Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/63

CAPITOLO LXIII

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CAPITOLO LXIII.

Guerre civili e rovine dell’Impero greco. Regni di Andronico il Vecchio, di Andronico il Giovane, e di Giovanni Paleologo. Reggenza, sommossa, regno e rinunzia di Giovanni Cantacuzeno. Fondazione di una colonia genovese a Pera e a Galata. Guerre de’ Coloni contro l’Impero e la città di Costantinopoli.

[A. D. 1282-1320] Il lungo regno di Andronico il Vecchio1 non è memorabile che per le dispute della Chiesa greca, per l’invasione de’ Catalani, per l’aumento della grandezza ottomana. Benchè questo Principe sia stato celebrato come il sovrano più dotto e virtuoso del proprio secolo, la sua scienza e virtù non contribuirono nè a far lui più perfetto, nè a rendere più felice la società. Schiavo di assurdissime superstizioni, sempre trovandosi in mezzo a nemici, or reali, or fantastici, la sua immaginazione non era meno ferita dal timore delle fiamme dell’inferno2, che da quello de’ Turchi o de’ Catalani. Fu sotto il regno di Pa[p. 234 modifica]leologo che la elezione di un patriarca riguardavasi come il più serio affar dello Stato. I Capi della Chiesa greca erano frati ambiziosi e fanatici, spregevoli e funesti egualmente pei lor vizj e per le loro virtù, per la loro ignoranza e per la loro dottrina. I rigorosi precetti del Patriarca Atanasio3 mossero a sdegno il popolo e il clero, perchè fu udito intimare ai peccatori la necessità di bere sino al fondo il calice della penitenza, e sopra di lui spargeasi la ridicola novelletta dell’asino sacrilego, che egli punì per averlo trovato mangiando una lattuga nell’orto d’un chiostro. Scacciato il Patriarca dalla sua cattedra per calmare le pubbliche grida, compose prima di ritirarsi due scritti di un tenore affatto contraddittorio, perchè l’un d’essi, che era il suo testamento pubblico, spirava soltanto rassegnazione e carità: l’altro, codicillo particolare, lanciava tremendi anatemi sugli autori della sua disgrazia, escludendoli per sempre dalla comunione della Santissima Trinità, de’ Santi e degli Angeli; il quale ultimo scritto, rinchiuso entro una pentola di terra, egli fece depositare sull’alto di un pilastro della cupola di S. Sofia, sperando che tal suo decreto, venendo un giorno alla luce, lo vendicasse. Di fatto, dopo quattro anni, alcuni fanciulli arrampicandosi sopra scale da architetti per cercar nidi di colombi, il fatale segreto scopersero; onde [p. 235 modifica]Andronico che si trovava compreso nella scomunica, tremò sull’orlo dell’abisso perfidamente scavato sotto i suoi passi. Fatto immediatamente assembrare un sinodo di vescovi a fine di discutere questo punto importante, venne unanimemente riprovato quell’impeto di stizza che avea suggerito il clandestino anatema al Prelato; ma poichè la forza di un anatema non poteva essere sciolta che da chi l’avea pronunziato, e un Patriarca rimosso dalla sua sede non godea la facoltà di concedere una tale assoluzione, si giudicò non esservi potenza sulla terra che potesse togliere il suo valore a quella sentenza. Venne costretto l’autor del disordine a manifestare qualche debole contrassegno di aver perdonato, e di essere pentito di quell’atto del proprio sdegno; ma non quindi tranquilla la coscienza dell’Imperatore, il debole principe non desiderava, men d’Atanasio medesimo, di veder riascendere il soglio patriarcale a quel solo Prelato che gli poteva restituire la pace. Nel mezzo di una notte, un frate dopo avere urtato aspramente contro la porta della stanza ove l’Imperatore dormiva, gli annunziò una rivelazione di peste, fame, tremuoto e innondazione. Atterrito Andronico, balza dal letto, passa il rimanente della notte in preghiere, e intanto sentì o gli parve sentir tremare la terra. Immantinente, seguìto da un corteggio di Vescovi, si trasferì alla celletta di Atanasio, e questo Santo, per opera di cui era il messaggio che aveva empiuto di spavento l’Imperatore, dopo essersi fatto convenevolmente pregare, acconsentì di assolvere il Principe e di ritornare al governo della Chiesa di Costantinopoli; ma invece che le passate disgrazie ne avessero ammollito l’animo, l’indole sua era divenuta ancor più aspra nella so[p. 236 modifica]litudine, onde il pastore si fece nuovamente abborrire dalla sua greggia. I nemici di lui idearono e misero ad effetto un metodo singolar di vendetta. Levato di notte tempo lo strato che stava a piedi della sua cattedra, tornarono indi a metterlo a suo luogo, coll’aggiunta di un disegno in caricatura che rappresentava il Sovrano colla briglia in bocca, e Atanasio che tenendo le redini, conducea la docile bestia a’ piè dell’altare. Scoperti gli autori dell’insulto vennero puniti, ma non colla morte; laonde il Patriarca sdegnato perchè gli parea troppo mite la pena, cercò una seconda volta la sua celletta, e Andronico aperse gli occhi per un istante, ma tornò poi a chiuderli sotto il successor di Atanasio.

Se nel durare d’un regno di cinquant’anni non sono accadute bisogne più rilevanti di questa or raccontata, non posso almeno dolermi della scarsezza di materiali, allorchè riduco in poche pagine gli enormi volumi in foglio di Pachimero4, di Cantacuzeno5 e di Niceforo Gregoras6, autori della prolissa e languida [p. 237 modifica]Storia di que’ giorni. Il nome di Giovanni Cantacuzeno, e le circostanze, fra le quali questo Principe si trovò, son fatte certamente per chiamare sugli scritti del medesimo una viva curiosità. Ma ne’ suoi Comentarj che comprendono un intervallo di quarant’anni dalla ribellione d’Andronico il Giovine, fino al momento in cui rassegnò egli stesso l’impero, si è dovuto osservare essere egli, non men di Cesare e di Mosè, l’attor principale delle scene che imprende a descrivere; e per altra parte nella sua eloquente opera cercheremmo invano la sincerità d’un eroe, o d’un penitente. Benchè ritirato in un chiostro, e lontano dai vizj e dalle passioni del secolo, egli ne ha offerto meno una confessione che una apologia della vita di un ambizioso politico. Anzichè dipingere i caratteri e i divisamenti de’ suoi personaggi, ne presenta soltanto agli sguardi, una superficie speciosa e sfumata degli avvenimenti, colorita dalle lodi che dispensa a sè medesimo e a suoi partigiani. I motivi di questa gente son sempre puri, i fini, legittimi; se cospirano, se ribellano, nol fanno mai con mire di interesse, le violenze o commesse, o tollerate da essi sono atti lodevoli, son naturali conseguenze della ragione e della virtù.

[A. D. 1320] Ad imitazione del primo fra i Paleologhi, Andronico il Vecchio collegò agli onori della porpora il proprio figlio Michele; riguardato, dalla età di diciotto anni fino alla sua morte immatura (intervallo di [p. 238 modifica]cinque lustri) come secondo Imperatore de’ Greci7. Condottiero degli eserciti nè diede ai nemici inquietudine, nè gelosie alla Corte: incapace di colpevoli desiderj, non calcolò mai gli anni della vita del padre, nè questo padre o ne’ vizj, o nelle virtù del figlio trovò motivi di pentirsi d’averlo innalzato. Il figlio di Michele portava il nome dell’avolo Andronico, che per questa circostanza lo avea preso di buon’ora in grandissimo affetto; e lo spirito e l’avvenenza del giovinetto accrebbero la tenerezza del vecchio, venuto nella speranza che i suoi voti delusi nel primo suo discendente, sarebbero nel secondo compiuti. Questo nipote adunque fu educato nella reggia, come erede dell’Impero e favorito dell’Imperatore, e ne’ giuramenti e nelle acclamazioni del popolo, i nomi del padre e del figlio e del pronipote formavano un’augusta Trinità. Ma tale immatura grandezza ben presto corruppe Andronico, il quale con puerile impazienza considerava il doppio ostacolo che poneasi, e potea opporsi per lungo tempo, agli slanci della sua ambizione. Non che la sete di ottenere gloria, o di potere adoperarsi alla felicità de’ suoi popoli, questa sua impazienza movesse; perchè la ricchezza e l’impunità delle a[p. 239 modifica]zioni erano agli occhi di lui le più preziose prerogative di cui godesse un Monarca. Laonde incominciò a farsi conoscere qual era colla domanda di alcune fertili e ricche isole, ove poter condurre la sua vita in seno alla independenza e ai piaceri; diede indi motivi di scontento all’Imperatore pe’ clamorosi disordini che, grazie alle sregolatezze del medesimo, turbavano la Capitale. Avendo egli preso ad imprestito dai Genovesi di Pera quelle somme di danaro che la parsimonia dell’avo gli ricusava, intantochè questi debiti gli avean giovato ad assicurarsi una fazione di partigiani, erano cresciuti a tale che solamente una rivoluzione pagar li poteva. Una donna avvenente e di chiari natali, ma pe’ suoi costumi vera cortigiana, avea fornite le prime lezioni d’amore al giovine Andronico, e venuto questi in sospetto che ella ricevesse di notte tempo un rivale, pose in agguato dinanzi alla casa della medesima le proprie guardie, che trapassarono colle lor frecce un estranio mentre passava per quella strada; estranio che fu riconosciuto da lì a poco essere il principe Manuele, il quale più non si riebbe, ed infine morì per gli effetti di quella ferita. Otto giorni dopo tal morte, Michele la cui salute era andata declinando continuamente, morì deplorando la perdita d’un figlio, il traviamento dell’altro8. Benchè l’intenzione del giovine Andronico nella morte del fratello non fosse concorsa, ei non dovea riguardar meno, e in questa e in quella del padre gli effetti della sua viziosa condotta; onde gli [p. 240 modifica]uomini capaci di meditare e sentire videro con profondo dolore come il ridetto Principe, anzichè manifestare tristezza o rimorsi, dissimulava a fatica la gioia per trovarsi libero da due competitori. Tai funesti avvenimenti, e altri disordini che accaddero ancora, distolsero a grado a grado dal nipote l’animo dell’avolo che dopo avere sperimentati vani i consigli e i rimproveri, trasportò sopra un terzo figlio del defunto Michele le sue speranze ed affezioni9; cambiamento politico che venne annunziato col chiamare il popolo a dar nuovo giuramento di fedeltà al Sovrano, ed al successore al trono che questi disegnerebbe. Al mal umore manifestato dall’escluso si unirono nuove colpe, per le quali, tornando sempre indarno i rimproveri, all’ignominia di un processo pubblico si vide esposto. Ma quando stava per profferirsi la sentenza, che forse avrebbe condannato il colpevole a condurre il rimanente de’ suoi giorni rinchiuso in un carcere, o in un monastero, l’Imperatore ricevè la notizia che i partigiani armati del nipote, tutti i cortili del palagio tenevano. Allora acconsentì a cambiare il solenne giudizio in un Trattato di riconciliazione, la qual vittoria incoraggiò a nuove colpe il giovane Andronico e i suoi amici.

