Catullo e Lesbia/II. La Vita di Catullo
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II.
LA VITA DI CATULLO.
I.
Quando Catullo andò a Roma, egli non aveva ancor toccati i venti anni.1 I cheti silenzi della sua villa di Sirmione, onorata più volte dalla presenza di Cesare;2 gli studii modesti ed oscuri, i triviali amori di un giorno,3 la vita tranquilla e ristretta della sua Verona non appagavano più l’anima sua irrequieta ed ardente. Il suo cuore avea bisogno di maggiori emozioni, il suo ingegno di un’aria più vasta, la sua vita di più splendore. Chi vuol cercare la ragione storica che mosse il poeta ad abbandonare la patria e la famiglia,4 mostra di non aver mai provata quella smania, quella febbre irresistibile dei diciott’anni, che ci spinge a lasciare le cose più caramente dilette, per correre in traccia a certe fuggitive fantasme, che si coronano di rose, ci porgono il lembo delle loro candide vesti, perchè si possa, aggrappati a loro, turbinare nel vuoto misterioso dell’esistenza, sognar fiori e sorrisi e corone di stelle, quando non abbiamo altro d’intorno che tenebre dolorose e triboli avvelenati. Fu questa smania indefinita e il desiderio di compire i suoi studii e di completare il suo cuore, che spinse il giovane Valerio a recarsi a Roma.
Gittate ad un tratto ed a quell’età in quello splendido vortice di vizi, di grandezza, di seduzioni, fra quel vertiginoso agitamento d’uomini e di cose, in cui si confondevano in un fragore inebriante i trionfi, le sedizioni, i tumulti, le pazze grida d’una folla scioperata e venale e il gemito prolungato della miseria, il baccanale del vizio e la bestemmia della virtù; inesperto di tutte cose del mondo, con l’anima riboccante di carmi e di giovinezza, l’ingegno nudrito di forti studii, lo scrigno ben fornito di sesterzi, egli non dubitò un istante di tuffarsi a capo fitto nella vita, con la sprezzante baldanza d’un giovane nuotatore; bevere a larghi sorsi il piacere, non pensando neppure che potrebbe un giorno o l’altro restarne soffocato. Che ne avvenne? Domandiamolo a tutti quei giovani d’ingegno, che abituati a viver più tempo dentro alle primaverili regioni della fantasia, credono conoscere la vita e la società, aver la forza di padroneggiare le impressioni, combatter l’ire manifeste degli uomini, scoprire le arti insidiose dei vili, e con la sicurezza di queste superbe illusioni si lanciano nella società, come nel proprio elemento.
II.
Certo, come tutta quella serie di doveri e diritti, che costituiscono l’umana personalità, non può altrove esplicarsi che nello stato sociale, così la società non può non essere lo stato naturale e fisiologico dell'arte. La giovinezza degli artisti non assume però in tutti il medesimo aspetto; non presenta i fenomeni istessi.
Vi sono taluni, e son forse i più, che lasciato appena il roseo limitare del loro universo incantato, trovandosi improvvisamente di fronte al mondo reale, non possono vincere un certo subitaneo capriccio di ribrezzo e di paura. Sentono che questa nuda e rigida realtà gela ed isterilisce tutto quello che tocca, tarpa le ali alle più leggiadre ispirazioni, impiomba la fantasia, incallisce il cuore, cinge di spine e d’indifferenza le sorridenti illusioni d’un’anima vergine e delicata; si ritraggono però dentro di sè, come la sensitiva; si fanno della società un deserto; vivono in essa come piante esotiche e malaticce; diventano odiatori degli uomini prima d’averli conosciuti; dispregiano la vita prima d’avere sperimentato un dolore e una gioia reale. A sedici anni ci è spesso in noi qualche cosa di Robinson Crusoè; Werther ed Ortis non furono scritti per nulla. Aggiungete a questo la conoscenza della propria condizione sociale; la necessità spesso di lavorare per guadagnar di che vivere; una più o meno durezza della patria potestà; uno sguardo, il primo e forse il più insignificante, d’una giovinetta qualunque; ed ecco un mondo di ragioni per citare il famoso passo di Giobbe: homo natus de muliere; renderci simpatico Young, il gufo dei poeti; scrivere la prima elegia sacramentale col sacramentale titolo di Sospiro dell’anima, e con una serqua di versi del Manfredo o del Faust a epigrafe; ecco infine tante buone ragioni per andar negletti nel vestire; sdraiarci sull’erba dei prati con un libro più o meno sudicio sotto gli occhi; farci tentare il primo suicidio, che non succede poi quasi mai, non già per difetto di coraggio e di volontà, s’intende, ma per una funesta ed irresistibile fatalità: la fatalità c’entra sempre a qualcosa: è un buco di cuffia, che fa spesso comodo.
