Il Moliere/Testo completo
Questo testo è completo. |
IL MOLIERE.
COMMEDIA
IN CINQUE ATTI IN VERSI.
La presente Commedia fu rappresentata per la prima
volta in Torino l’Anno MDCCLI.
ALL’ILLUSTRISSIMO E SAPIENTISSIMO
SIGNOR MARCHESE
NOBILE PATRIZIO VERONESE1.
Ma poco avreste Voi fatto, se di massime e di dottrine soltanto aveste i fogli vergati. Potrebbono con ragione opporre gli zelanti alla verità delle istruzioni vostre la difficoltà dell’esecuzione, e con gravità sosterrebbono: il Teatro correggibile essere una chimera, l’onestà incompatibile colle Scene, lo scandalo certo, ed il pericolo manifesto. Voi avete dati gli esempi della correzione, della onestà, delle buone regole, della gravità del Coturno, dell’amenità del Socco, e contentandovi di dar un modello per ciascheduna sorta di Teatrale Componimento, faceste altrui comprendere che per riformare il Teatro mancavano soltanto gli Autori, che Voi e le Opere vostre imitassero. Ma come, e da chi mai imitar potrebbesi la vostra Merope, la quale lasciandosi indietro tutte le Tragedie antiche, sta qual maestosa Regina, mirandosi a piè del trono tutte quelle dei moderni Italiani?4 Io non intendo recar ingiuria ad alcuno, se la Tragedia vostra sopra le altre ho collocata: in ogni genere di animate e inanimate cose, una dee avere sopra delle altre il primato, e se nell’ordine delle Tragedie5 italiane la Vostra Merope ha il primo luogo, si consolino i tragici più valorosi, essere tant’alto di quella il grado, che posti luminosissimi rimangono per essi ancora. Coloro che contro la disonestà del Teatro non cessano di declamare, se questa perfetta opera vostra avessero prima letta, o tacerebbono certamente, o rivolgerebbono le loro grida contro quelli che non si curano di imitarla. Essi per altro, che credono empio il Teatro senza conoscerlo (siccome noi barbari sogliamo chiamare que’ popoli, de’ quali siamo poco a nulla informati) scagliano il loro zelo contro la disonestà degli Attori, contro il comodo, l’occasione e il pericolo degli spettatori. In quanto ai primi, cent’anni ormai sono, che portato dal genio mio teatrale, conversare ho dovuto con tutti quasi gli Attori nostri dell’uno e dell’altro sesso. Ho ritrovato fra questi delle donne lubriche, degli uomini scostumati, colle passioni istesse, coi medesimi vizj, come in altre brigate, in altri ordini di persone, in tante case, in tanti luoghi più rispettabili ho6 ravvisati. Ma vi ho trovato altresì uomini di tanta onestà, donne di tanta morigeratezza, che vergogna farebbono alle più ritirate. La giustizia ch’io rendo a tali discreti Attori, a tante oneste Attrici, non mi può essere imputata a passione. Informisi chi non lo crede, e troverà certamente che se il Teatro non è una scuola delle più austere virtù, troppo ingiustamente si sfregia col titolo di scandaloso.
Che gli Spettatori trovino ne’ loro palchetti il comodo d’amoreggiare, può anche esser vero, ma cotal comodo non manca loro nelle conversazioni, nelle villeggiature, e pur troppo ne’ luoghi ancora più venerabili e santi; e può anzi credersi, a parer mio, che l’ammirazione dello spettacolo teatrale divida il cuor dell’amante, il quale in altro luogo, senza la distrazione delle scene, tutto al suo Idolo lo consacrerebbe; e se talvolta una moralità d’un Attore, una sentenza, un accidente, un rimprovero tocca al vivo le piaghe di una spettatrice male educata, può avvenir facilmente, che dalle scene riporti quella correzione che la madre avida, o condescendente, non le averà per avventura mai fatto. Ecco il bene della Commedia onesta; Voi anche di questa ne avete dati gli esempj, ed io seguendo, benché da lungi, le tracce Vostre, non già con quella moderazione che Voi, per non abbandonare le serie occupazioni, osservaste, ma giunsi fino sovra i cartoni del Codice e dei Digesti ad abbozzare Commedie. Prendetevi la pena di leggere la prefazione alle mie Commedie7, Illustrissimo Signor Marchese, se voglia aveste d’intendere con quai principj, con quai progressi mi sia avanzato in tal arte. Voi troverete aver io con gualche accortezza nelle prime operato per guadagnarmi il popolo, ed avvedendomi che tutt’a un tratto non si potea cambiar il cervello a tanti uomini prevenuti, m’indussi a lasciar le maschere sul mio Teatro, e a toglier loro soltanto guel più che le rendeva noiose. A poco a poco ho potuto arrischiarmi a levarle da alcuna Commedia del tutto, ed ebbi la consolazione di vedere smascellar dalle risa anche il popolo basso, senza le storpiature, senza gli spropositi dell’Arlecchino. Passai più innanzi, e provar volli se una Commedia in versi potea sperare un egual fortuna. Voi siete uno di quelli che nella pugna dei due partiti protegge guello dei versi, ma versi tali vorreste, che si potesseso recitar senza il suono, versi che sembrassero prosa, versi insomma che somigliassero a guelli del Raguet, delle Cerimonie, due bellissime Commedie vostre.
Io vi confesso essere stato in guesta parte di sentimento contrario; nel mio Teatro Comico ne ho ragionato, e dichiarato per la prosa mi sono8). Ciò non ostante, com’io diceva, una Commedia in versi ho poi voluto comporre; non però con guei versi che pajon prosa, ma con guegli altri che, ad imitazione dei Francesi, Pier Jacopo Martelli ha usato nelle Opere sue, così che d’indi in poi di versi Martelliani portarono il nome. Voi sapete meglio di me non esser eglino che due Settesillabi uniti, de’ guali non si può nascondere il suono, accresciuto guesto ancor più dalla rima, su cui per ordinario si fa terminare il periodo.
Io, per dir vero, non sono mai stato amico di cotai versi, usati pel Teatro dal sopraddetto Martelli, e quanto ho lodato guel valoroso Autore ne’ suoi caratteri e ne’ suoi pensieri, altrettanto in lui mi è dispiaciuto guella maniera di verseggiare, la quale toglie moltissimo alle opere sue di guella maestà, che per entro di esse tratto tratto si scorge. Con una simile prevenzione parrà impossibile ch’io siami da me medesimo indotto a far cosa per cui io sentiva della repugnanza; io sono uno di quei compositori che dicono volentieri la verità: Pietro Cornelio mi piace assaissimo, perchè nelle sue Prefazioni soleva dirla, ed io in questo mi compiaccio assai d’imitarlo. Mi cadde in mente voler di Moliere medesimo, autor celeberrimo di Commedie, formare una Commedia. Lessi la di lui Vita; scelsi ciò che mi parve in quella più comico e più interessante, e diedi mano allo scrivere.
Il primo Atto lo feci in prosa, secondo il mio ordinario costume. Il soggetto però stravagante, i personaggi Francesi che lo componevano, il Protagonista autore, d’uno stile straniero, mi posero in soggezione, e scrissi in una maniera che potea forse riuscire aggradevole ai dotti, ma non avrebbe fatto colpo nell’universale. Lo stile si accostava un poco troppo al francese, i sali riuscivano delicati, il fraseggiare spiritoso e brillante, ma forse soverchiamente studiato, e quantunque potessi compiacermi di quello ch’io aveva scritto, l’esperienza fatta sul Popolo per tre anni, non mi lusingava di un esito fortunato. Allora a’ due partiti rivolsi l’animo, o abbandonare il soggetto, o migliorare lo stile, intendendo io per migliorare lo stile, renderlo grato a tutti, poichè quella io credo ottima cosa, la quale dal pubblico viene applaudita; osservai allora con maggior senso di prima, che tante moderne opere dei Francesi sono, mi sia permesso il dirlo, di scarsissimo intreccio, con un carattere appena, anche leggiermente dipinto9, eppure sono applaudite, unicamente forse perchè sono ben verseggiate. Il verso dunque (dicea fra me stesso) ha il maggior merito sul Teatro Francese, e perchè non potrebbe averlo sull'Italiano? Ma il verso dei Francesi è rimato; proviamo dunque a rimarlo, ed imitiamo il Martelli. Ecco come indotto mi sono a convertire in versi rimati quell’atto di commedia, che in prosa io aveva prima composto; e sembrandomi rimanerne contento, proseguii l’opera sino alla fine. M’ingegnai di coprire più che possibil fosse il difetto di tali versi, rendendoli facili e naturali; m’astenni da quelle trasposizioni, da quelle difficili costruzioni, ligamenti e prolissità di periodi, che l’uditore non meno del recitante affaticano; ma ciò non ostante, dubitai sempre dell’esito, e per quanto gli amici miei, ai quali io la leggeva, mi presagissero buon incontro, non me ne sapea lusingare.
In Turino fu per la prima volta rappresentata, in tempo che io non v’era. Aspettava le nuove, siccome un padre ricco attende dalla partoriente sua sposa la notizia di un primogenito, e fui lieto egualmente, allor che in Genova giunsemi il fortunato avviso di un pienissimo aggradimento. La replicarono i Comici colà più volte; in Venezia non si saziavano di udirla; lo stesso seguì in Bologna e in Milano; ma il compimento poi della gloria ottenuta dal mio Molière, fu allora che Voi, Illustrissimo Signor marchese, veggendola rappresentare l’anno scorso in Venezia, vi degnaste soffrirla tutta, vi compiaceste lodarla, e me medesimo onorar voleste del Vostro benignissimo compatimento. Contento non può bramarsi maggiore uno scolare, oltre quello di sentirsi lodare dal suo Maestro. Voi mi avete empito di consolazione, e sin d’allora mi entrò nell’animo l’ardentissima brama di pubblicare al Mondo il rispettabile vostro giudizio che tanto mi onora. Sa tutto il Mondo che sin dall’età più fervida impiegato avete il sublime vostro talento in opere d’alto peso, in opere della più accurata storia, della più sublime teologia; Voi la critica, Voi la morale. Voi la sperimentale filosofia, e tante altre scienze ed arti, che lungo troppo sarebbe il descriverle; Voi le avete felicemente trattate, ed arricchiste il Mondo di peregrine notizie, di nuove erudizioni, di salutevoli decisioni. Non è però disdicevole a Voi medesimo, che diate uno sguardo passeggiero ad un’opera, che se nulla ha di buono, lo riconosce da Voi: Voi m’inspirate quel genio che andar mi fece della buona Commedia in traccia, e da Voi l’oggetto primario dell’onestà e della modestia apprendendo, trovai la maniera di destare il riso negli uomini, senza offendere l’innocenza.
Questa Commedia dunque, di cui mostraste di compiacervi, a Voi, Signore, offerisco in dono, credendola di Voi degna, non per altra ragione, se non per questa, che Voi l’avete lodata, fregio che basta solo ad esaltare qualunque Opera, fregio che potrà certamente difenderla, se non dagl’invidiosi, dai critici almeno e dagl’ignoranti. Sono con ammirazione ed ossequio
Di V. S. Illustrissima
Umiliss. Devotiss. e Obbligatiss. Serv.
Carlo Goldoni.
L’AUTORE
A CHI LEGGE10.
PERSONAGGI.
MOLIÈRE, autore di commedie e comico francese.
La BEJART, comica che abita in casa di Moliere.
ISABELLA13, figlia della Bejart, comica nella medesima casa14.
VALERIO, comico15 ed amico di Moliere.
Il Signor PIRLONE16, ipocrita.
LEANDRO17, cittadino, amico di Moliere.
II Conte LASCA18.
FORESTA, servente di Moliere.
LESBINO, servitor di Moliere.
La Scena si rappresenta in Parigi, in casa di Moliere,
in una camera terrena con tre porte.
ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Moliere e Leandro.
Un autor di commedie, un uom che ha tanto sale,
Che con le sue facezie fa rider tutto il mondo,
Co’ propri amici in casa non sarà poi giocondo?
Moliere. Oh quanto volentieri al diavol manderei
Tutte le mie commedie, e i commedianti miei!
Leandro. Oh bella, oh bella, affé, or sembra che v’attedie
L’amabile esercizio di schiccherar commedie;
E pur v’hanno acquistato la protezion reale,
E un migliaio di lire di pensione annuale.
Moliere. Servir sì gran Monarca, se non foss’io obbligato,
Vorrei andare a farmi rimettere soldato,
Anzi che pel teatro menar sì dura vita.
Leandro. Ma ditemi, di grazia: dite, che cosa avete?
Moliere. Deh, non mi fate dire... Per carità, tacete.
Il pubblico indiscreto non si contenta mai,
Oh quanti dispiaceri, quanti affanni provai!
E quel ch’or mi deriva da’ miei nemici fieri,
Sembravi ch’esser possa un dispiacer leggieri?
Leandro. Dir v’intendete forse, d’allor che l’Impostore
Vi venne proibito?
Moliere. Di quello, sì signore.
Noi tutti eravam lesti; di popolo era piena.
Come di Francia è l’uso, oltre il parter, la scena;
Quando a noi giunse un messo col reale decreto,
In cui dell’Impostore lessi il fatal divieto.
Leandro. Ma se vi fu sospeso un’altra volta ancora,
Perchè violare ardiste l’ordine uscito allora?
Moliere. Il Re dappoi lo lesse, e l’approvò egli stesso,
E di riporlo in scena diemmi19 il real permesso.
Fu mia sventura estrema, che in Fiandra indi sen gisse,
E la licenza in voce mi ha data, e non la scrisse.
Spedito ho immantinente un abile soggetto,
E a momenti la grazia in regal foglio aspetto.
Vedranno quei ministri, che a me non prestan fede,
Che a Molier si fa torto, quando a lui non si crede.
E gl’ipocriti indegni, spero, avran terminato
Di cantar il trionfo, ch’hanno di me cantato.
Leandro. Ma per dir vero, amico, avete agl’impostori
Rivedute le buccie.
Moliere. Eh, che son traditori.
Dall’altra trista gente difender ci possiamo;
Ma non dagl’inimici che noi non conosciamo.
Ed è, credete, amico, santa, lodevol opra,
Leandro. Basta, vi passo tutto; ma vedervi desio
Senza pensieri tristi, allegro qual son io.
Moliere. Un uom che ha il peso grave di dar piacere altrui,
Non può sì lietamente passare i giorni sui.
Voi altro non pensate, che a divertir voi stesso;
Viver senza pensieri a voi solo è permesso.
Leandro. E tutto il gran pensiere, che m’occupa la mente,
La mattina per tempo bilanciar seriamente
Qual partita d’amici a scegliere ho in quel giorno,
Per passar la giornata in questo o in quel contorno.
Moliere. Siate più moderato: so io quel che ragiono.
Leandro. Viver, viver vogl’io. Filosofo non sono.
Moliere. E ben: chi viver brama, dee usar moderazione.20
Leandro. Chi sente voi, Moliere, io sono un crapulone.
Moliere. A un amico si dice la verità sincera:
Qual siete la mattina, voi non siete la sera.
Leandro. Bevo, eh?
Moliere. Sì, un pò’ troppo.
Leandro. E il vin desta allegria21.
Moliere. Talvolta...22
Leandro. E il vostro latte v’empie d’ipocondria23.
Fate così anche voi: bevete, e state allegro;
Che latte? altro che che latte! mescete24 bianco e negro.
Moliere. Voi non m’insegnerete una sì trista scuola.
Leandro. Né io la vostra imparo; no, sulla mia parola.
Moliere. Oibò, quell’inebriarsi!
Leandro. Ditemi, amico mio,
A letto più contento andate voi, o io?
Moliere. Voi non potete dire d’andar contento a letto;
Un ebrio non discerne25 il bene dal difetto.
Ecco, per causa vostra sentomi già assetato.
Moliere. Volete il thè col latte?
Leandro. No, no, non m’abbisogna:
Più tosto una bottiglia del Reno o di Borgogna.
Moliere. A quest’ora?
Leandro. Non bevo, come voi vi credete,
Quando suonano l’ore, ma bevo quando ho sete.
Se foste galantuomo, di quegli amici veri.
Me la fareste dare adesso.
Moliere. Volentieri.
Dalla Bejart potete andar per parte mia;
Il vin che più vi piace, fate ch’ella vi dia.
Leandro. Ah! sì sì, la Bejart a voi fa la custode!
Moliere. Ell’è una brava attrice, che merta qualche lode:
Son anni che viviamo in buona compagnia,
Ed ella gentilmente mi fa l’economia.
Leandro. Ehi, per cagion di questa, un dì mi fu narrato,
Che al comico mestiere vi siete abbandonato.
Moliere. No, no26, son favolette.
Leandro. Eh taci, malandrino.
Ti piacciono le donne.
Moliere. Quanto a voi27 piace il vino.
Leandro. Bada bene, che il vino non mi può far quel danno,
Che agli uomini sovente le femmine fatt’hanno.
Moliere. Vedo venire a noi della Bejart la figlia.
Leandro. Amico, l’occasione che cosa ti consiglia?
Sono28 del sangue istesso.
Moliere. Via, via, siete29 sboccato.
Leandro. Un comico poeta s’avrà scandalizzato?
Di’ quello che tu vuoi, la gente è persuasa
Che, come sul teatro, tu fai le scene in casa.
Moliere. Giudizio, se si può, giudizio, chiacchierone.
Addio.
Moliere. Dove, signore?30
Leandro. A bere una bottiglia,
E a trattener la madre, finchè stai colla figlia, (parte)
SCENA II.
Moliere, poi Isabella31.
Se il vin non l’opprimesse, meglio saria per lui32.
Quanto più l’amerei, s’ei fosse men soggetto...
Ma ecco l’idolo mio, ecco il mio dolce affetto.
Il duol dal mio pensiero dileguar può ella sola;
E quando lei rimiro, sua vista mi consola.
Isabella. Poss’io venir?
Moliere. Venite.
Isabella. Mi treman le ginocchia.
Moliere. Perchè?
Isabella. Perchè mia madre mi seguita e m’adocchia.
Moliere. Crediam ch’ella s’avveda del ben che vi vogl’io?
Isabella. Non già del vostro affetto, ma s’avvedrà del mio.
