Pagina:Catullo e Lesbia.djvu/48

42 la vita di catullo.

basta; vuol ferirla a morte non solo, vuole anche coprirla di fango:

Qua, qua, terribili giambi, accorrete,
Quantunque in numero, dovunque siete.
Son’io sì debole, così dappoco,
Che una vil femmina mi prenda a gioco?1


VII.


Questa tremenda sfuriata ebbe un effetto insperato. Clodia ebbe paura. Una cortigiana volgare si sarebbe appigliata al più triste partito: avrebbe restituite le lettere, pagato lo sdegno col disprezzo. Il giambo di Catullo l’avrebbe perseguitata a morte. La politica di Clodia era al disopra d’ogni misera rappresaglia; il suo nome era lì lì per divenire la favola delle piazze; bisognava far tacere quel matto poeta; a ogni costo. Non c’era altra via, che far le viste di essersi pentita, perdonargli le ingiurie e riaprirgli le braccia: conosceva troppo il cuore del povero Valerio per disperare del buon successo di codesto stratagemma. Si diede subito all’opera; si valse degli officii di taluni amici comuni, probabilmente di Alfeno,2 e la riconciliazione fu fatta. All’inesperto provinciale non parve proprio vero ch’ella non avesse fatto caso dei sanguinosi vituperi, che le aveva scagliati sulla faccia, e di cui s’era certamente e fin dal primo istante pentito; gli sembrò un tratto di generosità e una vera prova d’amore ciò che non era

  1. Carm. XLII.
  2. Carm. XXX.