Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/64

CAPITOLO LXIV

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CAPITOLO LXIV.

Conquiste di Gengis-kan e de' Mongulli dalla Cina sino alla Polonia. Pericolo in cui si trovano i Greci a Costantinopoli. Origine de' Turchi Ottomani in Bitinia. Regni e vittorie di Otmano, Orcano, Amurat I e Baiazetto I. Fondazione e progressi della Monarchia de' Turchi in Asia e in Europa. Situazione critica di Costantinopoli e del greco Impero.

Dai minuti litigi di una Capitale co’ suoi sobborghi, dalle fazioni e dalla viltà de’ tralignati Greci, passo a narrare le vittorie luminose de’ Turchi, di quel popolo, la cui schiavitù civile nobilitavano disciplina militare, religioso entusiasmo e forza d’indole nazionale. L’origine e i progressi degli Ottomani, oggidì padroni di Costantinopoli, sono un argomento collegato colle più rilevanti scene della storia moderna; ma a ben comprenderlo fa mestieri innanzi tutto il conoscere la grande invasione e le rapide conquiste de’ Mongulli e de’ Tartari; genere di avvenimenti che può stare a petto di quelle prime convulsioni della natura che scossero e cambiarono la superficie del Globo; e poichè mi son fatto lecito di dar luogo in questa mia opera a tutte quelle particolarità, che, comunque ad altre nazioni spettassero, o più o meno immediatamente contribuirono alla caduta dell’Impero romano, io non poteva risolvermi a passar sotto silenzio que’ fatti che per la non volgare loro grandezza, chiamano l’atten[p. 282 modifica]zione del filosofo anche sulla storia delle distruzioni e delle stragi1.

[A. D. 1206-1227] Tutte queste migrazioni, uscivano a mano a mano dalle vaste montagne situate fra la Cina, la Siberia e il mar Caspio. Que’ paesi ove anticamente dimorarono gli Unni ed i Turchi, erano abitati nel duodecimo secolo da quelle orde o tribù di pastori, che discendendo dalla medesima origine, serbavano gli stessi costumi de’ loro proavi; e le riunì e le condusse a vittoria il formidabile Gengis-kan. Questo Barbaro, conosciuto da prima col nome di Temugino, innalzatosi sulla rovina de’ suoi eguali all’apice della grandezza, derivava da nobil prosapia: ma sol nell’ebbrezza de’ trionfi, o egli, o i suoi popoli immaginarono di attribuire l’origine della sua famiglia ad una vergine immacolata, della quale ei sarebbe stato, di padre in figlio, il settimo discendente. Il padre di questo conquistatore avea regnato sopra tredici orde che formavano in circa trenta, o quarantamila famiglie: due terzi e più delle quali, ricusarono prestare obbedienza e tributo a Temugino, ancora fanciullo. Compiva questi il tredicesimo anno, quando si vide costretto a battaglia co’ suoi sudditi ribelli, ed essendone stati infelici gli eventi, il futuro conquistatore dell’Asia dovette cedere alla necessità e darsi alla fuga. Ma mostratosi indi maggiore della fortuna, Temugino, giunto all’età di qua[p. 283 modifica]rant’anni, facea rispettare il suo nome e la sua possanza a tutte le confinanti tribù. Nello stato nascente delle società, ove grossolana è la politica, generale il valore, uom non può fondare la sua prevalenza che sul potere e sulla volontà di gastigare i nemici, di premiare i partigiani. Allorchè Temugino la sua prima lega militare conchiuse, le cerimonie di questa si ridussero al sagrificio di un cavallo, e all’atto di attingere in comunione all’acqua di un ruscello. In quel momento il Capo promise ai compagni di star con essi a parte delle sciagure, come de’ favori della fortuna, lor distribuendo in prova di ciò le sue suppellettili e i suoi cavalli, nè altra ricchezza serbandosi che la gratitudine e le speranze de’ collegati. Dopo la prima vittoria ch’ei riportò, vennero per ordine del medesimo collocate sopra una fornace settanta caldaie, ed immersi nell’acqua bollente settanta ribelli riconosciuti per maggiormente colpevoli. Continuando di sì fatto tenore, la sua preponderanza aumentò sterminando chi resisteva, ricevendo gli omaggi di chi avea la prudenza di sottomettersi. Anco i più ardimentosi tremarono contemplando incastrato in argento il cranio del Kan de’ Keraiti2, che sotto nome di Pretejanni, avea mantenuta una corrispondenza col Pontefice e co’ Principi del[p. 284 modifica]l’Europa. Però l’ambizioso Temugino il potere della superstizione non pose in non cale; laonde da un profeta di quelle selvagge orde, che sopra un cavallo bianco saliva in cielo, ricevè il titolo di Gengis3 (il più grande), e il diritto venutogli da Dio di conquistare e governar l’Universo. In una curultai, o Dieta generale, si assise sopra uno strato di feltro che venne per lungo tempo venerato siccome reliquia; e da quel posto, solennemente acclamato gran Kan o Imperatore de’ Mongulli4 e de’ Tartari5. Di questi nomi divenuti rivali, benchè da una stessa origine derivanti, il primo si è perpetuato nell’imperiale dinastia, il secondo, o per errore, o a caso, è divenuto comune a tutti gli abitanti dei deserti del Settentrione. [p. 285 modifica]

Il codice di leggi dettato da Gengis ai suoi sudditi, proteggea la pace domestica, e incoraggiava la guerra cogli stranieri. L’adulterio, l’assassinio, lo spergiuro, il furto di un cavallo, o di un bue, venivano puniti di morte, onde, comunque ferocissimi quegli uomini, fra di loro si comportavano con moderazione ed equità. L’elezione del Gran Kan fu serbata per l’avvenire ai Principi di sua famiglia, e ai Capi delle tribù. In questo codice si trovavano regolamenti per la caccia, fonti di diletti e di esistenza ad un campo di Tartari. Una nazione vincitrice avrebbe avuto per obbrobrio il sommettersi a servili lavori, de’ quali incaricati erano gli schiavi e gli stranieri; ed ogni lavoro, eccetto la professione dell’armi, a quelle genti pareva servile. Quanto alla disciplina e agli studj militari, vedeasi che l’esperienza di un provetto comandante ne avea instituite le regole. Armati d’archi, di scimitarre, e di mazze di ferro quelle milizie, venivano divise in corpi di cento, di mille, di diecimila. Ciascun uficiale o soldato facea garante la propria vita della sicurezza, o dell’onore de’ suoi compagni, e sembra suggerita dal genio della vittoria la legge che proibisce il far pace col nemico, o non vinto, o non ridotto all’atto di supplichevole. Ma soprattutto è meritevole de’ nostri elogi e della nostra ammirazione la religione di Gengis. Intanto che gli inquisitori della Fede cristiana sostenevano colla ferocia l’assurdità, un Barbaro, prevenendo le lezioni della filosofia, poneva colle sue leggi le basi di un puro deismo e di una perfetta tolleranza6. Per Gengis ora primo e solo ar[p. 286 modifica]tcolo di fede l’esistenza di un Dio, autor d’ogni bene, la cui presenza tiene tutto lo spazio della terra e de’ cieli che la sua possanza ha creati. I Tartari e i Mongulli adoravano gl’idoli particolari di lor tribù; e missionarj stranieri aveano convertito un grande numero di questi alla legge di Cristo, o di Mosè, o di Maometto. Ma concedendosi a ciascuno di darsi liberamente e senza disputare, alle pratiche della propria religione entro il ricinto del medesimo campo, il Bonzo, l’Imano, il Rabbino, il Prete o nestoriano, o cattolico, godeano del pari l’onorevole immunità dal prestar servigio militare e dal pagare tributo. Laonde, se nella moschea di Boccara, l’impetuoso conquistatore, permise che i suoi cavalli calpestassero il Corano in tempo di pace, il saggio legislatore rispettò i Profeti e i Pontefici di tutte le Sette. La ragione di Gengis nulla doveva ai libri, perchè questo Kan non sapea nè leggere, nè scrivere; ed eccetto la tribù degl’Iguri, pressochè tutti i Mongulli o Tartari, pareggiavano in ignoranza il loro Sovrano; talchè la ricordanza delle loro geste si è conservata sol per via di tradizioni state raccolte e scritte sessant’otto anni dopo la morte di Gengis7. Alla [p. 287 modifica]insufficienza di questi annali possono supplire quelli de’ Cinesi8, de’ Persiani9, degli Armeni10, dei [p. 288 modifica]Siriaci11, degli Arabi12, de’ Greci13, de’ Russi14, de’ Polacchi15, degli Ungaresi16, e dei [p. 289 modifica]Latini17; ognuna delle quali nazioni è degna di fede allorchè racconta o sofferti svantaggi, o sconfitte18.

