI al cardinal Caprara di comunicar la sua lettera al cardinale Maury, che aveva scritto al santo padre in questa circostanza medesima.
  3. Questo libro venne quindi sequestrato dalla polizia parigina, che cercò tutti i modi di distrugger le copie.
  4. Monsignor de Pradt che per l'esercizio delle sue attribuzioni alla corte napoleonica si trovò sempre, durante la ceremonia, al fianco dell’ imperatore, ci narra, come avendo Napoleone con un colpo d'occhio misurata la sala, ove vedessi raccolto tutto il fiore dell’Europa venuto per assistere all’atto religioso, fermandosi collo sguardo sugli sgabelli destinati ai principi di santa chiesa: dove sono, esclamò, i cardinali? Rispondeagli il prelato de Pradt che il tempo che avea imperversato, l'età avanzata dei porporati invitati alia ceremonia, le difficoltà di penetrare nella cappella avevano potuto cagionare l’assenza di alcuni fra essi.
  5. I cardinali, sui quali cadde la collera imperiale e ai quali rea vietato dopo questo fatto di avvicinarsi alla corte imperiale e assumere la porpora per avere tacitamente disapprovato il martimonio, furono: Mattei decano del sacro collegio, il quale unitamente al cardinal Pignattelli venne tradotto a Rbttel. Mézieres fu stanza ai porporati Scotti e della Somaglia. Sedan, quindi Charleville a Saluzzo e Galeffi. Brancadoro e Consalvi dimorarono a Reims. Luigi Ruffo e Litta vennero tradotti a San Quintino. Di Pietro, Opizzoni e Gabrielli furono portati a Saumur. Potevano in Parigi assumere liberamente la porpora i cardinali Fesch, Maury, Giuseppe Albani, Spina, Caselli, Cambacères, Giuseppe Doria, Dugnani, Fabrizio Ruffo, Roverella, De Bayane, Ersckine, Caprara. I primi si dissero cardinali neri, cardinali rossi chiamaronsi gli altri.
  6. La lettera diretta da Pio VII al gran vicario di Parigi abate d’Astros era giunta a quel giovane consigliere nella capita e fu per sua cura inviata al proprio destino. N'ebbe Portalis amari rimproveri nella pubblica sala del consiglio imperiale, dalla quale fu espulso alla presenza dei suoi colleghi.
  7. Innocenzo XI cui solo era dato l'emettere giudizio in sì fatta materia avea costantemente negate le bolle d’investitura ai prelati francesi, i quali intervennero a quell’assemblea.
  8. Tornato appena in Roma nel 1844 oppresso dai patimenti sostenuti in prigione non sopravvisse che pochi giorni. Seppe che Pio VII era finalmente restituito all'amore dei sudditi, alla felicità dello stato, ma non ebbe la consolazione di rivedere il suo augusto padrone reduce dalla cattività sostenuta.
  9. Altri scrissero che monsignor Doria maestro di camera del santo padre fu mandato in Napoli a vivere co’ suoi parenti.
  10. È a notarsi che la lettera di avviso portava la data dei venticinque maggio e l’ inviato imperiale trovavasi alla presenza del sommo pontefice il giorno quindici del detto mese.
    Giucci. Vita di Pio VII
  11. Pio VII che per quanto le angustie poteano consentirglielo, tutto ponea in opera per giovare la chiesa, scelse fra i pochi suoi famigliari un giovane che potesse servirgli di segretario. Noi abbiamo fatto, diceva al conte di Lebzeltern, tutto quello che dipendeva da noi e ci gode l’animo al riflesso d’aver spedite noi soli cinquecento e più dispense. Siamo venuti con tutti i nostri mezzi in soccorso dei vescovi dell'impero francese, le cui istanze hanno potuto giungere sino a noi. Vediamo però, aggiungea dolurosamente l’afflitto pontefice, che le forze fisiche ei mancano, che vi sono molti soggetti, i quali banno bisogno di esame e di discussione profonda.