A sentirci, a quell’età si dovrebbe tutti esser belli, sani, robusti, serviti da quattro paggi in livrea, poter sciupare centomila lire all’anno, girare il mondo da un capo all’altro in cerca d’una bella Dulcinea per dirle: io t’amo, e morirle fra le braccia. Oh! morire in un bacio! Qual poetica morte!
A questa classe di giovani, che soccombono spesso a codeste impressioni, fa riscontro quell’altra, ch’io chiamerei il semenzaio degli uomini serii. Costoro, dotati dalla buona natura di anima callosa e di nervi ricoperti, accorgendosi di buon’ora che la società ha pure le sue grandi attrattive con le sue brave cifre e le sue donne belle, abbandonano di buon grado i loro sogni giovanili, se pur n’ebbero uno; si danno in braccio alla buona ventura, e campano, come va detto, alla men peggio. L’arte del saper vivere non ha a esser poi così difficile, come si crede: veggiamo tutto dì, che coloro che la sanno son sempre i più: non ci vuol dunque nè molto cuore nè parecchio ingegno, e certo assai men del primo che del secondo.
Costoro, è facile indovinarlo, riusciranno agrimensori, speziali, avvocati e che so io; prenderanno la laurea secondo la legge; avranno docile la fortuna; torranno una o più mogli (stava per dir doti) secondo la volontà dei genitori e del buon Dio; moriranno a casa propria a settanta o novant'anni, dopo d’aver preso il santo viatico, e raccomandato all'ultima moglie di non passare a seconde nozze: O terque, quaterque beati!
Fra queste due schiere d’ingegni, noi troviamo una strenua, benchè rara, comitiva di generosi, che senza abbandonare le dolci speranze e i dorati inganni della prima età della vita, nè abborrire assolutamente dalla società, non vogliono prima acquetarsi di aver messo in opera tutte le forze dell’anima e dell’ingegno per trovare una possibile armonia fra i liberi entusiasmi dello spirito e le rigide misure della realtà.
Hanno di buon’ora conosciuto, che l’ideale dei nostri sedici anni, benchè una luminosa e forse la più bella fase dell’anima, non costituisce pure tutta la nostra esistenza; che la società non è poi così cattiva e perversa quale ce la siamo immaginata prima di conoscerla, o quale ce l’hanno descritta certi scrittori; che in mezzo agli errori, ai delitti, alla miseria, guizza il raggio dell’onore, della bellezza, della verità; che il voler chiudere l’arte nel mondo creato dalla nostra fantasia puerile, segregarla dagli uomini e dalla vita è spediente di retori e paura d’anime deboli; che l’ideale insomma non è tutta l’arte, come il reale non è tutta la vita. Costoro costituiscono la classe più valorosa e più nobile degli artisti, i veri apostoli della bellezza, il sacerdozio militante dell’arte.
III.
Catullo non appartiene a nessuna di queste tre classi descritte. La vita della gran capitale, a prima vista, l’inebriò. Non avea mai tanto preso sul serio l’arte sua da stimarla una missione; non facea tanto caso della vita da credere che valesse la pena di prolungarla a prezzo di privazioni e di sagrificii; l’arte e la vita erano per lui una cosa sola: un’ebrezza.
Le amicizie più o meno illustri non gli mancarono. Manlio, a cui era stato raccomandato, ebbe cura di presentarlo alla gran società; il poeta vi entrò come a casa sua.5 Cicerone lo protesse e lo amò, e fu poi ricambiato da versi pieni di modestia e di venustà,6 ch’ebbero a riuscire assai grati a quel vanissimo ed eloquentissimo di tutti i Romani, che scriveva un poema per celebrare le sue gesta. Fu intimo di Licinio Calvo7 e di Cinna,8 che la somiglianza degli studii e dei costumi gli rese tosto familiari; amico di C. Rufo,9 di Verannio,10 di Fabullo,11 di Alfeno,12 parte dei quali di lì a poco gli voltaron faccia; fu tenuto in pregio da Cornelio Nepote, che gli diede pubblica testimonianza di stima, nominandolo con onore nelle sue Cronache; da Memmio pretore, che professava la dottrina d’Epicuro, a cui era pur devoto Catullo, e avea meritata la dedica del gran poema di Lucrezio; ammesso alla mensa di Cesare, che egli doveva pungere più tardi con gli epigrammi più sanguinosi; accolto nelle primarie famiglie, circondato d’ammiratori, di parassiti, di tutto quello splendore che abbaglia i giovani patrizi, di quel fumo che monta alla testa e fa venir la vertigine.
Ciò nonostante ei non tralascia i suoi cari studii; le piacevoli sensazioni, che gli procacciava codesta vita, non erano tali da ingombrargli l’ingegno ed occupargli il cuore. Scrive qualche verso d’occasione,13 si esercita sui greci, compone il famoso poemetto sulle Nozze di Teti e Peleo,14 l’aureo Carme nuziale,15 il secolare a Diana, imita o traduce l’Ati e Berecintia; ma in mezzo a codeste occupazioni l’ anima sua rimaneva disoccupata; non avea presa ancora una vera passione.