[A. D. 1210-1214] Le armi di Gengis e de’ suoi capitani sottomisero a mano a mano tutte le orde del deserto, che stavano accampate tra il muraglione della Cina ed il Volga. L’Imperatore Mongul, divenuto Monarca del Mondo pastorale, comandava a più milioni di guerrieri pastori, superbi della loro lega, e impazienti di sperimentare le loro forze contro i ricchi e pacifici abitatori del Mezzogiorno. Già stati tributarj degli Imperatori cinesi, gli antenati di Temugino, egli stesso umiliato erasi a ricevere da essi un titolo d’onore e di servitù. Qual si fu la sorpresa della Corte di Pechino in veggendo venire a sè un’ambasceria [p. 290 modifica]dell’antico vassallo, che in tuono di Re pretendea imporle un tributo di sussidj e di obbedienza da lui prestato poc’anzi, e ostentare disprezzo verso il Monarca figlio del Cielo? I Cinesi sotto il velo di una orgogliosa risposta palliarono i proprj timori; timori avverati ben tosto dall’impeto di un grande esercito che ruppe per ogni banda la fragile sbarra del lor muraglione. Novanta delle loro città o per fame, o vinte in assalto si arrendettero ai Mongulli. Le dieci ultime di queste persistendo a difendersi con buon successo, Gengis che conoscea la pietà filiale de’ Cinesi, mise al suo antiguardo i lor Maggiori presi in battaglia; indegno abuso della virtù de’ nemici, che a poco a poco non rispose più al fine cui era inteso. Centomila Kitani posti alla custodia de’ confini ribellarono unendosi ai Tartari. Nondimeno, il vincitore acconsentì di venire a patti, e furono prezzo della sua ritirata una Principessa cinese, tremila cavalli, cinquecento giovinetti, altrettante vergini, e un tributo d’oro e di drappi di seta. In una seconda spedizione, Gengis costrinse l’Imperatore della Cina a trasportarsi oltre al fiume Giallo in una delle sue residenze imperiali che più avvicinavansi ad ostro; ma lungo e difficile fu l’assedio di Pechino19, perchè gli abitanti, benchè costretti dalla fame, consentirono piuttosto a decimarsi fra loro [p. 291 modifica]per divenirsi scambievol pastura, e giunti a non avere più sassi, lanciavano verghe d’oro e d’argento sull’inimico. Ma i Mongulli fecero saltare in mezzo della città una mina che pose in fiamme l’Imperiale palagio, incendio che per trenta giorni durò. Oltre alla distruzione che i Tartari portarono in quello sfortunato paese, le interne fazioni lo dilaceravano; laonde con minore difficoltà Gengis aggiunse al suo dominio cinque province settentrionali di quel reame.

[A. D. 1218-1224] Verso ponente, i possedimenti di Gengis pervenivano ai confini degli Stati di Carizme, che si estendevano dal golfo Persico fino ai limiti dell’India e del Turkestan, e governavali il Sultano Mohammed, il quale ambizioso d’imitare Alessandro il Grande, avea dimenticato che i suoi Maggiori fossero stati sudditi, e dovessero gratitudine ai Selgiucidi. Gengis deliberato di mantenersi in lega di commercio e d’amistà col più poderoso fra i Principi musulmani, non diè ascolto alle segrete sollecitazioni del Califfo di Bagdad, che voleva sagrificare alla sua vendetta personale la religione e lo Stato; ma un atto di violenza e d’inumanità commesso da Mohammed, trasse con giustizia l’armi de’ Tartari nell’Asia Meridionale. Costui fece arrestare e trucidare ad Otrar una carovana composta di tre ambasciatori e di cencinquanta mercatanti. Ciò nullameno, sol dopo avere chiesta soddisfazione e vedersela ricusata, sol dopo orato, e digiunato tre giorni sopra d’una montagna, l’Imperator de’ Mongulli si appellò al giudizio di Dio e della sua spada. „Le nostre battaglie d’Europa, dice uno scrittore filosofo20, non sono che deboli [p. 292 modifica]scaramucce, se poniam mente agli eserciti che combattettero e perirono nelle pianure dell’Asia„. Settecentomila Mongulli, o Tartari mossi, dicesi, sotto il comando di Gengis e de’ quattro suoi figli, incontrarono nelle vaste pianure poste a tramontana del Shion o dell’Jaxarte, il Sultano Mohammed a capo di quattrocentomila guerrieri; e nella prima battaglia, che durò fino a notte, censessantamila Carizmj rimasero morti sul campo. Mohammed, sorpreso dal numero e dal valore de’ suoi nemici, fe’ sonare a ritratta, distribuendo le sue truppe nelle città di frontiera, perchè persuadeasi che cotesti Barbari, invincibili sul campo di battaglia, non la durerebbero contro la lunghezza e la difficoltà de’ tanti assedj regolari che per ridurlo era mestieri intraprendere; ma Gengis avea saggiamente instituito un corpo di meccanici e di ingegneri cinesi, instrutti forse del segreto della polvere, e capaci, sotto un tal condottiero, di assalire estranei paesi con quel vigore che nel difendere la loro patria non dimostrarono, e di ottenere miglior successo. Gli Storici persiani narrano gli assedj e le rese di Otrar, Cogenda, Boccara, Samarcanda, Carizme, Herat, Meroù, Nisabour, Balc, e Candahar, la conquista delle ricche e popolose contrade della Transossiana, di Carizme, e del Korazan. Ma poichè le devastazioni operate da Gengis e dai Mongulli vennero da noi descritte nel volere offrire un’idea de’ tremendi effetti che dovettero conseguire dalle invasioni degli [p. 293 modifica]Unni e di Attila, mi limiterò in questo luogo ad osservare che dal mar Caspio insino all’Indo, i conquistatori trasformarono in deserto uno spazio di oltre a più centinaia di miglia, cui l’opera umana avea coltivato e adorno di numerose abitazioni; nè il volgere di cinque secoli successivi ha bastato a riparare quel guasto che durò quattro anni. L’Imperatore tartaro incoraggiava, o tollerava il furore dei suoi soldati, che sitibondi di strage e saccheggio, e pensando all’istante, dimenticavano ogni idea di futuro godimento; e fatti più feroci dalla natura di quella guerra che i pretesti di una giusta vendetta sancivano. La caduta e la morte del sultano Mohammed, che abbandonato da tutti e non compianto da alcuno, in una deserta isola del Caspio finì sua vita, sono una debole espiazione a fronte delle calamità di cui fu l’origine. Il figlio di lui, Gelaleddino, più d’una volta arrestò i Tartari in mezzo al corso della vittoria, ma il valore di un solo eroe per salvar l’impero de’ Carizmj era poco. Oppresso dal numero nel ritirarsi verso le rive dell’Indo, Gelaleddino, spinse entro l’onde il cavallo, e intrepido attraversando il più rapido ed ampio fiume dell’Asia, costrinse il suo vincitore ad ammirarlo. Dopo una tale vittoria, l’Imperator tartaro, cedendo a stento alle importunità de’ suoi soldati fatti ricchi e stanchi di battersi, consentì ricondurli nella nativa contrada. Onusto delle spoglie dell’Asia, tornò lentamente addietro, dando a divedere qualche lampo di compassione sulla sventura de’ vinti, e mostrandosi deliberato a rifabbricare le città per la sua invasione distrutte. Raggiunsero il suo esercito i due Generali, che con trentamila uomini di cavalleria avea spe[p. 294 modifica]diti oltre i fiumi Osso e Jassarte per ridurre le province australi della Persia. Così dopo avere atterrato tutto quanto gli si opponea nel cammino, superate le gole di Derbend, attraversato il Volga e il Deserto, compiuto l’intero giro del mar Caspio, questo esercito tornava trionfante da una spedizione di cui l’antichità non offre esempj, e che niuno più mai a rinnovellare si accinse. Gengis segnalò il suo ritorno debellando quanti ribelli, o popoli independenti erano rimasti fra i Tartari; indi, carico d’anni e di gloria, morì esortando i suoi figli a conquistare per intero la Cina.

[A. D. 1227] Lo Harem di Gengis contenea cinquecento donne o concubine, e nella numerosa sua posterità avea scelti quattro de’ suoi figli, chiari per merito come lo erano per natali, affinchè sotto i comandi del padre sostenessero i primarj impieghi militari e civili dello Stato. Tusi era il Gran Cacciatore, Zagatai21 il Giudice, Octai il Ministro, Tuli il Generale. I loro nomi e le geste si fanno scorgere di frequente nella storia delle conquiste di Gengis. Costantemente collegati e dal proprio e dal pubblico interesse, tre di questi fratelli si contentarono unanimemente per sè e per le loro famiglie, di un retaggio di regni dipendenti dal Capo supremo dello Stato. Octai venne acclamato Gran-Kan, o Imperatore de’ Mongulli, o dei Tartari. Gli succedè Gayuk, per la cui morte lo [p. 295 modifica]scettro dell’Impero passò nelle mani de’ cugini di lui, Mangoù e Cublay, figli di Tuli e pronipoti di Gengis. Ne’ sessant’anni che seguirono la morte di questo conquistatore, i quattro primi Principi che gli succedettero, sottomisero quasi tutta l’Asia e una gran parte dell’Europa. Senza farmi ligio all’ordine de’ tempi, o estendermi sulla descrizione degli avvenimenti, offrirò, come in un quadro generale, il progresso delle loro armi, primo ad oriente, secondo ad ostro, terzo a ponente ad e settentrione.