Moliere. Perchè dovrebbe accorgersi di voi più che di me?
Isabella. Perchè l’affetto vostro pari del mio non è.
Perchè v’amo più molto di quel che voi mi amate,
E quanto amate meno, tanto più vi celate.
Moliere. Eh furbetta! furbetta! Che arrabbi, s’io lo credo.
Isabella. Voi l’amor mio vedete, il vostro io non lo vedo.
Eccomi; perch’io v’amo, arrischio esser battuta;
Se foste a me venuto, qui non sarei venuta.
Moliere. Ah! quanto verrei spesso a rendermi felice,
Se sdegnar non temessi la vostra genitrice!
Levatemi di pena, e datemi l’anello.33
Moliere. Cospetto! S’ella viene a rilevar tal fatto,
Va a soqquadro la casa, ci ammazza tutti a un tratto.
Ella non vuol sentir...
Isabella. Sì, sì, non vuol sentire.
Tutto, tutto mi è noto.
Moliere. Che intendete voi dire?
Isabella. La mia discreta madre ha delle pretensioni
Sopra del vostro cuore, ed ecco le ragioni
Per cui, quanto più v’amo, sarò più sfortunata34,
Per cui sarò ben tosto schernita e abbandonata.
Moliere. Eh, può la madre vostra cangiar le voglie sue;
A lasciar sarei pazzo il vitello pel bue35.
Isabella. Il vitello pel bue? È femmina mia madre.
Moliere. Ah, ah, maliziozetta! Ah, pupillette ladre!
Vi ho amata dalle fasce, nascere36 vi ho veduta,
E sotto gli occhi miei siete in beltà cresciuta.
Isabella. Nascere mi vedeste? Oh cieli, non vorrei
Che fossero vietati perciò nostri imenei.
Moliere. Ma voi rider mi fate.
Isabella. Quel riso non mi piace.
Moliere. Sì, sarete mia sposa; su via, datevi pace37.
Isabella. Ecco mia madre: oimè!
Moliere. Conviene usar qualch’arte:
Avete nelle tasche qualche comica parte?
Isabella. Ho quella di Marianna... (Isabella cava di tasca la parte)
Moliere. Sì, sì, nell’Impostore.
Via, presto: Atto secondo. La figlia e il genitore.
(Moliere tira fuori la commedia dell’Impostore)
Isabella. Marianna.
Signor padre. (leggendo)
SCENA III.
La Bejart e detti.
Moliere. Marianna, ho conosciuto che di buon cuor tu sei.
Onde a te, più che agli altri, donai gli affetti miei.
Isabella. Padre, tenuta i’ sono al vostro dolce affetto.
Moliere. (Ella ci sta ascoltando). (piano a Isabella)
Isabella. (Se lo dico, è in sospetto). (fa lo stesso)
Bejart. (S’avanza bel bello.)
Moliere. Che cosa fate lì? Voi siete curiosa.
Standoci ad ascoltare...
Bejart. Vi è qualche arcana cosa,
Ch’io sapere non deggia? (a Moliere)
Moliere. Con vostra permissione.
Provavasi39 la scena fra Marianna ed Orgone.
Veduta non vi avea. La parte eccola qui:
Voi siete curiosa: Orgon dice così.
Bejart. Ma qual necessità di ripassar trovate
Parte di una commedia, ch’è fra le condannate40?
Moliere. Torni il compagno nostro, torni Valerio a noi,
E se più fia sospesa, lo vederete poi.
A’ piedi del Monarca spedito ho a tale oggetto
Il giovine gentile, e comico perfetto.
Bejart. E a voi chi diè licenza venire in questi quarti,
A farvi da Moliere veder le vostre parti? (ad Isabella)
Moliere. Via, la vostra figliuola è una fanciulla onesta.
Isabella. Egli non mi ha veduta, signora, altro che questa.
Bejart. Via di qua, sfacciatella.
So qual rimedio alfine avran le mie sventure. (leggendo)
Bejart. Olà, che cosa dici?
Isabella. Diceva la mia parte.
Moliere. (Quella patetichina ha pure la grand’arte!) (da sé)
Bejart. Con me le vostre parti ripasserete poi.
Isabella. Quel che Molier m’insegna, non m’insegnate voi. (parte)
SCENA IV41.
Moliere e la Bejart.
Moliere. Signora, perdonate.
Perchè di precettore la gloria or mi levate?
Bejart. Eh, galantuom mio caro, i sensi di colei
Semplici non son tanto. Conosco voi, e lei.
Moliere. Ma come! io non intendo...
Bejart. Vi parlerò più schietto.
Mia figlia voi guardate, mi par, con troppo affetto.
Moliere. L’amai sin dalle fasce.
Bejart. È ver, ma è differente
Dal conversar passato, il conversar presente.
Moliere. Allora io la baciava, ed era cosa onesta;
Adesso far nol posso: la differenza è questa.
Bejart. Su via, se voi l’amate, svelatelo alla madre.
Moliere. (Svelarlo non mi fido). (da sé) Io l’amo come padre.
Bejart. Se con amor paterno la mia figliuola amate,
D’assicurar sua sorte dunque non ricusate.
Moliere. Volete maritarla?
Bejart. È troppo giovinetta.
Moliere. Anzi pel matrimonio è in un’età perfetta.
Ma che ho da far per lei?
Bejart. Amate esser suo padre?
Bejart. Sposatevi a sua madre.
Moliere. Che siete voi.
Bejart. Sì, io sono. Mi reputate indegna,
Di aver per voi nel dito la coniugale insegna?
Moliere. Signora... in verità... voi meritate assai.
Bejart. Vi spiace mia condotta?
Moliere. Vi lodo, e vi lodai.
Bejart. Circa l’età, mi pare...
Moliere. Eh, non parliam di questo.
Bejart. Nel mio mestier son franca.
Moliere. È vero, anch’io l’attesto.
Bejart. Quest’è la miglior dote, che vaglia a un commediante.
Moliere. Assai più ch’io non merto, dote avete abbondante.
Bejart. Dunque che più vi resta, per dir sì a drittura?
Moliere. Signora, il matrimonio mi fa un po’ di paura.
Bejart. Perchè?
Moliere. Perchè son io geloso alla follia.
Bejart. Non credo, no, che abbiate in capo tal pazzia.
Ma se nudrir voleste il crudo serpe in seno,
Moglie non giovinetta temer vi faria meno.
Moliere. Anzi, più che si vive, più a vivere si apprende;
Più cauta, e non più saggia, l’età la donna rende.
Bejart. Moliere, un tal discorso non è da vostro pari.
Moliere. Lasciatemi scherzare. Non ho che giorni amari;
E cerco, quando posso, di dir la barzelletta
Che tocca e non offende, e rido, e mi diletta.
Bejart. Piacemi di vedervi allegro e lieto in faccia.
SCENA V42.
Valerio e detti, poi Lesbino.
Che revoca ed annulla il sofferto divieto.
Moliere. Oh me contento! Presto, ehi, chi è di là?
Lesbino. Signore.
Moliere. Che s’esponga il cartello, s’inviti all’Impostore
Per questa sera; andate.
Lesbino. Affé, ch’io son contento;
Gl’ipocriti averanno stasera il lor tormento. (parte)
Moliere. Presto, signora, andate a riveder le carte; (alla Bejart)
E a voi e a vostra figlia ripassate la parte.
Bejart. (Ah, vo’ veder se puote assicurar mia sorte
L'acquisto d’uomo dotto e amabile in consorte). (parte)
SCENA VI44.
Moliere e Valerio.
Valerio. Il Re pien di clemenza la supplica ha accettata.
Fe’ stendere il decreto; indi mi disse ei stesso,
Che odiava sopra tutto d’ipocrisia l’eccesso.
È sua mente sovrana, che i perfidi impostori
Si vengano a spacchiare ne’ loro propri errori;
E il mondo illuminato vegga la loro frode,
E diasi all’autor saggio, qual si convien, sua lode.
Moliere. Ah! questo foglio, amico, mi fa gioir non poco;
Avranno gl’inimici finito il loro gioco.45
Gran cosa! a niun fo male, e son perseguitato;
Il pubblico m’insulta, e al pubblico ho giovato.
Di Francia era, il sapete, il Comico Teatro
In balia di persone nate sol per l’aratro.
Farse vedeansi solo, burlette all’improvviso.
Atte a muover soltanto di sciocca gente il riso.
L’ore perdea46 preziose in un piacer sì vile:
Gl’istrioni più abietti venian d’altro paese,
A ridersi di noi, godendo a nostre spese;
Fra i quali Scaramuccia, siccome tutti sanno.
Dodicimila lire si feo47 d’entrata l’anno;
E i nostri cittadini, con poco piacer loro,
Le sue buffonerie pagarno a peso d’oro.
Tratto dal genio innato e dal desio d’onore.
Al comico teatro died’io la mano e il cuore;
A riformar m’accinsi il pessimo costume,
E fur Plauto e Terenzio la mia guida, il mio lume.
L’applauso rammentate dell’opera mia prima:
Meritò lo Stordito d’ogn’ordine la stima;
E il Dispetto amoroso e le Preziose vane
Mi acquistarono a un tratto l’onor, la gloria, il pane.
E si sentì alla terza voce gridar sincera:
Molier, Molier, coraggio; questa è commedia vera.
Valerio. Per tutto ciò dovreste gioia sentir, non pena,
D’aver lasciato il Foro per la comica scena.
Coraggio, anch’io ripeto, coraggio.
Moliere. Sì, coraggio.
Mi dà ragion d’averlo il popol grato e saggio.
(lo dice per ironia)
Quel tale Scaramuccia, di cui parlai poc’anzi.
Andato era a Firenze co’ suoi felici avanzi.
Lo maltrattaro i figli, lo bastonò sua48 moglie;
Ei lasciò lor suoi beni, per viver senza doglie;
E tornato a Parigi a ricalcar la scena.
Le logge e la platea, ecco, di gente ha piena.
Il pubblico che avea gusto miglior provato,
Eccolo nuovamente al pessimo tornato.
E in premio a mie fatiche (perciò arrabbiato i’ sono)
Corrono a Scaramuccia, lascian me in abbandono.
Non vedete, signore, che quel foco è di paglia?
Non bastavi per voi che siansi dichiarati
E serbinsi costanti i saggi e i letterati?
Ah, questa gloria sola ogni disgusto49 avanza.
Moliere. Del pubblico m’affligge la facile incostanza.
Valerio. Il pubblico, il sapete, è un corpo grande assai.
Tutti membri perfetti non ha, non avrà mai.
Moliere. Orsù, andiamo a raccorre quanti faran rumori.
Per il cartello esposto, i garruli impostori.
Valerio. Questa commedia vostra ognun vedere aspetta.
Moliere. Che bel piacere, amico, è quel della vendetta!
Però vendetta tale, che il giusto non offenda,
E che utile a’ privati e al pubblico si renda;
E solo in questa guisa io soglio vendicarmi:
La verità e l’onore sono le mie sole armi. (parte)
Valerio. Armi di lui ben degne, di lui ch’ebbe da’ numi
La forza di correggere i vizi e i rei costumi;
E il dolce mescolando alla bevanda amara,
Fa che l’uom si diletti, mentre virtute impara, (parte)
Fine dell’Atto Primo.
ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Pirlone50, poi Foresta.
Foresta. Serva, signor Pirlone.
Chi cerca? Che comanda?
Pirlone. Dov’è il vostro padrone?
Foresta. Uscito è fuor di casa.
Pirlone. Ah, povero sgraziato!
Foresta. Oimè! Che gli è accaduto?
Pirlone. Moliere è rovinato.
Foresta. Oimè! Qualche disgrazia?
Pirlone. Veduto ho quel cartello.
Per cui sul di lui capo cadrà qualche flagello.
Del mal, se non rimedia, che gli potria avvenire.
Foresta. Ma se la sua commedia è contro gl’impostori,
Anche la gente trista avrà i suoi difensori?
Pirlone. Ah Foresta, Foresta, voi non sapete nulla,
Son l’arti del maligno ignote a una fanciulla.
Finge prender di mira soltanto l’impostura.
Ma gli uomini dabbene discreditar procura.
Tutte sospette ei rende le azion di gente buona,
E ai più casti e ai più saggi Molier non la perdona.
Se d’una verginella uom saggio è precettore,
Chi sente quel ribaldo, le insegna a far l’amore:
Chi va di casa in casa con utili consigli,
Va per tentar le mogli, va per sedurre i figli:
Chi i miseri soccorre, e presta il suo denaro,
Lo fa per la mercede, lo fa perch’è un avaro:
Confonde i tristi e i buoni, scema a ciascun la fede,
E il popolo ignorante l’ascolta, e tutto crede.
Basta, non so che dire, io parlo sol per zelo.
L’illumini ragione; lo benedica il cielo.
Foresta. Ma che mai giudicate possa accader di male,
Se dell’avviso a tempo quest’uom non si prevale?
Pirlone. Ei vanta una licenza, o falsa, o almen carpita,
E il suo soverchio ardire gli costerà la vita.
E i miseri innocenti, che hanno che far con lui,
Saranno castigati per i delitti sui.
Foresta. Io patirei, signore? Son serva, ma innocente.
Pirlone. È sempre in gran periglio, chi serve un delinquente.
Foresta. Voi mi mettete in corpo timor non ordinario.
Spiacemi che il padrone mi dava un buon salario.
Pirlone. Non temete, che il cielo ama le genti buone;
Io, se di qua partite, vi troverò il padrone.
Foresta. Mi dà sei51 scudi il mese.
Foresta. E mi regala.
Pirlone. È giusto; regalata sarete.
Foresta. Ma chi sarà il padrone? Conoscerlo desìo.
Pirlone. Sentite; in confidenza, il padron sarò io.
Son solo, solo in casa, nessun colà mi osserva;
Col tempo diverrete52 padrona, anzi che serva.
A voi darò le chiavi del pan, del vin, dell’oro,
E viverete meco almen con più decoro.
Che bell’onore è il vostro, servir gente da scena,
Gente dell’ozio amica, e di miserie piena!
Meco direte almeno: son serva d’un mercante.
Ricco d’onor, di fede, e ricco di contante.
Foresta. (Quest’ultima mi piace).
Pirlone. E ben, che risolvete?
Foresta. Signore, ho già risolto; verrò, se mi volete.
Stanca son di servire due femmine sguaiate.
Che taroccar principiano, tosto che sono alzate:
Ed un padron, che monta in collera per nulla,
Che fa tremare i servi, quando il cervel gli frulla.
Pirlone. Ecco quell’uom dabbene, che fa da saccentone,
Frenar non sa53 in se stesso collerica passione.
Ehi! dite, in segretezza: con queste donne sue
Molier come la passa?
Foresta. Fa il bello a tutte due.
Pirlone. Oh comico scorretto! Con voi, la mia fanciulla,
Ha mai quell’uomo audace tentato di far nulla?
Foresta. M’ha fatto certi scherzi.
Pirlone. Presto, presto, fuggite.
in casa mia l’onore a ricovrar venite.
Ma, ditemi, potrei parlar, per lor salute,
A queste sventurate due femmine perdute?
Foresta. La madre collo specchio si adula e si consiglia.
Pirlone. Misera abbandonata! Parlerò colla figlia.
Pirlone. Vivrem, se il ciel lo vuole, in pace fra di noi.
Foresta. (Servir un uomo solo, un uomo ricco e vecchio?)
A far la mia fortuna in breve m’apparecchio (parte)
SCENA IL
Pirlone, poi Isabella.
E noi sarem veduti star colle mani in mano?
L’onor ci leva e il pane sua lingua maladetta,
E la natura istessa ci sprona a far vendetta:
Poiché viviam, meschini, di dolce ipocrisia,
Come quest’uomo vile vive di poesia.
Seminerò discordie fra queste donne e lui;
Procurerò distorle dalli consigli sui.
E se la sorte amica seconda il mio disegno.
Oggi la ria commedia non si farà, m’impegno.
Isabella. Chi mi cerca?
Pirlone. Figliuola, vi benedica il cielo.
Perdonate, vi prego, la libertà, lo zelo54,
Con cui per vostro bene io vengo a ragionarvi.
Ah, voglia il ciel pietoso che vaglia a illuminarvi!
Isabella. Signor, mi sorprendete. Che mai dovete dirmi?
Pirlone. Presto, prima che giunga Moliere ad impedirmi.
Figlia, voi siete bella, voi siete giovinetta,
Ma un’arte scellerata seguir vi siete eletta.
Piange ciascun che voi, di vezzi e grazie piena,
L’onor prostituite sulla pubblica scena;
Ah! peccato, peccato che il vostro amabil volto
S'esponga ai risi, ai scherni del popol vario e folto!
E quella che farebbe felice un cavaliere.
Mirisi sul teatro, seguace di Moliere.
Che siate due rivali figliuola e genitrice,
E che quel disonesto ridicolo ciarlone
Voi misera instruisca in doppia professione.
Isabella. Signor, mi maraviglio, io sono onesta figlia:
Moliere è un uom dabbene, e al mal non mi consiglia.
Pirlone. Non basta no, figliuola, il dire io vivo bene,
Ma riparar del tutto lo scandalo conviene.
Ditemi, in confidenza, ma a non mentir badate.
Voi stessa ingannerete, se me ingannar pensate.
Il ciel, che tutto vede, m’inspira e a voi mi manda;
Il ciel colla mia bocca v’interroga e domanda:
Avete per Moliere fiamma veruna in petto?
Isabella. (Mentire non degg’io). Signor, gli porto affetto.
Pirlone. Buono, buono; seguite. Affetto di qual sorte?
Isabella. Mi ha data la parola d’essere mio consorte.
Pirlone. La madre v’acconsente?
Isabella. La madre non sa nulla.
Pirlone. Vi par che un tale affetto convenga a una fanciulla?
A una fanciulla onesta legarsi altrui non lice,
Se non l’accorda il padre, ovver la genitrice.
Perchè non dirlo a lei?
Isabella. Perchè.. perchè so io.
Pirlone. Figliuola, non temete; v’è noto il zelo mio.
Isabella. Perchè mia madre ancora... oimè!
Pirlone. Via presto, dite.
Isabella. Ama Moliere anch’essa.