IV.
la frequente |
Le sue viscere si conturbarono; l’abbracciò tutta in un momento, con uno sguardo; osservò tutto, ogni menomo particolare della persona, dell’abbigliamento di lei: la leggerezza del portamento, la splendida bianchezza del pallio; i calzaretti dorati, lo scricchiare dei passi, ogni cosa; gli parve che
Amore, |
la vide come dentro un nembo di luce, l’anima sua ne fu abbacinata, assorbita.
Questa donna era Clodia, la sposa di Metello Celere. Da ragazza avea fatto all’amore col fratello;18 fu in voce di poi d’avere avvelenato il marito.19 L’anima di Catullo avea proprio trovata la sua metà! Cara sempre quella teoria di Platone!
Clodia, per altro, era adorna di splendido ingegno, educata alle lettere, pizzicava per sino di poesia; avea preso marito da poco tempo: cose tutte da far venire l’acquolina in bocca a chiunque, da far cascare più facilmente i merlotti. Una donna bella ed istruita ha fatta la corte per due; l’istruzione, che nelle donne si muta facilmente in saccenteria, se è insopportabile in una moglie, riesce piacevole in un’amante: ci si sente più lusingati, il nostro amor proprio ne gode; vincere una donna d’ingegno, riuscire a farci amare da una donnetta, che discute di poesia e fa versi, fossero anche zoppi, è una doppia vittoria. Aggiungete a questi pregi un marito, e avrete la fenice delle conquiste. Agli occhi dei don Giovanni, un marito è un pregio di più; un’altra difficoltà da superare; la pappa è fatta per chi non ha denti; e i veri cacciatori non si contentano di stanare una lepre; vanno alla caccia del cervo. L’amore d’altronde è come un torrente: ogni intoppo che incontra, gonfia ed infuria di più; il marito è un intoppo; un tronco che si frappone alla corrente.
Il giovane Valerio sentì senza dubbio codeste cose
e a pari |
Quando ci appare la prima volta agli sguardi una sognata bellezza di donna, il nostro cuore resta profondamente colpito come i nostri occhi, la nostra mente si sconvolge, si smarrisce in mezzo ad una luce infinita. Il desiderio di possederla, se pur nasce in quel momento, rimane subito soffocato dal pensiero della nostra piccolezza. La beltà d’una donna è come uno specchio; ci si vede. Vedersi in uno specchio quando l’anima nostra è sconvolta, i nostri sensi eccitati, stranamente cangiato il nostro aspetto, è ridicolo. Dinanzi ad una grande bellezza ci si sente piccini, poveri, brutti assai più che non siamo. È un accesso subitaneo di modestia, a cui nessuno si può sottrarre, e di cui bisogna tener conto ad onore e gloria del sesso forte. Dico nessuno, perchè escludo dal numero tutti quei grulli Narcisi securi e soddisfatti di sè, che nulla vedono, sentono ed apprezzano al di fuori della propria beltà inamidata: anime di tacchini ch’io manderei a far la rota in pollaio.
Dopo questa più o men durevole depressione, l’amor proprio ripiglia il sopravvento, il coraggio rinasce, il desiderio s’accende; la donna che ci parve da prima un raggio di luce, impossibile a imprigionare con le nostre braccia, se non ci si muta subito in fiore, che ognuno può cogliere ed odorare, ci appare almeno come la lazzaruola descritta da Saffo:
In cima al ramo, su l’estrema punta |
V.
C’era un’altra circostanza a favor di Catullo: Clodia aveva trentatrè anni, quando il nostro poeta ne contava appena ventisei.22 Nelle donne di quella risma l’età dei trent’anni principia ad esser formidabile. Quel non so che di buono, che c’è naturalmente nell’anima di tutte le donne, quel sesto senso, direi, quel tatto dell’anima, quell’istintiva virtù di repulsione, che le rende in certi casi più accorte, più sagge, più virtuose di noi, a forza di mutare amanti e capricci s’è venuto mano mano perdendo; non si crede più ad un amore che ad uno spasso; l’anima ha bell’è fatto il callo, e per procacciarle un solletico bisogna ricorrere agli eccitanti; far proprio come i vecchi bevitori, che ricorrono all’acquavite e all’assenzio, quando il vino non basta più a dar piacere al loro palato. E, a farla apposta, quando più l’appetito cresce, tanto più l’avventure doventano rare; il terribile corteo di capelli bianchi e di grinze comincia a sfidare i dedalei secreti della teletta; simile agli spettri che appariscono in sogno a Riccardo terzo, spaventa le loro veglie, turba i loro sonni; esse si abbrancano disperatamente all’ultimo lembo della giovinezza che fugge, come il naufrago all’ultima doga di botte che galleggia sulle acque tempestose.
