Catullo e Lesbia/I. I Tempi di Catullo

I. I Tempi di Catullo

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Avvertenza II. La Vita di Catullo

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I.

I TEMPI DI CATULLO.



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I.


A giudicare dall’apparenza, la repubblica romana non poteva essere nè più forte nè più temuta. Soggiogata tutta quanta la penisola italica, domata, se non vinta del tutto, la Spagna; asservita la Grecia e la Gallia transalpina; penetrata l’Africa fino in Getulia, l’Asia fino alle vallate del Fasi e alle falde meridionali del Caucaso; sottomesse la Siria, la Palestina, tutte le rive del Mediterraneo, fuorchè l’Egitto, Roma non è ancor paga di tante conquiste; ha paura, come Alessandro, che la terra sia troppo angusta alle sue vittorie; la guerra, già suo istinto, è divenuta abitudine e necessità. Giulio Cesare viene; sparge il dissidio fra’ Galli; arresta le invasioni degli Elveti; scompiglia le armi di Ariovisto; passa trionfando fra i ghiacci dei Gebenni, le selve e le paludi del Sabi, le rovine e le fiamme del Vercingetorige, non senza ardimento di afferrare, nel plenilunio, le contese sponde britanniche, sfidare le sacre falci dei druidi, calpestare i loro santuari misteriosi, addensando sul loro indomito capo assai più tremende tempeste di quelle, che le nove vergini di Sain [p. 8 modifica]sapevano acquetare e commuovere coi fragorosi tripudi e col suono spaventoso dei loro barbarici sistri.1

Lo splendore della vita militare non potea non gettare un luminoso riflesso sulla vita civile di Roma: le quaranta lumiere fiammeggianti d’intorno a Cesare nel suo più glorioso trionfo2 doveano certamente valere a qualcosa. Il popolo gongolava di gioia al magnifico spettacolo di tanti lumi, di tanti elefanti, di tante aste cariche di spoglie nemiche, di tante legioni, di tanti trofei; le tre superbe parole: veni, vidi, vici, notate in una tavoletta e portate in gran pompa dinanzi al trionfatore del Ponto, ricordavano i tre passi del Nettuno d’Omero, riproducevano con mirabile effetto la portentosa rapidità di quelle vittorie.

Fra le supplicazioni, i trionfi, i giochi e gli spettacoli d’ogni maniera si dimenticarono un tratto i recenti orrori della guerra civile, le proscrizioni di Silla, i soprusi dei nobili, la corruzione dei cavalieri, la pericolosa oppressura delle province, i fieri tentativi di Spartaco e di Catilina; si sarebbe detto, che il grido delle ottocento città conquistate da Cesare nelle Gallie assordasse, inebriando, la gran tiranna del mondo, mentre al lamento d’un milione di prigionieri si ridestavano dalla morte gli altrettanti scheletri degli uccisi,3 che, inoltrandosi a poco a poco e rinserrandosi ogni dì più intorno a lei, potevano, dopo quattro secoli, piombarle addosso, straziare il suo corpo, insultare ferocemente al suo maestoso cadavere. [p. 9 modifica]


II.


Aguzziamo un poco lo sguardo, penetriamo al di là di questo splendore, rompiamo questa portentosa vernice.

Quella furia sanguinosa, di cui s’erano valsi gli Etruri per distruggere Roma,4 si giovò Cesare per soggiogare le Gallie, si dovea servire Augusto per arrivare all’impero,5 la discordia, che disunisce gli animi e rovina gli Stati, scorre pazzamente per la città; sconvolge ogni ordine di leggi e d’idee, conturba ogni ragione di cose, suscita invidie, fomenta rivalità, infiamma odii vecchi ed ambizioni nuove, agita i forti, aizza i deboli, scatena gli ardimentosi, travaglia e corrompe tutti. Da un lato un’aristocrazia straricca, oziosa, insolente; dall’altro una plebe prosuntuosa, arrogante, venale. La proprietà concentrata in pochi, la ricchezza malamente distribuita, l’ingens cupido agros continuandi, come Livio la chiama,6 la coltura affidata agli schiavi, distruggono a poco per volta quella classe di mezzo, anello necessario a congiungere gli estremi, che aveva dato a Roma l’impero di sè stessa e del mondo. La legge agraria è sempre là, tinta del sangue dei Gracchi, minacciosa e terribile fra le due schiere, spauracchio dei ricchi, speranza dei miseri, maschera degli ambiziosi, rovina della repubblica.7 [p. 10 modifica]