Ciò nullostante la Capitale, il Clero e il Senato parteggiando tuttavia pel vecchio Imperatore o almeno [p. 241 modifica]pel suo governo, i turbolenti non poteano fondare le loro speranze di trionfare e di rovesciare il trono che sopra la fuga e il soccorso degli stranieri. Il Gran Domestico, Giovanni Cantacuzeno era l’anima della colpevole impresa. Dal punto che egli abbandonò fuggendo Costantinopoli, incominciano i suoi Comentarj e gli atti che lo danno a conoscere. Il suo amore verso la patria, è egli solo che il lodi; quanto poi allo zelo e alla destrezza di cui diè prova a favore del suo protetto, anche uno Storico della parte contraria gli rende giustizia. Il giovine Andronico adunque fuggito dalla Capitale col pretesto di andare alla caccia, spiegò, giunto ad Andrinopoli lo stendardo della ribellione, ed ebbe in breve sotto di sè un esercito di cinquantamila uomini, che, per sentimento di dovere o di onore, contra i Barbari non avrebbero prese l’armi. Una forza sì ragguardevole era quanto bastava per salvar l’Impero, o per imporgli la legge; ma dominando la discordia ne’ consigli de’ ribellanti, procedeano lenti ed incerti, intanto che la Corte di Costantinopoli con sorde pratiche e negoziati le costoro fazioni impacciava. Laonde avvenne che i due Andronici durarono sette anni protraendo, sospendendo, rinovando le disastrose loro contestazioni. Con un primo Trattato si spartirono fra loro gli avanzi dell’impero, rimanendo Costantinopoli, Tessalonica e le isole al vecchio Andronico, e divenendo il Giovine indipendente Sovrano di quasi tutta la Tracia, da Filippi fino alle pertenenze di Bisanzo. [A. D. 1325] Mediante un secondo Trattato il giovine Andronico si assicurò l’immediata incoronazione, il pagamento di quanto era dovuto al suo esercito, un parteggiamento eguale di rendite e di potere [p. 242 modifica]coll’avo. Colla sorpresa di Costantinopoli e colla ritirata definitiva del vecchio Andronico terminando la terza guerra civile, il giovine vincitore tenne solo l’Impero. La ragione di tali lentezze può trovarsi esaminando il carattere degli uomini e l’indole del secolo. Allorchè l’erede del trono fe’ palesi i primi torti che avea ricevuti e i timori concetti, i popoli lo ascoltarono con sollecitudine e gli fecero plauso. I messi del giovine ribelle notificarono per ogni dove che il nuovo Sovrano avrebbe aumentati gli stipendj delle milizie e alleggeriti di una parte di tasse i suoi sudditi; nè si badò, come queste due promesse si distruggessero l’una coll’altra. Tutti gli abbagli commessi durante un regno di quarant’anni apparvero buone ragioni per una sommossa: e la nuova generazione vedea con dispetto protraersi all’infinito il regno d’un Principe, le cui massime e i favoriti a un altro secolo apparteneano, e la vecchiezza del quale non inspirava rispetto, perchè mancò d’energia la sua gioventù. Di fatto le pubbliche tasse fruttandogli una rendita di cinquecentomila libbre d’oro, e facendolo il più ricco di tutti i Principi cristiani, egli non era stato capace di mettere in armi tremila uomini a cavallo e trenta galee per impedire i progressi e i devastamenti de’ Turchi; laonde il suo nipote Andronico soleva esclamare10. „Oh! come [p. 243 modifica]è diversa la mia condizione da quella del figlio di Filippo! Alessandro si dolea che suo padre non gli lascerebbe nulla da conquistare; quanto a me, il mio avo non mi lascerà nulla da perdere„. Ma i Greci ben tosto s’avvidero non essere la guerra civile un buon rimedio ai mali che li premevano, nè trovarsi nel giovane da lor prediletto le qualità necessarie a divenire il salvatore di un Impero che declinava. Alla prima sconfitta che questi soffersero, la fazione de’ suoi incominciò a sciogliersi per la spensieratezza del condottiero, per le discordie che insorsero fra i partigiani, e per le pratiche della vecchia Corte che seppe indurre i mal contenti a far diffalte o a tradire la causa de’ ribelli. Andronico il Giovane lasciatosi vincere dai rimorsi, già stanco degli affari, ingannato fors’anche dalle negoziazioni, o più avido di piaceri che di possanza, calò a patti sì fattamente che l’ottenuta facoltà di mantenere mille cani da caccia, mille falchi, e mille cacciatori, bastò a disarmare la sua ambizione, come a coprir d’obbrobrio il suo nome.

Consideriamo ora la catastrofe di questo intreccio sì avviluppato, e lo stato definitivo de’ principali personaggi11. Andronico l’avo trascorse tutta la vecchiezza in mezzo alle civili discordie; i variati eventi della guerra, o de’ Trattati lo diminuirono a mano a mano e di potere e di fama, sino alla fatal notte in cui il giovine Andronico s’impadronì, senza tro[p. 244 modifica]var resistenza, della città e della reggia. Il Comandante in capo disdegnando gli avvisi che sull’imminente pericolo gli venivano dati, dormiva tranquillamente sul proprio letto abbandonandosi ad una sicurezza figlia dell’ignoranza, intanto che il debol Monarca, non mai sgombro l’animo d’inquietudini, stavasi in mezzo alle sue turbe di paggi e d’ecclesiastici. Non andò guari che i suoi terrori prendendo un fondamento reale, si udirono per ogni intorno le acclamazioni che gridavano il nome e la vittoria dal giovine Andronico. Prostrato a’ piedi di una immagine della Madonna, inviò umilmente messi per consegnare lo scettro al vincitore e chiedergli in dono la vita. Convenevole e rispettosa fu la risposta di questo: egli s’incaricava, dicea, del governo per arrendersi ai voti del popolo; ma non quindi il suo avo rimarrebbe privo della propria dignità e supremazia. Il vincitore gli lasciava il suo palagio, assegnandogli ventiquattromila piastre d’oro, la metà della qual somma l’imperiale erario avrebbe fornita, l’altra metà si leverebbe dalle pesche di Costantinopoli. Ma spogliato Andronico del potere, cadde ben presto in dimenticanza e in dispregio. Il silenzio del suo palagio non era più interrotto che dalle bestie domestiche e dai polli del vicinato che i cortili solitarj ne ingombravano impunemente. Il suo assegnamento fu ridotto a diecimila piastre d’oro12 che a stento gli venivan pagate. Ad aggravarne i patimenti si ag[p. 245 modifica]giunse l’indebolimento della vista. Ciascun giorno, diveniva più rigorosa la sua prigionia; e nel tempo di un’assenza e di una infermità del suo nipote, i barbari carcerieri con minaccia di morte il costrinsero a dimettere la porpora per abbracciare l’abito e la professione monastica. Il frate Antonio (che l’infelice assunse un tal nome) avea bensì rinunziato alle vanità del Mondo, ma si trovò alla necessità di chiedere che la sua rozza lana da frate fosse foderata di pelliccia per difendersi dai rigori del verno: il vino gli era proibito dal confessore, l’acqua dal medico; onde fu obbligato a non usar d’altra bevanda fuor del sorbetto d’Egitto; e l’antico Imperator de’ Romani, non senza fatica giunse a procurarsi tre o quattro piastre d’oro per provvedere a sì modesti bisogni. Se poi è vero che di questo poco danaro egli si valse ad alleviare i mali d’un amico che si trovava in angustie anche maggiori, un tal sagrifizio non è privo di merito agli occhi della religione e della umanità. [A. D. 1332] Quattro anni dopo la sua rinunzia, Andronico, ossia frate Antonio, spirò nella sua celletta in età di settantaquattro anni, e quanto gli poterono promettere gli ultimi discorsi dell’adulazione si stette in una corona più splendida di quella che in questo corrotto Mondo aveva portata13.

Il regno di Andronico il Giovane non fu nè più [p. 246 modifica]glorioso, nè più fortunato di quello dell’avo14. Non godè che per pochi istanti, e misti di amarezza, i frutti della sua ambizione. Spogliatosi nell’ascendere il trono, di quanto dell’antica popolarità rimanevagli, allora i difetti dell’indole sua si scorsero più chiaramente. I lamenti del pubblico contro di lui lo costrinsero a guerreggiare in persona i Turchi; nè nell’istante del pericolo difettava già di coraggio; ma dalla sua spedizione non riportò miglior trofeo di una ferita, e gli Ottomani vincitori consolidarono vie più la loro monarchia. Giunti all’estremo i disordini della amministrazione civile, la sprezzante negligenza con cui Andronico riguardava le consuetudini della nazione, lo trasse ad introdurre riforme nel modo di vestire del paese, cosa che i Greci deplorarono, come funesto sintomo dello scadimento dell’Impero. Gli stravizj della gioventù gli avevano affrettata l’età de’ malori; onde riavutosi appena, fosse per opera della natura, o de’ medici, o d’un miracolo della Beata Vergine, da una pericolosissima infermità, morì quasi d’improvviso giunto al quarantacinquesimo anno della sua vita. Ebbe due mogli, alemanna l’una, italiana l’altra, perchè i progressi de’ Latini, così nell’arti come nella guerra, aveano mitigati i pregiudizj della Corte di Bisanzo. La prima di queste, conosciuta nella sua patria col nome d’Agnese, e con quello d’Irene in Grecia, era figlia del Duca di Brunswick. Il padre della medesima15, picciolo Sovra[p. 247 modifica]no16 d’un paese povero e selvaggio del Nort dell’Alemagna17, traeva qualche rendita dalla sue mine d’argento18, benchè i Greci ne abbiano esaltata la famiglia, come la più antica e la più nobile fra le [p. 248 modifica]schiatte teutoniche19. Morta Irene non lasciando prole, Andronico sposò Giovanna sorella del Conte di Savoia20, negata, per maritarla ad un Imperator greco, al Re di Francia21. Il Conte, onorando in sua sorella il titolo d’Imperatrice, la fe’ accompagnare da numeroso seguito di nobili donzelle e di cavalieri: fu rigenerata e coronata nella chiesa di S. Sofia col nome più ortodosso di Anna. In occasione di tali nozze, i Greci e gl’Italiani si disputarono ne’ tornei, e con giostre militari, il premio della destrezza e del valore. [p. 249 modifica]