Pirlone. Oh ciel!55 Voi m’atterrite.
Oh perfido Moliere! Oh uomo senza legge!
E il ciel non ti punisce? E il ciel non ti corregge?
Fuggite, figlia mia, fuggite un uom tale,
Pria che la sua immodestia vi faccia un peggior male.
Isabella. Ma come da Moliere potrei allontanarmi?
Son povera fanciulla, desio d’accompagnarmi.
Vi metterò fra tanto con pie donne e divote.
Io so che vi sospira per moglie un cavaliere;
Ma tace, perchè fate quest’orrido mestiere.
Però col tralasciarlo, mostrando il pentimento,
L’amante che v’adora, sarà di voi contento.
Ah! s’oggi v’esponete, pensateci ben bene.
Perdete una fortuna che a voi meglio conviene.
Isabella. E il povero Moliere?
Pirlone. Inutili riflessi!
La carità, figliuola, principia da noi stessi.
Isabella. Oimè!
Pirlone. Su via, coraggio. Fanciulla, io vi prometto,
Che dama voi sarete di sposo giovinetto.
Per questa sera sola di recitar lasciate,
E se il ver non vi dico, a recitar tornate.
Isabella. (Ah, non fia ver ch’io manchi di fede al mio Moliere).
Signore, io per marito non merto un cavaliere.
Di comica son figlia, e sol quest’arte appresi.
Arte che sol da voi trista chiamare intesi.
Pirlone. Fia bella, se credete ai vostri adulatori.
Che nome di virtude dar sogliono agli errori;
Ma io che dico il vero, e lusingar non soglio,
Sostengo che il teatro all’innocenza è scoglio.
Isabella. Ecco la madre mia, deh per pietà, signore,
A lei non isvelate il mio nascosto ardore.
Pirlone. Eh! san maggiori arcani tacere i labbri miei.
(Oggi, per quanto io posso, tu recitar non dei).
SCENA III.
La Bejart e detti.
Pochissimo vi piace di star nel quarto nostro.
Isabella. Signora...
Meco può star la figlia; sapete chi son io.
Bejart. Con altri che con voi trovata s’io l’avessi,
La picchierei56. Sfacciata! Stamane la corressi.
La parte di Marianna a ripassare andate.
Isabella. (Ah! per amor del cielo, signor, non mi svelate).
(piano a Pirlone, e parte)
SCENA IV.57
Pirlone e la Bejart.
Pirlone. Per suo, per vostro bene sinor l’ho esaminata;
Ed ho scoperto cose, che a voi son forse ignote.
Signora, a vostra figlia preparate la dote.
Bejart. Che? Vuol ella marito?
Pirlone. Lo vuole, e l’ha trovato.
Bejart. Chi fia costui?
Pirlone. Moliere.
Bejart. Moliere! Ah scellerato!
Pirlone. Ma vi è di peggio.
Bejart. Io fremo.
Pirlone. Vuol stasera sposarla.
Bejart. Come!
Pirlone. A voi sul teatro medita d’involarla.
E dopo la commedia, che a lui per questo preme,
Li aspetta una carrozza, e fuggiranno insieme.
Bejart. Ah traditore!
Pirlone. A tempo io fui di ciò avvisato.
Ho corretto Isabella, e in parte ho rimediato.
Però non vi consiglio condurla a recitare:
Egli potria sedurla, e farvela involare.
Vada Molier, se vuole, a far solo il buffone.
Bejart. Sì, sì, la mia figliuola, e me per questa sera
Moliere sul teatro vedere invano spera.
Ringrazio il cielo e voi d’avermi illuminata.
Ah, sono dall’indegno tradita, assassinata!
Pirlone. Vado, che se venisse Moliere, or si diria
Che quest’opera buona è mera ipocrisia.
S’ei sa ch’io sia venuto a discoprir l’arcano.
Quante udirete ingiurie scagliarmi il labbro insano!
E chiamo in testimonio di quel ch’io dico, il cielo:
Guidommi a questa casa la caritade, il zelo.
Sia di me, di mia fama, quello che vuol la sorte,
Al prossimo giovando, incontrerei la morte. (parte)
SCENA V.
La Bejart, poi Foresta.
Foresta. 59
Foresta. Mia signora.
Bejart. Chiamatemi Isabella. (Foresta via)
M’accorsi dell’amore, che avea per lei l’indegno,
Ma giunger non credea dovesse a questo segno.
E meco fa il geloso, di scherzar60 si compiace,
E finge, e mi lusinga? Oh comico mendace!
SCENA VI61.
La Bejart, Isabella e Foresta.
Di me, degli ordin miei voi tal62 prendete gioco?
Indegna, sfacciatella, sapete voi chi sono?
Bejart. Alzatevi.
Isabella. Non m’alzo, finchè vi vedo irata.
Foresta. (Sta a veder che Isabella ha fatto la frittata). (da sé)
Bejart. Alzatevi, vi dico.
Isabella. Signora... (s’alza)
Bejart
SCENA VII63.
Moliere e dette.
Al teatro, al teatro questa sera gli aspetto;
A voi mi raccomando, in vostra man l’onore.
Male o ben recitando, sta del povero autore. (alle donne)
Bejart. Mia figlia ha il mal di capo, di lei conto non fate.
Andate a coricarvi. (ad Isabella)
Moliere. Oimè! Voi m’ammazzate, (alla Bejart)
Ah, per amor del cielo, figliuola mia diletta... (ad Isabella)
Bejart. Non recita, vi dico. Olà, parti, fraschetta. (ad Isabella)
Isabella. (Misera sventurata, che mi fidai d’un empio!
Oh sì, che quel ribaldo m’ha dato un buon esempio). (parte)
SCENA VIII64.
Moliere, la Bejart e Foresta
.
Se manca alla commedia, vuol far66 la mia rovina.
Sospeso un’altra volta diran ch’è l’Impostore:
Che falsa è la licenza, ch’io sono un mentitore.
E l’interesse vostro forse è minor del mio? (alla Bejart)
Bejart. Non recita Isabella, nè recitar vogl’io.
Moliere. Come! Così parlate? V’è noto il nostro impegno?
Ah, voi siete una pazza.
Bejart. E voi siete un indegno.(parte)
SCENA IX.
Moliere e Foresta.
Foresta. Signor padron, vi prego darmi la mia licenza.
Moliere. Che dici?
Foresta. La licenza chiedo per andar via.
Moliere. Andar senza ragione ten vuoi di casa mia?
Vo’ che mi dica il vero67, o via non anderai.
Foresta. Fanciulla eternamente di viver non giurai.
Io voglio maritarmi, a star così patisco;
Non voglio più servire. Padron, vi riverisco. (parte)
SCENA X68.
Moliere solo.
Perchè mai? Voglion farmi69 costor diventar matto?
Colla crudel sua madre congiura a rovinarmi?
Ma, oimè! la dura pena del mio schernito amore
E vinta dal periglio, in cui posto è l’onore.
Ah maladetto il giorno, che appresi un tal mestiere!
Meglio era con mio padre facessi il tappezziere.
Mio zio per la commedia mi tolse al mio esercizio,
Diè morte a’ miei parenti, e fe’ il mio precipizio.
Studiai; ma che mi valse lo studio sciagurato,
Se dopo aver il Foro per pochi dì calcato,
A questa lusinghiera novella professione
Diabolica mi spinse violenta tentazione?
Ecco il piacer ch’io provo, in premio al mio sudore:
Sto in punto, per due donne, di perdere l’onore.
E tutta la fatica ch’io spesi in opra tale,
E il procurar ch’io feci il decreto reale,
E il dir che per le vie s’è fatto, e per le piazze,
Inutile fia tutto per ragion di due pazze.
Ed io sarò sì stolto di seguitare un gioco,
In cui s’arrischia tanto, e si guadagna poco?
SCENA XI70.
Valerio e detto
I posti del parterre, quei dell’anfiteatro;
E il popol curioso, ripieno di contento.
Di veder l’Impostore sollecita il momento.
Moliere. Vorrei che andasse a foco il teatro e le scene,
E i comici e le donne alle tartaree pene.
Valerio. Signor, ben obbligato. Dove l’autor mandate?
Moliere. A divertir Plutone fra l’anime dannate.
Moliere. Parole da mio pari.
Valerio. Oimè! che cosa è stato?
Moliere. Sdegnata la Bejart, non so per qual cagione,
Di sè, della figliuola contro al dover dispone.
Che in scena non verranno protesta in faccia mia.
Ragion di ciò le chiedo, m’insulta e fugge via.
Vi è nota l’odiosa superbia di tai donne.
Io non ho sofferenza di taccolar con gonne.
Valerio. Come! di quelle stolte sarà dunque in balia
All’ultima rovina ridur la compagnia?
Pur troppo abbiam sofferto, per causa dei nemici,
Senza guadagno alcuno, de’ giorni aspri infelici.
Mi sentiran ben esse, e meco parleranno
Tutti i compagni nostri, per non soffrire il danno71.
Molier, non dubitate, in scena le vedrete.
Minaccerò, se giova, le femmine indiscrete. (parte)
SCENA XII.
Moliere e poi Leandro.
Per opra di Valerio alla ragion tornate.
Ma come in un momento cambiossi madre e figlia?
E fin la serva istessa? Qualch’empio le consiglia:
Qualch’empio seduttore le rese a me discordi;
Ma farò, se lo scopro, che di me si ricordi.72
Leandro.73
Molier, le tue bottiglie gettar puoi tu nel fiume.
Ah, ne ho bevute un paio, che incanteriano un nume.
Il tuo Borgogna amaro non mi è piaciuto un fico.
Oh, che vin di Sciampagna bevuto ho da un amico!
Tracannai due bottiglie di vino prelibato.
Moliere. Buon pro vi faccia. (Oh donne! oh donne indiavolate!)
Leandro. Forte, schiumoso e bianco...
Moliere. Oh ciel!74 Voi m’annoiate.
Leandro. Ecco qui; maladetta la vostra ipocondria;
Cogli orsi siete degno di stare in compagnia.
Eh, non pensate a nulla, fate il vostro mestiere:
Ogni due versi, o quattro, bevetene un bicchiere,
E dopo d’ogni scena una bottiglia almeno,
E terminando ogni atto, un grosso fiasco pieno.
Indi, finita l’opra, se stanco è l’intelletto.
Bevete, e poscia andate caldo dal vino a letto.
Il vino è quel che accende la nostra fantasia:
Pel comico poeta vi vuol dell’allegria.
Moliere. Se aveste da comporre dei versi, o delle prose,
Oh sì, col vostro vino fareste le gran cose!
Leandro. Eh, s’io compor dovessi, opre farei più amene:
Non già come le vostre di freddure ripiene.
Poichè, Molier mio caro, per dir la cosa schietta,
Nelle commedie vostre vi è sempre la burletta.
Staccar non vi potete dal basso e dal triviale;
Il vostro stile è buono, ma non è sempre eguale.
Moliere. Io soffro da un amico esser ripreso, e taccio.
Vario è il mio stile, è vero, ma a caso non lo faccio.
Io parlo agli artigiani, io parlo ai cavalieri;
A ognun nel suo linguaggio parlar fa di mestieri.
Onde in un’opra istessa usando il vario stile,
Piace una scena al grande, piace una scena al vile.
Se per la gloria sola l’opere mie formassi,
E di piacer75 a tutti per l’util non curassi,
Con tempo e con fatica anch’io forse potrei
D’alto sonoro stile ornare i versi miei.
Quanto sarian migliori, quanto men criticate!
Moliere. Oh, se ascoltar volessi i bei suggerimenti,
Che ognor dati mi sono da fertili talenti,
Ogn’opra ch’io facessi, almeno almen dovrei
Da capo a piè rifarla tre, quattro volte, o sei.
Onde, se nol sapete, questo è lo stile mio:
Ascolto sempre tutti, e fo quel che vogl’io. (parte)
Leandro. Che diavolo! quest’oggi, e non ho ancor pranzato,
Non posso stare in piedi, ho un sonno inusitato.
Nella vicina stanza io vedo un canapè;
Pel sonno che mi opprime, egli è opportuno, affè.
Riposerò sin tanto che il suono del bicchiere
Mi desti; e s’egli pranza, pranzerò con Moliere.
Fine dell’Atto Secondo.
ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Moliere e Valerio.
Mi recherà (lo spero)77, qualche felice avviso.
Valerio, quai novelle?
Valerio. Via, via, non sarà nulla.
La madre è scorrucciata, afflitta è la fanciulla:
Ma a recitar verranno, faranno il lor dovere,
Che per passion privata non lasciasi il mestiere.
Che le sarà la figlia non tocca e rispettata.
Moliere. E chi è che far presuma insulto ad Isabella?
Valerio. Dice che voi tentate rapir la giovin bella.78
Moliere. Amico, quest’è un sogno.
Valerio. E niun ve lo contrasta.
Di già dalla servente intesi quanto basta.
Qui venne, voi assente, il perfido Pirlone,
Che va per ogni dove, mendace bacchettone.
Moliere. Sì, sì, quel professore d’indegna ipocrisia,
Ch’è il primo originale della commedia mia.
Ditemi, che ha egli fatto?
Valerio. Con arte sopraffina
Oprò che l’amor vostro svelasse Isabellina.
Lo disse indi alla madre; e dielle il van consiglio
Di evitar sul teatro di perderla il periglio.
Così...
Moliere. Così sperava quel pessimo impostore
Troncar quella commedia, che gli trafigge il cuore79.
Valerio. Sedusse la Foresta, che gisse a star con lui:
Ma poscia la figliuola, pensando a’ casi sui,
E meglio da’ miei detti del vero illuminata,
Vi prega di tenerla, ed è mortificata.
Moliere. Ah, sempre più d’esporre il mio Tartuffo ho sete;
Di Pirlone il ritratto sulla scena vedrete.
Mancami una sol cosa... Oh! se potessi avere...
Foresta, se il volesse, farmi potria il piacere.
Ella ha spirto bastante.
Valerio. Qualche pensier novello?
Moliere. Di Pirlone vorrei il tabarro e il cappello.
Mostacchi a’ suoi simili, e ugual capellatura80,
Farei al naturale la sua caricatura.
Come vi lusingate, ch’ei lasci il suo cappello?
Moliere. Un’invenzion bizzarra or mi è venuta in testa,
E basta mi secondi con arte la Foresta.
Vedrò di lusingarla, le darò l’istruzione,
E in questa casa io stesso tornar farò Pirlone.
Indegno! Ecco svelato per opra sua l’affetto,
Che per la mia Isabella tenea celato in petto;
E senza il vostro aiuto, saggio Valerio amato,
L’onor mio, l’util nostro saria precipitato.
Di risa e di fischiate Pirlon sarà la meta,
Io voglio vendicarmi da comico poeta.
SCENA II.
Valerio, poi Lesbino.
E fra sceniche donne coltiva il suo genietto?
Filosofia non vale contro il poter d’amore;
E gli uomini più dotti non han di selce il core.
Tale attrice è Isabella, che merta esser amata
Da lui, che del teatro la gloria ha riparata.
Lesbino.81
Signore, il conte Lasca domanda il padron mio.
Valerio. Molier verrà fra poco; frattanto ci son io.
A lui verrò se il chiede, l’attenderò s’ei vuole.
(Lesbino parte)
SCENA III.
Valerio, poi il Conte Lasca82.
Non sa, non ha studiato, non gusta e non intende;
E criticar presume, e giudicar pretende.
Valerio. Fra poco qui tornerà, signore.
Conte. Convien, per aver posto, ricorrere all’autore.
Le logge son già date, l’udienza sarà piena.
Vorrei per questa sera un luogo sulla scena.
Valerio. Servir fia nostra gloria un cavalier gentile.
Conte. Sì, Valerio, voi siete83 un giovine civile;
Riuscite a perfezione nel comico mestiere,
E in capo non avete i grilli di Moliere.
Valerio. Fra noi v’è differenza: i’ son mediocre attore,
Moliere è un uomo dotto, è un eccellente autore.
Conte. Moliere un uomo dotto? Moliere autor perfetto?
Sproposito massiccio, Valerio, avete detto.
Caratteri forzati sol caricar procura;
Nell’opre di Moliere non v’è, non v’è natura.
Valerio. Egli ha il punto di vista. Riflettere conviene.
Che i piccioli ritratti in scena non fan bene.
Conte. Che diavol d’argomento villano e temerario!
Che titolo immodesto! Cornuto immaginario!
Valerio. Dovriano consolarsi i soli immaginari;
Ma i veri sono molti, e i finti sono rari.
Conte. La Scuola delle donne è affatto senza sale.
Valerio. È ver, non ha incontrato, ma non vi è poi gran male.
Conte. Può dir maggior schiocchezza, che dir torta di latte?
Valerio. Sta qui tutto il difetto?
Conte. Oibò: torta di latte!
Valerio. Non guasta una commedia un termine triviale.
Conte. Una torta di latte! Che sciocco! che animale!
Valerio. Signor, avete udita questa commedia intera?
Conte. Eh, che non son sì pazzo a perdere una sera.
Ascolto qualche pezzo, poi vado, poi ritorno;
Fo visite alle logge, giro l’udienza intorno.
Discorro cogli amici, un poco fo all’amore.
Non merta una commedia, che un uom taccia tre ore.
Conte. A gente di buon naso basta una scena sola.
Valerio. La Scuola delle donne si sa perchè non piacque;
Sentirsi criticare al bel sesso dispiacque.
Contro l’autor pungente le donne han mosso guerra.
Gettata dagli amanti fu la commedia a terra.
Conte. Vedrete in tempo breve Moliere andar fallito;
Val più di tutto lui di Scaramuccia un dito.
Valerio. Ah, sofferir non posso l’indegno paragone.
Che fate d’un autore col ciurmator poltrone.
Conte. Don Garzia di Navarra poteva esser peggiore?
Valerio. La Scuola de’ mariti poteva esser migliore?
Conte. Si sa ch’ei l’ha rubata. Sono, se nol sapete,
Gli Adolfi di Terenzio.
Valerio. Gli Adelfi, dir volete.
Conte. Adolfi, e non Adelfi. Vo’ dir come mi pare.
Un comico ignorante verrammi ad insegnare?