[A. D. 1234] I. Prima dell’invasione di Gengis, la Cina dividevasi in due Imperi o dinastie, una del Nort, l’altra del Mezzogiorno22, e la conformità delle leggi, del linguaggio e de’ costumi temperava gli inconvenienti che venivano dalla differenza di origine e d’interessi. La conquista dell’impero settentrionale, già smembrato da Gengis, fu, sette anni dopo la morte del medesimo, affatto compiuta. Costretto ad abbandonare Pechino, l’Imperatore avea posta la sua residenza a Laifiong; città il cui recinto formava una circonferenza di molte leghe, e che, volendo credere agli Annali cinesi, contenea un milione e quattrocentomila famiglie, tra antichi abitanti e fuggitivi che vi ripararono. Ma fu mestieri a questo Sovrano il darsi nuovamente alla fuga; onde seguito da sette cavalieri si rifuggì ad una terza capitale, ove in veggendo perduta ogni speranza di [p. 296 modifica]salvare la vita, salì sopra un rogo, attestando la propria innocenza, imprecando il destino che lo perseguiva, e dando ordine che appena si fosse trafitto, venisse incenerita la pira. La dinastia dei Song, antichi Sovrani nativi di tutto l’Impero, sopravvisse circa quarantacinque anni alla caduta degli usurpatori del Nort, nè l’assoluta conquista della Cina accadde che sotto il regno di Cublai. In questo intervallo, i Tartari, oltrechè ebbero divagamenti di estranie guerre, non sì facilmente vinsero la resistenza dei Cinesi, i quali, se nella pianura non osavano far fronte ai lor vincitori, trinceati ne’ monti, li costrinsero ad una innumerabile sequela d’assalti, e porsero milioni di vittime ai loro ferri. Così per gli assalti, come per le difese adoperavansi a vicenda le macchine da guerra degli antichi, e il fuoco greco; e a quanto sembra non era peregrino a queste genti l’uso della polvere, delle bombe, e de’ cannoni23. Regolati venivan gli assedj dai Maomettani e dai [p. 297 modifica]Franchi che Cublai colle sue larghezze allettava a prender servigio sotto di lui. Dopo avere valicato il gran fiume, le truppe e l’artiglieria furono per lunghi e diversi canali trasportate fino alla residenza reale di Hamchen, o Quisnay, paese famoso pei suoi lavori di seta, e per essere sotto il clima più delizioso di tutta la Cina. L’Imperatore, principe giovine e pauroso, si arrendè senza oppor resistenza, e prima di trasferirsi al luogo del suo esilio, in fondo della Tartaria, toccò nove volte il suolo col fronte, fosse per implorare la clemenza del Gran Kan, o per rendergli grazie.  [A. D. 1279] Ciò nullameno la guerra, che d’allora in poi prese il nome di ribellione, durava nelle province meridionali di Quisnay fino a Canton, e coloro che più coraggiosamente si ostinarono nel difendere la libertà della patria, scacciati da ogni punto del territorio, si rifuggirono entro le navi; ma poichè i Song si videro avvolti e ridotti all’ultime estremità da una flotta di gran lunga superiore, il più prode di quei campioni, tenendosi fra le braccia l’Imperatore ancora fanciullo, esclamò: „è maggior gloria per un Monarca il morir libero, che il vivere schiavo„, e così gridando, si precipitò col regale infante nel mare. Imitato un simile esempio da centomila Cinesi, tutto l’Impero da Tunkin sino al gran muro, riconobbe Cublai per Sovrano. Non mai sazia l’ambizione di questo Principe, egli meditò allora la conquista del Giappone; ma distrutta per due volte la sua flotta dalla tempesta, tale spedizione malaugurosa costò inutilmente la vita a centomila Mongulli o Cinesi: nondimeno colla forza e col terrore delle sue armi ridusse a varj gradi di soggezione e tributo i vicini reami della Corea, del [p. 298 modifica]Tonkin, della Cocincina, di Pegù, del Bengala, e del Tibet. Trascorrendo poscia con una flotta di mille vele l’Oceano indiano, una navigazione di sessant’otto giorni il condusse, siccome sembra, all’isola di Borneo, situata sotto a Linea equinoziale; d’onde, benchè non tornasse privo di gloria e di prede, non potè consolarsi di aver lasciato fuggire il selvaggio Sovrano di quella contrada.

[A. D. 1258] II. Più tardi, e condotti dai Principi della Casa di Timur, i Tartari conquistarono l’Indostan; ma Holagoù-Kan, pronipote di Gengis, fratello e luogotenente de’ due Imperatori Mangoù e Cublai, terminò la conquista dell’Iran o della Persia. Senza imprendere una enumerazione monotona de’ tanti Sultani, Emiri, o Atabecchi che questo Principe soggiogò, farò unicamente cenno della sconfitta e della distruzione degli Assassini, o Ismaeliti24 della Persia, perchè tale impresa può riguardarsi, come un servigio prestato all’umanità. Il regno di questi odiosi settarj da oltre cento sessant’anni impunemente durava nelle montagne poste ad ostro del mar Caspio, e il loro Principe, o imano inviava un governatore alla colonia del monte Libano, tanto formidabile e famosa nella Storia delle Crociate25. Al fanatismo del Corano gl’Ismaeliti aggiugnevano le opinioni [p. 299 modifica]indiane sulla trasmigrazione dell’anime e le visioni de’ loro profeti. Primo dovere per essi era il consagrare ciecamente l’anima e il corpo agli ordini dei Vicario di Dio. I pugnali de’ missionarj di questa setta si fecero sentire nell’Oriente e nell’Occidente; onde i Cristiani e i Musulmani contano un grande numero d’illustri vittime immolate allo zelo, alla avarizia, o all’astio del Vecchio della Montagna, che così in linguaggio corrotto venne nomato. La spada di Holagoù infranse i costui pugnali, sole armi nelle quali valesse, nè di questi nemici dell’uman genere rimane oggidì altro vestigio che la denominazione Assassino, volta a significato parimente odiosissimo dalle lingue europee. Il leggitore che ha considerati successivamente l’ingrandirsi e il declinare della Casa degli Abbassidi, non la vedrà con occhio d’indifferenza perire. Dopo la caduta dei discendenti dell’usurpatore Selgiuk, i Califfi aveano ricuperati i loro Stati ereditarj di Bagdad e dell’Yrak dell’Arabia, ma data in preda a fazioni teologiche la città, il Comandante de’ Credenti vivea oscuramente entro il suo Harem, composto di settecento concubine. Questi all’avvicinar de’ Mongulli, oppose loro deboli eserciti e ambasciatori superbi. „Per volere di Dio, dicea il Califfo Mostasem, i figli di Abbas comandano sulla terra. Ei li sostiene sul trono, e i loro nemici in questo Mondo e nell’altro verran castigati. E chi è dunque cotesto Holagoù che ardisce sollevarsi contro di noi? Se egli vuole la pace, sgombri immantinente il territorio sacro de’ prediletti del Signore, e otterrà forse dalla nostra clemenza il perdono delle sue colpe„. Un perfido Visir mantenea in così cieca presunzione il Califfo assicurandolo, che, quand’an[p. 300 modifica]che i Barbari fossero penetrati nella città, le donne e i fanciulli avrebbero bastato per opprimerli dall’alto dei terrazzi di Bagdad. Ma appena Holagoù ebbe avvicinata la mano al fantasma, questo in fumo si dissipò; dopo due mesi d’assedio, presa d’assalto, e saccheggiata dai Mongulli la città di Bagdad, il feroce lor comandante pronunziò la sentenza del Califfo Mostasem, ultimo successore temporale di Maometto, e la cui famiglia discesa da Abbas, avea tenuti per più di cinque secoli i troni dell’Asia. Comunque vaste fossero le mire del conquistatore, il deserto dell’Arabia protesse contro la sua ambizione le città sante della Mecca e di Medina26. Ma i Mongulli spargendosi al di là del Tigri e dell’Eufrate, saccheggiarono Aleppo e Damasco, e minacciarono unirsi ai Franchi per liberare Gerusalemme. L’ultima ora dell’Egitto sarebbe sonata, se questa contrada non avesse avuti migliori difensori degl’inviliti suoi figli; ma i Mammalucchi che respirata aveano, durante la giovinezza, l’aria vivifica della Scizia, pareggiavano i Mongulli in valore, in disciplina li superavano;  [A. D. 1242-1272] assalito per più riprese in regolare battaglia il nemico, volsero il corso di questo impetuoso torrente al levante dell’Eufrate e sui regni dall’Armenia e della Natolia, che all’impeto di questa invasione non avean riparo da opporre. Il primo dei due regni ai Cristiani, ai Turchi per[p. 301 modifica]teneva il secondo. Ben qualche tempo resistettero i Sultani d’Iconium; ma finalmente un d’essi, Azzadino, si vide costretto a cercar ricovero fra i Greci di Bisanzo, e i suoi deboli successori, ultimi Selgiucidi, dai Kan di Persia furono sterminati.