[A. D. 1341-1391] L’Imperatrice Anna di Savoia sopravvisse al marito. Giovanni Paleologo, erede del trono in età di nove anni, ebbe per protettore della sua infanzia il più illustre e il più virtuoso fra i Greci. La sincera e tenera amicizia che il padre del giovinetto conservò mai sempre a Cantacuzeno fa onore del pari al Principe ed al ministro. Erano presso che eguali per nobiltà di nascita il padrone ed il suddito22. Nato lo scambievole loro affetto fra’ comuni passatempi della giovinezza, i pregi d’un animo ingentilito da colta educazione privata teneano nel suddito vece del nuovo lustro che dalla porpora il Principe ricevea. Noi abbiam veduto Cantacuzeno sottrare il giovine Imperatore alla vendetta dell’avo, e dopo sei anni di guerra civile, ricondurlo trionfante al palazzo imperiale di Costantinopoli. Sotto il regno d’Andronico il Giovane, il Gran Domestico governò l’Imperatore e l’Impero; ricuperò l’Isola di Lesbo, e il principato di Etolia; gli stessi nemici di Cantacuzeno son ridotti a confessare che in mezzo ai depredatori delle pubbliche sostanze, egli solo si conservò moderato e riguardoso. Osservando di fatto che egli spontaneo ne dà a conoscere lo stato di sue ricchezze23, vi è luogo a presumere che ei le abbia ricevute per eredità, non aumentate per via di rapine. Per vero dire, egli non ispecifica lo stato della sua cassa, il valore dei suoi vasellami ed arredi. Nondimeno dopo il dono [p. 250 modifica]volontario ch’ei fece di dugento vasi d’argento, dopo tutti quelli ch’ei mise in deposito presso gli amici, dopo quel molto che i nemici gli tolsero, i suoi tesori confiscati bastarono ad allestire una flotta di settanta galee. Cantacuzeno non ne offre una minuta descrizione de’ suoi dominj; ma i granai del medesimo racchiudevano immensa copia di orzo e di frumento; e regolando i calcoli colla pratica dell’antica agricoltura, le mille paia di buoi adoperati alla coltivazione de’ suoi terreni indicavano almeno sessantaduemila cinquecento acri di terreno dissodato24. I pascoli di Cantacuzeno manteneano mille cinquecento cavalli, dugento cammelli, trecento muli, cinquecento asini, cinquemila buoi, cinquantamila porci e settantamila pecore25. Una sì immensa ricchezza rurale dee parerne sorprendente ne’ giorni dello scadimento dell’Impero, e massimamente nella Tracia, provincia devastata a mano a mano da tutte le fazioni. Il favore del Sovrano superò ancora la ricchezza del suddito, perchè in alcuni momenti di [p. 251 modifica] famigliarità, e durante la malattia di Andronico, questi mostrò il desiderio di toglier di mezzo la distanza che li separava, pregando il suo amico ad accettare il diadema e la porpora. Il Gran Domestico ebbe virtù bastante per resistere ad una offerta così seducente; almeno egli lo afferma nella sua Storia. L’ultimo testamento di Andronico il Giovane nominò Cantacuzeno tutore del figlio e Reggente dell’Impero.

[A. D. 1341] Se in compenso de’ prestati servigi, il Reggente avesse ottenuta una giusta retribuzione di gratitudine e di docilità, la purezza del suo zelo per gl’interessi del pupillo non si sarebbe forse smentita26. Cinquecento scelti soldati difendevano la persona del giovine Imperatore e la reggia; vennero celebrate con decoro le esequie del defunto Andronico; la tranquillità della Capitale ne annunciava la sommessione; cinquecento lettere inviate nelle province entro il primo mese che seguì la morte del Monarca, le fecero istrutte delle ultime volontà del medesimo. Ma questa felice prospettiva di una tranquilla minorità fu distrutta dall’ambizione del Gran Duca o ammiraglio Apocauco, la cui perfidia vien dipinta sotto le più odievoli forme dall’augusto Storico che confessa la propria imprudenza nell’avere innalzato Apocauco alla dignità di Gran Duca, a malgrado dell’opinione contraria del defunto Sovrano che avea più acume di lui. Audace e scaltro, prodigo e dominato dalla [p. 252 modifica]cupidigia, l’Ammiraglio faceva obbedire i proprj vizj alle mire della sua ambizione, il proprio ingegno alla rovina della sua patria. Fatto orgoglioso dal comando di una Fortezza, e dall’altro degli eserciti navali di tutto l’Impero, Apocauco congiurava contro il proprio benefattore, largheggiandogli nel medesimo tempo di assicurazioni di affetto e di fedeltà. Vendute a costui tutte le matrone della Corte dell’Imperatrice, ogni divisamento del medesimo secondavano. Essendo pertanto riescito far sì che Anna di Savoia ridomandasse la tutela del proprio figlio, quest’atto ebbe colore di materna sollecitudine; giacchè l’esempio del primo Paleologo ne instruiva i posteri a tutto paventare dalla perfidia di un tutore. Il patriarca Giovanni d’Apri, vecchio vanaglorioso, debole e attorniato da una turba di congiunti indigenti, mise in campo una antica lettera di Andronico, colla quale „l’Imperatore legava alle sue pietose cure il Principe e il popolo. Il destino del suo predecessore Arsenio lo persuadeva a prevenire il delitto di un usurpatore, anzichè vedersi alla necessità di punirlo„. Lo stesso Apocauco non potè starsi dal sorridere sul buon successo delle proprie arti adulatrici in veggendo il Vescovo di Bisanzo sfoggiare con pompa eguale a quella del romano Pontefice, e gli stessi temporali diritti pretendere<ref>Calzò scarpe, ossia coturni rossi, coprì il capo di una mitra d’oro e di seta, sottoscrisse le sue lettere con inchiostro verde, chiese per la nuova Roma tutti i privilegi che Costantino avea conceduti all’antica (Cantacuzeno, lib. III, c. 36, Nicef. Greg. l. XIV, c. 3).<ref>. Fra questi tre personaggi, d’indole e stato così diversi, una se[p. 253 modifica]greta lega si strinse; e restituita al Senato un’ombra di autorità, col nome di libertà il popolo fu adescato. Questa possente confederazione assalì il Gran Domestico, per vie obblique da prima, indi con forza aperta. Si disputò sulle prerogative del medesimo; i consigli di lui venivano respinti, gli amici perseguitati, e più d’una volta corse rischio di vita in mezzo della Capitale, e a capo ancor degli eserciti. Mentre lo tenea lontano da Costantinopoli il servigio dello Stato fu accusato di tradimento, chiarito nemico dell’Impero e della Chiesa greca, egli e i suoi partigiani consagrati alla spada della giustizia, alla vendetta del popolo, alle potenze infernali. Confiscatine i beni, confinata in una prigione la madre di lui innoltrata negli anni, egli si vide dalla violenza e dalla ingiustizia costretto a commettere quel delitto di cui veniva accusato27. Nulla avvi nella precedente condotta di Cantacuzeno che ne dia motivo per giudicarlo reo di aver premeditato alcun disegno colpevole; e se qualche cosa potesse renderlo sospetto, sarebbe soltanto l’ostentazione da esso posta nel reiterare le proteste della sua innocenza, e gli encomj che egli non risparmiava alla sublime purezza di sua virtù. Sintanto che l’Imperatrice e il Patriarca serbarono seco lui le apparenze dell’amicizia, egli sollecitò per più riprese la permissione di abbando[p. 254 modifica]nare la reggenza e di ritirarsi in un monastero. Allorchè un bando lo promulgò pubblico nemico, la prima risoluzione di Cantacuzeno era stata quella di correre ai piedi del Principe, e offrire senza querelarsi, o resistere il suo capo alla scure; solamente con ripugnanza si fece infine ad ascoltare la voce della ragione, e a meditare che essendo proprio dovere il salvare la sua famiglia e gli amici, non potea riuscire in questo senza impugnar l’armi e assumere il titolo di Sovrano.

[A. D. 1341] Nella Fortezza di Demotica, suo retaggio particolare, l’Imperatore Giovanni Cantacuzeno i purpurei coturni vestì; nella qual cerimonia i Nobili suoi congiunti gli calzarono la gamba destra, e la sinistra que’ condottieri latini, ai quali lo stesso Giovanni avea conferito l’ordine della cavalleria. Ma sollecito, ancor ribellando, di serbare le forme della fedeltà, volle che prima del proprio nome e di quello d’Irene sua moglie, venissero acclamati quelli di Paleologo e di Anna di Savoia; e benchè una vana cerimonia mal giovi a palliare la ribellione, nè veruna ingiuria personale ricevuta divenga valevole scusa al suddito che brandisce l’armi contra il Sovrano, i pochi apparecchi che precedettero questa fazione, e il mal successo che la seguì, possono servir di conferma a quanto Cantacuzeno accerta, cioè essere egli stato condotto ad un passo così decisivo men dalla scelta che dalla necessità. Costantinopoli si mantenne fedele al giovine Imperatore; il Re de’ Bulgari fu sollecitato a venire in soccorso della città di Andrinopoli. Le principali città della Tracia e della Macedonia, dopo avere esitato per qualche tempo, abbandonarono le parti del Gran Domestico; perchè i [p. 255 modifica]comandanti delle truppe e delle province giudicarono miglior interesse per loro il restar sottoposti al debole governo di una donna e d’un prete. L’esercito di Cantacuzeno, diviso in sedici squadre, accampò sulle rive del Melas, per tenere in freno di lì, o intimorire la Capitale. Ma il terrore, o il tradimento ne sbandarono le soldatesche, e gli uffiziali, principalmente i Latini mercenarj, adescati dai doni della Corte di Bisanzo, passarono ad essa. Dopo il quale avvenimento, l’Imperatore ribelle, poichè la fortuna di esso oscillava fra questi due titoli, coi soldati scelti che gli rimanevano, ver Tessalonica si ritrasse; tornati vani i suoi tentativi per impadronirsi di questa rilevante Fortezza, il nemico di lui Apocauco, condottiero di forze molto maggiori, per mare e per terra lo perseguì. Scacciato dalla costa, Cantacuzeno si ritirò, o piuttosto fuggì nelle montagne della Servia, ove adunò i suoi soldati, deliberato di non conservare in propria difesa, se non quelli che si offrirebbero volontarj a sostenere la sua pericolante fortuna. Ma sotto diversi pretesti, la maggior parte di costoro avendolo abbandonato, i fedeli alle sue bandiere si ridussero prima a duemila, poi a soli cinquecento. Il Cral, o despota dei Serviani28, lo [p. 256 modifica]accolse con umanità; ma dal personaggio di confederato, Giovanni Cantacuzeno a mano a mano discese a quello di supplicante, di ostaggio e di prigioniero, ridotto a mendicare udienza da un Barbaro, arbitro in quel momento della vita e della libertà d’un Imperatore romano. Nondimeno, non vi furono seducenti offerte che potessero movere il Cral a violare le leggi dell’ospitalità; e solamente vedutosi costretto a seguir la parte di chi era più forte, rimandò, senza fargli verun insulto, l’amico suo Cantacuzeno, che si trasferì in altre bande a correre nuove vicissitudini di pericoli e di speranze. [A. D. 1341-1347] Le fazioni de’ Cantacuzeni e de’ Paleologhi, de’ Nobili e de’ plebei, infestavano le città delle loro dissensioni, e sollecitavano, or l’una, or l’altra, i Bulgari, i Serviani, i Turchi ad ultimare, chè fu questa la conclusione, l’esterminio di entrambe. Cantacuzeno intanto deplorava le calamità, delle quali fu autore e vittima in uno; e da una fatale esperienza di sè medesimo dedusse una giusta ed arguta osservazione intorno alla differenza che avvi tra le guerre civili e le guerre straniere; „le straniere, dic’egli, somigliano ai calori estivi dell’atmosfera, sempre tollerabili, talvolta utili; ma le civili non possono venir paragonate che ad una febbre ardente che i principj della vita diminuisce e distrugge„29.