Le memorande lotte fra patrizi e plebei, in cui la grandezza del fine rendea sopportabili i mezzi, tralignano in meschine guerre di brighe, d’insidie, di personalità indegne e volgari;8 il cittadino si pone in luogo dello Stato, il partito in vece della legge; licenza, non libertà; non generose battaglie di liberi, ma pettegolezzi e rappresaglie di schiavi; forza d’armi e di denaro su tutto: anarchia morale e politica.

Il governo di Roma era tutto municipale, fatto per una città, non per un impero; la sovranità del popolo non valicava il pomerio; la libertà, tutta al centro, la tirannìa tutta intorno; là estremamente liberi, qui eccessivamente schiavi.9 Le grandi conquiste rendeano necessarie le grandi riforme; non se n’ebbe mai davvero il coraggio: la repubblica romana avea la debolezza dei vecchi, laudatores temporis acti; il passato era il suo ideale; voleva vivere a uso degli antichi, more majorum. Aprite le porte di Roma, gridava Cesare, s’introduca tutto il mondo nella città; ma Catone era lì a dargli sulla voce, a chiuder le porte sul naso del mondo; a morder le gambe a chiunque. Catone era il passato; Cesare l’avvenire. Qualche concessione fu fatta, ma ora inopportuna, ora tarda, non mai generosa e completa. Si modificò, si rimendò, si rattoppò il vecchio; si traccheggiò con prudenza, quand’era mestieri operar con coraggio; si curò la cancrena, non si tagliò. Si concesse agli alleati il diritto di città, e si ferì al cuore l’aristocrazia, che vide scapparsi di [p. 11 modifica]mano ogni suo privilegio; il senato, di cui s’inforsò l’autorità; il popolo, a cui si resero impossibili i comizi:10 gl’Italici, vinti in campo con l’armi, vinceano col voto in città. La responsabilità dei magistrati diminuita in ragione diretta dell’estensione delle conquiste; prorogate le magistrature e gl’imperi: ai tribuni per poter meglio resistere e per far più dispetto alla nobiltà; ai consoli per mal inteso zelo d’utilità pubblica;11 accordati pieni poteri ai governatori, semplici magistrati a Roma, magistrati supremi ed inappellabili nelle province. Da ciò quattro mali: la riputazione e le cariche ristrette in pochi; la prepotenza dei proconsoli e dei pretori; l’oppressione e il malcontento dei provinciali; la corruzione dell’esercito divenuto servo del mestiere e partigiano di chi il comandava.

Il senato, già mente e cuore della repubblica, degno, come dice Bossuet, delle lodi dello Spirito Santo, che non isdegnò di notare nel libro dei Maccabei l’alta prudenza ed i vigorosi consigli di quella sapiente assemblea,12 il senato perde mano mano ogni podestà; soggiace alla forza delle armi, o all’astuzia degl’intrighi; vien reclutato dal più potente,13 invaso un po’ per volta da quella razza bastarda di ricchi, venuta su a furia di concussioni e di ladronecci, che non contenta di spadroneggiare nelle province soggette, s’insinua mascheratamente in Roma, compra le anime degli altri per vender poi la propria alla sua volta; schiaccia i [p. 12 modifica]Gracchi, corrompe i tribuni, s’assicura dei cavalieri, trafficando in comune, lusinga il popolo e il tiene a bada; ingombra ogni potere, riduce in poche mani ogni cosa. La venalità dei magistrati, il traffico della giustizia, l’iniquità dei giudizi oltrepassa ogni termine, fa schifo insieme ed orrore. I faziosi soli governano, danno, tolgono a pieno talento, insidiano e deprimono gl’innocenti, alzano agli onori soltanto i suoi: chi non è di loro è contro di loro. Non c’è scandalo, ribalderia, scelleratezza che non facciano per agguantar magistrati, abbrancar cariche e gradi:14 comprato a prezzo di vergogne il potere, a prezzo di vergogne il mantengono; scellerati nell'arrampicarsi, scelleratissimi nelle cadute. Hanno due puntelli, perchè si reggano in piedi: gli spergiuri da un lato, i gladiatori dall’altro. Giurare il falso era un mestiere, e, avuto riguardo alla corruzione dei tempi, possiamo anche dire un mestiere onorato: si campava onestamente spergiurando: il giuramento era una merce; l’anime si vendeano pubblicamente all’incanto; l’Inghilterra, madre di commerci, è figlia, in questo, di Roma.