[A. D. 1235-1245] III. Soggiogato appena l’Impero settentrionale della Cina, Octai risolvè portar le sue armi fin nelle contrade più remote dell’Occidente. Un milione e mezzo di Mongulli, o di Tartari avendo portati i lor nomi per essere ascritti ne’ registri militari, il Gran Kan, scelse una terza parte di questa moltitudine, e ne affidò il comando al nipote Batù, figlio di Tuli, che regnava sulle paterne conquiste al nort del mar Caspio. Dopo le feste di allegrezza che durarono quaranta giorni, partì per questa clamorosa spedizione, e tal si furono l’ardore e la sollecitudine delle sue innumerabili soldatesche, che in men di sei anni, novanta Gradi di longitudine, ossia un quarto della circonferenza terrestre, per esse vennero trascorse. Attraversarono i grandi fiumi dell’Asia e dell’Europa, il Volga e il Kama, il Don e il Boristene, la Vistola e il Danubio, ora a nuoto da starsi a cavallo, or sul diaccio, durante il verno, ora entro battelli di cuoio, che seguivano sempre l’esercito, servendo al trasporto dell’artiglieria e delle bagaglie. Le prime vittorie di Batù annichilarono ogni avanzo di libertà patria, nelle immense pianure del Kipsak27 e del Turkestan. In questa [p. 302 modifica]rapida corsa, passò per mezzo ai regni conosciuti oggidì sotto i nomi di Kasan, e di Astrakan, intanto che le truppe da lui mosse verso il monte Caucaso penetrarono nel cuore della Circassia e della Georgia. La discordia civile de’ gran Duchi o Principi della Russia, abbandonò il loro paese in preda ai Tartari che coprirono il territorio russo dalla Livonia infino al mar Nero. Chiovia e Mosca, le due capitali antica e moderna, furono incenerite; calamità passeggera, e probabilmente men funesta ai Russi della profonda e forse indelebile traccia che una schiavitù di due secoli sul loro carattere ha impressa. I Tartari con egual furore devastavano e i paesi che divisavano conservare, e i paesi d’onde erano frettolosi d’uscire. Dalla Russia, ove aveano posta dimora, fecero una scorreria passeggiera, ma non meno struggitrice, sino ai confini dell’Alemagna; e le città di Lublino e di Cracovia disparvero. Avvicinatisi alle coste del Baltico, sconfissero nella battaglia di Lignitz i Duchi di Slesia, i Palatini polacchi e il Gran Mastro dell’Ordine teutonico, empiendo nove sacca delle orecchie destre di coloro che avevano uccisi. Da Lignitz, temine occidentale della loro corsa, si volsero all’Ungheria, in numero di cinquecentomila, incoraggiati dalla presenza del proprio Sovrano e condottiero Batù, e, a quanto diedero a divedere, animati dal suo medesimo spirito. Scompartitisi in varj corpi di truppa, superarono i monti Carpazj, e dubitavasi tuttavia sulla possibilità del loro arrivo, quando sui popoli perplessi i primi atti del lor furore operarono. Il Re Bela IV adunò affrettatamente le forze militari delle sue contee e de’ suoi vescovadi, ma egli avea già venduta la sua nazione col [p. 303 modifica]dar ricetto ad una banda errante di Comani, composta di quarantamila famiglie. Un sospetto di tradimento e l’uccisione del loro Capo avendo eccitati questi selvaggi ospiti alla sommossa, tutta la parte di Ungheria, posta a settentrione del Danubio, fu perduta in un giorno, spopolata nel volgere di una state, e le rovine de’ tempj e delle città vidersi seminate d’ossa di cittadini che espiarono le colpe de’ Turchi loro antenati. Le calamità di que’ tempi ci vengono descritte da un Ecclesiastico ungarese, che spettatore del saccheggio di Varadino, ebbe la ventura di sottrarsi alla morte, e ne danno a divedere come le stragi operate dal furore de’ Barbari in mezzo agli assedj e alle battaglie, fossero anche meno atroci del destino che la perfidia serbò ai fuggitivi. Lusingati prima questi meschini con promesse di perdono e di pace ad uscire delle foreste, i Tartari aspettarono che avessero terminati i lavori della messe e della vendemmia, poi tutti, a sangue freddo, li trucidarono. Nel vegnente verno i Mongulli, valicato sul diaccio il Danubio, s’innoltrarono verso Gran o Strigonium, colonia germanica e Capitale del regno, e contro le mura della medesima addirizzarono trenta macchine, colmando le fosse di sacchi di terra e cadaveri; indi quando fu presa, dopo una strage alla cieca, il truce Kan ordinò alla sua presenza la morte di trecento nobili matrone. Fra le diverse città e Fortezze dell’Ungheria, tre sole ne rimasero dopo l’invasione, e il misero Bela corse a nascondersi nelle Isole dell’Adriatico.

Un subitaneo terrore tutto il latino Mondo comprese fin dall’istante che un Russo fuggitivo arrecò tra gli Svedesi le prime notizie di questo flagello; [p. 304 modifica]le nazioni del Baltico e dell’Oceano tremarono all’avvicinare de’ Tartari28, che il timore e l’ignoranza dipigneano siccome enti di una natura diversa dagli uomini. Dopo la invasione degli Arabi accaduta nell’ottavo secolo, l’Europa non era mai stata esposta a pericolo di più grave calamità; e se i discepoli di Maometto opprimeano le coscienze e la libertà, qui v’era luogo a temersi che i truci pastori della Scizia annichilassero città, arti e tutte le istituzioni della civile società. Il Pontefice romano tentò una prova per ammansare e convertire questi indomabili Pagani, inviando loro alcuni frati dell’Ordine di S. Domenico e di S. Francesco. Ma a questi rispose il Gran Kan, che i figli di Dio e di Gengis erano muniti di potestà divina per sottomettere e sterminar le nazioni, e che nè anco il Papa sarebbe stato eccettuato dalla distruzion generale, a meno di portarsi in persona ad implorar supplichevole la clemenza dell’Orda Reale. Più coraggiose vie di salvezza immaginò l’Imperator Federico, che scrivendo ai Principi di Alemagna, al Re di Francia e di Inghilterra, e dipingendo con forti colori il comune pericolo, li sollecitò a mettere in armi tutti i lor vassalli per correre ad una giusta e ragionevol cro[p. 305 modifica]ciata29. Il valore e la rinomanza de’ Franchi posero in riguardo gli stessi Tartari; laonde intanto che cinquanta soli uomini a cavallo e venti balestrieri difendeano con buon successo il castello di Newstadt, nell’Austria, coloro, al solo avviso di un esercito alemanno che avvicinava, tolser l’assedio. Contento di avere devastati i vicini regni di Servia, di Bosnia e di Bulgaria, Batù si ritirò lentamente dal Danubio al Volga, per vedere i frutti delle sue vittorie nella città, ossia nel palagio di Serai, che ad un suo comando sorse dal mezzo del deserto.

[A. D. 1242] IV. Le stesse regioni più povere e più addiacciate del Settentrione non vennero risparmiate dall’armi de’ Mongulli; e Seibani-Kan, fratello del gran Batù, avendo condotta un’orda di quindicimila famiglie ne’ deserti della Siberia, i discendenti del medesimo regnarono a Tobolsk per più di tre secoli, e sino al momento della conquista de’ Russi. Seguendo il corso dell’Obi e dello Genisei, lo spirito loro intraprendente debbe averli condotti alla scoperta del mar Glaciale; e se dagli antichi monumenti che ci [p. 306 modifica]sono rimasti vengano tolte le mostruose favole d’uomini colle teste di cane e co’ piè biforcuti, troveremo, che quindici anni dopo la morte di Gengis, i Mongulli conosceano il nome e le costumanze dei Samoiedi, abitanti quasi sotto il Cerchio polare, entro casupole sotterranee, non usi ad altra fatica fuor della caccia, che somministra ai medesimi e il nudrimento e le pellicce di cui si vestono30.

[A. D. 1227-1259] Intanto che i Mongulli e i Tartari invadeano ad un tempo la Cina, la Sorìa e la Polonia, gli autori di cotanti flagelli si compiaceano nel risapere e nell’udirsi raccontare che le loro parole erano strumento di morte. Pari ai primi Califfi, i primi successori di Gengis comparivano di rado in persona a capo dei loro eserciti vittoriosi, sulle rive dell’Onone e del Selinga; l’orda dorata, o reale offeriva l’antitesi della semplicità e della grandezza, di una mensa solo imbandita di pecora arrostita e di latte di cavalla, e di cinquecento carra d’oro e d’argento in un sol giorno distribuite. I Principi europei ed asiatici si videro costretti ad inviare ambasciadori al Gran Kan, o ad imprendere eglino stessi a tal fine lunghi e penosissimi viaggi. Il trono e la vita de’ Gran Duchi di Russia, dei Re di Georgia e d’Armenia, de’ Sultani d’Iconium, e degli Emiri della Persia dependeano da un gesto del Gran Kan de’ Tartari. Benchè i figli e i pronipoti di Gengis fossero stati avvezzi alla vita pastorale, videsi a poco a poco ingrandire il villag[p. 307 modifica]gio di Caracora31, ove si eleggevano i Kan, e ove questi posero la lor residenza. Octai e Mangoù avendo abbandonate le loro tende per abitare una casa, il che indicava già un cambiamento di costumi, i Principi di lor famiglia e i grandi ufiziali dell’Impero imitarono questo esempio. In vece delle immense foreste state un dì teatro delle lor caccie, vennero i parchi, ne’ cui recinti con risparmio di fatica si diportavano: vennero ad abbellire le nuove lor case la pittura e la scultura; i tesori superflui si convertirono in bacini, in fontane e statue d’argento massiccio. Gli artisti cinesi e parigini impiegarono al servigio del Gran Kan il loro ingegno32. Eranvi a Caracora due strade occupate, l’una da operai cinesi, l’altra da mercatanti maomettani: vi si vedeano una chiesa nestoriana, due moschee, e dodici templi consagrati al culto di diversi idoli, d’onde può concepirsi presso a poco un’idea del numero degli abitanti di Caracora, e di quali nazioni diverse quella popolazione fosse composta. Ciò nullameno un missionario francese afferma, che la capitale de’ Tartari non pareggiava nemmeno la piccola città di S. Dio[p. 308 modifica]nisio presso Parigi, e che il Palagio di Mongul non valeva il decimo dell’Abbazia de’ Benedettini posta nella ridetta città.