  12. Si parlò della statua colossale di Napoleone commessa allo scultore di Possagno. Dispiacquegli di sapere che dessa era ignuda. E perchè, dicea, non potrà essere ignuda anche la mia statua colossale a cavallo? Rispondeagli che dovea questa essere modellata nel costume eroico. Tali sono quelle degli antichi re della Francia; tale, o signora, volgendosi all’imperatrice, è quella di Giuseppe II in Vienna. Il nome dei vecchi re francesi e del fratello dell’avo di Maria Luisa sulle labbra di Napoleone chiamò un’altra volta il sorriso.
  13. Più tardi Antonio Canova, ritornato in sua casa, prese a studiare sull'opera di Tacito: rinvenne il passo e si diede il grazioso pensiero di mandare il libro all'imperatore « ne salutis quidem cura ; infamibus vaticanii locis magna pars tetendit: unde crebrae in vulgus mortes.» Tacit, Hist. lib. 2. cap. 93.
  14. Napolcone nel pronunciare queste parole guardò attentamente l’imperatrice. Posso accertare, rispose Maria Luisa, che, quando io era in Germania, si dicea che il papa era tutto francese.
  15. Il giorno cinque novembre 1810 riceveva Canova da Napoleone la licenza di ritornare in Italia. Prima della partenza volle dargli un’idea della sua potenza. Qualunque però fossero le disposizioni di animo, in cui lasciava egli l'imperatore, certo che nuovi eventi vennero a dissiparle. Voleasi togliere alla santa sede il diritto che solo erale rimasto, quello cioè della conferma e della istituzione canonica dei vescovi.
  16. Questi dopo esservi intervenuto tre volte, non trovò più della sua convenienza l’assistere a quelle adunanze.
  17. Il bisogno della chiesa di Francia al dire di Potter diveniva sempre maggiore, perchè i membri componenti l’ecclesiastica commissione permisero ai fedeli d’indirizzarsi ai loro vescovi ordinarî, ma solo per le semplici dispense. Si propose di aggiungere al concordato del 1801 un articolo per il quale si limiterebbe la vacanza delle sedi, tanto in riguardo alla nomina da farsi dall’imperatore quanto al dovere d’instituire da eseguirsi dai sommo pontefice, se non volea che il metropolitano o il più antico vescovo istituisse in ciascuna provincia.
  18. Il Cardinal Lambruschini quando fu nunzio in Francia, avendo dimenticato in Genova sua patria i famosi opuscoli dell'abate Emery ne domandò un esemplare al Garnier superiore di San Sulpizio. Allorchè il cardinale dovè recarsi ad Issy, volle visitare la tomba di questo illustre ecclesiastico francese, verso il quale nutriva particolari sentimenti di rispetto e di amore: pregò innanzi all’altare, e rivolto quindi a coloro, che gli stavano all’intorno esclamò « ecco una persona che molto ha amato: la chiesa ».
  19. Questo dotto ecclesiastico rifiutavasi dall’intervenire all'assemblea. Il cardinale Giuseppe Fesch, cui era ben noto quali e quanti vantaggi poteano attendersi da un consigliere di un merito tanto distinto, spediva in cerca di lui i vescovi Jauffret e de Boulogne. Trovarono nel suo modesto ritiro il sacerdote di san Sulpizio, che secondava la preghiera del cardinale e insieme ad essi recavasi alle Tuilleries.
  20. Deve il cardinal Fesch ai di lui consigli se non accettò l'arcivescovato di Parigi, che offrivagli l'imperatore : rifiuto che fruttò al porporato gli encomî di Pio VII Napoleone consultavalo frequentemente. Quando Fesch volle parlare al nepote di materie ecclesiastiche, questi risposegli: tacele: dove mai avete imparato teologia? Ne parlerò io col prete Emery. Solea dire qualche volta: un uomo quale è costui mi porterebbe a fare forse più ancora di quello che io non dovrei.