L’imprudenza commessa dalle nazioni venute a civiltà, allorchè hanno frammesse nelle proprie contese le popolazioni de’ Barbari o de’ Selvaggi, partorì mai [p. 257 modifica]sempre effetti non men funesti che obbrobriosi per esse; tristo espediente che può giovar talvolta all’interesse dell’istante, ma che ripugna del pari ai principj della umanità e della ragione. È uso prevalso fra le due parti belligeranti che l’una rampogni l’altra di essere stata la prima a contrarre una lega sì mostruosa; e d’ordinario la parte accusatrice è quella cui tornò male siffatta negoziazione, e pure si mostra inorridita di un cattivo esempio, che se essa non diede, fu solamente perchè l’esito ai suoi tentativi non corrispose. I Turchi dell’Asia erano forse men barbari de’ pastori della Bulgaria e della Servia, ma la lor religione li facea nemici implacabili di Roma e de’ Cristiani. Le due fazioni adoperarono or donativi, ora atti di avvilimento per cattivarsi l’amicizia degli Emiri. Cantacuzeno fu sì accorto, che ebbe in questo la preferenza; ma le nozze della figlia del medesimo con un Infedele, e la cattività di più migliaia di Cristiani, furono l’odioso guiderdone del soccorso degli Ottomani; e una vittoria riportata colle loro armi, avendo aperto ad essi il cammin dell’Europa, affrettò la rovina de’ crollanti avanzi dell’Impero romano. Le cose presero più favorevole aspetto per Cantacuzeno, cui liberò da un implacabil nemico, la morte di Apocauco, ben da costui meritata e in singolar modo accaduta. Arrestati furono per suo ordine nella Capitale e nelle province molti Nobili e plebei che odiava, o temeva, e tenendoli rinchiusi nel vecchio palagio di Costantinopoli, stava solertemente adoprandosi a farne alzare le mura, ristringer le stanze, e a tutto quanto potea rendere più sicura e più aspra la lor prigionia. Un dì che avendo lasciato alla porta le proprie guardie, s’intertenea [p. 258 modifica]nel cortile interno per sollecitare colla sua presenza il lavoro degli architetti, due coraggiosi prigionieri della famiglia de’ Paleologhi, armati di bastoni, e dalla disperazione animati, si scagliarono sull’Ammiraglio che stesero morto ai loro piedi30. Grida di vendetta e di libertà rintronarono d’ogn’intorno, tutti i prigionieri infransero le lor catene, e sbarrati gl’ingressi di quell’edifizio esposero sui merli la testa di Apocauco, sperando ottenere l’approvazione del popolo e la clemenza dell’Imperatrice, cui forse non dispiaceva tanto il vedersi sciolta d’un arrogante ed ambizioso ministro; ma mentre questa nelle sue deliberazioni esitava, la plebe, e soprattutto le ciurme de’ marinai, eccitate dalla vedova dell’Ammiraglio, atterrarono gli ostacoli che ad entrar nella prigione opponeansi, facendo man bassa sui primi che lor si offerivano. Que’ prigionieri, in gran numero innocenti della morte di Apocauco, o che piuttosto non parteciparono alla gloria di averlo punito, rifuggitisi in un tempio, vennero trucidati a piè degli altari; talchè la morte di questo scellerato non produsse effetti men sanguinosi della sua vita. Ciò nulla meno al solo ingegno di costui reggeasi la causa del giovine Imperatore, perchè i partigiani di Apocauco, gelosi gli uni degli altri, trasandavano le cose della guerra, e nel tempo stesso ricusavano ogni offerta di pace. Fin sul principio delle civili discordie, l’Imperatrice avea compreso e confessato ella stessa che i nemici di Cantacuzeno la ingannavano, ma il Patriarca, dopo avere predicato con forza contro il [p. 259 modifica]perdono delle offese, obbligò la Principessa con giuramento di eterno odio, minacciandola delle tremende folgori della scomunica se questo giuramento infrangea31. Anna di Savoia, confermatasi ne’ sentimenti dell’odio per timore dell’anatema, nol paventò in appresso, quando sembrava che il Patriarca mutasse d’avviso; perchè all’odio si aggiunse la gelosia, mossa dal pensare che una riconciliazione con Cantacuzeno la esponeva a vedersi in competenza di un’altra Imperatrice. Un tal pensier tormentoso rendendola indifferente sulle calamità dell’Impero, ella minacciò a sua volta il Patriarca, mostratosi proclive alla pace, di radunare un Sinodo e rimoverlo dalla sua dignità. Di cotali dissensioni e di questa incapacità de’ nemici avrebbe potuto in concludente modo vantaggiar Cantacuzeno; ma la debolezza delle due fazioni non valse che a protrarre la guerra civile, e a tal proposito la moderazione dello stesso Cantacuzeno fu qualificata d’indolenza e di timidezza. Ciò nonostante datogli tempo di occupare a mano a mano le città e le province, i dominj dell’Imperatore pupillo al solo recinto di Costantinopoli vedeansi ridotti. Ma in quello stato di cose, la sola Capitale contrabbilanciava il rimanente dell’Impero, e prima di accingersi a così rilevante conquista, l’Imperatore esterno volle procacciarsi e partigiani e segrete intelligenze al di dentro.

[A. D. 1347] Un Italiano, di cognome Fac[p. 260 modifica]ciolati32 succeduto alla dignità di Gran Duca [A. D. 1347] comandava la flotta, le guardie e la Porta d’Oro; ma più perfido che ambizioso, non disdegnò i premj del tradimento, dal qual tradimento per altro derivò che lo stato politico delle cose cambiasse senza veruno spargimento di sangue. Sfornita d’ogni modo di resistenza e d’ogni speranza di soccorso l’inflessibile Anna di Savoia, volea tuttavia, difendendo la reggia, contrastare l’ingresso in Bisanzo alla rivale, dimostratasi pronta a veder in cenere la Capitale anzichè un’altra Imperatrice sul trono; ma tanto furore nè a una parte, nè all’altra piaceva, onde il vincitore dettò le condizioni del Trattato, in cui rinnovellò le sue proteste di zelo e di affetto verso il figliuolo del suo antico benefattore. In quella occasione seguirono le nozze della figlia di Cantacuzeno con Giovanni Paleologo, i cui diritti ereditarj vennero stipulati nel Trattato, con che l’amministrazione dell’Impero rimanesse per dieci anni all’Imperatore tutore; onde si videro ad un tempo due Imperatori e tre Imperatrici sedersi sul trono di Costantinopoli. Una generale amnistia avendo calmati i timori e assicurate le proprietà de’ sudditi più colpevoli, vennero celebrate le nozze, e la coronazione, con una esteriorità di concordia e di magnificenza, poco reali ad una stessa maniera. Nel tempo delle ultime turbolenze, erano stati dissipati i tesori dello Stato, e fin guasti, o venduti gli arredi del palagio. Sulla mensa [p. 261 modifica]imperiale non vidersi che vasellami di terra e peltro, e la vanità sostituì alle gemme e all’oro il vetro e i rami dorati33.

Or mi affretto a terminare la storia individuale di Giovanni Cantacuzeno34, divenuto per la sua vittoria padron dell’Impero. Lo scontento di entrambe le fazioni ne turbò il regno, e i suoi trionfi oscurò. I partigiani di lui riguardarono nell’amnistia generale un atto di perdono ai nemici, di dimenticanza degli amici35. Laonde dopo aver veduto per la causa di Cantacuzeno confiscati o saccheggiati i proprj beni, o ridotti allora ad elemosinare per le strade di Costantinopoli, imprecavano l’interessata magnanimità del loro Capo, che salito al trono dell’Impero, del suo patrimonio [p. 262 modifica]particolare s’era spogliato. Intanto gli amici della Imperatrice arrossendo di dovere le sostanze e le vite al favor precario di un usurpatore, palliavano il desiderio della vendetta sotto maschera di tenera sollecitudine per gl’interessi e per la stessa conservazione del giovine Monarca. Diede un’arme a queste inquietudini la domanda fatta dai partigiani di Cantacuzeno per essere sciolti dal giuramento di fedeltà verso i Paleologhi, e posti in possesso di alcune piazze forti ove condur sicuri i lor giorni; al qual fine i faziosi perorarono con molta eloquenza, ma non ottennero dall’imperator Cantacuzeno, in questi termini ce lo narra egli stesso, che un rifiuto dalla mia virtù sublime e quasi incredibile. Per cotal guisa, continue sedizioni e congiure turbarono il suo governo e il ridussero a paventare ad ogni istante che un nemico straniero, o domestico si portasse via il Principe legittimo, e il nome di questo, e i torti che si asserivano ad esso arrecati, servissero di pretesto alla ribellione. Col crescer negli anni, incominciando il figlio di Andronico ad operare e a sentire da sè medesimo, i vizj che avea ereditati dal padre accelerarono, anzichè ritardare i progressi della sua nascente ambizione; benchè Cantacuzeno, se possiamo credere alle sue proteste, si adoperò con sincero zelo a liberarlo dall’obbrobrio delle sensuali inclinazioni che il dominavano, e a sollevarne l’animo all’altezza della regal dignità. Nella spedizione della Servia, i due Imperatori, ostentando entrambi di essere in ottimo accordo fra loro, si mostrarono congiuntamente agli eserciti e alle province, e Cantacuzeno ammaestrò il suo giovine collega nelle scienze della guerra e della amministrazione. Conchiusa la pace, [p. 263 modifica]lasciò il rivale in Tessalonica, residenza reale situata sulla frontiera, onde ritorlo in tal guisa alle seduzioni di una città voluttuosa, e far sicura colla sua lontananza la tranquillità della metropoli; ma per questa lontananza medesima, perdè molta parte di potere sul figlio di Andronico, che attorniato da cortigiani o inconsiderati, o maligni, prese scuola di abborrire il tutore, di riguardarsi come confinato in esilio, di tentar tutto per ricuperare i proprj diritti. Collegatosi di soppiatto col despota della Servia, non andò guari che col contegno di aperto nemico si palesò. Cantacuzeno, che stava sul trono d’Andronico il Vecchio, difese la causa dell’età e della preminenza, quella causa medesima, che essendo giovine, avea con tanto vigor combattuta. Le sollecitazioni da lui fattesi all’Imperatrice madre, poterono sì, che questa donna, promettendogli la sua mediazione, imprendesse un viaggio a Tessalonica; ma ne tornò addietro senza alcun frutto; e per vero dire, a meno che le avversità non avessero operato un gran cambiamento nell’animo di Anna di Savoia, è lecito il dubitare del fervore, e anche della sincerità con cui la sua commissione adempiè. Ben Cantacuzeno, però tenendo sempre con mano ferma e vigorosa lo scettro, aveva incaricato Anna di rimostrare al figlio suo che i dieci anni dell’amministrazione del suocero stavano per finire, essere egli già stanco de’ vani onori del Mondo che avea posseduti assai lungo tempo, non sospirare oggi mai che il riposo del chiostro e la corona del Cielo. Ma se tali fossero state veramente le sue intenzioni, potea, rassegnando allora lo scettro, restituire la pace all’Impero, e con un atto di giustizia mettere in pace la propria coscienza. Così [p. 264 modifica]avrebbe lasciati al solo Paleologo o la lode, o il biasimo del suo governo; e quai che stati fossero i vizj del giovane, non si poteano mai temerne conseguenze tanto funeste quanto i flagelli di una guerra civile, nella quale le due fazioni si valsero nuovamente dei Barbari e degl’Infedeli che la distruzione dell’una e dell’altra affrettarono.