[A. D. 1259-1368] Comunque la vanità dei Gran Kan fosse lusingata dalle conquiste della Russia e della Sorìa, non dipartivano mai dalle frontiere della Cina il loro soggiorno. Il possedimento dell’Impero cinese essendo primario soggetto di loro ambizione, non dimenticavano, rispetto agli abitanti di questa contrada, una massima, di cui certamente s’erano imbevuti colla consuetudine della vita pastorale; che al pastore cioè torna a conto il proteggere e moltiplicar le sue greggie. Ho già altrove encomiata la saggezza e la virtù di un mandarino che sottrasse alla distruzione cinque province fertili e popolose. Durante un’amministrazione di trent’anni, in cui immune da ogni censura si conservò, questo benefico amico della patria e della umanità pose ogni studio ad allontanare, o mitigare le calamità della guerra, a ridestare l’amor delle scienze, a salvare i monumenti dell’antichità, a por limiti al dispotismo de’ comandanti militari, coll’ottenere che le magistrature civili venissero nuovamente instituite; per ultimo ad inspirare sentimenti di pace e giustizia nell’animo dei Mongulli. Lottando coraggiosamente contro la rabbia de’ primi conquistatori, le salutari lezioni di cotest’uomo, abbondante messe fruttarono alla successiva generazione. Perchè l’Impero settentrionale, e a poco a poco il meridionale, essendosi assoggettati al governo di Cublai, luogo-tenente, indi successore di Mangoù, la nazione si adattò facilmente alla fedeltà verso un Principe nelle cinesi costumanze allevato. Per voler di questo, restituite alla costituzione del paese le antiche forme, i vincitori abbracciarono le leggi, gli [p. 309 modifica]usi, e fino i pregiudizj del popolo conquistato: pacifico trionfo de’ vinti, non privo d’esempli nella Storia, e che i Cinesi dovettero al loro numero ad anche al loro stato abituale di servitù. Gl’Imperatori de’ Mongulli vedendo i loro eserciti pressochè confusi coll’immensa popolazione di un così vasto reame, si conformarono di buon grado ad un sistema politico, che offrendo ai Principi i godimenti reali del potere dispotico, lasciava ai sudditi l’esca dei vani nomi di filosofia, di libertà e di filiale obbedienza. Fiorirono sotto il regno di Cublai il commercio e le Lettere; i popoli godettero le beneficenze della giustizia e le soavità della pace. Allora il gran canale di cinquecento miglia che conduce da Nankin alla capitale, fu aperto. Posta la sua residenza a Pechino, il Monarca e la sua Corte vi sfoggiarono della magnificenza de’ più ricchi Sovrani dell’Asia. Nondimeno questo saggio Principe si allontanò dalla purezza e dalla semplicità della religione che l’avo suo aveva abbracciata; onde coll’offrire sagrifizj all’idolo di Fò, e col sommettersi ciecamente ai Lama e ai Bonzi, si meritò le censure de’ discepoli di Confucio33.  [A. D. 1259-1300] I successori di lui imbrattarono la Reggia, empiendola di una folla di eunuchi, di empirici e di astrologhi, non si curando della penuria della provincia e di [p. 310 modifica]tredici milioni di sudditi che vi morivan di fame. Finalmente, cento quarant’anni dopo la morte di Gengis, i Cinesi, stanchi dal sofferire, avendo scacciata dal trono la dinastia de’ Yuen, stirpe tralignata di quel famoso conquistatore, il nome degl’Imperatori Mongulli tornò a dileguarsi in mezzo ai deserti. Anche prima di questo definitivo cambiamento politico, aveano perduta la loro supremazia sopra diversi rami di loro famiglia, perchè i Kan del Kipsak o della Russia, del Zagatai o della Transossiana, dell’Iran o della Persia, solo in origine luogo-tenenti del Gran Kan, forniti di molto potere, e in tanta lontananza dal loro Capo supremo, non trovarono cosa difficile lo sciogliersi dai doveri dell’obbedienza, e dopo la morte di Cublai disdegnarono accettare uno scettro, o un titolo dagli spregevoli Principi che gli succedettero. Giusta le circostanze in cui si trovarono, alcuni di essi mantennero la semplicità primitiva de’ costumi pastorali, altri al lusso delle città asiatiche dieder ricetto; ma così i Principi come i popoli si mostrarono ad abbracciare un nuovo culto disposti. Dopo avere esitato tra l’Evangelio e il Corano, preferirono la religione di Maometto, riguardando siccome fratelli gli Arabi ed i Persiani, e rompendo ogni corrispondenza co’ Mongulli, o idolatri della Cina.

[A. D. 1240-1304] Può essere giusto soggetto di maraviglia come in un così generale sconvolgimento l’Impero romano, smembrato dai Greci e dai Latini, abbia potuto salvarsi dall’invasione de’ Tartari. Immensamente lontani dal poter d’Alessandro, i Greci gli si rassomigliavano nel vedersi e in Asia e in Europa incalzati dai pastori della Scizia, nè v’ha dubbio che Costantinopoli avrebbe sofferta la sorte di Bagdad, di Pechino, [p. 311 modifica]di Samarcanda, se i Tartari ne avessero intrapreso l’assedio. E veramente allorchè i vanagloriosi Greci e Franchi derisero per la sua ritirata Batù, che lieto di tante vittorie volontario rivalicava il Danubio34, questo conquistatore si mise una seconda volta in cammino deliberato di assalire la Capitale de’ Cesari; ma la morte il sorprese, e fu salvo Bisanzo. Borga fratello di Batù condusse bensì i Tartari nella Tracia e nella Bulgaria, ma dalla conquista di Costantinopoli lo distolse un viaggio a Novogorod, posta al cinquantasettesimo Grado di latitudine, ove fe’ il censo de’ Russi e regolò i tributi di quella popolazione. Collegatosi indi coi Mammalucchi contra i suoi compatriotti della Persia, trecentomila uomini a cavallo superarono le gole di Derbend, incominciamento di guerra civile, che fu la ventura dei Greci. Vero è che dopo avere ricuperata Costantinopoli, Michele Paleologo35 allontanatosi dalla sua Corte e dal suo esercito, venne sorpreso e attorniato da ventimila Tartari in un castello della Tracia; ma l’impresa di questi non avendo altro scopo che la liberazione del sultano turco Azzadino, si contentarono di condur seco l’Imperatore e i suoi tesori. Noga, lor generale, il cui nome si è perpetuato fra le orde di Astracan, eccitò [p. 312 modifica]una formidabile sommossa contro Mengo-Timur, terzo Kan del Kipsak; ed ottenuta in maritaggio Maria figlia naturale di Paleologo, difese gli Stati del suocero e dell’amico. Quanto alle successive invasioni, queste non furono operate che dagli scorridori fuggiaschi, e da alcune migliaia di Alani e Comani, che, scacciati dalle loro patrie, e stanchi del vivere errante, al servigio dello stesso Imperator greco si posero. Tal fu per l’Impero greco l’invasione de’ Tartari nell’Europa: lungi dal turbare la pace dell’Asia romana, il primo terrore inspirato dall’armi loro contribuì ad assicurarne la tranquillità. Avvenne poi che il sultano d’Iconium sollecitò un parlamento con Giovanni Vatace, la cui artificiosa politica, avea persuaso ai Turchi il consiglio di difendere i lor confini contra il comune inimico36; confini che per vero dire non durarono lungo tempo, attesa la sconfitta e la cattività de’ Selgiucidi, che lasciò poi scorgere apertamente quanto deboli fossero i Greci. Perchè allor quando il formidabile Holagoù minacciò movere contro Costantinopoli a capo di un esercito di quattrocentomila uomini, il terror panico che si impadronì degli abitanti di Nicea, mostrò qual fosse lo spavento generale di tutta la Grecia. La cerimonia occidentale di una processione, in mezzo a cui ripeteasi la lugubre litania: mio Dio salvateci dal furor de’ Tartari, sparse tanto terrore nella città, che diede luogo alla falsa vociferazione di un assalto e di una strage fin d’allora accaduti. Vidersi coperte le strade di abitanti d’entrambi i sessi, accecati dallo [p. 313 modifica]spavento e che fuggivano senza saper dove; o perchè, essendovi volute molte ore, prima che l’intrepidezza degli ufiziali della guarnigione, giugnesse a liberare da questa sventura immaginaria la costernata città. Ma la conquista di Bagdad portò altrove le ambiziose armi di Holagoù e de’ suoi successori, i quali sostennero una lunga guerra nella Sorìa, ove sempre non trionfarono; che anzi le loro contese coi Musulmani li fecero proclivi a collegarsi co’ Greci e co’ Franchi37; e fosse per generosità o disprezzo, offersero il regno di Natolia in compenso ad uno de’ loro vassalli armeni. Gli Emiri, che mantenutisi in alcune città e paesi montuosi si disputavano gli avanzi della monarchia de’ Selgiucidi, riconobbero tutti la supremazia del Kan della Persia, il quale frammise sovente la propria autorità, e qualche volta ancora le sue armi, per porre un argine alle costoro depredazioni, e mantenere l’equilibrio e la pace della frontiera de’ suoi turchi dominj. Ma per la morte di Kasan38, uno de’ più illustri discendenti di Gengis, disparendo questa salutevole preminenza, il [p. 314 modifica] [A. D. 1304] declinar de’ Mongulli lasciò il campo libero all’innalzamento e ai progressi dell’Impero ottomano39.