L’età dei ventisei anni, al contrario, è la più adatta in un uomo a prendere una forte e indomabile passione. Fino ai venti anni si suol fare all’amore, così per dire, o per far le viste; un po’ per istinto, un po’ per vanità. L’anima umana è allora in istato di nebulosa (mi si permetta la frase): se qualcosa n’esce, è un amore che odora di Petrarca ad un miglio. Dopo i vent’anni però il dominio delle passioni potrà essere in noi più ordinato, più temperato, men dispotico e tempestoso di prima, ma appunto per questo le nostre passioni diventano più tenaci, più ostinate, più ferme. In un amore non c’è è cosa più fiera che il sentirsi padrone di sè: si fanno allora le famose risoluzioni e le più grandi corbellerie; la sicurezza d’esser liberi ci fa sfidare la servitù: povere farfalle, che fidando nelle picciole aluzze, giriamo e rigiriamo attorno al lume, finchè ci lasciamo la vita; Diogeni in ventiquattresimo, che quando più crediamo d’aver il coraggio di trattare sgarbatamente Alessandro, non abbiamo la forza di resistere al primo sguardo di due occhietti maliziosi e al dolce sorriso d’una furba conquistatrice di cuori.
Quando l’amicizia di Manlio venne in aiuto del povero innamorato, porgendogli occasione di vedere ed avvicinare la donna amata, che non avea da canto suo trascurato d’adocchiare il giovane provinciale, e scriverne il nome nel libro dei suoi capricci, a lui parve toccare il cielo col dito. La prima parola dell’amor suo fu un complimento, una galanterìa: non potea cominciar meglio per entrar nelle grazie di quella donna. Principia dal lodarle il passerino, il bel passerino, che va a prender l’imbeccata dalle manine di lei, che le si va a nascondere in seno, che le pizzica il dito, che le saltella d’intorno, che le fa tante birichinate.23 Le donne galanti hanno sempre qualcuno di codesti capricci: un passerotto, una tortora, un cagnolino. E non senza ragione: quelle povere bestioline son chiamate a fare un gran brutto mestiere senza saperlo; servono di pretesto. Come si fa a dire a una donna che si vede la prima volta: io vi amo, senza lasciare il nostro lato debole troppo scoperto? Una di quelle bestioline è lì che ci dà l’addentellato al discorso: la sua padroncina ha pensato anche a codesto. Povero passerino! e come se avesse saputo che il suo ufficio fosse finito, pochi giorni dopo se ne morì; e il suo poeta ne canta l’esequie con la stessa serietà di Mosco, che intuona l’idillio funebre di Bione; maledice all’Orco, che divora spietatamente ogni cosa bella, e si dà alla disperazione, pensando che gli occhiuzzi languidi della sua fanciulla doventeranno tumidi e rossi dal tanto piangere.24
La dichiarazione è già bella e fatta; Clodia non si lascia pregare due volte: quel giovane provinciale che scrive di bei carmi, che fa parlar di sè, ha un non so che d’ingenuo e di bizzarro nell’aspetto, deve avere i suoi estri, le sue bizze di fanciullo, i suoi matti trasporti; perchè non prenderlo all’amo? tanto a titolo di curiosità. E gli aprì le braccia, e gli prodigò in un punto le più secrete dolcezze dell’amor suo. Bisognava però salvare le apparenze; deludere le vigilanze del marito, che non dovea poi essere un Argo;25 i poeti hanno a segretario il pubblico e il cuore sulle labbra: Clodia doventò Lesbia; il nome dell’infelice fanciulla, che morì senza amore, servì di maschera a colei, che dovea esaurire le forze e i quattrini ai magnanimi nipoti di Remo!26 Era un’acerba ironìa!
VI.
Ma dopo tanti baci, più numerosi delle arene di Libia e dei furtivi amori, a cui sono spettatrici le stelle,27dopo le promesse infinite28 e il proposito di non dare ascolto alle rampogne dei vecchi,29 di abbandonarsi tutti alla divina voluttà dell’amore, i primi sospetti balenano nell'anima del poeta. La discordia di Lesbia col marito avvenuta in quel torno30 giovò alquanto a rassicurarlo; le nozze del suo dilettissimo Manlio lo distolsero un poco,31 la morte del caro fratello, ch’egli pianse amarissimamente, e non lasciò mai di ricordare, lo seppellì nel dolore. Le sventure sono assai grandi maestre; ci fanno aprire gli occhi alla verità. Catullo si accorse finalmente di non aver posto bene il suo affetto. Lesbia s’era probabilmente annoiata di lui; non poteva non annoiarsi d’una passione, che avea la pretensione di assorbirla, e l’apparenza di molta durata.