Valerio. Anch’io lessi Terenzio, e posso dar ragione
Dei titoli e dell’opre.
Conte. Oh via, siete un buffone.
Valerio. Signor, l’onesta gente così non si strapazza;
Fo il ridicolo in scena, ma voi lo fate in piazza.
Conte. Adoprerò il bastone.
Valerio. Vedrò, se tanto osate.
Conte. Audace!
Valerio. Voi lo siete.
SCENA IV.
Leandro e detti.
Conte. Ei mi perde il rispetto.
Valerio. Mi tratta da buffone.
Conte. Difende il suo Moliere.
SCENA V85.
Valerio solo.
Ridicoli, ignoranti, maligni ed impostori.
Avide abiette spugne vanno assorbendo il peggio,
E spremono il veleno al gioco od al passeggio.
Diviso è in popolo folto, ma l’opinion prevale,
Nell’ignorante volgo, di quel che dice male.
E chi non ha talento per comparir creando,
Passar per uom saputo s’industria criticando. (parte)
SCENA VI86.
Il signor Pirlone e la Foresta.
Lungi da queste stanze sen stanno le padrone.
Pirlone. Molier dov’è?
Foresta. Venuto è a chiederlo un cursore.
Lo cerca il Tribunale, cred’io per l’Impostore.
Pirlone. Suo danno: la galea, la forca gli conviene;
Impari a parlar meglio degli87 uomini dabbene.
Foresta. La carità fraterna non opera in voi niente?88
Pirlone. Pietà da noi non merta un tristo, un deliquente.
Figliuola, che volete? Un giovine m’ha detto
Che voi mi ricercate.
Foresta. Che siate benedetto!
Premevami avvisarvi ch’io già son licenziata.
Che di venir con voi sospiro la giornata.
Pirlone. Sì, cara; oimè, pavento... (guarda le porte)
Foresta. Zitto, zitto, aspettate.
(va a chiudere l’uscio)
Ecco fermato l’uscio. Con libertà parlate.
Foresta. Giacchè siam da noi soli,
Sedete un pocolino. (gli dà una sedia)
Pirlone. Il cielo vi consoli.
Sedete ancora voi.
Foresta. Oh! a me non è permesso.
Pirlone. Fatel per obbedienza.
Foresta. Lo faccio. (siede89)
Pirlone. Un po’ più appresso.
Foresta. Obbedisco. (s'accosta con la sedia)
Pirlone. Oh che caldo! (s’asciuga la fronte)
Foresta. Cavatevi il cappello.
(gli leva il cappello di testa, e lo appende ad un pomo90 della sedia)
Pirlone. Farò come volete.
Foresta. Sembrate ancor più bello.
Pirlone. Ah! che vi par? Son io un uomo ben tenuto?
Foresta. Sano e robusto siete.
Pirlone. Sì, col celeste aiuto.
Dite, vi sono in casa risse fra madre e figlia?
Foresta. In tutta la giornata vi è stato un parapiglia.
Pirlone. Andranno a recitare?
Foresta. Oibò; si danno al diavolo.
(Pirlone fa segno d’allegrezza)
Ma che! ve ne dispiace?
Pirlone. Non me n’importa un cavolo.
Foresta. Ah, non vorrei, signore... che una delle padrone...
M’involasse la grazia... del mio signor Pirlone...
Pirlone. Ah!
Foresta. Che avete?
Pirlone. Mi sento... certo calor novello...
Foresta. Presto, venite qui, cavatevi il mantello.
(Foresta s’alza, vorrebbe levargli il mantello, egli non vorrebbe, ed ella per forza glielo leva.)
Foresta. Sì, sì, lo voglio.
Pirlone. No. dico.
Foresta. Sì, vi dico.
Così starete meglio.
(va a riporre il tabarro ed il cappello in una cassapanca)
Pirlone. (Oimè, son nell’intrico).
Foresta. Oh, come siete svelto! Che uomo fatto bene!
Pirlone. Chi vive senza vizi, gibboso non diviene.
Bella fanciulla mia... (si accosta a Foresta)
Foresta. Con voi provo un piacere...
(si sente violentemente picchiare all’uscio)
Pirlone. Oimè! gente che picchia.
Foresta. Oimè! questi è Moliere.
Pirlone. Misero me! (s’alza)
Foresta. Là dentro v’asconderò. Venite.
Pirlone. Dove?
Foresta. In uno stanzino91.
Pirlone. Oimè! non mi tradite.
Foresta. Presto, presto. (apre lo stanzino, e tornasi a picchiare all’uscio92)
Pirlone. Son qui: datemi il mio mantello.
Foresta. Presto, che non c’è tempo.
Pirlone. Il mantello, il cappello...
Foresta. Son nella cassapanca serrati, io n’avrò cura.
Presto, presto, venite.
Pirlone. Io muoio93 di paura.
(Foresta lo fa entrare a forza nello stanzino, ed entravi ella ancora)
SCENA VII94.
Valerio, poi Foresta.
Non credea spiritosa cotanto la Foresta.
La fossa tu facesti, e in quella sei caduto.
Valerio. Dove l’avete fìtto?
Foresta. In luogo buono e bello.
Egli è sotto la scala, e chiuso ho il chiavistello.
(prende dalla cassapanca il mantello ed il cappello)
Dov’è il padron?
Valerio. V’attende colle acquistate spoglie.
Foresta. Eccole. Non la cedo al diavolo e sua moglie. (parte)
SCENA VIII95.
Valerio solo.
All’opere, per cui va colla fama in alto.
Maestro di teatro, sa tutto e tutto vede;
Alle maggiori cose e all'infime provvede.
O Francia fortunata, per un autor sì degno!
In te della commedia alza Moliere il regno;
Nè Scaramuccia puote, nè Zanni, nè Fiammetta
Scemargli quella gloria, che a lui solo si aspetta.
SCENA IX96.
Moliere vestito da Tartuffo, col tabarro ed il cappello del signor Pirlone, e le basette e la capellatura somigliante allo stesso, e detto.
Valerio. Bellissima figura!
Formar non si potrebbe miglior caricatura.
Siete Pirlone istesso.
Finchè di questi cenci in scena abb’io fatt’uso.97
Vedete se far grazia vogliono le signore;
Se ancora han terminato di mettersi in splendore.
Valerio. Eccole unite a noi, la madre con la figlia.
Moliere. Una ha l’ira negli occhi, l’altra amor nelle ciglia.
SCENA X98.
La Bejart, Isabella, in abito da scena, e detti.
Il comune interesse mi sprona e mi consiglia.99
Ma se d’un solo sguardo m’accorgo, la commedia
Finirà, ve lo giuro, in scena di tragedia.
Moliere. Signora, poichè il cielo mi scopre reo qual sono,
Dell’amorosa colpa io chiedo a voi perdono:
Per non mirar la figlia avran questi occhi un velo.
Odiatemi, s’io manco, e mi punisca il cielo.
(parla in tuono di bacchettone)
Bejart. Fate voi scena or meco? Mi deridete, indegno?
Moliere. Per carità, signora, calmate il vostro sdegno. (come sopra)
Valerio. (Egli mi muove a riso).
Bejart. Quest’è l’amor da padre.
Che aver per Isabella diceste a me sua madre?
Moliere. Ahi! che il rossor mi opprime. (come sopra)
Bejart. Alma d’inganni amica.
La parte d’impostore farai senza fatica.
Moliere. Soffro gl’insulti in pena delli delitti miei. (come sopra)
Bejart. Non finger, scellerato, che un mentitor già sei.
Bejart. Il cielo ti punisca.
Moliere. Ch’io parta permettete, e ch’io vi riverisca.
(come sopra, e parte)
SCENA XI100.
La Bejart, Isabella e Valerio.
Bejart. Di me si prende gioco?
Molier lo sdegno mio conosce ancora poco.
Per te, sfacciata, indegna. (ad Isabella)
Valerio. Signora, e con qual lena
Andrete furibonda a recitar in scena?
Calmatevi, di grazia.
Bejart. Mestiere maladetto!
Dover mostrare il viso ridente a suo dispetto!
E quando tra le fiamme arde di sdegno il core,
Dover coll’inimico in scena far l’amore!
Andiam... ma la mia parte lasciai sul tavoliere.
Foresta. Ehi là. Foresta. Non sente.
Valerio. Andrò a vedere...
Bejart. Se poi non la trovaste, doppio averei scontento.
Restate con mia figlia, io torno in un momento. (parte)
SCENA XII.
Isabella, Valerio, poi Moliere.
Moliere che v’adora, faravvi un dì felice.
Isabella. Ah, più soffrir non posso gl’insulti giornalieri;
La madre troppo cruda farà ch’io mi disperi.
Mi batte, mi minaccia, m’insulta, e mai non tace.
Mi struggo, mi divoro, non so quel che mi faccia.
Com’è possibil mai, che sulla scena i’ piaccia?
Moliere. 101 Deh serenate, o cara, i vostri amati rai:
A togliervi di pene la guisa io meditai.
Isabella. Moliere, oh ciel!102 Mi sento mancare a poco a poco.
Moliere. Nutrite, o mia speranza, nutrite il vostro foco.
Lasciate che a Parigi torni la Real Corte;
Della madre a dispetto vi farò103 mia consorte.
Isabella. E quanto aspettar deggio?
Moliere. Non più d’un mese appena.
Isabella. Soffrire ancora un mese dovrò cotanta pena?
Possibile non credo lo sforzo a questo core.
Valerio. (La povera fanciulla si sente un grand’ardore).
Moliere. Precipitar, mia cara, non deesi un’opra tale.
SCENA XIII104.
La Bejart e detti.
Moliere. Io sono un uom leale.
(in tuono pedantesco, vedendo la Bejart)
L’amor vostro, figliuola, convien metter da banda.
Ed obbedir dovete la madre che comanda.
Udite un che vi parla, pien di paterno zelo.
(Ecco la genitrice); vi benedica il cielo. (parte)
Isabella. (Comprendo il cambiamento).
Valerio. (È un comico perfetto).
Bejart. Di Molier non mi fido. Vivrò sempre in sospetto.
Andiamo. (a Isabella)
Isabella. V’obbedisco.
Isabella. Signora, perdonate...
Bejart. Olà, non taci mai? (partono)
Valerio. Ah! voglia il ciel che alfine vadan le donne in scena,
E prendano un’altr’aria tranquilla e più serena;
Onde dal popol vario s’applauda l’Impostore,
E a noi util ne venga, e gloria al degno autore.
Fine dell’Atto Terzo.
ATTO QUARTO.
SCENA PRIMA.
Foresta e Lesbino col ferrajuolo ed il cappello del signor Pirlone.
Lesbino. Finita.
Foresta. Ed ha incontrato?
Lesbino. L’incontro strepitoso, universale è stato.
Nobili, cittadini, mercanti, cortigiani.
Artieri e bassa gente, tutti battean le mani.
Mentre Orgon la commedia coi detti suoi finiva,
Sentiansi d’ogni lato venir gli applausi e i viva.
Il popol dalle spoglie, dagli atti del padrone,
Non esitò in Tartuffo a ravvisar Pirlone;
Che univan gli uditori lo sdegno colle risa.
E furonvi di quelli che ad alta voce han detto:
Tartuffo scellerato, Pirlone maledetto.
Foresta. Anch’io piacer risento, quando il padrone è lieto.
Se l’opre sue van male, è fastidioso, inquieto.
Che ho a far di queste robe?
Lesbino. Vuole il padron che sia,
Prima che a casa ei torni, Pirlone andato via.
Dategli il suo cappello, dategli il ferraiuolo,
E fate che sen vada al diavolo il mariuolo.
Foresta. Non vorrà più il padrone tai spoglie originali?
Lesbino. Le farà far domani affatto affatto eguali.
Foresta. Andate, che il meschino or traggo di prigione, (entra)
Lesbino. Vo’ dietro la portiera mirare105 il bacchettone.
Se fosse in mia balia poter far un bel gioco.
Accender gli vorrei alli mostacci il foco. (parte)
SCENA II.
Foresta e Pirlone.
Quattr’ore106 in una buca mi avete confinato.
Foresta. O se sapeste quanto provai per voi martello!
Presto, presto, prendete il mantello e il107 cappello.108
Uscite, uscite tosto, pria che giunga il padrone.
Pirlone. Come! Moliere adunque ito non è in prigione?
Foresta. Di recitare adesso finito ha l’Impostore.
Pirlone. Come! Che cosa dite?
Foresta. Andate via, signore.
Pirlone. S’è fatto...
Pirlone. S’è fatto l’Impostore?
Foresta. Vi venga la rovella, (lo va spingendo)
Pirlone. Vado. (Cotesti indegni han fatto l’Impostore?)
Ito in scena è il Tartuffo?109 Oimè! mi trema il cuore).
Foresta. Cospetto! Cospettone!
Foresta. Parto; non m’insultate.
(Oh femmina mendace! Oh genti scellerate!) (parte)
SCENA III.
Foresta e poi Pirlone.
Ei sarà per Parigi da tutti scorbacchiato.
Anch’io gli prestai fede, anch’io sedotta fui:
Valerio m’ha scoperti tutti gl'inganni sui.
Come! Ritorna indietro? Che novitade è questa?
Olà, che pretendete?
Pirlone. Per carità, Foresta,
Celatemi, vi prego, nel ripostiglio ancora.
(Oh plebe scellerata! Lo sdegno mi divora).
Foresta. Signor, di che temete?
Pirlone. Il popolo briccone.
Appena mi ha veduto, gridò: Pirlon, Pirlone.
Foresta. Ma io che posso farvi?
Pirlone. Finchè la notte avanza,
Lasciate ch'io mi chiuda entro l’angusta stanza.
Mi caccerei ben anche in una sepoltura.
Foresta. Eh, che un uomo dabbene non dee sentir paura.
Pirlone. Eccovi in questa borsa, Foresta, lire trenta;
Son vostre, se celarmi colà siete contenta.
Di notte, a lumi spenti, quando ciascun riposa,
Io parto, e voi avete la mancia generosa.
Pirlone. Presto, ch’io tremo e peno.
Foresta. In quella stanza entrate.
Pirlone. Qui starò meglio almeno.
(entra in una camera)
SCENA IV.
Foresta, poi la Bejart e Isabella.
Di tutto si spaventa chi ha la camicia lorda.
Ecco le due rivali. (chiude l’uscio dov’è Pirlone)
Bejart. Credi tu, sudiciola, (a Isabella)
Ch’io non intenda appieno ogni atto, ogni parola?
T’osservo quando parli, osservo dove guardi.
Quando passa Moliere, gli dai languidi sguardi:
Volgi le meste luci amorosette in giro, (con ironia)
Mandando dal bel labbro talor qualche sospiro;
Seder procuri in faccia al dolce tuo tiranno,
E fai mille versacci, che recere mi fanno.
Sì, sì, seguita pure111, io troncherò la berta;
Affè, non mi corbelli, starò cogli occhi all’erta.
Isabella. Dir posso una parola?
Bejart. Via, che vuoi dirmi, ardita?
Isabella. Chiudetemi in ritiro a terminar mia vita.
Bejart. Chiuderti in un ritiro? Eh, son parole vane.
Andar dei sulla scena a guadagnarti il pane.
Ma se di matrimonio t’accende il desiderio.
Per te miglior partito, di’, non saria Valerio?
Vuoi tu ch’io gliene parli?
Isabella. Per ora sospendete.
Chi sposa non è stata, d’esserlo non ha sete.
Isabella. Signora, qual ragione avete or di sgridarmi?
Bejart. Vattene alle tue stanze. Spogliati, e vanne a letto.
Foresta, l’accompagna.
Isabella. (Io fremo di dispetto.)
Ah! se Molier mi sposa, saremo allor del pari.
Ve’ farle scontar tutti questi bocconi amari).112
(parte con Foresta)
SCENA V.
La Bejart, poi Moliere.
Di non amar mia figlia vo’ che mi dia parola;
O in altra compagnia verrà Isabella meco114.
Vedrà Molier chi sono, se più non m’avrà seco.
Faccia commedie buone, tutte riusciran male;
Se manca la Bejart, la compagnia che vale?
Io son che il maggior lustro alle commedie ho dato.
Ed ora con gli scherni mi corrisponde, ingrato?
Ah! benchè ingrato, io l’amo: amica ancor gli sono,
E se perdon mi chiede, ogn’onta io gli perdono.
Eccolo.
Moliere. Oh piacer sommo de’ fortunati autori!
Ben sofferte fatiche! Oh ben sparsi sudori!
Deh, lasciatemi in pace goder per un momento.
Questo che m’empie l’alma insolito contento. (alla Bejart)
Perdono a tutti quelli che m’han tenuto in pena;
Farmi perciò più dolce la gioia, e più serena.
Tutti mi sono intorn amici ed inimici.
Con fortunati auguri, con generosi auspici,
E quei che l’Impostore avean spregiato in prima,
Per l’applauso comune, or l’hanno in alta stima;
Come la bionda messe cede al soffiar del vento.
Bejart. Molier, del piacer vostro sento piacer anch’io,
Che quale è il vostro cuore, crudo non è il cuor mio.
Non per turbar la gioia, ch’ora v’inonda il seno.
Ma per sfogar mie pene, posso parlare almeno?
Moliere. Ah! già che avvelenarmi volete un po’ di bene,
È forza ch’io lo soffra, e favellar conviene.
Vissi con voi tre lustri in amicizia unito,
Nè mai vi cadde in mente d’avermi per marito.
E or che per la figlia arder mi sento il petto,
Vi accende, non so bene, se amore o se dispetto.
Voi non parlaste allora, quando fioria l’aprile,
Vi dichiarate adesso nella stagion
Bejart. La bile
Voi suscitar tentate di donna sofferente.
Moliere. (Femmina tal campana mai con piacer non sente).
Bejart. Su via, che concludete?
Moliere. Dirò, senza riguardi,
Che avete il desir vostro svelato un poco tardi.
Bejart. Per me se tardi fia, per Isabella è presto.
In vostra compagnia, sappiatelo, non resto.
Moliere. A noi non mancan donne. Il perdervi mi spiace.
Pur, se così v’aggrada, dovrò soffrirlo in pace.
Ma prima la figliuola datemi per consorte.