[A. D. 1240] Dopo la ritirata di Gengis, Gelaleddino sultano di Carizme tornato era dall’India per governare e difendere i suoi Stati persiani. Nello spazio di undici anni, questo eroe diede in persona quattordici regolari battaglie, e tal ne fu la solerzia, che in settanta giorni, a capo della sua cavalleria, trascorse un cammino di mille miglia da Teflis a Kerman; ma costretto a soggiacere così per la gelosia de’ Principi musulmani, come per lo sterminato numero delle tartare soldatesche, dopo un’ultima rotta, terminò, privi di gloria, i suoi giorni nelle montagne del Curdistan. Si disperse per la morte del Capo la truppa dei coraggiosi suoi veterani, che sotto nome di Carizmj, o Corasmini, comprendea la massima parte di quelle bande di Turcomani, che consagrati eransi a seguir la fortuna del loro Sultano. I più arditi e più poderosi fra questi, operata una invasione nella Sorìa, saccheggiarono il Santo Sepolcro di Gerusalemme: gli altri prestarono il servigio delle loro armi ad Aladino sultano d’Iconium, fra i quali trovavansi gli oscuri antenati dell’ottomana dinastia. Aveano questi in origine posto campo sulla riva australe dell’Osso nelle pianure di Mahan e di Neza; al qual proposito è cosa straordinaria e meritevole di osservazione esser venuti da quel sito medesimo e i Parti, e i Tur[p. 315 modifica]chi, fondatori di due potentissimi Imperi. Solimano-Sà, che conduceva l’antiguardo o il retroguardo dell’esercito de’ Carizmj, al passaggio dell’Eufrate annegò. Il figlio di lui Ortogrul, divenuto suddito e soldato di Aladino, pose a Surgut in riva al Sangario un campo di quattrocento tende, o famiglie, delle quali assunse il governo civile e militare, che gli durò cinquantadue anni.  [A. D. 1299-1326] Da Ortogrul nacque Tamano o Atmano, il cui nome è stato cambiato in quello del Califfo Otmano, dal qual personaggio, per ben apprezzarlo, è d’uopo separare coll’animo tutte le idee di abbiezione e d’ignominia che allo stato di pastore e scorridore vanno congiunte. Otmano dotato in eminente grado di tutte le virtù di un soldato, profittò maestrevolmente delle circostanze di tempo e di luogo che la sua independenza e i successi delle sue imprese favoreggiavano. Estinta era la stirpe de’ Selgiucidi, la spirante podestà de’ principi Mongulli, e la lor lontananza lo scioglieano d’ogni soggezione; trovavasi posto sui confini del greco Impero; il Corano raccomandava il Gazi, ossia la guerra santa contro degl’Infedeli, intanto che la falsa politica di questi avendo aperti i passi del monte Olimpo, lo allettava a discendere nelle pianure della Bitinia. Perchè, fino all’epoca del regno de’ Paleologhi, i ridetti passi erano validamente custoditi dalla milizia del paese, che per un guiderdone di tal servigio godea la sicurezza dei suoi possedimenti e l’immunità da ogni tassa. L’Imperatore greco, abolendo i privilegi di queste genti, e costringendole a pagare rigorosamente il tributo, si assunse la cura di far custodire quelle gole di monti, che vennero ben presto dimenticate, e in questo mezzo que’ montanari, dianzi sì valorosi, si trasformarono [p. 316 modifica]in una timida ciurma priva di forza e di disciplina. Nel giorno 27 luglio dell’anno 1299 dell’Era cristiana, Otmano entrò per la prima volta nelle campagne che circondano Nicomedia40. L’esattezza singolare con cui si tenne conto del giorno di un tale arrivo, indicherebbe quasi che si prevedea qual fosse per essere l’aumento rapido e fatalissimo del nascente mostro che minacciava l’Impero. I ventisette anni che durò il regno di Otmano non offrirebbero fuorchè una ripetizione delle medesime scorrerie. Ad ognuna di esse facendo nuove reclute, ingrossava di prigionieri e volontarj il suo esercito. In vece di ritirarsi nelle montagne, d’onde era uscito, Otmano conservava tutti i posti utili ed atti a difesa, pronto a riparare le fortificazioni delle piazze e delle castella che avea saccheggiate. Già preferiva alle abitazioni ambulanti delle nazioni pastorali i bagni e i palagi delle città che per lui già sorgevano. Però solamente sul terminar de’ suoi giorni, e mentre gli anni e le infermità lo premeano, Otmano ebbe il contento di sapere la conquista di Prusa fatta dal suo figlio Orcano, cui la fama o il tradimento apersero le porte di questa città. La gloria di Otmano su quella de’ suoi discendenti è soprattutto fondata; ma i Turchi hanno conservato, o fosse di lui, o ne fossero eglino stessi a suo nome gli autori, un testamento memorabile per le massime di giustizia e di moderazione che in esso abbondano41. [p. 317 modifica]

La conquista di Prusa può riguardarsi come la vera data della fondazione dell’Impero ottomano. I sudditi cristiani si assicurarono le loro vite e sostanze mercè un tributo, o riscatto di trentamila scudi d’oro, ma non andò guari che per le cure di Orcano, questa città una Capitale maomettana divenne. Una moschea, un collegio, un ospitale l’ornarono. Rifuse le monete de’ Selgiucidi, quelle di nuovo conio portarono il nome e l’impronta della sopravvenuta dinastia, e i più abili maestri delle cose umane e divine allettarono gli studenti persiani ed arabi a qui trasferirsi, abbandonando le scuole dell’Oriente. Aladino fu il primo a nomarsi visir, carica che a [p. 318 modifica]favore di lui il suo fratello Orcano instituì; mise leggi affinchè un vestir diverso distinguesse i cittadini dai campagnuoli, i Musulmani dagli Infedeli. La forza militare di Otmano stavasi unicamente in indocili squadroni di cavalleria turcomana, privi di stipendio, come di disciplina; ma Orcano avvisò saggiamente ad instituire e addestrare un corpo di fanteria, arrolando un grande numero di volontarj, contenti di tenue paga, e liberi di rimanersi alle proprie case ogni qualvolta i lor servigi non erano necessarj. Pure la rozzezza dei lor costumi e l’indole sediziosa, persuasero Orcano ad educarsi una truppa scelta, trasformando i suoi giovani prigionieri in soldati del Profeta, e ai contadini turchi rimase il privilegio di seguire l’esercito del Sultano, ordinati in corpo di cavalleria, col nome di partigiani; per le quali sollecitudini e per sua accortezza pervenne a crearsi un esercito di venticinquemila Musulmani. Fece inoltre fabbricar macchine necessarie agli assedj, o agli assalti delle città, delle quali macchine provò per la prima volta il buon successo contro Nicomedia e Nicea.  [A. D. 1326-1339] Condiscendente nel munire di salvocondotti tutti coloro che voleano ritirarsi colle loro famiglie e suppellettili, si riserbò l’arbitrio delle vedove de’ vinti a favore de’ conquistatori, che le desideravano in ispose; i libri, i vasi e le immagini de’ Santi vennero comprate o riscattate dagli abitanti di Costantinopoli. Vinto e ferito in battaglia Andronico il Giovane42, Orcano sotto[p. 319 modifica]mise tutte le province, o il regno di Bitinia sino alle rive del Bosforo, o dell’Ellesponto; e la giustizia e la clemenza di un Principe che si era conciliata affezione e volontaria sommessione dai Turchi dell’Asia, dai medesimi Cristiani venne riconosciuta.  [A. D. 1300 ec.] Orcano modestamente del titolo d’Emiro si contentò, e per dir vero, fra i principi di Rum e della Natolia43 ve ne erano alcuni che in militari forze lo superavano. Gli Emiri di Ghermian e di Caramania, aveano ciascuno sotto di sè un esercito di quarantamila uomini, ma situati nella parte interna delle terre ove regnarono i Selgiucidi, levarono nella storia men grido de’ santi guerrieri, che inferiori di possanza a questi Emiri, si fecero maggiormente conoscere per nuovi principati instituiti nel greco Impero. I paesi marittimi, dalla Propontide fino al Meandro e all’isola di Rodi, minacciati per tanto tempo, e sottoposti a sì frequenti devastazioni, vennero tolti per sempre al dominio greco sotto il regno del vecchio Andronico44.  [A. D. 1312 ec.] Due Capi turchi, Aidino e Sarukan, s’impossessarono di più province, che chiamate co’ nomi dei loro conquistatori, passarono alla posterità, soggiogate, o rovinate. Le Sette Chiese dell’Asia, sui territorj della Lidia e della Sorìa veggonsi tuttavia calpestate da barbari padroni degli antichi [p. 320 modifica]monumenti del Cristianesimo. Perduta Efeso, i Cristiani dolendosi della caduta del primo angelo, deplorarono spenta45 la prima face delle rivelazioni46. La distruzione è stata compiuta, e le orme del tempio di Diana e della chiesa di S. Maria, nello stesso tempo disparvero. Il circo e i tre teatri di Laodicea son covacci delle volpi e de’ lupi; Sardi non è più che un miserabil villaggio. Il Dio di Maometto, questo Dio che non ha nè figli nè rivali47, viene invocato [p. 321 modifica]a Pergamo e a Tiatira entro i recinti di numerose moschee, Smirne dee la sua popolazione soltanto al commercio degli Armeni e de’ Franchi. L’unica Filadelfia è stata salvata da una profezia, o dal suo coraggio. Lontani dal mare, dimenticati dagl’Imperatori, attorniati per ogni parte dai Turchi, gl’intrepidi cittadini di Filadelfia difesero per più di ottant’anni la lor religione e la lor libertà, ottenendo un’onorevole capitolazione dal più feroce degli Ottomani.  [A. D. 1310-1523] Le colonie greche, le Chiese dell’Asia furon distrutte; scorgesi tuttavia Filadelfia come colonna fra le rovine; confortante esempio che dà a divedere come la condotta più onorevole sia talvolta la più sicura. I Cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme difesero la libertà di Rodi48 per oltre a due secoli, e cotesta isola, sotto il chiaro lor reggimento, acquistò splendore di ricchezza e di fama: nobili e valorosi monaci guerrieri che si meritavano gloria eguale e per mare, e per terra, onde la loro isola, lungo tempo baluardo della Cristianità, e allettò a conquistarla più volte, e più volte respinse i numerosi eserciti de’ Turchi e dei Saracini.