Si trovavano d’accordo senza saperlo; e mentre il poeta s’apparecchia a farla finita, e dirige quei mirabili versi a sè stesso, in cui si propone di resistere alle seduzioni d’una donna, che non meritava il sagrificio della propria felicità,32 ella, dal canto suo, pensa a smetter l’abito di quell’amore per indossarne un altro.
E siccome, quando siamo innamorati, crediamo in buona fede che il mondo abbia a partecipare alle nostre gioie, ai nostri dolori; ci pare impossibile che la terra non si vesta di fiori in decembre, per la gran ragione che l’anima nostra è in festa, e che il sole non si oscuri al meriggio, quando abbiamo il cuore ghiacciato da un disinganno, così il povero Catullo crede fermamente, che, mancato lui, il mondo sarebbe finito per Lesbia; è sicuro che nessuno l’andrà più a cercare; ch’ella non avrà più a chi mostrare le sue bellezze, concedere i suoi baci, i suoi morsi, i trasporti cocenti dell’amor suo; presènte la disperazione di lei, e se ne compiace, e ne gode.
Fatto il proposito dì tenersi fermo, restava a fare un’altra piccola cosa: adempire il proponimento.
L’anima di Catullo non era l’anima di Bruto; di virile avea poco di più che la toga. Non era però di tal natura da rassegnarsi facilmente all’obbrobrio; fino a questo punto gl’istinti buoni del suo cuore sono tanti e così gagliardi, quanto i cattivi. Da un canto l’amore, dall’altro l’onore: la lotta non può non esser terribile. Come non dispregiar una donna che vi ama per capriccio, che s’annoia poco dopo di voi, che abbandona il marito33 e l’amante per correre più libera la via dei piaceri e della corruzione? Ma correrà ella in braccio d’un altro? E c’è un uomo al mondo che abbia il coraggio di usurpare la mia felicità? E potrò soffrire in pace i suoi torti? Correre a lei, mentre io so che mi disprezza? — Un carattere risoluto avrebbe dato ascolto alla ragione, e addio.
Catullo rimane sempre in fra due: odia ed ama al tempo istesso, e non si sa render conto di tanta dolorosa contraddizione34 Odia? si; perch’ella è stata leggiera e vile,35 mentre egli l’ha amata,
non come il vulgo istabile, |
l’ha amata al disopra d’ogni altra donna, con una fedeltà superiore ad ogni altra.37 Ama? cioè, bisogna distinguere: altro è amare, altro è voler bene;38 nel voler bene c’è la stima, e stima di Clodia il povero Catullo non poteva averne; nell’amore, com’ei l’intende, c’è la memoria dei passati piaceri e la speranza di riaverli; c’è il brivido della voluttà, non la sicura fede dell’anima; c’è, insomma, il senso, non il sentimento. Quando si ama, si riesce perfino ad essere sofisti. Si vuole una cosa, che minaccia la nostra pace, fa torto alla nostra dignità? Ecco l’amore si asside in cattedra, suggerisce mille ripieghi, inventa sottigliezze e cavilli; fa cento distinzioni scolastiche di cose, di sentimenti, di parole, e finisce col persuaderti, che ciò ch’ei vuole è giusto, è santo, è utile. Catullo s’acqueta un momento su questo; la sua dignità si tiene soddisfatta di questa sinonimia; crede d’aver posto in salvo l’onore, e il desiderio di riaver quella donna gli si fa sempre più vivo; non dissimula, che mentre dice male di lei, non può fare a meno di amarla,39 si burla del marito che gode che ella dica male del poeta, quando il dir male vuol dire: ricordare; e l’essere irata è segno ch’ella è tutt’ora nel fuoco.40 Perchè non gettarsi addirittura nelle sue braccia? Si fa presto a dirlo. E non c’era di mezzo un fortunato rivale? Chi? Forse Clodio,41 forse Gellio,42 o tutti e due insieme. Se la storia dovesse registrare gli amanti di tutte le cortigiane famose, gran parte delle sue pagine sarebbe un nudo elenco di nomi. Ma Gellio, il turpe Gellio, di cui
clamant Victoris rupta miselli |
avrà la soddisfazione di vedere il nostro povero Catullo umiliato ai piedi di quella donna, ch’egli tutta si gode, egli, morbido Batillo, che non è degno neppur d’uno sguardo? Non mai. Il dispetto, la gelosia, la rabbia s’impadroniscono dell’anima del poeta; gliela straziano crudelmente, gliela riempiono di mortale veleno. Egli vuol farla a ogni costo finita; cerca una parola per ridomandarle i dolci carmi che avea scritti per lei, le dolci lettere che le aveva mandate; se non può riavere la pace, riabbia almeno quei testimoni della sua debolezza. La sua parola doventa un pugnale; ma non gli basta; vuol ferirla a morte non solo, vuole anche coprirla di fango:
Qua, qua, terribili giambi, accorrete, |
VII.