Bejart. Anzi che darla a voi, a lei darò la morte.
Moliere. Che morte? Che minacce? Chi dir fastoso e baldo?
Più non ho sofferenza per trattener il caldo115.
Qual vi credete impero aver sopra la figlia?
Chi ad essere tiranna con essa vi consiglia?
È ver, la generaste, ma a voi non è assegnata
L’autorità suprema dal ciel che ve l'ha data.
Deve obbedire ai cenni figlia di madre umana,
Questo bel dono ai figli viene dal ciel concesso:
Chi elegge il proprio stato, può consigliar se stesso.
Ponno impedir le madri della lor prole il danno,
Ma un bene, una fortuna toglierle non potranno.
Che morte? Che minacce? Rispetterete in lei
La serva d’un Monarca, che sa punire i rei.
Volere, o non volere, fa in voi lo stesso effetto:
Mia sposa vostra figlia sarà a vostro dispetto.
Bejart. No, no; colle mie mani prima l’ucciderei116.
Son madre, e a mio talento disporrò di colei. (parte)
SCENA VI.
Moliere, poi Valerio.
L’ira sfogar tentasse sopra dell’innocente.
La seguirò da lungi. La sera omai s’avanza.
Mi tratterrò alcun poco vicino alla sua stanza.
(s’avvia per dove andò la Bejart)
Valerio. Signor, gran plausi sento, gran viva all’Impostore.
Moliere. Che dicono i maligni?
Valerio. Ciascun vi rende onore.
Or venga il conte Lasca a dir per avventura:
Nell’opre di Moliere non v’è, non v’è natura.117
Moliere. Ah, non vorrei... Lasciate ch’io vada: or ora torno.
Felice ancor non sono in sì felice giorno.
Foresta. (chiamando forte)
SCENA VII.
Foresta, e detti.
Moliere. Dimmi, che fa Isabella?
Foresta. Per obbedir la madre, è a letto, poverella (0.)
Moliere, A letto veramente?
Foresta. Io stessa l’ho spogliata,
E l’ho veduta io stessa fra i lini coricata.
Moliere. Quando salì la madre, gridò? Le disse nulla?
Foresta. Dormiva, o di dormire fingeva la fanciulla.
Moliere. Or che fa la Bejart?
Foresta. Anch’essa per dispetto
Vuol andare digiuna a coricarsi in letto.118
Moliere. Si strugga e si divori donna d’invidia piena:
Mandatemi dei lumi, e pronta sia la cena.119 (Foresta parte)
SCENA VIII120.
Moliere, Valerio, poi Lesbino.
Non turba il suo riposo la genitrice irata.
Valerio. Possibile ch’uom tale, in cui ragione impera,
Abbattere si lasci da una passion sì fiera?121
Moliere. Amico. Il dolce affetto, che ha l’un per altro sesso,
È in noi tenacemente dalla natura impresso.
Com’opra la natura nei bruti e nelle piante,
Per propagar se stessa, opra nell’uomo amante.
E si ama quel che piace, e si ama quel che giova,
E fuor dell’amor proprio altro amor non si trova.
Ma sol per render paghe sue triste o caste voglie.
S’amano i propri figli, perchè troviamo in essi
L’immagine, la specie, la gloria di noi stessi.
E s’amano i congiunti, e s’amano gli amici,
Perchè l’aiuto loro può renderci felici.
Tutto l’amor terreno, tutt’è amor proprio, amico.
Filosofia l’insegna, per esperienza il dico.
Lesbino.122 (Entra con due candellieri colle candele accese, li pone sul tavolino, e poi s’accosta a Moliere.)
Evvi il signor Leandro e il conte Lasca uniti.
Che bramano vedervi.
Moliere. Che restino serviti. (Lesbino parte)
Valerio. Verranno a criticare.
Moliere. Chi lo vuol far, lo faccia.
Mi giova, e non m’insulta, chi mi riprende in faccia.
SCENA IX.
Leandro, il Conte Lasca e detti.
Ad istruire eletta, a dilettar sol usa.
Ah! che piacer di questo maggior non ho provato:
Molier, ve lo protesto, m’avete imbalsamato.
Moliere. Grazie, amico....
Conte. Che stile! Che nobili concetti!
Che forti passioni! Che naturali affetti.
Moliere. Signor, troppa bontà...
Leandro. Più vivamente espresso
Carattere non vidi. Parea Pirlone istesso.
Moliere. Voi mi fate arrossire...
Conte. Gran forza, gran morale!
Opra non vidi mai piena di tanto sale.
Moliere. Cortese cavaliere...
Conte. Maestro della scena, e della Francia onore.
Valerio. (Credo che alle parole il cuor non corrisponda).
Moliere. (Sogliono gl’ignoranti andar sempre a seconda).
Leandro. Moliere, a voi vicina avete un’osteria,
Con vin di cui migliore non bevvi in vita mia.
Moliere. (Ecco lo stile usato).
Conte. È un vin troppo bestiale.
Leandro. Il Conte non sa bere.
Conte. Ma voi siete brutale.
Leandro. Venne al teatro meco, e non vedea la via;
Andammo barcollando sino alla loggia mia.
Giunti colà, ripieni del vino saporito,
Il Conte alla commedia tre ore avrà dormito.
Moliere. Tre ore?
Valerio. (L’ha sentita. Parla con fondamento).
Leandro. Fec’io quel che far soglio, quando alterar mi sento.
Andai a prender l’aria men calda e più serena,
E tornai ch’ei dormiva, verso l’ultima scena.
Valerio. (Non ne lasciò parola).
Moliere. Dunque, per quel ch’io veggio,
Un dormì tutto il giorno, e l’altro fu al passeggio.
Eppur note vi sono le cose peregrine...
Conte. A me basta il principio.
Leandro. Ed a me basta il fine.
Conte. So giudicar le cose vedute anche di volo.
Leandro. Il pubblico v’applaude, ed io me ne consolo.
Conte. Sentonsi per le strade ridire i frizzi, i sali.
Leandro. Un sarto ha registrati tutti i passi morali.
Valerio. (Ecco de’ lor giudizi la forza e l’argomento).
Moliere. (Questi son quei cervelli, di cui tremo e pavento).
Leandro. Dopo essere noi stati ad ammirarvi in scena,
Molier, vogliam godervi in casa vostra a cena.
Moliere. Ma come alla commedia v’andaste deliziando,
Un cenerà dormendo, e l’altro passeggiando.
E chi vorrà dir male, avrà da far con noi.
Conte. La gloria di Moliere io sostener m’impegno.
Leandro. Che uomo singolare!
Conte. Che peregrino ingegno!
Moliere. (Eppur fia necessario aver tal gente amica).
Volete cenar meco? Uopo non è ch’io il dica.
Poco, ma di buon cuore, avrete da Moliere,
Che solo per dar molto, molto vorrebbe avere.
Leandro. Conte, a bere vi sfido.
Conte. Io la disfida accetto.
Leandro. Voi non andate a casa.
Conte. Molier ci darà un letto (partono)
Valerio. Signor, codesta gente come soffrir potete?
Moliere. Giovine siete ancora; udite ed apprendete.
I tristi più che i buoni noi secondar123 conviene,
Acciò non dican male, se dir non sanno bene.
Il finger per inganno è vergognosa frode.
Ma il simular onesto è pregio, e merta lode. (parte)
Valerio. Moliere è un uomo saggio, Moliere è un uomo tale.
Di cui la Francia nostra non ha, non ebbe eguale,
Ed esser non potrebbe in scena autor valente,
S'egli non fosse in casa filosofo eccellente.
Fine dell’Atto Quarto.
ATTO QUINTO.
SCENA PRIMA.
Moliere solo.
L’un l’altro ad accorciarla col crapolare124 invita.
Umanità infelice! non hai bastanti mali,
Che nuovi ne procaccia la gola de’ mortali.
Il chimico sa trarre balsami dal veleno;
Quei col vin salutare s’empion di tosco il seno.
Beva Leandro pure, beva a sua voglia il Conte,
Io sfuggo di vederli venire all’ire,125 all’onte;
Poichè serpendo il vino per fibre e per meati,
Alla ragione ascende de’ spinti svegliati,
E il cerebro sublima, ed imprigiona i sensi;
Onde alle cose esterne sembra cambiarsi aspetto,
Tolto da’ caldi fumi il lume all’intelletto.
Anche l’amor talvolta opra con pari incanto,
Cagion di fiero sdegno ai miseri, o di pianto.
Ma quando è regolato, amore è cosa blanda.
Come il vin moderato è salutar bevanda.
SCENA II.
Isabella in veste da camera, e detto.
Isabella. Eccomi a voi prostrata.
(si getta a’ piedi di Moliere)
Mirate ai vostri piedi un’alma disperata.
Moliere. Sorgete, anima mia: oh ciel!126 che avvenne mai?
Isabella. Mia madre...
Moliere. Ah madre ingrata127! Tu me la pagherai.
Isabella. Stava dal duolo oppressa...
Moliere. Fermatevi, aspettate.
(va a chiuder l'uscio)
Di qui non passerai. Mia vita, seguitate.
Isabella. Stava dal duolo oppressa fra la vigilia e il sonno,
Che chiudersi del tutto questi occhi miei non ponno:
Quando la genitrice, piena di sdegno il viso,
Venne al mio letticciuolo, gridando: olà, ti avviso,
Alla novella aurora alzati dalle piume.
Disparve, e portò seco senz’altro cenno il lume.
Restai qual chi da tetro sogno fatal si desta.
E mia madre, dicendo, o qualche larva è questa?
Piansi, tremai, poi corsi a rammentar suoi detti;
Ed assalita i’ fui128 da mille rei sospetti.
Perchè vien ella irata a dirmelo a quest’ora?
Ahimè! la mia rovina al nuovo sol m’aspetto.
L’attenderò, dicea, tranquillamente in letto?
Oimè! Molier, mia vita, ti perdo, se qui resto.
Balzo allor dalle piume: come poss’io, mi vesto.
Apro l’uscio socchiuso, odo russar mia madre,
E quai fra l’ombre vanno timide genti e ladre,
Stendo l’un piede, e l’altro sospendo in aria incerto,
Fin che l’altr’uscio trovo per mia ventura aperto.
Affretto il passo allora, balzo volando130 in sala,
Ritiro il chiavistello, precipito la scala.
Giungo alle stanze vostre, a voi ricorro ardita,
Eccomi ai vostri piedi a domandarvi aita.
Moliere. Deh, alzatevi. Ah, Isabella, che mai faceste? Oh Dio!
Cagliavi l’onor vostro, vi caglia l’onor mio.
Di notte una fanciulla discinta, senza lume,
Mentre la madre dorme, abbandonar le piume?
Che dir farà di voi un animo sì ardito?
Isabella. Diran che amor condusse la sposa al suo marito.
Moliere. Ma come dir lo ponno, se tali ancor non siamo?
Isabella. Oh ciel! di qui non parto, se tai non diveniamo.
A questo ardito passo per voi guidommi amore,
Sollecita mi rese di perdevi il timore.
Se a voi nota è la colpa, cui nota è la cagione,
Voi riparar potete la mia riputazione.
Porgetemi la destra, e coll'anello in dito
Dir potrò: Che volete? Moliere è mio marito.
Moliere. Oh caso inaspettato! Cara Isabella mia,
Di rimediar domani di me l’impegno sia.
Tornate onde veniste, rider di noi non fate.
Isabella. Ah, misera ingannata! Crudel, voi non mi amate.
Avrà la genitrice, con sue lusinghe e vezzi.
Comprato l’amor vostro, comprati i miei disprezzi.
Posso a chi diedi il cuore, donare ancor la vita.
Tornar più non mi lice, tornar più non vogl’io.
Perduta ho la mia pace, perduto ho l’onor mio.
Farò che il mondo sappia chi fu del mal cagione,
E andrò dove mi porta la mia disperazione.
Moliere. Isabella,131) mia vita...
Isabella. Molier, mia cruda morte...
Moliere. Fermatevi, mia cara, sarò di voi consorte.
Isabella. Se tale ora divengo132, l’onor vi reco in dote:
Scema, se al volgo ignaro tali follie son note.
Tanti sospiri e tanti, sparsi non siano in vano...
Moliere. Ah, resista chi puote... Mio bene, ecco la mano.
Mia sposa, ecco, vi rendo.
Isabella. Or son contenta appieno.
Frema la genitrice e crepi di veleno.
Moliere. Domani il sacro rito si compirà.
Isabella. L’anello
Datemi almen.
Moliere. Prendete. (si leva uno de’ suoi)
Isabella. Oh caro! oh quanto è bello!
Voi ponetelo al dito.
Moliere. Sì, ve l’adatto io stesso.
(lo prende, e glielo pone in dito)
Isabella. Venga la genitrice, venga a sgridarmi adesso.
Moliere. Ma non convien, mia vita, che noi restiam qui soli.
Isabella. Oh come mi stai bene! oh quanto mi consoli!
(parla con l’anello)
Moliere. Ho degli amici in casa, che stetter meco a cena.
Troppo lor sembrerebbe ridicola133 la scena.
Venite in questa stanza, e stateci sicura.
(accenna la stanza ove è entrato Pirlone)
Isabella. E vi dovrei star sola? Morrei dalla paura.
Siate saggia, Isabella, quanto voi siete onesta.
Ecco il lume. Apro l’uscio. Entrate, io vi precedo.
Isabella. V’andrò mal volentieri.
Moliere. Ah traditor, che vedo?
(apre l’uscio e vede Pirlone)
SCENA III.
Il signor Pirlone dalla camera, e detti.
Schernitemi voi pure, datemi pur la morte.
Non è che a’ vostri piedi mi getti un vil timore;
Mi guida il pentimento, il rimorso, il rossore.
In quel recinto oscuro134 il ciel m’aperse un lume.
Mi fece il mio periglio pensare al mio costume.
E il popolo commosso contro Pirlone a sdegno,
Essere m’assicura dell’altrui fede indegno.
Temei de’ carmi vostri l’aspre punture acute,
Qual s’odia dall’infermo chi porge a lui salute;
E feci ogni mia possa per occultare al mondo
L’immagine d’un tristo, che mi somiglia al fondo.
Pentito d’ogni errore, l’usure mie detesto.
Rinunzio all’impostura, al vivere inonesto;
A voi, al mondo tutto mi scopro qual io sono,
E delle trame indegne, Molier, chiedo perdono.
Moliere. Ed io perdon vi chiedo, se a voi feci l’oltraggio
D’usar le spoglie vostre nel noto personaggio.
Oh scene mie felici! oh fortunato inganno,
Se val d’un uom perduto a riparare il danno!
Diasi la gloria al vero: il ciel con mezzi tali
Sovente il cuor rischiara dei miseri mortali.
Fu di quel ben ch’io godo, cagion la vostra frode.
Più presto si scoperse di me la fiamma ascosa.
Più presto di Moliere fatta son io la sposa.
Pirlone. Lasciate ch’io men vada scevro da insulti e scorni,
Sin che la plebe dorme, piangente ai miei contorni.
Moliere. Da’ servi miei scortato... Chi picchia a quella porta?
(si sente picchiare all’uscio)
Isabella. Oimè! la genitrice s’è di mia fuga accorta.
(Ma più di lei non temo, Moliere è mio marito.)
La farò disperare con quest'anello in dito).
(Moliere va ad aprire la porta)
SCENA IV.
Foresta e detti.
Foresta. Strepiti grandi135. Va la Bejart in traccia...
Isabella è con voi? Signor, buon pro vi faccia.136 (parte)
SCENA V.
La Bejart vestita succintamente, e detti.
Ah Molier traditore! Ah, tu me l’hai sedotta!138
Rendimi la mia figlia, rendila, scellerato.
Moliere. Ella non è più vostra.
Bejart. Sì, ch’ella è mia, spietato!
Al ciel di tal violenza, e al tribunal mi appello.
Vieni meco. Isabella.
Isabella. Signora, ecco l’anello.
Isabella. Oibò.
Bejart. Vien qui, sfacciata.
Isabella. Portatemi rispetto, son donna maritata.
Moliere. Eh, lo sdegno calmate, e fia per vostro meglio.
Sposo son d’Isabella, e in sua difesa io veglio.
Staccarmela dal fianco non vi sarà chi possa.
Congiunti in matrimonio vivrem sino alla fossa.
È vano il furor vostro, sia collera o sia zelo;
Non si discioglie in terra, quel ch’è legato in cielo.
Bejart. Oimè! morir mi sento. Moliere, anima indegna!
Colei che t’amò un giorno, or t’aborrisce e sdegna.
Restane, figlia ingrata, accanto al tuo diletto,
E sia per te felice, com’io lo sono, il letto.
Fuggo d’un uomo ingrato la vista che mi cruccia,
E andrò, per vendicarmi, a unirmi a Scaramuccia.
Isabella. (Le darò il buon viaggio).
Moliere. Eh via, frenate l’ira.
Pirlone. Signora, quello sdegno che a vendicarvi aspira.
Farà pentirvi un giorno d’averlo il vostro cuore
Mal conosciuto.
Bejart. In vano mi parla un impostore.
SCENA ULTIMA.
Valerio e detti.
Vi reco in questo punto un trionfo novello.
L’ardito Scaramuccia cede la palma a voi:
Partirà139 di Parigi con i compagni suoi.
L’esito fortunato della commedia vostra
L’obbliga a ritirarsi, e rinonziar la giostra.
Bejart. (Oimè! tutto congiura a rendermi scontenta).
Moliere. Eppur gioia perfetta il ciel non vuol ch’io senta.
Pregate, che mi renda col suo perdon felice.
Isabella. (Lo sposo lo comanda, e il cuor me lo consiglia).
Signora, perdonate l’eccesso a vostra figlia.
Amor mi rese ardita: mi duol d’avervi offesa;
L’interno affanno mio col pianto si palesa.
Oimè, lo sdegno vostro! Oimè! m’avete detto:
Felice com’io sono, sia per te, figlia, il letto.
Oimè! che da mia madre, misera, odiata sono!
Bejart. Ah! il ciel ti benedica, t’abbaccio e ti perdono.
Moliere. Viva la saggia madre, viva la mia diletta.
Molier la sposa abbraccia, la suocera rispetta140.