[A. D. 1353] Il soccorso de’ Turchi che allora si stanziarono in Europa per non più ripartirne, avendo fatto trionfante Cantacuzeno anche in questa terza contesa, Paleologo sconfitto e per terra e per mare dovette cercarsi un asilo presso i Latini dell’isola di Tenedo. L’ardire e la pertinacia del giovine spinsero il vincitore ad un atto che di sua natura rendea irreconciliabile la querela: quella cioè di vestir della porpora il proprio figlio Mattia, collegandolo all’Impero e trasportando così la successione del trono nella famiglia de’ Cantacuzeni. Ma Costantinopoli serbando tuttavia affezione al sangue de’ suoi antichi padroni, questo ultimo affronto affrettò il ritorno del legittimo erede. Un Nobile genovese, dopo avere ottenuta da Paleologo la promessa di sposarne la sorella, imprese di ritornarlo in trono, e due galee e duemila cinquecento ausiliari gli bastarono a mantener la promessa. Sotto pretesto di soccorrerle penurianti, queste galee vennero ricevute in rada, e apertasi una porta di Costantinopoli, i soldati latini sclamarono congiuntamente, „Vittoria e lunga vita all’imperatore Giovanni Paleologo„ al qual grido corrispose la sollevazione degli abitanti. Rimanea tuttavia una copiosa mano di uomini fedeli a Cantacuzeno, ma questo principe afferma nella sua Storia (chi poi glielo crede?) che sicuro di ottener la vittoria, ne fece un sa[p. 265 modifica]grifizio agli scrupoli delicati di sua coscienza, e obbedendo alle voci della religione e della filosofia, scese dal trono per chiudersi con alacrità nel solitario recinto di un monastero36. Rassegnata che ebbe la corona, il successore gli lasciò godere in pace la fama di Santo cui aspirò consagrando il rimanente de’ suoi giorni, o allo studio, o alle pratiche della pietà cenobitica. E a Costantinopoli, e nel monastero del monte Atos, Fra Giosafatte, fu sempre rispettato come il padre temporale e spirituale dell’Imperatore, nè uscì mai dal proprio ritiro, che col carattere di ministro di pace, e per vincere l’ostinazione del suo figlio ribelle, e per ottenergli perdono37.

[A. D. 1341-1351] Il nostro monaco nella sua solitudine del chiostro addestrò alle guerre teologiche la mente, aguzzando contra i Maomettani e gli Ebrei, gli strali della controversia38 e difendendo la divina luce del [p. 266 modifica]monte Tabor, quistione memorabile, e sublime parto della follia religiosa de’ Greci, che, in tutti gli stati della sua vita, avea tenuto l’animo di Cantacuzeno. I Fachiri dell’India39 e i monaci della Chiesa orientale andavano parimente persuasi, che nell’astrazione assoluta dalle facoltà del corpo e della immaginazione, il puro spirito potesse sollevarsi al godimento o alla visione della divinità. Le espressioni dell’Abate che governava i monasteri del monte Atos40 nel secolo XI ne additeranno in più sensibile guisa l’opinione e le pratiche di questi frati. „Quando sarete soli, dice il Dottore asiatico, chiudete la porta, e sedetevi in un angolo della vostra celletta; sollevate la vostra immaginazione al di sopra di tutte le cose [p. 267 modifica]vane e transitorie; appoggiate la barba e il mento sul vostro petto; volgete gli sguardi e i pensieri verso la metà del ventre, ove è posto il vostro ombelico, e cercate la parte del cuore, sede dell’anima. Tutto vi parrà sulle prime malinconico e cupo, ma se continuerete giorno e notte in questo esercizio, proverete una gioia ineffabile; perchè quando l’anima ha scoperto il posto del cuore, trovasi avvolta in una luce mistica ed eterea„. Questa luce, produzione di una immagione inferma, di uno stomaco e d’un cervello vôto, veniva adorata dai Quietisti come l’essenza pura e perfetta del medesimo Dio. Sintanto che questo delirio rimase confinato ne’ monasterj del monte Atos, que’ Solitarj semplici nella lor credenza, non pensarono ad informarsi in qual modo l’essenza divina potesse farsi sostanza materiale, o una sostanza immateriale rendersi sensibile agli occhi del corpo. Ma sotto il regno d’Andronico il Giovane, si trasferì a visitare questi conventi Barlamo, frate della Calabria41, egualmente istrutto nella Filosofia e nella Teologia, nelle lingue greca e latina, e d’ingegno sì pieghevole, che sapea, giusta l’interesse del momento, sostenere opinioni contraddittorie fra loro. Un imprudente Solitario rivelò al viaggiatore i misteri dell’orazione mentale, o contemplativa, occasione che Barlamo non si lasciò sfuggire per deridere i Quietisti, i quali metteano l’anima nell’ombelico, [p. 268 modifica]e per accusare di eresia e di bestemmia i monaci del monte Atos. Gli argomenti del Calabrese avendo costretti i più assennati ad abbiurare le mal fondate opinioni de’ lor fratelli, o almeno a dissimularle, Gregorio Palamas mise in campo una distinzione scolastica fra l’essenza e gli atti di Dio. L’essenza divina, inaccessibile, giusta il dir di Gregorio, risiede in mezzo ad una luce increata ed eterna, visione beatifica de’ Santi, che si era manifestata ai discepoli sul monte Tabor nella Trasfigurazione di Gesù Cristo. Ma una tal distinzione non potè sottrarsi alla taccia di Politeismo, e Barlamo con veemenza negò l’eternità della luce del monte Tabor, accusando i Palamiti di riconoscere due sostanze eterne, ossia due divinità, l’una visibile e l’altra invisibile. Dal monte Atos, ove il furore de’ monaci gli minacciava la vita, il frate calabrese si rifuggì a Costantinopoli, e quivi con modi urbani e gradevoli si cattivò affezione dal Gran Domestico e dall’Imperatore. La Corte e la città presero parte a questa querela teologica, al cui progresso i disordini della guerra civile non furono inciampo. Ma Barlamo avendo colla fuga e coll’apostasia disonorata la propria dottrina, trionfarono i Palamiti; e il Patriarca Giovanni d’Apri loro avversario venne rimosso per consenso unanime delle due fazioni che dividean lo Stato. Cantacuzeno come Imperatore e teologo, presedè al Sinodo della Chiesa greca42, che pose articolo di fede la luce increata del [p. 269 modifica]monte Tabor; e veramente dopo tant’altre assurdità ammesse, la ragione umana non dovette sdegnarsi dell’aggiunta anche di questa. Cataste di carte e di pergamene vennero imbrattate per registrarvi coteste dispute, e i settarj impenitenti che ricusarono sottoscrivere il nuovo Simbolo, andarono privi degli onori della sepoltura cristiana; ma fin dal principio del secolo successivo cotal controversia andò in dimenticanza, nè trovo che il ferro o il fuoco sieno stati posti in opera per estirpar l’eresia di frate Barlamo43.

[A. D. 1291-1347] Ho riserbata alla fine di questo capitolo la guerra de’ Genovesi, che scosse il trono di Cantacuzeno, e la debolezza dell’Impero fe’ manifesta. I Genovesi che occupavano il sobborgo di Pera, o di Galata, dopo la espulsione de’ Latini da Costantinopoli, riceveano questo onorevole feudo dalla bontà del Sovrano, il quale permettea loro regolarsi colle proprie leggi, e obbedire a Magistrati di lor gente, con che ai doveri di vassalli e di sudditi si sommettessero. Toltasi dai [p. 270 modifica]Latini la denominazione espressiva d’uomini ligi44, il Podestà o Capo de’ Genovesi, prima di prendere possesso del suo uffizio, prestava giuramento di fedeltà all’Imperatore. La repubblica di Genova intanto unitasi in salda lega coi Greci, si era obbligata, accadendo guerre difensive, a somministrare cento galee, e una metà di esse armate e istrutte di uomini a proprie spese, in soccorso del Governo confederato. Michele Paleologo che durante il suo regno pose le sue principali cure a ristorare la forza marinaresca de’ Greci per non dover più dipendere da estranei aiuti, con un vigoroso reggimento contenne i Genovesi di Galata entro que’ limiti che l’audacia prodotta dalla ricchezza, e lo spirito repubblicano gli avrebbe spesse volte indotti ad oltrepassare. Un marinaio di questa nazione avendo un dì millantato che i suoi compatrioti non tarderebbero ad essere padroni della Capitale, uccise indi un Greco che tale asserzione avea mosso a sdegno. Si arroge che un legno da guerra genovese, passando dinanzi al palagio, ricusò il saluto, e si fe’ di poi leciti alcuni atti piratici sul mar Nero. E già i Genovesi si preparavano in difesa de’ colpevoli; ma cinti da truppe imperiali per tutti i dintorni di Galata, aperta d’ogni banda, e sull’istante di vedersi assaliti, la clemenza del Sovrano umilmente implorarono. Lo stato indifeso di Galata, e per una parte [p. 271 modifica]tenea i Genovesi meglio soggetti, e gli esponea per l’altra agli assalti de’ Veneziani, rivali del loro commercio, e che sotto il regno del vecchio Andronico osarono insultare la maestà del trono di Costantinopoli. Appena i Genovesi videro avvicinarsi la flotta di questi nemici, colle loro famiglie e sostanze si ripararono nella città. Essendo stato incenerito dalle truppe sbarcate il sobborgo, il Principe pusillanime, spettatore dell’incendio, si limitò a farne tranquillamente le rimostranze al Governo veneto, mandandogli un’ambasceria. Ma i Genovesi traendo da questa passeggiera calamità un vantaggio durevole, ottennero il concedimento di innalzar mura forti intorno a Galata, di cingerle di fossa e introdurvi l’acqua del mare, di guarnire i baloardi di torri e di macchine da difesa, concedimento di cui ben tosto abusarono. Gli stretti limiti delle antiche abitazioni non bastando a contenere l’aumentata loro colonia, nuovi terreni a mano a mano acquistarono, sicchè i vicini poggi apparvero coperti di case villerecce, ed ancor di castella che congiunsero all’antico soggiorno, munendole di fortificazioni comuni con esso45. Gl’Imperatori greci, padroni dello stretto canale che può dirsi porta del mar interno, riguardavano il commercio e la navigazione [p. 272 modifica]del Ponto Eussino siccome una parte di lor patrimonio; la qual prerogativa de’ medesimi, sotto il regno di Michele Paleologo, fu riconosciuta dal Sultano d’Egitto, che sollecitò ed ottenne la permissione di spedire ogni anno un vascello nella Circassia e nella picciola Tartaria per l’acquisto di schiavi, acquisto perniciosissimo ai Cristiani, perchè questi schiavi veniano educati all’uopo di rinforzare il formidabile esercito de’ Mammalucchi46. La colonia genovese di Pera datasi con vantaggio ad un commercio lucroso sul mar Nero, somministrava ai Greci e grani e pesci, derrate quasi egualmente indispensabili ad un popolo superstizioso. Sembra che la natura faccia crescere da sè medesima le copiose messi dell’Ucrania; chè, certo la coltivazione di quel territorio è trascurata oltre ogni dire e selvaggia; e gli enormi storioni pescati verso la foce del Don e Tanai, allorchè si conducono nelle acque grasse e profonde delle Paludi Meotidi, offrono una sorgente inesausta al commercio del caviale e del pesce salato47. Le acque dell’Osso, del mar Caspio, del Volga e del Don aprivano un passaggio faticoso e [p. 273 modifica]pieno di rischi alle droghe e alle gemme dell’India che condotte dalle carovane di Carizmia, trovavano dopo un cammino di tre mesi i navigli italiani nei porti della Crimea48. Di tutti questi rami di commercio impadronitisi i Genovesi, costrinsero i Veneziani e i Pisani ad abbandonarli. Colle città e colle Fortezze che di soppiatto innalzavano dalle fondamenta delle modeste lor fattorie, teneano in rispetto i nativi, e vani furono gli sforzi de’ Tartari nell’assediar Caffa49, principale possedimento de’ Genovesi nella Crimea. I Greci sforniti affatto di navilio, dipendeano in tutto da questi arditi mercatanti, che a seconda del loro capriccio o interesse, or provvedevano, or affamavano Costantinopoli. Appropriatisi questi la pesca e le dogane, poser mano fin sui regali diritti del Bosforo, d’onde traevano una rendita di dugentomila piastre d’oro, lasciandone a fatica all’Imperatore sol trentamila50. Fosse tempo di pace o di guerra, Galata, ossia la colonia di Pera, come Stato independente si comportava, a talchè spesse volte il Podestà genovese dimenticavasi della sua re[p. 274 modifica]pubblica, sventura che accadrà sempre alle madri patrie di colonie lontane.