  21. Monsignor Fournier vescovo di Montpellier assisteva negli estremi momenti questo illustre francese, che rese l'anima a Dio fra le braccia del cardinal Fescb, che ne pianse veramente la perdita. La sera istessa a circolo di corte portava egli la nuova all’imperatore. Risposegli questi «ne sono dolente, ne sono dolentissimo: era un uomo saggio, un ecclesiastico di merito ben distinto. Bisogna onorarne la morte con istraordinarie funebri pompe. Egli sarà deposto nel pantheon». Iddio dispose diversamente per consolazione dei sacerdoti da lui diretti.
  22. Scriveva il prelato De Pradt al ministro dei culti, che acconsentiva il pontefice a firmare il primo dei quattro articoli del clero di Francia, che non opponeva se non una debole resistenza agli altri tre, c che reclamava soltanto il diritto di nominare i vescovi subarbicari. Vendica Jauffret la falsità del rapporto, e nelle sue memorie per servire alla storia ecclesiastica del XIX secolo scrive , che Pio VII rifiutò schiettamente di segnare i quattro ar- ticoli, di rattificare Ja perdita della sua sovranità e di prestare sleun giuramento alle autorità della Francia.
  23. Dalle stesse lettere dell’arcivescovo di Tours al ministro dei culti rilevasi che il papa sostenne virilmente la lotta, resistendo ai replicati assalti dei prelati francesi. Risulta da esse quali furono gli argomenti discussi, quali le questioni proposte, quali l’energiche risposte del santo padre. L’istesso arcivescovo ch'era capo della deputazione le pubblicò in un libro impresso a Parigi nel 1814 col titolo — Fragmens rélatifs à Histoire Ecclésiastique des premières années du XIX siècle.
  24. Sua Santità prendendo in considerazione i bisogni e il voto delle chiese di Francia e d'Italia, che le sono stati rappresentati dall'arcivescovo di Tours e dai vescovi di Treveri, di Nantes e di Faenza, e volendo dare a queste chiese una nuova prova della sua paterna affezione ha dichiarato all’arcivescovo e ai vescovi suddetti. I. Che essa santità sua concederebbe la istituzione canonica ai nominati da sua maestà imperiale e reale nelle forme convenute all’epoca dei concordati di Francia e del regno d’Italia. II Che sua santità condiscenderà ad estendere le medesime disposizioni per le chiese della Toscana, di Parma e Piacenza per mezzo di un nuovo concordato. III. Sua santità consente, che sia nei concordati inserita una clausola, con la quale essa si obbliga a fare spedire le bolle d’istituzione ai vescovi nominati da sua maestà in uno spazio di tempo determinato, che sua santità crede non poter esser minore di mesi sei: e nel caso ch’ella differisse per più di sei mesi: e per tutt'altre ragioni che per l’indegnità personale dei soggetti, ella investe del potere di dare in suo nome le bolle dopo spirati i sei mesi, al metropolitano della chiesa vacante, e in sua deficienza al vescovo più anziano della provincia ecclesiastica. IV. Sua santità s'induce e muove a fare queste concessioni perla speranza, che le hanno fatta concepire nei loro discorsi i vescovi deputati, che queste concessioni preparerebbero la strada ad altri accomodamenti, che ristabiliscano l'ordine, e la pace della chiesa, e che rendano alla santa sede la libertà, l’indipendenza e la conveniente dignità. Savona 10 Maggio 1811. È questo l'atto, che per sorpresa si ottenne dai prelati mandati in deputazione a Savona, che non fu sottoseritto dal pontefice e che gli costò tante lacrime.
  25. Erano Giuseppe Fesch, Giovanni Sifredo Maury, Antonio Felice Zondadari, Giuseppe Spina, Erskine, Caselli, Albani, Caprara, Cambaceres e i cardinali tornati da Savona.