Dov’è Leandro e il Conte? (a Valerio)
Valerio. Il vin gli ha superati,
E con Moliere in bocca si sono addormentati.
Non facean che lodarvi; ed era ogni bicchiere
Con voti consacrato al merto di Moliere.
Questo vuol dir che l’uomo, ne’ giorni suoi felici.
Ovunque volga141 il ciglio, può numerar gli amici.
Moliere. Or sì felice giorno posso chiamar io questo,
In cui nulla ravviso d’incerto e di funesto.
Il pubblico m’applaude, si cambian gl’impostori.
Mi crescono gli amici, son lieto fra gli amori.
Sol manca di Moliere, per coronar la palma.
Che gli uditor contenti battano palma a palma.
Fine della Commedia.
APPENDICE.
Dall’edizione Paperini di Firenze.
L’AUTORE
A CHI LEGGE142.
Cotali versi (dicansi di quattordici piedi, o di due settesillabi uniti) hanno un certo suono naturale ed umano, che alla prosa infinitamente somiglia; che però recitandoli, come naturalmente si leggono, senza sublimarli e senza confonderli, non può a meno qualsisia Recitante di non riuscirvi. Ciò non ostante, alcuni ho io sentito recitarli assai male, appunto per questo, perchè credevano con una soverchia caricatura di migliorarli. Non evvi cosa più fastidiosa, oltre la declamazione dei versi, e in questa parte non loderò mai li Francesi per le loro esclamazioni, i loro lunghi sospiri, e la caricatura non meno delle loro piume, che delle espressioni loro; siccome non loderò nè tampoco quegli Italiani, che con soverchia familiarità intendono recitare in prosa i più sonori versi della Tragedia. Siccome i tragici Eroi sono persone per lo più ideali, o nelle virtù, o nei vizj, dai Poeti caricatissime, e parlano un linguaggio fuor del comune, e con pensieri non usitati e strani, sembra altresì ragionevole che quegli Attori che li rappresentano, osservino un certo modo di dire un poco più sostenuto. Nei versi comici meno gravità si richiede, ma non sì poca onde si deturpino affatto; poichè se questi non accrescono pregio all’opera, non si hanno a usar dagli Autori, e se per essi vien migliorata, non hanno a vergognarsene i Recitanti.
Un’altra cosa dirò agli Editori, se per avventura ristampar volessero le mie Commedie. Si vagliano essi di questo mio esemplare, stampato come le Commedie in versi stampar si devono, non già di quello della edizion di Venezia143, in cui, oltre gli sensi rotti ed i versi confusi, stampato egli è in guisa tale, come se fosse in prosa.
Poveri Autori, a che son eglino mai sottoposti!NOTA STORICA
«Una famosa Compagnia di comici italiani, ha dato lunedì scorso principio alla rappresentazione delle sue Commedie in questo teatro del Serenissimo signor Principe di Carignano, le quali non si ha dubbio che verranno al solito assai gradite dal pubblico.» Così una notizia nel Giornale di Torino del 21 aprile 1751 (V. Carrara, C. G. a Torino, in Commedie di V. C. Torino, 1888, vol. IV, p. 220), non seguita pur troppo da altre su quella stagione, durata fino a settembre. Non il nome d’un attore, non un titolo di commedia, non un cenno (o tempi!) sul poeta, giunto colà co’ suoi commedianti. Erano quelli di Girolamo Medebac e venivano ad esibire alla capitale del Piemonte tutta una sene di belle e nuove commedie del Goldoni. Ma le recite di quei comici italiani non incontrarono il favore del pubblico. «Il genio di questa nazione è particolare — scriveva l’autore il 30 di quel mese all’Arconati-Visconti (Spinelli, Fogli ecc., p. 17) — e dirò soltanto che più del Cavaliere e la Dama, piace in Turino l’Arlecchin finto principe.» A Torino come a Parigi. Gli istrioni italiani curino i lazzi de’ loro scenari: la commedia vera non tocchino. Due anni dopo, nella dedica della Fam. d. antiq. (V: Vol. III, p. 297, nota), ripetè in altre parole questo poco lusinghiero giudizio sui Torinesi. Ma già l’anno seguente, in fronte alla Donna volubile (Vol. VI, p. 351) modifica sensibilmente il suo pensiero. Non il più lontano accenno alle ignobili predilezioni per il teatro improvviso. Torino «situata... sul margine della Francia» aveva «adottate» non poche «delle sue lodevoli costumanze ed erano «gli animi de’ Torinesi in favore della Commedia Franzese onninamente impegnati». Nell’ediz. Pasquali (Vol. VIII, a. 1765) il passo su Torino è tolto. Trascorso un altro lungo spazio di tempo, leggeremo nelle Memorie (P. II, e. XII) che a Torino le opere del Goldoni si ascoltavano e si applaudivano, e solo sarà parola di certi tipi curiosi che a ciascuna commedia nuova dicevano: «e’est bon, mais ce n’est pas du Moliere». Per questo il Goldoni, a prova di quanto conoscesse e venerasse il Francese egli stesso, ma, più ancora, a sfogo del suo dispetto per le accoglienze fredde e le critiche avventate di chi giudicava pur senza ascoltare, da due episodi della vita di Moliere trasse questa sua commedia; la studiò coi suoi comici, e se n’andò a Genova senza presenziarne la recita (28 agosto, secondo l’ed. Bettinelli, 1753, vol. IV).
Così dopo poche commediole e dialoghi, quasi sempre allegorici, dove, salvo rare eccezioni, agisce solo l’ombra di Moliere (J. Taschereau, Hist. d.l. vie et d. ouvrages de M., Paris, 1828, pp. 417, 418; P. Peisert, Molières Leben in Bühnenbearbeitung. Halle a. S. 1905, pp. V, VI, 62), ecco un Italiano scriver la prima commedia ispirata direttamente ai casi della sua vita. E il Geoffroy aveva ragione di chiedersi: «N’est - il pas étrange qu’un Italien ait rendu le premier cet hommage dramatique á notre Moliere?» (Cours de litt. dram. Paris. 1825, vol. III, p. 400).
Dal simpatico libriccino del Grimarest (La vie de M. de Moliere. A Paris, MDCCV; ristampato a cura di A. P. - Malassis, Paris, 1877) attinge il Goldoni tutto quanto spetta alla gara — episodio centrale della commedia — tra le due rivali ch’egli, sempre col Grimarest, ritiene madre e figlia, non sorelle, come documenti venuti a luce più tardi provano (cfr. G. Mazzoni. Il teatro della rivoluzione. La vita di M., ecc. Bologna, 1894, p. 124 e segg.). Poichè la fonte non fa il nome di nessuna delle due, e il nostro autore dovea pur distinguere e d’un nome almeno aveva bisogno pel dialogo, con curioso anacronismo e violando lo spirito della nostra lingua, chiama dapprima la più giovine Guerrina, dal nome del [secondo] marito, come in Francia usa. E l’aveva scovato nel noto libello contro quella povera femminetta, intitolato La fameuse comedienne ou histoire de la Guérin auparavant femme et veuve de Moliere (a Francfort, ecc. 1688; ristampato nel 1868 a Ginevra). Rimediò poi nell’ed. Pasquali ribattezzandola col nome d’Isabella, trovato in un Dizionario francese che potrà essere il Dictionn. portatif. des theatres (Paris, 1 754), nel quale però non si legge (p. 390) Isabella, ma Elisabetta. Errore per errore (si chiamava Armanda), al Gold, per ragioni di ritmo e di rima piacque meglio il primo, di suono affine. Ci appare il Moliere nel momento più felice della sua vita e più significativo per l’arte sua, avendo il Gold., con arbitrio non negato ai poeti, raccostato due date tra loro lontane; il 1662, anno del suo matrimonio, e il 5 febbraio 1669, data della prima recita pubblica del Tartuffe. Anche l’episodio di Don Pirlone, che nella commedia prende il secondo posto, si trova accennato dal Grimarest (pp. 106, 107 della ristampa). Di là pure l’affaccendarsi dell’ipocrita per alienare al direttore - commediografo l’animo di tutti. E pur la buona trovata comica del mantello e del cappello toltigli onde Mol. se ne serva nella recita del suo capolavoro, risponde a uno spunto del Grimarest (p. 139). Inutile cercar più lontemo (Ménagiana, III p. 230; Mélanges historiques ecc. Amsterdam, 1718, p. 70), come suppone il Peisert (op. cit. p. 1 4). Nel nome dell’impostore e persino nella prima sua forma Curlone, consigliata al Goldoni o al Medebac, editore, da prudenza o voluta dalla censura, s’indovina e si ritrova il Don Pilone di quel Gigli, cui la Premessa allude con sì infinite cautele. Fattosi coraggio, l’a. adottò la forma Pirlone, che il nome originale gli ricordava forse troppo la pila dell’acqua santa. A ogni altro particolare, quasi a ogni battuta, salvo qualche tirata apologetica o aggressiva, fa riscontro un passo o l’altro del Grimarest (cfr. ancora le scene I 1,4; II 10; III 3, 6; l’2, 6 con le pagine, 20, 23, 36, 37, 107, 135, 139, 169 del Grim). Alle poche modificazioni operate dal Gold, aggiungi la casanoviana trasformazione della «vieille servante La Forest» (Grimarest, p. 134) in una vispa Colombina goldoniana che stuzzica le voglie del nuovo Tartufo, e l’invio di Valerio (Baron) al campo di Fiandra in luogo del La Torellière e del La Grange (Grimarest, p. 108), come lo stesso Moliere narra nella premessa al suo capolavoro.
Ma il seguire tanto da vicino la mite, piana esposizione del Grimarest, più inteso a mettere in evidenza la bontà e la debolezza dell’uomo, che a presentare l’artista nella sua meravigliosa officina, fa sì che il G. rimpicciolisca l’eroe invece che levarlo ben alto. E certo questo intendeva. Intenzione, nulla più. Idealizzare la figura non rispondeva neanche alle qualità peculiari dell’arte sua. Quanto poteva fece, e gli sforzi non vanno più in là della veste. Bandì le maschere, mantenne la scena stabile e, per la prima volta nelle commedie del riformatore, alla prosa sostituì il verso: quel verso nel quale Molière aveva composto il Tartufo e il Misantropo. Più avventurato di Pier Jacopo Martelli (1663 - 1727) che al metro, nuovo nella letteratura drammatica nostra, diede il suo nome e, a giudizio del Carducci, vi fece pure egli stesso miglior prova che non gl’imitatori (Nuove poesie. Imola, 1873. p. 126), il Goldoni in questo suo tentativo incontrò inaudito favore presso le platee, presso i cultori di Talia e d’altre muse. Non mancarono, s’intende neanche gli oppositori. S’accese allora tra gli oziosi della vasta repubblica letteraria una vivace polemica intomo al nuovo verso (A. Galletti. Le teorie drammatiche e la tragedia in Italia nel secolo XVIII, Cremona, 1901, p. 129). Per lunghi anni il Gold. dovette, esempio al Chiari e ad altri, secondare il gusto del pubblico. Diede così al martelliano più di trenta commedie. «Co’ denti, co’ piedi, e colle mani, | Formansi versi detti Martelliani» scriveva Carlo Gozzi (La Tartana degl’influssi ecc. Parigi, 1 757, p. 58) e coi granelleschi suoi compagni prevedeva di sentir presto «i cani | Baiar anch’essi i versi martelliani» (Sommi - Picenardi. Un rivale del Goldoni, ecc. Milano, 1902, p. 72). Gasparo in lettera del 2 ottobre 1754 scriveva a Stelio Mastraca: «Tutto il mondo e versi martelliani... i bottai sotto le vostre finestre battono in tuono di verso martelliano e fino l’azione del procreare si comanderà con bolla o decreto che sia fatta sull’armonia martelliana» (cit. dal Galletti, p. 131). Ma dello stesso Gozzi sono assai note anche le lodi date a questo verso (cfr. Ach. Neri. Aneddoti Goldon., Ancona, 1883, p. 30). G. B. Vicini chiedeva — sempre in versi martelliani — a gran voce questo metro per le scene, perchè «non troppo in alto si tiene, | Nè men troppo serpeggia sopra le umili arene» (Della vera poesia teatrale. Epistole poetiche. ecc. Modana, [1754], p. 17) Fra gli entusiasti il Goldoni in verità non era. Ne fan fede la dedica di questa commedia e quanto ripetè più tardi nell’autobiografìa (Mém. P. 1, c. XVIII). Al nuovo metro, saltellante e monotono, s’era acconciato a malincuore e pur nella questione generale, tanto dibattuta, se alla scena comica convenisse più il verso o la prosa, s’era messo apertamente — nel Teatro comico (V: Vol. IV a pag. 68, in nota) — tra i fautori della prosa. Ma quelle poche battute nell’ediz. Pasquali non si leggono più; certo perchè al Goldoni parvero troppo recisamente contraddire alla pratica da lui più tardi largamente esercitata. (M. Ortiz. Commedie esotiche del G. Nap. 1905, p. 44 e segg.; G. e Maffei. Strenna [Rachitici] 1907, Venezia, p. 55).
Le notizie della dedicatoria sul!’ottimo esito del Moliere a Torino e a Venezia, sono ampiamente confermate da quanto ne scrive l’a. a Giovanni Colombo (ded. d. D. volubile cit.), dalle Memorie (l. cit.), dalla premessa al Terenzio e da una oreve nota del Medebac (ediz. Bettin. cit), che accenna pure al bellissimo successo di Bologna. Il Goldoni che di questo suo lavoro, quasi esponente d’un nuovo indirizzo dato all’arte sua, doveva compiacersi assai, nel viaggio di ritorno a Venezia, volle leggerlo, a Modena, al march. Bonifazio Rangoni, grande amatore del teatro e suo protettore (vedi Masi, Lettere di C. G., p. 112), «col vantaggio d’averlo benignamente dell’autorevole sua approvazione fatto degno» (ded. dei Mercatanti, ediz. Pasq. vol. IX, p. 95). La fortuna accompagnò questa commedia fin nella seconda metà del secolo scorso. Vinsero contro lo scarso merito intrinseco dell’opera la vanità degli attori, felici di mostrarsi ne’ panni del gran Moliere, la parte di Pirlone d’effetto sicuro a un buon caratterista e, non ultima ragione, la voga ch’ebbero un tempo i drammi biografici. La recitò Jacopo Corsini (V: Nota al Servitore di due padr.) tra il 1775 e il 1776 tre volte al Teatro di Via del Cocomero a Firenze e per ciascuna di queste recite resta una sua ottava cantata, relative tutte alla figura dell’impostore. Nel 1820 la ritroviamo a Milano nel repertorio della Comp. Perotti (Seconda continuaz. d. serie cronol d. rappr. del Tea. di Mil. 1821, p. 135) e l’anno dopo in quello della Reale Sarda appena fondata (Costetti, La C. R. S. ecc., p. 15); di nuovo a Milano nel 1829 recitata con plauso dalla famosa Comp. Goldoni del Duca di Modena (I teatri, 1829, III | 2 p. 371). Si rappresenta a Modena negli anni 1767, 1845 e 1861 (V. Tardini. La dramm. nel n. tea. com. di Mod. 1898, pp. 39, 135, 136), a Zara (Comp. Coltellini e Ristori) nel 1855 (Sabalich, C. nel passato teatr. di Z. Il Dalmata, 27 febbr. 1908), all’Arena del sole di Bologna (Comp. Zamarini) nel 1860 (Cosentino, L’A. d. s. Bol. 1903, p. 113). Assai frequente ricorre pur tra le recite filodrammatiche (1807 [Martinazzi, Acc. de’ Filo dramm. di Mil. 1879, p. 121]; 1834-35 [Soc. filarmonico-dramm. Memorie, Trieste, 1884, p. 26]; 1872 [Prinzivalli, Acc. filodr. rom. Temi, 1888, p. 195]). Fra i grandi attori che impersonarono il Moliere goldoniano va ricordato Ernesto Rossi (V. Planiscig, Cenni cronistoria sul tea. di Soc. di Gorizia. 1881, p. 81) e ottimo Pirlone fu Antonio Papadopoli, assicura un suo biografo: «In Pirlone nel Moliere di Goldoni, non è egli il perfetto ritratto del bacchettone che sotto mantello di santità nutre impurissimi affetti, dell’ipocrita che pone, come dice Elvezio, il suo punto d’appoggio in cielo per mettere sottosopra la terra?» (Dell’attore comico A. P. Zaratino, Zeira, giugno 1856).