Quando gli spergiuri, sicarii morali, non bastavano, si ricorrea al coltello dei gladiatori: era un mezzo più sbrigativo. Questa razza di malfattori, carne da macello, rifiuto di galere, escremento delle province, affluiva a Roma, divenuta il fognone del mondo; e, chiamata com’era a proteggere, non poteva non essere protetta. Alloga i suoi servigi al migliore offerente; a Clodio, per esempio, e a Milone, masnadieri da croce ambedue; [p. 13 modifica]trascorre, impune, a ogni insolenza, a ogni braverìa, a ogni delitto; leva scandali e rumori per tutto ove passa; lascia traccia di sangue per ogni via; sparge dovunque il terrore. Sorge sulla tribuna Pompeo a parlare in favor di Milone? I partigiani di Clodio lo fischiano, l’insultano, lo svillaneggiano. Spalleggia Catone il consolato di Enobardo? Le masnade di Pompeo e di Crasso il feriscono. Svergogna Clodio la terza moglie di Cesare? Ha femmine e ribaldi che lo difendono. Che più? La città, il senato, la legge, le sostanze e la vita dei migliori cittadini erano nelle loro mani.

E l’esercito? come più contenerlo dopo tante vittorie? ridurlo a ragione, quando disponeva della forza? Un tempo la forza era della repubblica; ora la repubblica è della forza: il braccio comanda al pensiero. La guerra, che per i soldati è un mestiere, per la repubblica è una necessità, non solo per tenere in freno le province tumultuanti e sconfiggere i barbari non mai domati, ma per occupare i soldati, per divertire le armi, se non le menti, dalla guerra civile. Triste condizione d’uno Stato aver paura della propria forza! Rimedio disperato ed inefficace strappare di mano il coltello a chi ha fermo in mente di uccidersi. La forza vien dal pensiero; e quando le menti sono scisse, si ha un bel fare ad allontanare le armi: la guerra civile si proroga, non si scansa. O le armi sono sconfitte dagli stranieri, e la repubblica ne ha danno e vergogna, senza accrescere per questo la sua sicurezza interna; perchè i malcontenti, che son sempre i più, traggono da quella sconfitta argomento a declamar contro di essa, sotto il comune pretesto, di non aver saputo difendere l’onore [p. 14 modifica]nazionale; come avvenne in Francia per la male andata impresa del Messico; i turbolenti seminano zizzanie contro al Governo; e gli ambiziosi fanno tesoro del malcontento comune per trarre a sé l’attenzione di tutti, a cui sanno promettere mari e monti, e dare speranza di solida prosperità. O le armi ritornano vittoriose, e in tal caso il pericolo della repubblica ritorna a dismisura più grande; chè la vittoria rende insolenti i soldati, e prepotenti i capitani; quelli non riconoscono altri fuor che i loro capi; questi nessuno al di là di sè stessi; la guerra civile è inevitabile, e dietro a questa la servitù: Cesare è la conseguenza di Silla.

Roma è un anfiteatro; in mezzo all’arena una donna, ferma ed intrepida, benché ferita: la libertà madre a tutti; sotto ai suoi piedi uno scettro. I gladiatori hanno imbrandito le daghe da un pezzo; i primi cadaveri ingombrano il circo; duellano a morte i superstiti: hanno armi ed insegne diverse; un fine e un’ambizione comune: il potere.

