Le poesie di Catullo/62
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— Espero nasce, o giovani, sorgete
Espero, tanto sospirato, alfine
Alza i raggi all’olimpo, e delle liete
Mense ne indìce col suo lume il fine.
5Sorgete, è l’ora; omai la sposa viene;
Imeneo già si canta: «O Imene, Imene.» —
— I giovani scorgete? A lor di faccia,
Su, donzellette. Dagli oètei monti
Il forier della notte omai s’affaccia;
10Certo, vedete com’ei balzan pronti?
Nè a caso il fan: vincere a lor conviene.
“Deh t’appressa, Imeneo, t’appressa, Imene.” —
— O compagni, la palma agevolmente
Non s’otterrà. Mirate: le donzelle
15Volgono un che di meditato in mente,
E diran cose memorande e belle.
Non han pensato invan: brave davvero
Se stillato si son tanto il pensiero!
Noi l’orecchio teniam pronto e l’ingegno,
20E chi vincer dovrà, vinca a buon dritto:
Ama i travagli la vittoria. Al segno
Ora il vostro pensiere almen sia fitto.
Dan principio; rispondere conviene:
“Deh t’appressa, Imeneo, t’appressa, Imene.” —
25— Espero, e quale ha il ciel più cruda stella?
Tu dal materno sen sveller sei oso
Repugnante una figlia, e una donzella
Casta affidare a un giovane bramoso.
E qual potría recar danno maggiore
30In conquisa città crudo invasore? —
— Espero, e quale ha il cielo astro più grato?
Tu con la fiamma tua saldi gli amori,
Saldi le nozze ch’avean pria fermento
Tra di loro gli amici e i genitori,
35E poi fan piene al tuo splendor giocondo:
Ora più dolce e più felice ha il mondo? —
— . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Espero, o amiche, una di noi si tolse.
40. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
"Deh t’appressa, Imeneo, t’appressa, Imene." —
— Eppure al tuo venir veglian le scolte.
L’ombre occultano i ladri; e tu mutando,
45Espero, il nome, in sul mattino a volte
Li cogli. Ma di te si vien lagnando
Ogni fanciulla, e traditor ti chiama:
Ch’essa finga aborrir ciò che più brama? —
— Qual fior modesto in chiuse ajuole nato,
50Ignoto al gregge, dall’aratro intatto,
Carezzato dall’aure, alimentato
Dalle brine e dal Sol vivido fatto,
È di fanciulle e di garzon’ desio,
Finchè riman sul cespite natìo;
55Ma se lieve da un’unghia ei colto viene,
Nè garzone il desia nè giovinetta;
Vergin così, finchè pura si tiene,
Cara agli uomini vive, ai suoi diletta;
Me se perde il fior casto, onde si fregia,
60O donzella o garzon più non la pregia. —
— Come in brullo terren vedova vite
Non sorge mai, non di bei grappi splende,
Ma chinando al suo peso il corpo mite,
I sommi tralci al piede umile stende:
65L’arator nega ad essa ogni cultura,
Passa l’agricoltore, e lei non cura;
Ma se avvien che d’un olmo è sposa fatta,
Cara al cultore e all’arator diviene;
Vergin così, finchè rimane intatta,
70Negletta invecchia in solitarie pene;
Me se sposo conforme a tempo acquista,
Più cara è all’uomo, e al genitor men trista.
O giovinetta, con un tal marito
Tu non volere contrastar; dai tuoi
75Fosti a lui data con solenne rito:
Disubbidire ai genitor’ tu puoi?
La tua verginità, credi, o diletta,
Tua non è tutta: anche a’ parenti spetta.
Spettan due parti a quei da cui nascesti;
80Tu solo un terzo hai di sì bel tesoro;
E pugnar sola contro a due vorresti,
Che cesser con la dote i dritti loro?
La tua vita allo sposo indi appartiene.
“Deh t’appressa, Imeneo, t’appressa, Imene.” —