Ne mancò alla commedia fortuna di rifacimenti e traduzioni in Italia e fuori. Fra gli imitatori primo l’ab. Pietro Chiari col suo Moliere marito geloso pure in versi martelliani, rappresentato nel ’53 a Verona, poi a Venezia. «A lavorare su tale argomento — confessa l’autore — e lavorarci con questo metro novello mi fu allora di stimolo l’altra Commedia intolata Moliere, esposta pria dal Sig. Dottor Goldoni alle Scene» (Comm. in versi del Fab. P. C. Ven. 1757, vol. II, p. 8). Era una continuazione del Moliere goldoniano con gli stessi personaggi, tolto Pirlone e sostituito al conte Lasca un marchese D’Estramb. Anche le velleità polemiche non mancano. Identità d’ambiente, di personaggi, di intenti e di forma giustificano le accuse di pedissequa imitazione, anzi di plagio, mosse all’autore (Sommi-Picenardi, op. cit., p. 24; Neri, op. cit., p. 61 segg.). «Produsse il Molier ammogliato, copiando l’originale del mio dimidiato Terenzio [Goldoni]» scriveva del Chiari, biasimando, l’anonimo autore [S. Sciugliaga] delle Censure miscellanee sopra la commedia (Ferrara, 1755, p. 38). Opponevano i partigiani del Chiari che tra i due lavori «v’ha quella differenza che passa fra una maritata ed una da maritarsi» (Dispaccio di Ser Ticucculia ecc. In Bengodi, s. a., p. 28). E un altro a ribattere: «io rispondo, che il Moliere, o sia maritato, o no, è la stessa persona... che il primo a prendere dalla Vita del M. è stato il Semiterenzio; il Poeta incastrato [Chiari] il secondo: dunque l'incastrato imitò Semiterenzio nel prendere dalla Vita del Moliere». (ivi). Si difese alla meglio anche il Chiari nelle Osservazioni critiche mandate innanzi alla sua commedia, concedendo a bocca stretta che obbligato a «fabbricare sul vecchio» s’era dovuto adattare «alle fondamenta e alle mura... già erette». Aveva dovuto conservare i caratteri stessi e tutt’al più «modificarli ed accomodarli» al suo intento. Poi, per levarsi un po’ la stizza di dosso, finì col dir male del Moliere goldoniano. Ma non egli aveva saputo far meglio. Tutt’altro. Per metter in scena solo le smanie d’un marito geloso era necessario dar noia a Poquelin? Un Ottavio o un Lelio qualunque bastava. Con tutto ciò la commedia ebbe fortuna, sia per una relativa semplicità di svolgimento, se anche non del tutto scevra delle solite stravaganze chiaresche, sia — questa la ragione più salda — per il nome del protagonista. Sopravvisse anzi alle numerose compagne e la Comp. R. Sarda l’ammise nel suo repertorio con la sorella goldoniana (Costetti, op. cit., p. 15). Fu tradotta in tedesco (M. oder Der eifersüchtige Ehemann. 1768; in Neues Theater von Wien. Wien. Krauss, 1769 —, vol. II), e a un critico di Germania sembra oggi ancora più divertente che non quella del Gold. (Landau, Gesch. d. ital. Litt. im XVIII. Iahrh., Berlin 1899. p. 430). Non perchè imitazione dal Goldoni, ma perchè opera attribuita a un suo caldissimo partigiano [S. Sciugliaga; cfr. Spinelli. Fogh ecc. p. 67] e tra i parti poetici più curiosi della gara tra il Riformatore e il Chiari ricordiamo ancora a questo luogo Le nozze involontarie della signora Commedia Italiana col signor conte Popolo (Ferrara, 1755), pesantissima commedia allegorica che ha tra i suoi simbolici personaggi — unico nome reale — Moliere.
Il Moliere si trova nelle note raccolte del Fraporta (Scelta di comm. di C.G.Ediz. terza. Lipsia, 1790, vol. IV, p. 87 e segg), del Montucci (Scelta completa [!] di tutte le migliori comm. di C. G. ecc. Lipsia 1828, vol. I, p. 197 e segg.) e singole scene, corredate di ottime note, si leggono nelle Antologie del Targioni -Tozzetti (Ant. d. poes. ital. 11a ediz. curata da F. C. Pellegrini. Livorno, 1909, pp. 723-725) e di R. Guastalla Ant. goldon. Livorno, 1908, pp. 41-47). Antonio Montucci, senese spirito bizzarro (cfr. l’artic. di F. Romani. Per riguardo alla moglie inglese, nel Marzocco del 31 ott. 1909), mutava a suo arbitrio il num. degli atti, traduceva in toscano le parti in dialetto, correggeva Goldoni per la lingua e per la morale, e se la commedia, come questa, era in versi — tanto peggio per i versi. Dalla presente tolse qualche francesismo sostituendovi le voci italiane «benchè non senza scapito dell’armonia poetica» (p. 198) e al doppio senso, evidente nella risposta d’Isabella: «Egli non mi ha veduta, Signora, altro che questa», alla domanda della madre «a voi chi diè licenza venire in questi quarti | A farvi da Moliere veder le vostre parti?», rimediò il brav’uomo dicendo: «ma riveduto» ecc. Del modo inaudito onde manometteva Goldoni, il compilatore venne acerbamente redarguito in una lunga e pensata recensione alla sua Scelta nell’Allgemeine Literatur - Zeitung del 1829 (IV vol. col. 995 e segg.).
Come di ragione, dato il soggetto, il Moliere in Francia fu tra le commedie goldoniane più note e meglio accolte. I Francesi così infinitamente gelosi delle glorie loro, non gridarono tutti questa volta al sacrilegio. La sincerità dell’omaggio lusingò la vanità nazionale. Luigi Sebastiano Mercier (1740-1814), che col Goldoni era certo in buoni rapporti (Mem., P. III, c. 23), ridusse liberamente in prosa il Moliere. Tra i personaggi, a Valerio sostituì La Torilliere e da due aneddoti del Grimarest (pp. 168, 126) derivò due nuove scene: quella (I, I) dove il poeta rimprovera Lesbino d’aver impiegato le sue traduzioni di Lucrezio per farne diavoletti alla sua parrucca; l’altra (V 4), in cui Moliere sconsiglia Mademoiselle T*** dall’abbracciare la professione teatrale; ma questa scena non si lega in modo alcuno all’azione e solo la ritarda. Altro poco aggiunge e modifica. Nel resto segue l’originale e traduce. Il 14 nov. 1787 questa commedia, subiti nuovi mutamenti (collaboratore P. A. Guys), si eseguì a Versailles davanti ai Reali col titolo la Maison de Moliere ou la journèe du Tartuffe. Ridotta a quattro atti, omesse le parti prima aggiunte, nella nuova lezione resta assai più vicino all’originale. Così la Correspondance del Grimm (Paris, 1878, vol XV, p. 157). Fra il terzo atto e il quarto si recitò davvero il Tartufo. Porel e Monval annotano (L’Odèon. Paris, 1876, vol. I, p. 54) che il lavoro ebbe scarso successo e si fece sei volte soltanto. Anzi, secondo il Bachaumont (Mém. historiques ecc. Paris, 1809, vol. III, p. 456), successo non vi fu. Egli vi loda solo la Bellecour (servetta) per il brio e la verità. Però la statistica del Joannidés (La Com Franç., 1901, p. 53 e passim) attesta che fino al 1812 la Mais. d. M. si recitò ben 47 volte. Intorno a una recita seguita nel giugno del 1804 si legge nel Journal de Stendhal (Paris, 1908, p. 50): «La Maison a un succès complet... Cette pièce est charmante de naturel. Goldoni est peut-etre le poete le plus naturel qui existe, et le naturel est une des principales parties de l’Art. Le personnage de Moliere, surtout si bien joué par Fleury, tourne admirablement».
Nel 1801 il Moliere venne compreso tra i Chef-d’oeuvres dramatiques de C. G., tradotti da A. A. D. R. [Amar Durivier] col testo originale a fronte (Lyon et Paris, vol. II, p. 210-399). I grandi elogi al Gold, nella prefazione si affievoliscono non poco a tutto vantaggio del Mercier nell’Esame che segue la traduzione. Ancora una traduzione diede alla Francia nel 1822 Stefano Aignan (Chefs-d’oeuvre du th. ital.: Goldoni.) il quale non esita punto «a scorgere nel Mol. del G. il suo capolavoro» (p. 177). Per la fortuna di questa commedia a Parigi piace ricordarne l’esumazione fattane ancora il 16 dic. 1897 all’Odeon (cfr. F. Sarcey. Le «Moliere» de G. Conference, Revue des cours et conférences, 9 genn. 1898) nella versione dell’Aignan.
Altre due traduzioni ci son note: la tedesca, in prosa, del Saal (vol. IV), e una libera versione olandese, in versi, di P. J. Kasteleyn (Amsterdam, 1781), il quale — m’avverte il prof. Van der Berg di Nymegen, cui debbo preziose notizie sulla fortuna del Gold, in Olanda — conosceva anche il Mercier, ma seguì solo l’originale, tagliando qua e là e sacrificando del tutto il co. Lasca. Da ultimo convien far cenno pure dell’Originale del Tartufo, la nota commedia del Gutzkow, popolarissima in Germania. L’idea di mostrare Moliere in lotta aperta con l’ipocrita da lui satireggiato, sarà tutta sua e l’incontro col Goldoni solo fortuito, come vuole l’autore (Das Urbild des Tartuffe, 2a ediz., Lipsia, 1862, p. 110)? La dipendenza dal Nostro affermano il Peisert (op. cit., p. 39), C. V. Susan (C G., Oesterreichische Rundschau, 15 febbr. 1907, p. 291) e A. Gleichen - Russwurm (C. G. Die Nation. Berlino, 23 febbr. 1907).
Sparito il Moliere ormai dalle tavole del palcoscenico per restare solo nei vasti domini della storia letteraria, riposo e ultimo appello a’ lavori teatrali — che ricordo ne serba la critica? Agli elogi dell’Aignan e dello Stendhal s’aggiungono quelli del Montucci («bellissima commedia» op. e 1. cit.), dell’ab. Frane. Fanti ( «Il M. certo non può che piacere ed è una commedia che fa onore al suo autore» Lett. da Modena in data 8 agosto 1754. Modena a C. G. 1907, p. 333), dell’Auger, il cui giudizio mette conto riportare intero: «G. a fait... une piece intilulée Moliere, et c’est son chef d’oeuvre. L’idee en est heureuse, l’intrigue bien ourdie, les situations plaisantes, les caractères fortement tracés. L’auteur a écrit de verve, il s’est fortement identifié avec les chagrins de Molière, et les a peint avec une telle verité, que vous vous croyez transporté dans la maison même de ce grand homme, et que ses faiblesses et ses peines se decouvrent au spectateur comme a un ami. La pièce est ecrite en vers, et il en est resulté plus de vivacité et de brillant dans le dialogue». Physiologie du Théatre. Bruxelles, 1840, vol. 2° p. 268). Ben s’accorda con questo l’elogio d’Achille Neri: «Tutto lo svolgimento e... lavoro della sua immaginazione, condotto con tanta naturalezza e maestria, da far credere agli spettatori che veramente le cose si fossero passate in quella maniera, e non altrimenti. In ciò sta appunto il gran merito di Goldoni, e il difficile segreto dell’arte drammatica» (op. cit. pp. 52, 53). Biasimo e lode dispensa in equa misura il Rabany (op. cit. pp. 276, 281 e passim). Ma perchè pretendere dal Goldoni, l’anno di grazia 1751, qualche cosa di nuovo sull’anima e sul genio del Moliere? Tanto non chiede il Lüder che lo loda per il modo onde riuscì «a creare nel suo eroe una figura tanto viva e interessante quanto storicamente verisimile», e son messe con simpatia in rilievo le affinità tra i due poeti: il biografo e il biografato. In altri riguardi non manca neppure il biasimo (C. G. u. s. Verhälinls zu M. Berlin, 1883, pp. 23 - 30). Nell’encomio entusiastico supera ogni altro critico Domenico Oliva («Molière e sua moglie» di Gerolamo Rovella al Valle. Il Giorn. d’It., 20 maggio 1909). Il Moliere goldoniano e per lui «così vivace e indiavolato, così teatrale, così umano, così divertente da non parere superabile: di fatti non fu superato. Moliere vi è addirittura magnifico: Chapelle sotto il nome di Leandro è ritratto al vivo, e così La Grange sotto il nome di Valerio: che più! Il Goldoni ebbe l’ardimento di porre Tartufo in iscena, chiamandolo alla maniera del Gigli Pirlone: felice, radioso ardimento: la copia vale l’originale... ma non è copia, è un altro Tartufo grottesco, buffo, impagabile...» Ricordiamo ancora Giulio Bertoni (Modena ecc. op. cit. p. 416), il quale al Moliere allude con grande favore; Eugen Reichel, un goldoniano improvvisato per il bicentenario (1907), che lo annovera tra le meglio cose del Goldoni (Sonntagsblatt des Hannoverschen Couriers, 1907, n. 845), e così un tale Charles Simond, per il quale proprio questa commedia è per noi Italiani il capolavoro dell’autore (nella Notice biographique al Bourru bienf. Paris, Gautier, n. 130 della Bibl. popul).
A contrabbilanciare tanto spreco d’elogi ecco la Correspondance del Grimm (vol. cit. p. 296) definire il lavoro «une fable sans mouvement et sans action»; il Royer affermare che Gold, restò «bien au-dessous de la tàche qu’il avait entreprise» (Hist. un. d. théa. Paris, 1870, voi. IV, p. 331); e il Guerzoni, rincarando, dirlo «infelice commedia... morta nella culla» (Il tea. ital. n. sec. XVIII, Mil. 1876, p. 253), asserzione contraddetta dai fatti. Altri ancora. Victor Klemperer, riassumendo una sua severa critica, sentenzia: «se Goldoni non avesse fatto di meglio là dove potè descrivere la sua cara Venezia, non avrebbe avuto diritto davvero a disegnare Moliere come suo maestro» (Die Gestall Molières auf der Bühne. Bühne und Welt, 1° giugno 1906, p. 721). Plaude Marietta Ortiz alla condanna senza appello che su questa aberrazione goldoniana (Giorn. stor. d. lett. it. LII, p. 174) pronuncia Giuseppe Ortolani («sgorbiò il Molière pessima commedia». Della Vita e dell’arte di C. G. Ven. 1907, p. 66). A Virginio Brocchi il Molière e compagni [Il Tasso e il Terenzio] paiono solo «esercitazioni letterarie» sorte dalla «smania dell’auto-apologia» (C G. e Ven. nel sec. XVIII. Bologna, 1907, p. 38), e «d’une parfaite insuffisance» lo ritiene Paul Souday (L’Eclair. Paris, 25 febbr. 1907). Eppure, se giudizi laudativi sono, senza dubbio, fuori di posto, sentenze capitali vorremmo serbate a ben più gravi aberrazioni goldoniane. Valentino Carrera, non cieco ai difetti, riassumeva così il suo giudizio: «se il Mol. rivela in più d’un punto la marno maestra, nel suo insieme e un po’ stentata nell’azione e scarsa di comicità e ad ogni modo non corre svelta e disinvolta, spandendo sorrisi e fiori, come molte altre del nostro autore. Non credo quindi che possa stare fra quelle che sono il maggiore documento della sua gloria» (op. cit. p. 233). Ancora troppo indulgente, va concesso. Non documento di gloria, anzi neppur tra le buone. Accettiamo piuttosto, concludendo, l’equo parere del De La Harpe: «faible d’intrigue et de caractères; mais il y a quelques scènes plaisantes et le dialogue est naturel» (Oeuvres, Peuis. 1778, voi. VI, p. 324).
Questa sua opera, che per il soggetto e per la forma esterna potè sembrare all’autore lavoro classico addirittura, doveva esser dedicata dapprima a Federico Cristiano, principe elettore di Sassonia. Arrise al Goldoni l’idea di render omaggio nello stesso tempo al principe della scena moderna e a un principe del sangue. Più ancora forse — la speranza di qualche munifico dono da chi già un’altra volta avea gradito le cose sue. E Federico Cristiano nel suo soggiorno a Venezia l’anno 1740 (Molmenti. La storia di Ven. n. vita privata. Bergamo 1908, vol. III, p. 162) aveva sentito l’Enrico Re del Goldoni (Vol. I, a pp. 135-137; Spinelli, Bibliografia, p. 167) e in suo onore, per commissione del Procuratore Pietro Foscarini, il Goldoni avea composto Il Coro delle Muse, serenata (Ediz. Zatta, voi. 33) eseguita all’Ospedale della Pietà. Prima dunque di dare al torchio la sua commedia, il poeta ne fece trarre una bella copia calligrafica, ebbe cura di qualificare il suo lavoro nel manoscritto commedia di carattere, apposizione che nelle stampe manca, e inviò con questa umilissima lettera, fin’oggi inedita, a Dresda.
Altezza Reale,
Fin da quel tempo, in cui L’A V. R.le rese felice questa città coll’adorabile sua presenza, appresi, ch’Ella gradiva fra’ suoi onesti divertimenti quello delle Teatrali Rappresentazioni. Ebbi anch’io l’onore in quel tempo di farle rappresentare il mio Enrico Rè di Sicilia, animato dal fu Sig.r Abbate Conti, d’onorata memoria ed ebbe l’A. V. R. la Clemenza di compiacersene.
Ardisco pertanto presentare agli occhi begnissimi di V. A. R. una Commedia mia manoscritta, la quale si è rappresentata in Venezia varie successive sere, ma non ancora è stampata, per quanto gli Amici miei m’abbiano a farlo eccitato.
Doppo (sic) essermi io applicato per qualche anno a correggere a misura de scarsi miei talenti, il Comico Teatro Italiano ed avere in un sì grave impegno procurato imitare il Celebre Moliere Francese, ho finalmente posto Lui medesimo in scena, ed ho de suoi casi formata una Commedia, intitolata Moliere. Ho voluto in questa, a diferenza dell’altre mie seguire anco lo stile del Lodato Autore, scrivendola in verso rimalo, ad immitazione delli Francesi.
Una tal novità mi fu universalmente approvata sin ora e tutti si uniscono a lusingarmi aver io formata una Commedia, che mi può far qualche onore.
Se così è, la offerisco umilmente all’A. V. R.le perchè si degni di leggerla, e farla ancora da suoi Comici rappresentare.
Tutti come dicevo, mi danno de frequenti stimoli per istamparla, ma siccome ella è diversa dalle altre mie nello stile, la stamperò separata, e sarei ben fortunato, se l’A. V. R.le Clementissimo Principe, volesse benignamente concedermi di consacrarla dai Torchj all’Altissimo di Lei Nome.
Ecco la grazia, che io umilmente le chiedo, e crederò allora ben impiegati i sudori miei, se mi averanno un fregio sì grande ottenuto. Ciò vivamente io spero dalla Clemenza impareggiabile dell’A. V. R.le a cui con umile profondo ossequio m’inchino.
Venezia, li 4 Xbre 1751.
Di V. A. R.le |
Il ms con la lettera e la commedia si trova alla Biblioteca Reale di Dresda (msc. Dresd. Ob 42). Consta di 73 pp. num., più 4 che rispondono alla dedica, al titolo e all’elenco de’ personaggi. La commedia è quale fu poi stampata dal Paperini. All’Ab. Antonio Conti (1677-1749), il noto drammaturgo, il Goldoni, salvo errore, accenna una volta soltanto, nella pref. al vol. XIII del Pasquali (V; Vol. 1,° p. 99). Ma da questa lettera si vede ch’era in rapporti col Goldoni e conosceva il principe. L’avvocato mandò a Dresda il copione, ripetendo forse in cuor suo i versi della sua cantata «Se pietoso il fato arride |Al desio che m’arde in petto, | Spero lieto in tal oggetto | I miei danni ristorar», ma sia che dell’«eroe la bell’alma» e del «rampollo regale il cor pietoso» si fossero mutati a suo riguardo, sia (ben più probabile) che il principe avesse dimenticato il dottor veneziano che poetava a ore perse — la risposta fu negativa o mancò del tutto. E allora il Goldoni, senza perdersi d’animo, pensò a un altro principe certo assai più in grado di intendere la nobile impresa da lui tanto bene avviata. Così opportunamente la commedia, dove Carlo Goldoni s’inchinava al grande riformatore della scena francese, andò dedicata a Scipione Maffei che, primo, con nobilissimi e savi propositi aveva ideato il rinnovamento del teatro tra noi. E la commedia si stampò non in edizione speciele, ma nel secondo volume del Paperini.