[A. D. 1348] La tracotanza de’ Genovesi animarono e la debolezza di Andronico il Vecchio e le guerre civili che negli ultimi anni della sua vita lo travagliarono, e la minorità del suo pronipote. L’ingegno di Cantacuzeno alla rovina anzichè alla difesa dell’Impero fu adoperato; e dopo avere compiuta vittoriosamente la guerra civile, videsi ridotto all’obbrobrio di sottomettere ad un giudizio la quistione, se i Greci, o i Genovesi dovessero regnare in Bisanzo. Per un rifiuto di alcune terre vicine, di alcune eminenze, su di cui voleano innalzare nuove fortificazioni, sdegnatisi i mercatanti di Pera, presero il destro della lontananza dell’Imperatore, trattenuto a Demotica da una infermità, per affrontare il debole governo della Imperatrice. Questi audaci repubblicani, dopo assalito e mandato a fondo un naviglio di Costantinopoli che si era fatto lecito di pescare all’ingresso del porto, dopo averne trucidate le ciurme, anzichè sollecitare il perdono, osarono chiederne risarcimento; e pretendendo che i Greci rinunziassero ad ogni specie di navigazione, respinsero con truppe assoldate i primi moti dello sdegno di quella nazione. Tutti i Genovesi della Colonia, senza distinzione di sesso o di età, si diedero con incredibile diligenza ad occupare il terreno che loro veniva ricusato, ad innalzare un saldo muro, a circondarlo di profondissima fossa. Nel tempo stesso, assalirono ed arsero due galee di Bisanzo, e tre altre, in cui stavansi i resti dell’imperiale marineria, per evitare la medesima sorte, dovettero darsi alla fuga. Saccheggiate e distrutte tutte le abitazioni che si trovavano [p. 275 modifica]fuori del porto, o lungo la riva, il Reggente e l’Imperatrice non trovarono il tempo che per pensare a difendere la Capitale. Il ritorno di Cantacuzeno sedò il pubblico spavento; ma egli inclinava a pacifici temperamenti, intanto che la fazione ad essi opposta, non voleva ascoltare partiti ragionevoli; onde si vide costretto a cedere all’ardore de’ suoi sudditi, che valendosi dello stile della Scrittura, minacciavano i Genovesi di metterli in polve, come vasi d’argilla, e intanto pagavano a stento le tasse imposte per la costruzione delle navi e per l’altre spese di guerra. Le due nazioni essendo padrone l’una della terra, l’altra del mare, Costantinopoli e Pera soffrivano egualmente tutti gl’incomodi di un assedio; i mercatanti coloniarj che aveano sperato vedere in pochi giorni definita questa contesa, incominciavano a lagnarsi delle loro perdite; la repubblica di Genova, straziata dalle fazioni, tardava ad inviare soccorsi; e i più antiveggenti abbracciarono l’opportunità di un vascello di Rodi per allontanare dal teatro della guerra le sostanze loro e le loro famiglie. All’aprirsi di primavera, la flotta di Bisanzo, composta di sette galee e d’alcuni piccioli navigli, mossa dal porto, si condusse tutta in una linea verso la riva di Pera, presentando incautamente il fianco alla prora degli avversarj. Non erano in quelle ciurme che contadini e operai, ignoranti delle cose di mare, e che nè manco aveano in compenso il coraggio naturale de’ Barbari. Spirava gagliardo il vento, grosso mostravasi il fiotto; per cui costoro appena videro la squadra nemica, immobile tuttavia, si precipitarono in mare, commettendosi ad un pericolo certo per evitarne un dubbioso. Nel tempo medesimo un [p. 276 modifica]terror panico invase le truppe di terra che marciavano ad assalire i trinceamenti di Pera, onde i Genovesi stupirono e vergognarono quasi di una doppia vittoria che sì poco ad essi era costata: le loro navi, coronate di fiori, provvidero di marinai le galee abbandonate dai Greci, conducendole per più riprese in trionfo dinanzi alle mura dell’imperiale palagio. Sola virtù di cui potesse in tale istante pompeggiar Cantacuzeno era la rassegnazione, sol conforto la speranza di vendicarsi. Ciò nulla meno lo sfinimento cui trovavansi ridotte entrambe le parti, le obbligò ad un momentaneo accomodamento, e l’Imperatore cercò palliare l’obbrobrio dell’Impero sotto alcune lievi apparenze di dignità e di possanza. Convocati i Capi della Colonia, mostrò non curare come degno di sprezzo l’argomento della contesa, e fatti alcuni blandi rimproveri ai Genovesi, concedè loro generosamente le terre che già aveano occupate, e che per formalità solamente volle, o parve volere venissero consegnate dai suoi ufiziali51.

[A. D. 1352] Non andò guari che l’Imperatore venne sollecitato a rompere l’accordo e a collegar le sue armi con quelle de’ Veneziani, perpetui nemici de’ Genovesi e delle loro colonie. Mentre egli stava così titubando tra la pace e la guerra, gli abitanti di Pera, ne riacceser lo sdegno col lanciare da lor baloardi un masso, che nel mezzo di Costantinopoli venne a cadere. [p. 277 modifica]Mossene doglianze dall’Imperatore, si scusarono senza scompigliarsi col rinversarne la colpa sopra un dei loro ingegneri. Ma alla domane ricominciarono questa prova, manifestandosi ben contenti di avere imparato che Costantinopoli non era fuor di gittata per la loro artiglieria. Allora Cantacuzeno sottoscrisse il Trattato propostogli dai Veneziani; ma la potenza dell’Impero romano poco aggiunse, o levò nella querela di queste due ricche e potenti repubbliche52. Dallo stretto di Gibilterra sino alle foci del Tanai, le loro flotte si combattettero per più riprese senza conseguenze decisive per nessuna delle due parti, finchè venisse il momento della memoranda battaglia datasi nell’angusto braccio di mare che bagna le mura di Costantinopoli. Non sarebbe sì agevol cosa il conciliare insieme i racconti de’ Greci, de’ Veneziani e de’ Genovesi53. Tenendomi sulle tracce d’uno Storico imparziale54, desumerò da ciascuna di queste nazioni i fatti che i loro scrittori narrano, o a svantaggio della lor parte, o ad onore della parte av[p. 278 modifica]versaria. I Veneziani, fiancheggiati dai Catalani loro collegati, aveano il vantaggio del numero, perchè la loro flotta, compresovi il debole soccorso di otto galee di Bisanzo, andava composta di settantacinque vele, mentre i Genovesi non ne contavano più di sessantaquattro. Ma i vascelli da guerra di questi oltrapassavano, in quel secolo, di forza e grandezza le navi di tutte le altre Potenze marittime. Comandava la flotta de’ primi il Pisani, quella de’ secondi il Doria, uomini, le famiglie e i nomi de’ quali tengono onorevole sede ne’ fasti della lor patria; ma l’ingegno e la fama del Doria oscuravano i meriti del suo rivale. Incominciò la pugna nel momento di una tempesta, e durò tumultuosamente dall’aurora sino alla notte. I nemici de’ Genovesi dan lode al valore di questi; ma la condotta de’ Veneziani nè manco ottenne l’approvazione de’ loro amici; entrambe le parti furono unanimi negli encomj tributati alla maestria e al valore de’ Catalani, che coperti di ferite sostennero il maggior impeto della zuffa. Al separarsi delle due flotte potea dubitarsi, qual fosse la vincitrice. Benchè se i Genovesi perdettero tredici galee, prese o mandate a fondo, per parte loro ne distrussero ventisei, due de’ Greci, dieci de’ Catalani, e quattordici de’ Veneziani. Il mal umore dei vincitori, diè a divedere uomini avvezzi a contare sopra vittorie più luminose: ma il Pisani venne a confessare la propria sconfitta col riparare ad un porto affortificato, d’onde, col pretesto di obbedire agli ordini della sua repubblica, veleggiò cogli avanzi di una flotta fuggitiva e posta in disordine, all’isola di Candia, lasciando il mare libero ai suoi nemici. [p. 279 modifica]Il Petrarca55 in una lettera pubblicamente indiritta al Doge e al Senato, adopera la sua eloquenza a riconciliare le due Potenze marittime, da lui chiamate fiaccole dell’Italia. Celebra il valore e la vittoria de’ Genovesi, ch’ei riguarda siccome i più abili marinai dell’Universo, deplorando la sventura de’ Veneziani lor confratelli, li stimola ad inseguire col ferro e col fuoco i vili e perfidi Greci, e far monda la capitale dell’Oriente dall’eresia di cui la aveano infestata. Lasciati in abbandono dai loro confederati, aveano anche perduta ogni speranza di poter resistere i Greci, onde tre mesi dopo questa battaglia navale, l’Imperatore Cantacuzeno sollecitò, e pervenne a sottoscrivere un Trattato coi Genovesi, i cui patti erano un perpetuo bando de’ Catalani e de’ Veneziani, e il concedimento ai primi di tutti i diritti del commercio e poco meno che della sovranità. L’Impero romano (chi può non sorridere nel chiamarlo ancora con questo nome?) sarebbe divenuto ben presto una pertenenza di Genova, se alla ambizione di questa repubblica non avessero tarpate l’ali la perdita della libertà e la distruzione della sua flotta. Una lunga contesa di cento trent’anni, fu conchiusa dal trionfo della Repubblica di Venezia: e le fazioni intestine che dilaceravano i Geno[p. 280 modifica]li costrinsero a cercar la pace domestica sotto il dominio di un padrone straniero, fosse il Duca di Milano, o il Re di Francia. Nondimeno, sbandita l’idea delle conquiste, i Genovesi serbarono l’antico genio al commercio: la colonia di Pera continuò a signoreggiare la Capitale e la navigazione del mar Nero, fino all’istante che la conquista de’ Turchi nel disastro di Bisanzo l’avvolse.