Questa tremenda sfuriata ebbe un effetto insperato. Clodia ebbe paura. Una cortigiana volgare si sarebbe appigliata al più triste partito: avrebbe restituite le lettere, pagato lo sdegno col disprezzo. Il giambo di Catullo l’avrebbe perseguitata a morte. La politica di Clodia era al disopra d’ogni misera rappresaglia; il suo nome era lì lì per divenire la favola delle piazze; bisognava far tacere quel matto poeta; a ogni costo. Non c’era altra via, che far le viste di essersi pentita, perdonargli le ingiurie e riaprirgli le braccia: conosceva troppo il cuore del povero Valerio per disperare del buon successo di codesto stratagemma. Si diede subito all’opera; si valse degli officii di taluni amici comuni, probabilmente di Alfeno,45 e la riconciliazione fu fatta. All’inesperto provinciale non parve proprio vero ch’ella non avesse fatto caso dei sanguinosi vituperi, che le aveva scagliati sulla faccia, e di cui s’era certamente e fin dal primo istante pentito; gli sembrò un tratto di generosità e una vera prova d’amore ciò che non era altro che un tornaconto e un tranello. Si abbandonò nelle braccia di lei nell’effusione della riconoscenza, con l’entusiasmo dell’illusione; tirò un velo sui torti ricevuti, dimenticò tutti i passati dolori; s’illuse nuovamente a tal segno da reputarsi l’uomo più felice del mondo.46
Quest’illusione però non potea lungamente durare. Catullo l’avea detto: la stima era morta; restava il senso soltanto. Ben si può nelle fiere ebbrezze della voluttà dimenticare quella parte di noi, che volgarmente chiamiamo lo spirito, ma egli è positivo, nè può revocarsi in dubbio, che la materia si stanca assai prima dell’anima; e un amore che non si purifica e rafforza nelle serene idealità del cuore, non dura, nè può durar mai lungo tempo. Dura forse un amore, dirò anzi di più, è mai possibile un amore, che si alimenti di pura idealità? I nostri poeti del Medio Evo ce ne diedero certamente parecchi esempi nei loro versi, nella lor vita non già; ma gli amori di Dante e di Petrarca, anzichè passione del cuore, erano esercitazioni della mente: Laura e Beatrice non sono donne, ma cifre. L’amore, ch’è la passione umana, non può non seguire le leggi della nostra natura; è complessivo, e consta di spirito e di materia; e chi vuol sostenere che il solo spirito basti, o è frate ipocrita, o non è uomo intero; e chi dice che la sola materia è tutto, o non ha amato giammai, in nessun modo, o ha amato alla guisa dei maiali. L’amore di Catullo adunque era rimasto come dimezzato dal momento ch’egli non poteva aver più fede nella sua donna. Il poeta fa come degli sforzi per ricomporre quest’idolo senza testa; si scaglia contro a Copone, che gli ricorda i passati dissapori,47 vuol cancellare a ogni costo dalla sua memoria le infedeltà di colei, che era stata tanto generosa da riaprirgli le braccia; ma quella gran macchia nera è sempre là, dinanzi a’suoi occhi che gl’inforsa la luce dell’amor suo, gli turba la pace e la vita. Le promesse di Lesbia non hanno più valore per lui. Quando ella, per compassione più che per altro, l’assicura
ch’altri un amplesso |
egli sorride amaramente, e risponde che tutto ciò che promette una donna s’ha a scriver nel vento e nell’onda. Ci fu un momento, che il poeta fu stanco dì questa lotta. Non avendo la forza di rinunziare per sempre a quella donna, che s’involava furtiva dalle sue braccia per correre in quelle di Rufo, che s’era innamorato di lei nell’anno e forse nei primi giorni stessi che ella avea rifatta la pace con Catullo;49 convinto ch’era impossibile che quella traviata si contentasse soltanto di lui, prese la codarda risoluzione di transigere col proprio onore, rassegnarsi alla vergogna, prendere di lei quel tanto che poteva, e non chiederle altro per non riuscirle molesto.50 L’amore trasforma; fa perdere, o acquistar tutto, secondo i casi. Dicono che Iddio fece il mondo, ma è certo che la donna fa l’anima. La donna fa ciò che vuole, e può tutto; fa d’un vile un eroe; d’un generoso un codardo; può farci abietti o sublimi con un solo bacio; può vivificare ed uccider l’anima nostra con un sospiro.
Catullo si credette più libero, più tranquillo, più padrone di sè nel disonore; si prese perfino la famosa libertà d’andare per qualche tempo a Verona. Fu allora che Manlio gli scrisse d’aver perduta la moglie; e nel domandargli un carme che lo conforti, non tralascia di rimproverarlo di avere abbandonato il campo dell’amor suo alla folla dei giovanotti eleganti, che approfittando della sua assenza andavano a scaldar le membra nel suo tiepido letto.