[A. D. 1341-1347] Le discordie de’ Greci furono la prima origine di lor rovina. Durante le guerre civili del primo e del [p. 322 modifica]secondo Andronico, il figlio di Otmano terminò, quasi senza trovar resistenza, la conquista della Bitinia; le stesse divisioni de’ Greci incoraggiarono gli Emiri turcomani della Lidia e della Jonia ad allestire una flotta, con cui devastarono le vicine isole della costa d’Europa. Ridotto a difendere l’onore e la vita, Cantacuzeno, o volesse prevenire, o imitare i suoi avversarj, ricorse ai nemici del suo paese e della sua religione. Amiro, figlio di Aidino, sotto vesti maomettane ascondea la cortesia e la gentilezza che ad un Greco sarebbersi addette; vincoli di mutua stima e di servigi scambievoli, lo univano al Gran Domestico, onde l’amicizia di questi due personaggi, giusta il linguaggio de’ tempi, a quella di Oreste e Pilade venne paragonata49. Uditi dal Principe di Jonia i pericoli fra i quali avvolgeasi l’amico suo, da un’ingrata Corte perseguitato, allestì una flotta di trecento vele e un’armata di ventinovemila uomini, con cui salpando nel cuor del verno, venne a gettar l’áncora alla foce dell’Ebro. Seguìto da una scelta truppa di duemila Turchi, Amiro s’innoltrò lungo le rive del fiume, e pervenne a liberare l’Imperatrice, che i selvaggi Bulgari teneano assediata entro la città di Demotica. In questo tempo il caro amico di lui Cantacuzeno rifuggitosi nella Servia, lasciava ignorare il proprio destino. Irene, impaziente di vedere in volto [p. 323 modifica]il suo liberatore, lo invitò ad entrare nella città, accompagnando l’invito con un donativo di cento cavalli e di preziosi ornamenti; ma per un riguardo singolare di delicatezza, il Barbaro che nudriva sensi tutt’altro che barbari, ricusò di vedere la moglie dell’amico infelice, e di godere, mentre questi stava lontano, le delizie del suo palagio; sopportando entro la propria tenda l’inclemenza della stagione, rifiutò i favori offertigli dall’ospitalità per sofferire in comune co’ suoi duemila compagni ben degni, siccome il Duce, degli onori che lor venivano tributati. La brama che lo ardea di vendicar Cantacuzeno, e il bisogno di vivere, sono la scusa delle scorrerie che sulla terra e sull’acque in questo mezzo si fece lecite. Lasciati novemila cinquecento uomini in guardia della sua flotta, vagò indarno per tutta la provincia a fine di rinvenire l’amico. Ma alcune false lettere, i rigori del verno, il mal umore de’ suoi volontarj, la ricchezza delle fatte prede e la moltitudine de’ prigionieri, finalmente lo persuasero a rimbarcarsi. Nel corso della guerra civile, il Principe della Jonia tornò per due volte in Europa, e unite le sue truppe a quelle di Cantacuzeno, assediò Tessalonica, e Costantinopoli minacciò. La calunnia ha tratti motivi di censurarlo dalla poca bastevolezza de’ soccorsi che egli aveva arrecati, dalla sua affrettata partenza, e da un dono di diecimila scudi che dalla Corte di Bisanzo accettò; ma l’amico si mostrò contento di lui, e per altra parte la condotta di Amiro veniva assai giustificata dalla necessità di difendere i suoi Stati ereditarj contro i Latini. Il Papa, il Re di Cipro, la Repubblica di Venezia e l’Ordine di S. Giovanni si erano collegati alla lodevole impresa di liberare i mari dal predominio che [p. 324 modifica]i Turchi vi avevano acquistato. Approdate alla costa jonica le galee de’ Confederati, Amiro cadde trafitto da un dardo, mentre assediava la rocca di Smirne che difendeano i Cavalieri di Rodi50. Innanzi morire, procacciò generosamente all’amico un altro Confederato maomettano, non più sincero e premuroso che egli nol fosse, ma più abile, per la vicinanza de’ suoi Stati colla Propontide e con Costantinopoli, a prestargli solleciti e poderosi soccorsi.  [A. D. 1346] La prospettiva di un più vantaggioso Trattato, indusse il Principe di Bitinia ad infrangere i patti che ad Anna di Savoia avea giurati, e un maritaggio colla figlia di un Imperator greco, accordandosi colle ambiziose mire di Orcano, questi promise solennemente che se Cantacuzeno acconsentiva ad accettarlo per genero, egli avrebbe inviolabilmente usati verso di lui tutti i riguardi di vassallo e di figlio. Dall’ambizione la paterna tenerezza fu vinta; il Clero greco approvò le nozze di una Principessa cristiana con un discepolo di Maometto; e il padre di Teodora ci descrive egli stesso, mostrandone obbrobriosa soddisfazione, il disdoro del suo diadema51. I turchi ambasciatori, [p. 325 modifica]seguìti da un corpo di cavalleria e scortati da trenta navi, giunsero innanzi al campo di Selimbria, ove stavasi Cantacuzeno. Venne innalzato un sontuoso padiglione, sotto del quale l’imperatrice Irene trascorse la notte in compagnia della figlia. Allo schiarir del mattino, Teodora si assise sopra un trono velato da cortine di seta ricamate in oro. Tutte le truppe stavano in armi e l’Imperatore a cavallo. Ad un cenno si levarono le cortine, lasciando vedere la sposa, o la vittima, in mezzo a torcie nuziali e ad eunuchi prosternati ai suoi piedi. Rintronò l’aere dello squillar delle trombe, nè mancarono poeti, quali quel secolo somministrar li poteva, che celebrassero con epitalamj le felicità pretese di Teodora. Fu consegnata al Barbaro che ne diveniva il padrone, senza alcuna cerimonia di Culto cristiano. Erasi però stipulato nel Trattato, che ella avrebbe seguìto liberamente a professare il suo Culto nello Harem di Bursa, onde il padre della medesima fa encomj alla pia e caritatevole condotta tenutasi dalla figlia, posta in una tanto difficile condizione. Poichè l’Imperator greco si vide tranquillo possessore del trono di Costantinopoli, si portò a visitare il genero, che, accompagnato da quattro figli avuti da diverse spose, venne ad aspettarlo a Scutari sulla costa dell’Asia. I due Principi godettero congiuntamente, e con apparenza di scambievole cordialità, i piaceri della caccia e dei banchetti; che anzi Teodora ottenne la permissione di trasferirsi al di là del Bosforo per passare alcuni giorni insiem colla madre. Ma Orcano, la cui amistà [p. 326 modifica]ai riguardi della sua ambizione e della sua religione stava soggetta, non esitò, nella guerra de’ Genovesi, a collegarsi co’ nemici di Cantacuzeno.