Caduto Silla, terribile incarnazione degli odii e delle vendette del vecchio patriziato, offeso al cuore dai Gracchi, da Mario, dagli uomini nuovi, come andavano detti, altri campioni, men feroci sì, ma non men risoluti, si contendono con ogni mezzo e con arte diversa il trionfo.

Catulo, Crasso, Lucullo, amministratori, non capitani, pretendono invano al sanguinoso ereditaggio di Silla.15

Sertorio abbandona il campo alla prima; s’impone [p. 15 modifica]ai barbari di Spagna, a via d’imposture, di stratagemmi, d’audacia;16 si ride di Metello e di Roma, e muore tradito, non vinto.

Pompeo, prima onorato, poscia invidiato da Silla, scacciato ch’ebbe Perpenna dalla Sicilia, sconfitto Domizio in Africa, costretto Lepido ad abbandonare l’Italia, vinti i capitani di Sertorio, massacrati gli schiavi, finita la guerra coi pirati, vòlta faccia ai senatori, ghermisce il consolato, carezza i cavalieri e la plebe, fa fronte a Cesare, diviene sostegno della repubblica e speranza della libertà, egli, che regge a mala pena sè stesso, e non è mai sicuro strumento della propria ambizione.

Catilina è la voce delle province, esecrato perchè vinto; Spartaco la voce degli schiavi; Cicerone la voce della sua vanità; Catone e Bruto, maschere antiche: cinico il primo, traditore il secondo: l’uno traffica la moglie, l’altro maledice alla virtù; grandi nel morire ambedue.


III.


Lo spettacolo dura troppo. Il popolo è stanco di tante guerre, di tante discordie, di tanto baccanale di ambizioni, di vendette, di stragi: ha la vertigine, bisogna che si lasci cadere per terra; riposarsi per riprender fiato e per vivere.

Da Farsaglia ad Azio è come un interregno. [p. 16 modifica]Nessuna autorità che la forza; nessuna speranza nel domani: una sola battaglia può da un momento all’altro cangiare ogni cosa; il popolo vive alla giornata, non vuol darsi più pensiero di nulla.

Consoli, tribuni, agitatori di professione, arruffapopoli di mestieri si spaventano di questa generale stanchezza. Insieme al riposo avrete la servitù, grida M. E. Lepido ai Romani; insegnerete ai posteri come vi siate fatti vincere e soffocare nel proprio sangue.17 Io non so qual torpore v’ingombri, esclama Licino, tribuno della plebe, che nè gloria alcuna vi muove, nè ribalderia di sorta vi offende; giacete nell’ignavia a tutti i costi; credete esser liberi e padroni di voi, perchè non vi si frusta le spalle, e vi si permette accattare alla porta dei ricchi.18

Tutte voci al deserto; il popolo, come il Nerone d’Alfieri, vuole ciò che più gli manca: la pace. Come averla? Obliando. E dove trovar l’oblio di sè stesso? Nel piacere. Perduta l’idea del giusto, si perde anche quella del buono; non c’è leggi senza costumi, nè costumi senza leggi: l’ordine morale e l’ordine giuridico sono correlativi e coesistenti. Le molte leggi son sempre indizio di corrotti costumi, come i molti medici di molti malati. Le poche leggi decemvirali erano prima bastate ai Romani; valevano, dicea Crasso, assai più di tutte l’opere dei filosofi; si ricorse poscia ai plebisciti, ai senatoconsulti, agli editti, ai responsi, alle sentenze, alle tradizioni, alle consuetudini, a un visibilio di leggi: [p. 17 modifica]si cercò rimpalmare alla meglio la vecchia baracca. Le leggi son come le toppe in un vecchio vestito; più tu ne metti, e più il vestito è alla corda.

La corruzione dei costumi tenne dietro alle conquiste d’Asia, s’estese e divampò sempre più col divampare delle guerre intestine. Il popolo romano somiglia a quei giovanetti, educati rigidamente in famiglia, tenuti lontani da ogni piacere, custoditi, spiati, sindacati in ogni cosa, fin dentro al pensiero. Hanno un tantino di libertà? Addio: non c’è più verso di tenerli in freno. La nostra natura è una molla: più la premi e meglio scatta.