Note

  1. Andronico che ha pronunziate tante invettive contro la parzialità degli Storici (Niceforo Gregoras, l. 1, c. 1), preparò egli medesimo le nostre scuse se or ci prendiamo qualche libertà nel parlare di lui: gli è però vero che le censure del greco Principe andavano a ferire la calunnia, anzichè l’adulazione.
  2. Il timore dell’inferno, vale a dire di un luogo di castigo per le colpe, deve essere in ognuno, ed era anche in Andronico. (Nota di N. N.)
  3. Circa l’anatema trovato nel nido de’ colombi v. Pachimero (l. IX, cap. 24). Questo scrittore racconta tutta la storia di Atanasio (l. VIII, c. 13-16-20-24; l. X, c. 27-29-31-36; l. XI, c. 1-3-5, 6; l. XIII; c. 8-10-20-35), e ove Pachimero finisce, continua Niceforo Gregoras (l. VI, 5-7; l. VII, c. 1-9), che comprende nel suo racconto la seconda ritirata di questo nuovo Grisostomo.
  4. Pachimero in sette libri di trecento settantasette pagine in folio, narra la Storia de’ trentasei primi anni del regno di Andronico il Vecchio, e ne dà cognizione delle date col non omettere le novellette o le menzogne correnti alla giornata (A. D. 1308). La morte o le afflizioni gli impedirono di continuare.
  5. Dopo un intervallo di due anni, contati dall’istante ove l’opera di Pachimero finisce, Cantacuzeno prende la penna, e il suo primo libro (c. 6-59, p. 9-150) contiene il racconto delle guerre civili, e degli otto ultimi anni del regno di Andronico il Vecchio. Il presidente Cousin, che ha tradotta questa Storia è pur l’autore della leggiadra comparazione tra Cantacuzeno, Mosè e Cesare.
  6. Niceforo Gregoras racconta in compendio il regno e tutta la vita di Andronico il Vecchio (l. VI, cap. 1; l. X, c. 1, p. 96-291). Di tal parte di Storia si duol Cantacuzeno, il quale vi trova una falsa e maligna interpretazione della propria condotta.
  7. Fu coronato nel giorno 21 maggio 1295; morì ai 12 ottobre 1320 (Ducange, Fam. byzant. p. 239). Il fratello di lui Teodoro, erede, per un secondo maritaggio, del marchesato di Monferrato, abbracciò la religione e i costumi de’ Latini ( ότι και γνωμη και πιστει και σχηματι, και γενειων κουρα και πασιν αθεσιν Λατινος ην ακραιφνης, era Latino puro, e nelle massime, e nella fede, e nell’abito, e nell’uso di sbarbarsi le guancie, Niceforo Gregoras, l. IX, c. 1), e fondò una dinastia di Principi italiani che si estinse nel 1353 (Ducange, Fam. byzant., p. 249-253).
  8. Noi sappiamo da Niceforo Gregoras (lib. VIII, c. 1) questo tragico avvenimento. Cantacuzeno nasconde con molto riguardo i vizj del giovine Andronico, de’ quali fu testimonio, e probabilmente anche complice (l. I, c. 1 ec.).
  9. Andronico voleva eleggersi in successore Michele Cattaro, figlio non legittimo di Costantino suo secondogenito. Niceforo Gregoras (l. VIII, c. 3) e Cantacuzeno (l. I, c. 1 e 2) narrano entrambi il divisamento di escludere dal trono il giovane Andronico.
  10. V. Niceforo Gregoras (l. VIII, cap. 6). Andronico il Giovane si lamentava perchè gli era dovuta, da quattro anni e quattro mesi, una somma di trecencinquantamila bisantini d’oro per le spese della sua casa (Cantacuzeno, l. I, c. 48). Nondimeno sarebbe stato pronto a rimettere questo debito, semprechè gli fosse stato permesso di mettere a contribuzione gli appaltatori delle pubbliche rendite.
  11. Mi sono attenuto alla Cronologia di Niceforo perchè esattissima. È cosa provata che Cantacuzeno ha commessi sbagli nelle date, fin delle cose operate da lui, ovvero che il suo testo è stato alterato dall’ignoranza de’ copisti.
  12. Ho cercato di conciliare le ventiquattromila piastre di Cantacuzeno (l. II, c. 1) colle diecimila di Niceforo Gregoras (l. IX, c. 2). Il primo voleva nascondere, l’altro procurava di esagerare le calamità del vecchio Imperatore.
  13. V. Niceforo Gregoras (lib. IX, 6, 7; 8-10-14; l. X, c. 1). Questo Storico partecipò alla prosperità del suo benefattore, lo seguì nel ritiro. Un uomo che segue il suo padrone fino al talamo ferale, o nel monastero, non dovrebbe essere con leggerezza qualificato, siccome uom mercenario, e prostitutore d’elogi.
  14. Cantacuzeno (l. II, c. 1-40, p. 191-339) e Niceforo Gregoras (l. IX, c. 7; l. XI, c. 11, pag. 262-371) hanno scritta la Storia del regno d’Andronico il Giovane incominciando dalla rinunzia dell’avo.
  15. Agnese, o Irene era figlia del Duca Enrico il Maraviglioso, Capo della Casa di Brunswick, e quanto discendente del famoso Enrico il Lione, duca di Sassonia e di Baviera, e vincitore degli Slavi della costa del Baltico. Erale fratello quell’Enrico che due viaggi in Oriente fecero soprannomare il Greco; ma questi due viaggi essendo accaduti dopo il matrimonio della sorella, io non so, nè come Andronico pensasse a cercarsi una moglie in questo angolo dell’Alemagna, nè quai ragioni ei s’abbia avute per formare un tal parentado (Rimius, Mémoires de la maison de Brunswick, p. 126-137).
  16. Enrico il Maraviglioso fu ceppo del ramo di Grubenhagen, estinto nell’anno 1596 (Rimius, p. 287). Egli abitava il castello di Wolfenbuttel, possessore solamente di un sesto degli allodj di Brunswick e di Luneburgo che la famiglia de’ Guelfi avea salvati dalla confiscazione de’ grandi feudi. Gli spessi parteggiamenti tra fratelli aveano pressochè annichilate le Case de’ Principi di Alemagna, quando finalmente i diritti di primogenitura vennero a gradi a gradi a toglier di mezzo la legge delle divisioni, giusta, ma perniciosa. Il principato di Grubenhagen, uno degli ultimi avanzi della foresta Ercinia, è un paese sterile, pieno di boschi e di montagne (Geografia di Busching, vol. 6).
  17. Il regale Autore delle Memorie di Brandeburgo ne fa conoscere, quanto il Nort dell’Alemagna, anche ne’ tempi più moderni, meritasse l’epiteto di povero e di barbaro (Saggio sui costumi ec.). Nell’anno 1306 alcune bande di schiatta veneda che abitavano la foresta di Luneburgo avevano la costumanza di seppellir vivi i vecchi e gli infermi (Rimius, pag. 137).
  18. Sol con qualche restrizione, anche riferendosi al suo secolo, può ammettersi l’asserzione di Tacito che vuole l’Alemagna affatto priva di preziosi metalli (Germania, c. 5; Annal. 11, 20). Seconda lo Spener (Hist. Germaniae pragmatica, (t. I, p. 351), Argentifodinae in Hercyniis montibus imperante Othone magno (A. D. 968) primum apertae, largam etiam opes augendi dederunt copiam. Ma Rimio (p. 258, 259) porta solamente all’anno 1016 la scoperta delle mine d’argento di Grubenhagen o dello Hartz Superiore, che vennero scavate nel secolo XIV, e che rendono tuttavia considerabili somme alla Casa di Brunswick.
  19. Cantacuzeno le rendè una onorevolissima testimonianza ην δ’εκ Τερμανων αυτη θυγατηρ δουκος ντι μπρουζουικ, era di Germania questa moglie del Duca di Brunzuic. (I Greci moderni si valgono del ντ invece del δ e del μπ invece del β, e il tutto farà in italiano di Brunzuic), του παρ’ αντοις επιφανεστατου, και λαμπροτητι παντας τους όμοφυλους ύπερβαλλοντος του γενους, gloriosissimo fra loro, e che per merito superava tutti i suoi nazionali. Encomio giusto e lusinghiero per un Inglese.
  20. Anna o Giovanna, era una delle quattro figlie del grande Amedeo, venutagli da un secondo maritaggio, e zia paterna del principe che gli succedè, Odoardo Conte di Savoja (Tavole di Anderson, p. 650. V. Cantacuzeno, l. 1, c. 40-42).
  21. Questo Re, sempre che il fatto sia vero, debbe essere stato Carlo il Bello, che nello spazio di cinque anni prese tre mogli (1321-1326; Anderson pag. 628). Anna di Savoia fu ricevuta in Costantinopoli nel mese di febbraio dell’anno 1326.
  22. La nobile stirpe dei Cantacuzeni, illustre fin dopo l’undecimo secolo negli annali di Bisanzo, traeva origine dai Paladini di Francia, gli eroi di que’ romanzi che vennero tradotti e letti dai Greci nel secolo decimoterzo (Ducange, Fam. byzant. p. 258).
  23. V. Cantacuzeno, l. III, c. 24-30-36.
  24. Saserno nelle Gallie, e Columella nell’Italia, o nella Spagna calcolano due paia di buoi, due conduttori, e sei giornalieri per ogni dugento iugeri (125 acri inglesi) di terra da lavoro, e aggiungono tre uomini di più, se il terreno è coperto di macchie (Columella, De re rustica, l. II, cap. 13, p. 441, ediz. di Gessner).
  25. Nel tradurre questa specifica, il presidente Cousin ha commessi tre errori palpabili ed essenziali. 1. Omesso mille paia di buoi da lavoro, 2. traduce πεντακοσι αι προς δισχιλιαις, cinquantaduemila, mille e cinquecento. 3. Confonde miriadi con chiliadi, in guisa che i porci di Cantacuzeno non sarebbero stati più di cinquemila. Fidatevi alle traduzioni!
  26. V. la Reggenza e il regno di Giovanni Cantacuzeno, e la guerra civile cui diede origine, nella Storia scritta da lui medesimo (l. III, c. 1-100, p. 348-700), e parimente nella Storia di Niceforo Gregoras (lib. XII, c. 1, l. XV, c. 9, p. 353-482).
  27. Niceforo Gregoras (l. XII, c. 5) attesta l’innocenza e le virtù di Cantacuzeno, gli obbrobriosi vizj e il delitto di Apocauco; nè dissimula i motivi d’inimicizia personale e religiosa verso del primo: νον δε δια κακιαν αλλων, αιτιος ό πραοτατος της των αλων οδοξον ειναι ωθορας, ora per la malvagità degli altri quest’uomo mansuetissimo parve colpevole della strage di tutti.