Il poeta, consolando l’amico del suo cuore con una bellissima epistola, ritorna col desiderio alle prime memorie dell’amor suo; con una facilità e un’arte insuperabile passa da una cosa ad un’altra, dalla sorte dell’infelice Laodamia alla morte del suo fratello diletto; dallo stile più alto e più grave al più umile e piano; confessa finalmente, che la sua donna non si appaga più di lui solo; e ch’ei sostiene
Rari e cauti i suoi furti, onde non farsi, |
e per non lasciar senza scusa cotanta vergogna, soggiunge, ch’ella infin dei conti
Da le case paterne a man condotta |
che incede |
E questo mendicar di scuse e d’esempi è prova manifesta, che il sentimento della propria dignità non era in lui morto del tutto; il suo cuore non era tanto abbietto da sdraiarsi, dimenticandosi, nel disonore. A ogni modo egli credea potersi rassegnare, essersi di già rassegnato: era appunto questo il suo inganno; conoscea male il suo cuore. Tornato a Roma s’accorge che i furti di Lesbia non sono nè così cauti nè così rari, com’egli sperava. La corruzione di quella femmina avea rotto ogni limite, calpestato ogni riguardo, vinto ogni modo, ogni freno. L’anima di Catullo riarde; l’amore, la vergogna, la compassione, la rabbia gli afferrano il cuore ad un punto. Lesbia ha perduto ogni pudore; ha la sete, l’ebbrezza, la manìa del vizio; si voltola pazzamente nel fango. Catullo perde il senno anche lui, non sa più quello che si faccia: corre ai ginocchi di Quinzio, e lo scongiura a non disputargli il cuore di colei, che gli è più cara degli occhi e della vita;52 si querela sdegnosamente di Rufo, che sulla pura
Bocca di lei biascia i suoi sozzi baci;53 |
lancia una fiera minaccia a Ravido, che ha avuto il coraggio di rubargli l’amore;54inveisce contro Alfeno,55 contro Egnazio;56 contro i turpi frequentatori d’una taverna della suburra;57 vede un rivale in ogni uomo, e si scaglia a capo giù contro a tutti: l’anima sua è feroce come quella di Tiberio; vorrebbe che tutti i suoi nemici avessero un sol cuore, perch’egli potesse straziarlo più facilmente, soffocarlo nel fango sotto le suola delle sue scarpe.
VIII.
Nelle grandi passioni, come nelle grandi malattie, arrivati ad un certo punto, la natura si ricusa d’andare più in là: il cuore umano ha le sue colonne d’Ercole; la passione è come una scala a pioli: salito l’ultimo, bisogna ridiscendere, o precipitare. Quanti di noi, e quante volte nella vita abbiamo creduto, nell’acciecamento d’una passione, non esser più per noi un aiuto, uno scampo, una via di salute qualunque? Ma la natura, che non è sempre matrigna, fa sentire ad un tratto la sua voce, reclama i suoi diritti; al parossismo febbrile della passione tien dietro come una generale prostrazione di forze e di spirito, una specie d’inerzia immemore e salutare; l’istinto della conservazione vien fuori; l’animale la vince sull’uomo. Questo momento, provvidenziale, come direbbe un credente, venne anche per il povero Catullo; la sua passione avea toccato il colmo: bisognava soccombere, o guarire. E Catullo guarì; non subitamente, nè mai forse del tutto; ma egli riacquistò in breve quel predominio di sè stesso, che aveva da tanto tempo perduto; potè misurare tutta la vergogna e l’abbiezione, in cui quella sciagurata femmina era caduta; raccapricciare ed arrossire della sua passata cecità; consolarsi del bene che avea fatto a colei, che ora lo dispregia vilmente e l’oblia, e pregare gli Dei che gli diano tanto di forza da liberarsi da quel codardo torpore, che gl’invade le fibre, e lo prostra nella miseria e nell’abbandono.58 Se gli Dei l’abbiano davvero ascoltato, noi in coscienza non possiamo asserire; certo è, che il pensiero che venne a Catullo di partire per la Bitinia insieme alla corte di Memmio, che andava in quell’anno a visitare le Province da lui amministrate, fu un pensiero molto felice e venuto proprio dal cielo. Egli l’accolse con gioia, tanto più che aveva il suo caro Cinna a compagno; e dopo aver diretto un amarissimo saluto a Furio ed Aurelio, che probabilmente gli si volevano attaccare ai panni, e bazzicavano in casa di Clodia, non senza ricordare e piangere l’ultima volta su quell’amore,
Che per colpa di lei già cadde ucciso, |
nella primavera dell’anno 697 partì dalla fatale città. I disagi del viaggio, la salute mal’andata, il desiderio di rivedere i suoi, gli fecero dopo men d’un anno sospirare il ritorno. Canta il sorriso della bella stagione,60 lascia la Bitinia, visita il sepolcro del fratello sul favoloso promontorio Reteo, dove scrive un affettuosissimo carme;61 e al rivedere la sua carissima Sirmione, e le rive dilette del Benaco egli prorompe in un grido di gioia e d’affetto;62 dedica a Castore il suo fasèlo63 e ritorna a Roma.
