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la vita di catullo.

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E siccome, quando siamo innamorati, crediamo in buona fede che il mondo abbia a partecipare alle nostre gioie, ai nostri dolori; ci pare impossibile che la terra non si vesta di fiori in decembre, per la gran ragione che l’anima nostra è in festa, e che il sole non si oscuri al meriggio, quando abbiamo il cuore ghiacciato da un disinganno, così il povero Catullo crede fermamente, che, mancato lui, il mondo sarebbe finito per Lesbia; è sicuro che nessuno l’andrà più a cercare; ch’ella non avrà più a chi mostrare le sue bellezze, concedere i suoi baci, i suoi morsi, i trasporti cocenti dell’amor suo; presènte la disperazione di lei, e se ne compiace, e ne gode.

Fatto il proposito dì tenersi fermo, restava a fare un’altra piccola cosa: adempire il proponimento.

L’anima di Catullo non era l’anima di Bruto; di virile avea poco di più che la toga. Non era però di tal natura da rassegnarsi facilmente all’obbrobrio; fino a questo punto gl’istinti buoni del suo cuore sono tanti e così gagliardi, quanto i cattivi. Da un canto l’amore, dall’altro l’onore: la lotta non può non esser terribile. Come non dispregiar una donna che vi ama per capriccio, che s’annoia poco dopo di voi, che abbandona il marito1 e l’amante per correre più libera la via dei piaceri e della corruzione? Ma correrà ella in braccio d’un altro? E c’è un uomo al mondo che abbia il coraggio di usurpare la mia felicità? E potrò soffrire in pace i suoi torti? Correre a lei, mentre io so che mi disprezza? — Un carattere risoluto avrebbe dato ascolto alla ragione, e addio.

  1. Schwab, loc. cit., IV.