La voluttà era un mondo ignoto ai Romani: bisognava conquistarlo. I fichi di Cartagine, mostrati al popolo da Catone, son come il primo e più volgare indizio di quel mondo. La conquista fu intera e completa: cominciò ai tempi di Silla19 e finì coll’impero. Il rispetto alla legge avea fatto i Romani più che uomini; la licenza li fece men che femmine. Gli ambiziosi facevano a gara per corrompere il popolo; e mentre questo divora spensierato alle diecimila mense imbandite da Crasso,20 si pasce di squisite vivande mollemente sdraiato sui ventiduemila triclinii ordinati da Cesare,21 s’accarezza soddisfatto la pancia, che gli ha impinzata Lucullo22 o Pompeo; essi hanno tempo ed agio di far man bassa su tutto. Dalle grandi ricchezze, dice Sallustio, cadde la gioventù romana in grande lussuria, [p. 18 modifica]avarizia, superbia: cominciarono a rapire, a consumare, ad aver per poco il loro e desiderare l’altrui; l’onore, l’onestà, le cose d’Iddio e degli uomini aveano in tutto confuso; nessuna cosa appensata nè ammoderata. Lo desiderio delle pulcelle, delle meretrici, di tutte altre vanità non era minore. Erano alcuni uomini, che sostenevano contro natura femminilmente, e femmine che tutta onestà aveano recato a pubblico disonore. Anche per cose da mangiare spiavano e cercavano tutto in terra e in mare; dormìano anzi che il desiderio del sonno venisse; non aspettavano nè fame, nè sete, nè freddo, nè stanchezza, ma tutte cotali cose disordinatamente antivenivano.23 Si potea dire benissimo con Giovenale:

                                                  saevior armis
Incubuit luxuria, victumque ulciscitur orbem.24

Sin dall’anno 566 di Roma, la legge Orchia avea cercato di porre un freno ai conviti. Non valse. La legge Fannia che riconfermò indarno la precedente, la Didia che la estese a tutta Italia, la Licinia, quell’altra fatta ad istanza di Silla, la legge Emilia che prescrisse la qualità e la quantità delle vivande, la legge Antia che impose un modo alle spese, l’editto di M. Antonio, la legge Giulia, ed altre assai che si fecero più tardi, non ebbero mai valido effetto; non che moderare, stuzzicaron sempre più la ghiottonerìa.25 Sacerdoti, [p. 19 modifica]magistrati, trionfatori26 tutti faceano a gara a imbandir sontuosi banchetti. Le cene private non erano certamente più frugali delle pubbliche; famosa è la risposta di Lucullo al suo maestro di casa: non sapevi che Lucullo dovea cenare con Lucullo?

Alla gola tien dietro la lussuria, la mollezza, l’accidia, ogni vizio più turpe. La via Sacra, i Portici, la via Appia, tutti i passeggi di Roma brulicano di mezzani, di prostitute, di libertini, di gladiatori pronti a trafficare la loro robustezza, di molli e profumati cinedi che sfoggiano i loro anelli e la loro beltà, di senatori che fan l’occhietto ad effeminati seguaci di Venere Aversa, di matrone più dissolute e sfacciate delle loro ancelle; un pubblico convegno di seduzioni, un vero mercato di amori.27Alberghi, taverne, barberie, seggiole, lettighe, offrono asilo stabile od ambulante all’anonima prostituzione dei magnanimi figli di Remo.28

Gli edili chiudono gli occhi; è un gran che se richiedano dalle pubbliche cortigiane la licentia stupri; i censori borbottano e sbraitano inutilmente; la legge tollera e tace; Acherio non dubita asserire, che se l’impudicizia è delitto nei liberi, è necessità negli schiavi, è dovere nei liberti.29

L’arte, crescente fra tali sozzure, non potea non sdrusciarvi il manto, insudiciar l’anima, prostituendo le membra. L’oscenità parve un dovere: si fornicò col [p. 20 modifica]pennello o con lo stilo. Fra’ pochissimi intatti Lucrezio, il poeta abborrito; gli altri, non escluso il virgineo Marone, infetti di quella tabe, chi più, chi meno.