Le Memorie (P. 1. e 27), le prefazioni biografiche (Voi. 1, pp. 69, 70) e massime l’importante premessa alla Sposa persiana con frammenti di lettere del Maffei al Nostro (Ed. Pitteri I, Pasq. XIII) ci ragguagliano sui rapporti corsi tra i due; rapporti lumeggiati da Achille Neri (Aneddoti cit. p. 23 segg.) e da Maria Ortiz (Strenna cit.). Certo par singolare che il G. indirizzasse proprio la sua prima commedia in versi martelliani a chi, secondo l’ideatore del nuovo metro, quanti fossero per adottarlo «pregava supplicava, scongiurava, | Che quasi peste il mirtiliano verso | Fosse dalle lor favole fuggito» (Carducci, Opere, XIV p. 164); a chi da Radamanto era stato condannato a non parlare, o solo ne’ metri di Mirtilo, finché non si fosse purgato del peccato dell’ambizione (Femia sentenziato). Ma il Femia e del 1724. Nel 1727 il suo autore era mancato ai vivi. In quasi trent’anni bizze letterarie perdono forza e sapore. Il Maffei del resto, grazie proprio al Moliere, s’era ricreduto delle sue sentenze troppo recise. Se non del coturno, s’acconciò a ritenere il martelliano degno del socco e non negò l’appoggio della sua autorità al confratello. Così ai loro buoni rapporti noi dobbiamo una delle dedicatorie più significative del teatro goldoniano (V: Storia letteraria ecc. Modena, 1753, Libro I, e. II, p. 29), il Maffei un omaggio bellissimo, del quale la stima immensa che faceva di sè «oltre il debito e il diritto» (Carducci, l. cit. p. 157) si sarà compiaciuta, e il Goldoni questo breve elogio che al Marchese piacque farne nel suo celebre Trattato, dandone prima notizia all’encomiato in lettera del 7 maggio 1753 (Ed. Pitteri, l. c.): «In molte [commedie] del Sign. Goldoni chi non vede di quanta moralità più volte si faccia pompa? Questi due autori [il G. e il Fagiuoli] hanno fatto vedere come riescono popolarmente le buone Comedie anche in prosa, e come non c’è punto bisogno, che siano licenziose, per essere applaudite, e gradite» (De’ teatri antichi e moderni, ecc. Verona, 1753, p. 27). Breve e misurato elogio, limitato alla moraltà delle commedie goldoniane e all’essere quelle fino allora composte tutte in prosa. Avvertì l’opportuno prudente restrittivo in molte e la critica - sfuggita forse più che voluta - del si faccia pompa. Il Goldoni invece spende e spande l’incenso intorno al capo dell’autore della Merope, salvo a moderare il suo entusiasmo quando il marchese era già agli Elisi. Nel ’57 bensì, mentre dell’autorità del Maffei si faceva forte contro le ingiurie di F. R. Morando, le commedie maffeiane erano ancora «lodabilissime» (Ed. Pitteri, 1. cit.). Il Morando, autore di una tragedia dimenticata, aveva qualificato lui e i seguaci suoi nell’uso del martelliano gente nata per infamia dell’arte (ivi). E il Gold, volle rivedere le buccie alla sua misera tragedia, ma men portato alle acri guerre della penna che ai mutui compatimenti, finì col lodarne alcuni tratti, dove, a creder suo, l’a. avea perfino superato il maestro [Maffei]! Due anni dopo, in lettera al Vendramin (28 agosto. Mantovani, p. 138), la commedia delle Cerimonie è detta con poco rispetto alla memoria dell’autore «seccante all’ultimo segno» C’era bensì equivoco, l’avverte il Vendramin, con la Scolastica, e il Nostro allora senza esitare gratifica dell’epiteto un’opera di Messer Ludovico. Nelle Memorie (P. I, c. 27) si fa solo fugace menzione della fortuna della tragedia e dell’insuccesso del commediografo, e, errore già da altri avvertito (Ortolani, Settecento, Venezia, 1905 [in corso di stampa], p. 318), vi si confonde («il publia un volume sous le titre de Réforme du Théàtre Italien contenant sa Mérope, et deux comédies. les Cérémonies, et Rajouet» Mém. P. I, c. XXVII) il Teatro italiano, cioè la nota compilazione fatta dal Maffei nel 1723, col suo proprio Teatro, (Verona, 1730), contenente la tragedia, la commedia, e il dramma, non il Raeuel che è del 1747 e uscì anonimo presso S. Coleti (Novelle della Rep. lett. 1747, cit. dell’Ortolani).
E. M.
Questa commedia fu stampata nel 1753, prima nel t. IV dell’ed. Bettinelli di Venezia e subito dopo, corretta dall’autore, nel t. II dell’ed. Paperini di Firenze: uscì poi a Bologna (Corciolani V, ’53 e Pisarri V, ’54), a Pesaro (Gavelli II, ’53), a Torino (Fantino e Olzati, II, ’56). Qualche altra modificazione vi portò il Goldoni nel 1762, per il t. III dell’ed. Pasquali di Venezia. Si notano ancora le ristampe del Savioli (Ven., III, ’70), dello Zatta (Ven., cl. 3, IV, ’92), di Guibert e Orgeas (Torino, III, ’72), del Masi (Livorno), del Bonsignori (Lucca) e altre nel Settecento. — La ristampa presente fu compiuta principalmente sul testo più curato del Pasquali; ma reca in nota le varianti delle prime lezioni.
- ↑ La presente lettera di dedica fu stampata la prima volta l’anno 1733, nel t. II dell’ed. Paperini di Firenze.
- ↑ Alludasi alla pref. del Teatro Italiano, Verona, 1723.
- ↑ Si allude manifestamente al p. Daniele Concina e all’opera De spectaculis theatralibus etc, Roma, 1753: contro la quale insorse il venerando Maffei (De’ teatri antichi e moderni, Verona, 1753), e scriveva fin dal 7 maggio di quell’anno al Goldoni: «Le confido che ho fatto una solenne risposta al Concina ecc.» (v. prefaz. della Sposa persiana).
- ↑ Nell’ed. Pap. c’è solamente: tutte quelle dei moderni?
- ↑ Pap. ha solo: delle Tragedie.
- ↑ Pap.: ne ho.
- ↑ Alludesi alla prefazione stampata in testa all’ed. Bettinelli di Venezia, ripetuta nel t. I dell’ed. di Firenze.
- ↑ A. III, sc. 2: ed. Bettinelli.
- ↑ Pap.: anche talor mal dipinto, sceneggiate senza artifizio, e con sentimenti che certamente non hanno quella sublimità che in molte altre s’ammira, eppure ecc.
- ↑ Questa prefazione fu stampata la prima volta l’anno 1762, nel t. III dell’ed. Pasquali di Venezia. Altrimenti leggevasi nel t. II dell’ed. Paperini di Firenze, come si vede nell’Appendice.
- ↑ Così nel testo; e più sotto: Barons.
- ↑ Alludesi al noto libello intitolato La fameuse comédienne etc. (Francfort, 1688).
- ↑ Nelle edd. Bettinelli, Paperini ecc.: Guerrina.
- ↑ Bettin., Paper, ecc. aggiungono: amante riamata di Moliere.
- ↑ Bett., Pap. ecc. aggiungono: ospite.
- ↑ Bett.: Curlone.
- ↑ Bett. aggiunge: di Capel.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: Conte Frezza, critico ignorante.
- ↑ Bett. e Pap.: mi diè.
- ↑ Bett. e Pap.: E ben, più viverete, se avrete più ragione.
- ↑ Bett. e Pap.: mi fa allegria?
- ↑ Bett. e Pap.: E come!
- ↑ Bett. e Pap.: fa a voi malinconia.
- ↑ Bett.: meschiate.
- ↑ Bett.: conosce.
- ↑ Bett. e Pap.: Oibò.
- ↑ Bett. e Pap.: a te.
- ↑ Bett. e Pap.: Già son.
- ↑ Bett. e Pap.: che sei.
- ↑ Bett. e Pap.: dove ten vai.
- ↑ Nelle edd. Belt., Pap. ecc. chiamasi Guerrina.
- ↑ Bett. e Pap.: oh fortunato lui!
- ↑ Bett. e Pap.: Datemi quella cosa che chiamasi l’anello.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: Per cui la poverina Guerrina e sventurata.
- ↑ Bett.: Lasciar non son sì pazzo il vitel per il bue.
- ↑ Bett.: A nascer.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: Sarete la mia sposa, cara, datevi pace.
- ↑ Bett.: Ma piano, che in segreto.
- ↑ Bett.: Facevamo
- ↑ Bett. e Pap.: trovate di studiare — La Commedia sospesa, che più non s’ha da fare?
- ↑ Nell’ed. Bett. è unita con la scena precedente.
- ↑ Sc. IV nell’ed. Bett.
- ↑ Bett. e Pap.: Adorato Valerio!
- ↑ Nell’ed. Bett. è unita alla scena precedente.
- ↑ Segue nelle edd. Bett. e Pap.: Cantato hanno il trionfo sinor le genti strambe, — Ora si cacceranno la coda fra le gambe.
- ↑ Così in tutte le edd.
- ↑ Bett. e Pap.: fe'.
- ↑ Bett. e Pap.: la.
- ↑ Bett.: spiacere.
- ↑ Nell’ed. Bett. è chiamato Curlone.
- ↑ Bett. e Pap., qui e sotto: due.
- ↑ Bett. e Pap.: sarete con il tempo.
- ↑ Bett.: non può.
- ↑ Bett. e Pap.: quest’importuno zelo.
- ↑ Bett.: Oh dei!
- ↑ Bett.: Mi sentiria; Pap.: L’ucciderei.
- ↑ Nell’ed. Bett. è unita alla scena precedente.
- ↑ Bett e Pap.: Ah figlia malandrina!
- ↑ Qui comincia nell’ed. Bett. la sc. IV.
- ↑ Bett.: dei scherzi.
- ↑ Sc. V nell’ed. Bett.
- ↑ Bett. e Pap.: voi vi.
- ↑ Sc. VI dell’ed. Bett.
- ↑ Continua la scena VII nell’ed. Bett.
- ↑ Bett. e Pap.: Che diamine ha Guerrina?
- ↑ Bett. e Pap.: sarà.
- ↑ Bett.: O vuò saper il vero.
- ↑ Continua nell’ed. Bett. la sc. VI.
- ↑ Bett.: Come? perchè? Vuon farmi ecc.
- ↑ Sc. VII nell’ed. Bett.
- ↑ Bett.: che soffririano il danno.
- ↑ Ciò che segue, si trova nelle principali edizioni (Bett., Pap., Zatta ecc.), manca nel Pasquali.
- ↑ Qui comincia nell'ed. Bett. la sc. VIII.
- ↑ Bett.: Oh Dio!
- ↑ Bett.: E se piacere.
- ↑ Nelle edd. Bett., Paper. ecc. precedono i seguenti versi: Dorme Leandro ancora. È cotto il poverino. — Oh vizio vergognoso è pur quello del vino. — Per legge d’amicizia lo soffro e lo riprendo: — Ambi siam stati insieme scolari di Gassendo. — Oh mal spesi sudori d’un uomo senza pari! — Ha fatto veramente due celebri scolari! — Quello i suoi studi impiega in crapulare, in bere, — Ed io mi struggo in questo difficile mestiere.
- ↑ Bett.: Mi recherà l’amico ecc.
- ↑ Bett. e Pap.: «...alla Guerrina? - Mol. Dice che di rapirla Moliere a lei destina».
- ↑ Bett.: che star gli de’ sul cuore.
- ↑ Bett.: capigliatura.
- ↑ Qui comincia nell’ed. Bett. la sc. II.
- ↑ Nelle edd. Bett., Pap. ecc. è chiamato Conte Frezza.
- ↑ Bett. e Pap.: Valerio, siete voi ecc.
- ↑ Bett. e Pap.: doppio.
- ↑ Nell’ed. Bett. è unita alla scena precedente.
- ↑ Sc. V nell’ed. Bett.
- ↑ Bett.: a trattar meglio cogli ecc.
- ↑ Bett.: Del prossimo l’amore in voi non opra niente?
- ↑ Bett.: siede alquanto discosta.
- ↑ Bett.: e lo pone sul pomo ecc.
- ↑ Bett. e Pap.: in un ripostiglio.
- ↑ Bett.: apre il ripostiglio, e si sente battere.
- ↑ Bett. e Pap.: Io crepo.
- ↑ Sc. VI nell’ed. Bett.
- ↑ Nell'ed. Bett. è unita alla scena precedente.
- ↑ Sc. VII nell’ed. Bett.
- ↑ Segue nelle edd. Bett., Pap. ecc.: L’ora si va accostando d’andarsene al teatro, - Son dopo il mezzogiorno vicine le ore quattro. - La legge a voi è nota di quel che a Francia impera: - Ei vuol che la commedia finisca innanzi sera. - Vedete se far ecc.
- ↑ Sc. VIII nell’ed. Bett.
- ↑ Bett., Pap. ecc. «...e meco vien Guerrina, - Per evitar la vostra e la comun rovina».
- ↑ Nell’ed. Bett. è unita alla scena precedente.
- ↑ Comincia nell’ed. Bett. la sc. IX.
- ↑ Bett.: Oh Dio!
- ↑ Bett. e Pap.: sarete.
- ↑ Sc. X nell'ed. Bett.
- ↑ Bett.: godere.
- ↑ Bett.: Tre ore.
- ↑ Bett.: il manto ed il ecc.
- ↑ Segue nelle edd. Bett., Paper, ecc.: «Pirl. Udito ho nella via, contigua alla muraglia, - Gridare a tutto fiato Pirlon dalla canaglia. - For. Oibò, saran fantasmi. Presto, vi dico, andate. - Pirl. Oimè! Sì bruscamente, Foresta, mi scacciate? - For. Uscite, uscite tosto ecc.».
- ↑ Bett., Pap. ecc.: Sentii gridar Pirlone.
- ↑ (I) Segue nelle edd Bell., Pap. ecc.: «...celatevi, il concedo; - Ma poi le trenta lire? Pirl. Le avrete. (Non lo credo). - For. Vengono le padrone. Pirl. Oh cieli! Oh me tapino! - For. Chiudetevi là dentro. Pirl. Andrò nello stanzino, entra nella camera di prima».
- ↑ Bett. e Pap.: Vai, Vai, studiati pure.
- ↑ Segue nelle edd. Bett., Pap. ecc.: «For. Andiamo. (E il bacchettone là dentro se ne stia, - Coi topi e con i ragni in buona compagnia)».
- ↑ Bett. e Pap.: Restar, fin che ritorna Molier, voglio qui sola.
- ↑ Bett.: andrò con essa meco.
- ↑ Bett. e Pap.: Ah, trattener non posso più nelle fibre il caldo.
- ↑ Bett. e Pap.: No, non sarà. M’eleggo d’andar prima in rovina.
- ↑ Segue nelle edd. Bett. e Pap.: «Mol. Il Conte ch’è ignorante, segue il costume antico. - Val. Disse Leandro anch’esso, il vostro fido amico: - Sunt mala mixta bonis, sunt bona mixta malis. Mol. Qualis est ille mane, post prandium non est talis: - lo dissi già in volgare, lo dico ora in latino. - Tre sono i peggior vizi: le donne, il giuoco, il vino. - Per donna anch’io languisco, ma non è amor vizioso; - È amor che vien dal cielo quello di sposa e sposo. Ma non vorrei... Lasciate ecc.».
- ↑ Bett. e Pap.: è a letto la meschina.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: Prese arrabbiata il lume, - E andar volle digiuna a riveder le piume.
- ↑ ett., Pap. ecc. aggiungono; «For. Signor, sarete stanco; recatevi a dormire. - (Mi stanno di Pirlone sul cuor le trenta lire), via». (4) Nell’ed. Bett. è unita alla precedente.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: «... in cui ragion disonna, - La gioia o lo scontento solo ricerchi in donna?»
- ↑ Comincia la sc. VIII nell’ed. Bett.
- ↑ Bett.: blandire a noi.
- ↑ Bett. e Pap.: con il bicchiere.
- ↑ Bett.: ai sdegni e ecc.
- ↑ Bett.: Oh Dei!
- ↑ Bett. e Pap.: indegna.
- ↑ Bett.: Ed assalir m’intesi.
- ↑ Bett.: domane levar.
- ↑ Bett. e Pap.: coi salti.
- ↑ Bett. e Pap.: Guerrina, oh Dio.
- ↑ Bett. e Pap.: Se tal divengo adesso.
- ↑ Bett.: Ridicola un po’ troppo riusciria lor ecc.
- ↑ Accenna lo stanzino dov’era stato la prima volta. 1
- ↑ Non si trova questa nota nelle edd. Bett. e Pap.
- ↑ Zatta: strepiti, gridi.
- ↑ Segue nelle edd. Bett., Pap. ecc.: «Mol. La madre ci ha scoperti. a Guerrina. Guerr. Ebben, che potrà dire? - For. (Pirlone è uscito fuori? Addio le trenta lire). parte.»
- ↑ Bett. e Pap.: Perfida, indegna figlia, sugli occhi miei fuggita?
- ↑ Bett. e Pap.; rapita.
- ↑ Bett.: Ei parte.
- ↑ Bett. e Pap.: e voi, suocera, inchina.
- ↑ Bett.: Dove rivolga.
- ↑ Questa prefazione fu stampata l’anno 1753, nel t. II dell’ed. Paperini di Firenze.
- ↑ Alludesi all’ed. Bettinelli.