Bastò rivedere quei luoghi popolati di tante memorie, perchè gli prendesse di nuovo la vertigine. In mezzo a tanta folla, a tanto frastuono egli era solo; avea d’intorno il deserto. L’anima sua avea bisogno di dimenticare e di amare. Ed amò a modo suo, a mo’ dei Greci, a guisa di tutti coloro che vogliono seppellire una memoria nelle turpi ebbrezze di un’orgia, di coloro che hanno amato troppo, e non hanno per lunghi disinganni perduto ancora l’istinto d’amore.
Ma era scritto ch’egli non dovesse avere mai pace. Il dolce, il fiorente Giovenzio è per lui nuova fonte d’amarezze, di gelosie, di furori; scrive sanguinosi epigrammi contro Furio,64 contro Tallo,65 contro Aurelio;66 si scaglia addosso a Cesare e poi si riconcilia; flagella Mamurra;67 svergogna Pompeo,68 finché rovinato nell’anima, nelle sostanze, nella salute,69 dà mano alla raccolta dei suoi versi, unico tesoro che gli rimaneva di tanto amore e di tanta gioventù. Non avea che di poco passati o forse neppur toccati i trent’anni, e consunto dalle memorie e dall’infermità si moriva, lontano dagli occhi del suo vecchio padre, e senz’altra consolazione che d’aver visto pubblicato il suo libro.
Note
- ↑ Schwab, Quest. Catull., pag. 360.
- ↑ Svetonio, Jul. Caesar., 73.
- ↑ Carm. XXXII, CX e CXI.
- ↑ Boehrius, Hist. Lett. rom., I, 402, cit. Schwab, III.
- ↑ Ad Manl., Carm. LXVII.
- ↑ Ad M. Tull., Carm. L.
- ↑ Carm. XIV, LII e XCVI.
- ↑ Carm. X, CXV e CXIII.
- ↑ Carm. LIX e LXXVII.
- ↑ Carm. IX e XXVII.
- ↑ Carm. XIII.
- ↑ Carm. XXX.
- ↑ Schwab, loc. cit.
- ↑ Carm. LXIV.
- ↑ Carm. LXII.
- ↑ Carm. LXVIII.
- ↑ Ibidem.
- ↑ Cicer., pro Cælio, 46, 38.
- ↑ Carm. LXVIII.
- ↑ Ad Manl., Carm. LXVIII.
- ↑ Saffo, Framm., trad. Dall’Ongaro.
- ↑ Schwab, loc. cit.
- ↑ Carm. II.
- ↑ Carm. III.
- ↑ Carm. LXVIII, 146.
- ↑ Carm. LVIII.
- ↑ Carm. VII.
- ↑ Carm. CIX.
- ↑ Carm. V.
- ↑ Schwab, loc. cit.
- ↑ Carm. LXI.
- ↑ Carm. VIII.
- ↑ Schwab, loc. cit., IV.
- ↑ Carm. LXXXV.
- ↑ Carm. LXXII.
- ↑ Ibidem.
- ↑ Carm. LXXV.
- ↑ Ibidem.
- ↑ Carm. XCII.
- ↑ Carm. LXXXIII.
- ↑ Carm. LXXIX: Lesbius est pulcher, etc.
- ↑ Carm. LXXIV, XCVI, LXXX e LXXXVIII, e seg.
- ↑ Carm. LXXX.
- ↑ Carm. XLII.
- ↑ Carm. XXX.
- ↑ Carm. CVII.
- ↑ Carm. CIV.
- ↑ Carm. LXX.
- ↑ Schwab, loc. cit.
- ↑ LXVIII.
- ↑ Carm. LXVIII.
- ↑ Carm. LXXXII.
- ↑ Carm. LXXVII.
- ↑ Carm. XL.
- ↑ Carm. XXX.
- ↑ Carm. XXXIX.
- ↑ Carm. XXXVII.
- ↑ Carm. LXXVI.
- ↑ Carm. XI.
- ↑ Carm. XLVI.
- ↑ Carm. CI.
- ↑ Carm. XXXI.
- ↑ Carm. IV.
- ↑ Carm. XXIII e XXIV.
- ↑ Carm. XXV.
- ↑ Carm. XXI.
- ↑ Carm. LVII.
- ↑ Carm. CXIII.
- ↑ Carm. XXXVIII.