Storico di quell’età corrotta Sallustio, uomo dissoluto, scrittore severo, pensatore profondo. Immagine di quell’incerta altalena di fazioni e d’idee. Cicerone, cervello grande, ed anima vuota; disse assai più che non fece; parteggiò per Cesare e per Pompeo; eclettico negli scritti, eclettico nella vita.

Marco Terenzio Varrone, erudito fecondissimo e farraginoso, è il bibliotecario e la biblioteca di quel secolo. Seguì Pompeo, si rese a Cesare, ebbe insoliti onori da tutti, e li meritò. Seppe quanto potea sapersi ai suoi tempi; e morì fra’ libri.

A cominciare dal vecchio Levio, autore dell’Erotopegnone, e finire a Petronio, maestro di piaceri, la poesia latina non cessa mai di sagrificare alla Venere impura. La biblioteca delle cortigiane si arricchì in poco tempo. La nuova religione perseguitò a morte quei libri, distrusse inesorabilmente tutto ciò che le venne fra le mani; ogni santo padre, Omar in diciottesimo, volle aver il merito presso Dio d’avere bruciato un libro pagano. Gli scritti di Procolo, di Ortensio, di Eubio, di Cornificio, di Editero, di Sivenna, di Sabello e di altri parecchi perirono. I roghi, che doveano bruciare più tardi gli eretici, s’alimentarono da prima di libri: si voleva bruciare il pensiero: l’inquisizione era già cominciata da un pezzo, quando san Domenico le diede nome.

Plauto, Catullo, Ovidio, Properzio, Tibullo, Marziale e tutti quelli che scampano dalla distruzione, non [p. 21 modifica]ci dànno che una pallida idea della corruzione di Roma.

Mentre l’arte stravizia, e il popolo s’oblia nel piacere, gli ambiziosi combattono all’ultimo sangue.

Chi vincerà? L’ordine. L’edificio della società romana è sconquassato; minaccia rovina; bisogna incatenarlo, perchè si regga. È il momento della provvidenza, direbbe Bonaparte. Cesare passa il Rubicone.




Note

  1. Strabone, Geograph., IV, 198.
  2. Svetonio, in Jul. Caesare, 37.
  3. Plutarco, in Caesare, 15.
  4. T. Livii, Hist. Rom.
  5. Taciti, Ann., lib. II.
  6. Lib. XXXIV, 4.
  7. Machiavelli, Discorsi, lib. I, 37.
  8. Vie de César, liv. IV, chap. 3.
  9. Montesquieu, Esprit des lois, XI, 49.
  10. Laboulaye, Organis. des tribunaux, etc.
  11. Machiavelli, Discorsi, lib. III, 24.
  12. Bossuet, Disc. sur l’Hist. univ., III, 6.
  13. Svetonio, in Jul. Caesare, 41.
  14. Sallustio, Epist. ad Caesar.
  15. Michelet, Hist. de la Républ. romaine, III, 4.
  16. Plutarco, Vita Sertorii.
  17. Sallustio, Fragm., I, 7.
  18. Ibidem, VI, 6.
  19. Sallustio, Catil., IX.
  20. Plutarco, in Crasso.
  21. Plutarco, in Caesare.
  22. Plinio, Hist. Nat., XIV, 14.
  23. Sallustio, loc. cit, trad. Fra Bartolommeo.
  24. Sat. VI, v. 394.
  25. Averani, Vitto e cene degli antichi, lez. II.
  26. Macrobio, Saturn., 9; Cicerone, Tuscul., 4; Plutarco, in Caesare et in Crasso.; Plinio, Hist. nat., XIV.
  27. Walkenaer, Storia della vita d’Orazio.
  28. Dufour, Hist. de la prostit., chap. XX.
  29. Celii Rodigini Antiquae lectiones.