  28. I principi della Servia, Ducange, Fam. Dalmat. etc., c. 2, 3, 4-9, venivano nomati despoti in lingua greca, Cral nell’idioma serviano nativo (Ducange gloss. graec., p. 751). Questo titolo, equivalente a quello di Re, trae a quanto sembra l’origine dalla Schiavonia; d’onde passò fra gli Ungaresi, fra i Greci, ed anche fra i Turchi, che serbano il nome di Padisà all’Imperatore (Leunclavius, Pandect. turc. p. 422). Ottenere il titolo di Cral invece di quello di Padisà, è l’ambizione de’ Francesi a Costantinopoli (Avvertimento intorno alla Storia di Timur-Bec, p. 39).
  29. Niceforo Gregoras, l. XII, c. 14. È cosa sorprendente che Cantacuzeno non abbia inserito ne’ suoi scritti questa giusta ed ingegnosa comparazione.
  30. Intorno alla morte di Apocauco, V. Cantacuzeno (l. III, c. 86) e Niceforo Gregoras (l. XIV, c. 10).
  31. Cantacuzeno dà tutte le colpe al Patriarca, risparmiando l’Imperatrice madre del suo Sovrano (l. III, 33, 34), contro della quale Niceforo mostra una singolare avversione (l. XIV; 10, 11; XV, 5); però questi due autori alludono a tempi diversi.
  32. Niceforo Gregoras svela il tradimento e il nome del traditore (l. XV, c. 8); ma Cantacuzeno (l. III, c. 99) ha la circospezione di tacere il nome di un uomo che egli aveva onorato dell’incarico di suo complice.
  33. Niceforo Gregoras (l. XV, 11) dice che vi erano però rimaste alcune perle fine, ma radamente sparse; quanto al rimanente delle gemme παντοδαπην χρσιαν προς το διαυγες, un vario colore di trasparenza.
  34. Cantacuzeno continua la Storia di sè e dell’Impero, incominciando dal suo ritorno a Costantinopoli fino all’anno successivo alla rinunzia di Mattia, figlio dello stesso Cantacuzeno (A. D. 1357, l. IV, c. 1-50, p. 705-911). Niceforo Gregoras termina la sua Storia al Sinodo di Costantinopoli nell’anno 1351 (l. XXII, c. 3, p. 660), perchè il rimanente sino alla fine del libro vigesimoquarto, p. 617, non tratta che di controversie. Gli ultimi quattordici libri di Niceforo si trovano tuttavia in manoscritto, nella Biblioteca nazionale di Francia a Parigi.
  35. L’imperatore Cantacuzeno (lib. IV, c. 1) parla delle proprie virtù, e Niceforo Gregoras delle lagnanze di que’ partigiani che le virtù del lor Capo riducevano alla miseria. Ho attribuito a questi infelici le espressioni, che dopo la restaurazione si adoperavano dai nostri poveri cavalieri, o partigiani di Carlo.
  36. Può rimediarsi alla manifesta confusione con cui Cantacuzeno nella sua ridicola Apologia racconta la propria disgrazia (l. IV, c. 39-42), col leggere la relazione men compiuta, ma più sincera di Mattia Villani (lib. IV, cap. 46 in Script. rer. ital., tom. XIV, pag. 268) e quella di Duca (c. 10, 11).
  37. Cantacuzeno ricevè nell’anno 1375 una lettera del Papa (Fleury, Hist. eccles. t. XX, p. 250), e varie autorità rispettabili mettono la sua morte ai 20 novembre 1419 (Duc., Fam. byzant. pag. 260). Ma se fu coetaneo di Andronico il Giovane, statogli compagno nella giovinezza e ne’ diporti, converrebbe attribuirgli una vita di cento sedici anni, longevità, che trattandosi di un personaggio tanto famoso, non avrebbe sfuggito alle osservazioni generali, se fosse stata vera.
  38. I quattro discorsi di Cantacuzeno vennero pubblicati colle stampe a Basilea nel 1543 (Fabricius, Bibl. graec. t. VI, p. 473). Li compose a quiete di un proselito che i suoi amici tribolavano coll’importunità di continue lettere. Egli avea letto il Corano; ma mi accorgo, leggendo il Maracci, che egli ammettea tutte le favole spacciate contra Maometto e l’Islamismo.
  39. V. i viaggi di Bernier t. I, p. 127.
  40. V. Mosheim (Istit. eccles., p. 522, 523), e Fleury, (Ist. eccl. t. XX, p. 22-24-107-114 ec.). Il primo esamina filosoficamente le cause, il secondo trascrive e traduce(*) dominato dai pregiudizj di un prete cattolico.
    (*) Gli articoli di credenza non possono essere dichiarati che da un Concilio generale, e questo fu particolare. Del resto è molto tempo che la ricerca intorno alla luce del monte Tabor non occupa neppur i teologi, fatti più ragionevoli: era un soggetto da Greci del secolo decimoquarto, in cui menti oziose, e ad entusiasmo composte, prendendo le forme de’ lor sillogismi per principj sodi, e per argomenti sicuri, studiavansi, facendo distinzioni arbitrarie e ricerche vane affatto, a farsi più ignoranti di prima, con una ridicola apparente vernice di dottrina, o ad incamminarsi verso la pazzia. (Nota di N. N.).
  41. Il Basnage (Canizii, antiq. lect. t. IV, pag. 363-368) ha esaminato la storia e il carattere di Barlamo. La contraddizione delle opinioni in più circostanze osservata ha dato motivi a dubbj sull’identità della persona. V. anche Fabrizio, Bibl. graec., t. X, p. 427-432.
  42. Era meglio dire che Fleury riguardava queste cose nel modo teologico e ascetico, e non nel filosofico e fisico. Del resto i Quietisti, Setta cristiana, il cui Capo fu il prete spagnuolo Molinos, furono condannati. Bisogna poi considerare che certe contemplazioni fatte da menti ad entusiasmo composte, danno alle menti stesse illusioni bene spesso vivissime; fanno traviare la ragione, perchè infiammano l’immaginazione, portandola a idee vane, ma ardenti, e ne vengono spesso anche visioni. (Nota di N. N.).
  43. V. Cantacuzeno (l. II, c. 39, 40, l. IV, c. 3-23, 24, 25) e Niceforo Gregoras (lib. XI, c. 10, l. XV, 3-7), gli ultimi libri del quale, dal diciannovesimo al ventiquattresimo, non riguardano che questo argomento sì rilevante. Boivin (Vit. Nicef. Greg.), seguendo i libri che sono stati pubblicati, e Fabrizio (Biblioth. graec. t. X, pag. 462-473), o piuttosto il Montfaucon, giovandosi de’ manoscritti della Biblioteca di Coislin, hanno aggiunti alcuni fatti e documenti.
  44. Pachimero (l. V, cap. 10) traduce ottimamente γιξιους (ligios) per ιδιους proprj o dependenti. Il Ducange spiega diffusamente l’uso di queste parole in greco e in latino sotto il regno feudale (Graec., p. 811-812; Latin., t. IV, p. 109-111).
  45. Il Ducange descrive la fondazione e i progressi della colonia genovese a Pera o Galata (C. P. Cristiana, lib. I, pag. 68, 69), seguendo gli Storici di Bisanzo, Pachimero (l. II, c. 35, l. V, 10-30, l. IX, 15, l. XII, 6-9), Niceforo Gregoras (l. V, c. 4, l. VI, c. 11; l. IX, c. 5; l. XI, cap. 1; l. XV, c. 1-6) e Cantacuzeno (l. I, c. 12; l. II, c. 29 ec.).
  46. Pachimero (lib. III, c. 3, 4, 5) e Niceforo Gregoras sentono e deplorano entrambi gli effetti d’una sì perniziosa condiscendenza. Bibaras, Sultano d’Egitto, e Tartaro di nazione, ma zelante Musulmano, ottenne dai figli di Zingis la permissione di fabbricare una moschea nella capitale della Crimea (De Guignes, Ist. degli Unni t. III, p. 343).
  47. Chardin a Caffa (Viaggi in Persia, t. I, p. 48) fu assicurato che questi pesci, lunghi talvolta sin ventisei piedi, pesavano ottocento e novecento libbre, e produceano tre o quattro quintali di caviale o d’uova. Ai tempi di Demostene, il Bosforo mantenea di grani la città di Atene.
  48. V. De Guignes (Storia degli Unni, t. III, p. 343, 344; Viaggi di Ramusio, t. I, fog. 400). Ma questa condotta per terra, o per mare non potè eseguirsi che quando le bande de’ Tartari furono unite sotto il governo di un Principe saggio e potente.
  49. Niceforo Gregoras (l. XIII, cap. 12) mostra discernimento e cognizioni ad un tempo nel descrivere il commercio e le colonie del mar Nero. Chardin descrive le rovine di Caffa, ove in quaranta giorni vide più di quattrocento vele impiegate al commercio di pesce e di grano. (Viaggio di Persia, t. I, p. 46-48).
  50. V. Niceforo Gregoras, t. XVII, c. 1.
  51. Cantacuzeno, l. IV, c. 11, racconta gli avvenimenti di questa guerra; oscura però e confusa è la sua narrazione; chiara e fedele quella di Niceforo Gregoras (l. XVII, c. 1, 7); ma il prete non dovea, come il Principe, render conto de’ suoi abbagli e della perdita di una flotta.
  52. Cantacuzeno non mostra maggior chiarezza nel racconto della seconda guerra (l. IV, c. 18, pag. 24, 25-28-32), e traveste i fatti che non osa negare. Mi auguro quella parte di Niceforo Gregoras che rimane tuttavia manoscritta a Parigi.
  53. Il Muratori (Annali d’Italia, t. XII, p. 144) ne rimette alle antiche Cronache di Venezia (Caresino, continuatore di Andrea Dandolo, t. XII, p. 421, 422), e di Genova (Giorgio Stella, Annales Genuenses, t. XVII, pag.1091, 1092). Ho consultate accuratamente l’una e l’altra di queste cronache nella grande Raccolta degli storici dell’Italia dello stesso Muratori.
  54. V. la Cronaca di Matteo Villani di Firenze (lib. II, c. 59, 60, p. 145-147; c.74-75, p. 156, 157, nella Raccolta del Muratori t. XIV).
  55. L’abate di Sade (Mémoires sur la vie de Petrarque, t. III, p. 257-263) ha tradotta questa lettera che egli avea copiata in un manoscritto della Biblioteca del Re di Francia. Benchè affezionato al Duca di Milano, il Petrarca non nasconde nè la sua maraviglia, nè la sua afflizione sulla sconfitta successiva de’ Genovesi, e sullo stato lagrimevole in cui si trovarono nel seguente anno (p. 223-332).