[A. D. 1353] Fin nel Trattato che Orcano avea conchiuso colla Imperatrice Anna, egli avea introdotto questo singolare patto, di potere cioè a proprio arbitrio o trasportare in Asia i suoi prigionieri, o venderli a Costantinopoli. Fu quindi veduta una moltitudine di Cristiani d’entrambi i sessi, di tutte le età, di preti e di frati, di vergini e di matrone esposti nudi nei pubblici mercati, e spesse volte maltrattati a colpi di staffile per meglio eccitare la carità de’ loro concittadini a riscattarli più presto; ma l’indignazione de’ Greci, si limitò a deplorare la sorte dei proprj concittadini che vedeano condur lontani in una schiavitù fatale alle loro anime e ai loro corpi52. Cantacuzeno fu costretto sottomettersi alle medesime condizioni, il cui adempimento accrebbe sempre più le calamità dell’Impero. Nello stesso Trattato, l’Imperatrice Anna aveva ottenuto un soccorso di diecimila Turchi, che poi da Orcano vennero adoperati in difesa del proprio suocero. Nondimeno tali disastri non erano che passeggieri; perchè terminata la stagione campale, i prigionieri fuggivano tornando alle proprie case; i Musulmani, sgombrando l’Europa, si ritiravano nuovamente nell’Asia. Sol nell’ultima contesa avuta col suo pupillo, Cantacuzeno rendè permanente nel sen dell’Impero il germe della distruzione, germe che i successori di lui si [p. 327 modifica]sforzarono indarno a sterpare, nè questo irreparabile fallo del Principe greco emendarono i dialoghi che contra il profeta Maometto ei compose. I moderni Turchi, ignari sin della propria Storia, e confondendo il primo tragetto dell’Ellesponto53 coll’ultimo, ne mostrano nel figlio di Orcano un oscuro scorridore che, seguìto da ottanta venturieri, si valse di uno stratagemma per invadere una terra nemica ed incognita. Solimano, a capo di diecimila uomini di cavalleria turca, venne trasportato dalle navi dell’Imperator greco e riguardatone confederato. Le milizie maomettane rendettero alcuni servigi e commisero molti disordini nelle guerre civili della Romania. Ma il Chersoneso si trovò a poco a poco popolato da una colonia di Turchi; e la Corte di Bisanzo sollecitò indarno la restituzione delle Fortezze della Tracia. Dopo alcuni indugi, ad arte fatti maggiori da Orcano e da Solimano, venne pattuito il riscatto di tali Fortezze a prezzo di sessantamila scudi, la prima parte de’ quali era già stata pagata, allorchè un tremuoto atterrò le mura di molte fra esse. Queste diroccate piazze i Turchi occuparono; e rifabbricata Gallipoli, chiave dell’Ellesponto, Solimano ebbe cura di empirla di Maomettani. Col trono rinunziato da Cantacuzeno, furono rotti anche que’ de[p. 328 modifica]boli vincoli di domestica lega che univano i principi Greci ai principi Turchi. Gli ultimi consigli che l’Imperatore, rassegnando lo scettro, ai suoi concittadini volgea, erano di evitare una guerra imprudente, di confrontare il numero, la disciplina e l’entusiasmo de’ Turchi colla loro debolezza e pusillanimità: savj suggerimenti che vennero sprezzati dall’ostinata vanità di un giovane Principe, e giustificati dalle vittorie de’ Musulmani. In mezzo ai suoi buoni successi, Solimano, caduto da cavallo nell’esercizio militare del Gerid, perdè la vita, nè il vecchio Orcano sopravvisse lungo tempo al dolore che la morte del figlio a lui cagionò.

[A. D. 1360-1389] Ma i Greci nè manco ebbero il tempo per allegrarsi della morte de’ lor nemici; la spada de’ Turchi non si mostrò men formidabile fra le mani di Amurat I, figlio di Orcano e fratello di Solimano, impadronitosi quasi senza ostacoli, come per mezzo alla nebbia degli Annali di Bisanzo si scorge54, di tutta la Romania e della Tracia, dall’Ellesponto la monte Emo, e che giunto pressochè alle porte della Capitale, scelse Andrinopoli qual sede del suo Governo e della sua religione in Europa. Costantinopoli, il cui scadimento quasi incomincia dall’epoca della sua fondazione, nel corso di dieci secoli si vide successivamente assalita dai Barbari dell’Oriente e dell’Occidente; ma sino a questo fatale istante non s’era per anco trovata cinta e dal lato d’Asia [p. 329 modifica]e da quel d’Europa, dalle forze di una stessa potenza nemica. Nondimeno Amurat, fosse per prudenza, o per generosità, sospese ancora per qualche tempo questa facil conquista, bastando al suo orgoglio di farsi comparire innanzi per più riprese l’imperatore Giovanni Paleologo e i quattro figli del medesimo, i quali appena ricevutone il comando, alla Corte, o al campo del Principe ottomano si trasferivano. Portate successivamente l’armi contra gli Schiavoni che abitavano tra il Danubio e il mare Adriatico, contra i Bulgari, i Serviani, e i popoli della Bosnia e della Albania, debellò con ripetute scorrerie queste bellicose tribù, rinomate per avere sì di frequente insultato l’Impero romano. Il lor territorio, nè d’oro, nè d’argento abbondava: quei rustici abituri non erano arricchiti dal commercio, o abbelliti dall’arti del lusso; ma i nativi di queste contrade si segnalarono in tutte le età per vigore di corpo e forza di coraggio; onde poi, una saggia istituzione, li guidò ad essere i più fermi e fedeli sostegni della grandezza Ottomana55. Il Visir di Amurat, ricordò al suo Sovrano che le leggi di Maometto gli concedeano la quinta parte delle prede e de’ prigionieri fatti sugl’Infedeli, aggiugnendo che col mettere vigilanti ufiziali a Gallipoli, questi avrebbero facilmente riscosso a quel passo un tale tributo, e avuta ivi maggiore agevolezza di scegliere i meglio formati e più vigorosi fanciulli de’ Cristiani. Approvato il suggerimento, e pubblicato l’editto, migliaia di prigionieri europei vennero educati nel culto di Maometto e nella scuola dell’armi. Un celebre Der[p. 330 modifica]vis compiè la cerimonia di consagrare la nuova milizia e di darle un nome. Postosi a capo delle file de’ soldati, stese la manica della sua veste sul fronte di quello che stavagli più vicino, e tutti li benedì, pronunziando le seguenti parole: „Sieno chiamati Giannizzeri (Yengi sceri), ossia nuovi soldati; possa sempre essere il lor valor luminoso, tagliente la loro spada, vittorioso il lor braccio! Possane la lancia star sempre sospesa sul capo de’ loro nemici, e ovunque essi vadano, possano tornare addietro col volto bianco!„56 Tale si fu l’origine di questa formidabile truppa, terrore delle nazioni, e qualche volta ancor de’ Sultani. Declinato oggidì il loro valore, ammollitane la disciplina, le tumultuose file di questa guardia non possono resistere all’artiglieria e al saper militare delle moderne nazioni; ma quando furono instituiti, aveano un’assoluta preminenza, perchè non eravi potentato della cristianità che mantenesse continuamente in armi un corpo regolare di fanteria. I Giannizzeri combatteano contro gl’idolatri, loro compatriotti, collo zelo e coll’impeto del fanatismo, e la battaglia di Cossova annichilò la lega e l’independenza della tribù della Schiavonia. Un giorno, in cui il vittorioso Amurat trascorrendo i campi per lui coperti di stragi, maravigliò nell’accorgersi che la maggior parte de’ morti era composta di giovinetti, il cortigiano Visir gli rispose: che uomini adulti negli anni come nella ragione, non si sarebbero cimentati a resistere alle invincibili armi del [p. 331 modifica]sultano Amurat. Ma la spada de’ suoi Giannizzeri non potè salvarlo dal pugnale della disperazione, perchè un soldato serviano, sorto dal mezzo di que’ morti, lo ferì mortalmente nel ventre. Questo Principe, pronipote di Otmano, fu di semplici costumi e d’indole mansueta. Amò le scienze e la virtù, ma diede motivo di scandalo ai Musulmani per la sua poca cura d’intervenire alle pubbliche preghiere; del qual fallo ebbe coraggio di rampognarlo un Muftì, ricusando di ammetterlo per testimonio in una causa civile. Non sono rari nella Storia orientale simili tratti che offrono una mescolanza di servitù e di libertà57.

[A. D. 1389-1403] Il carattere di Baiazetto, figlio e successore di Amurat, viene espresso con forza dal soprannome che gli fu dato di Ilderim, ossia il lampo; e potè inorgoglirsi questo Sultano di un epiteto che indicava l’ardente energia dell’animo suo e la rapidità delle sue corse distruggitrici. Ne’ quattordici anni che il suo regno durò58, Baiazetto sempre a capo dei [p. 332 modifica]suoi eserciti, trascorse continuamente da Bursa ad Andrinopoli, dal Danubio all’Eufrate, e benchè zelantissimo di propagare il culto maomettano, assalì indistintamente in Europa e in Asia i Principi cristiani e maomettani, e ridusse in soggezione tutta la parte settentrionale della Natolia da Angora sino ad Amasia ed Erzerum. Spogliati de’ loro Stati ereditarj gli Emiri di Ghermian, di Caramania, di Aidino e di Sarukan, e finalmente conquistata Iconium, la dinastia ottomana si trovò padrona dell’antico reame de’ Selgiucidi. Nè meno rapide ed importanti furono le conquiste di Baiazetto in Europa. Ridotti ad obbedienza i Serviani e i Bulgari, corse al di là del Danubio a cercare nuovi nemici e nuovi sudditi nel cuore della Moldavia59. Tutti que’ paesi che riconoscevano ancora l’Impero greco nella Tracia, nella Macedonia e nella Tessaglia vennero sotto il dominio del vittorioso Ottomano. Un compiacente Vescovo lo condusse in Grecia, attraversando le Termopile; e qui osserveremo come singolare avvenimento, che la vedova di un Capo spagnuolo, cui pertenea il paese, ove un tempo i famosi oracoli di Delfo si pronunziarono, comperò la protezione del Sultano col sagrifizio di una figlia, rinomata per sua avvenenza. Ad assicurare ai Turchi il passaggio fin allora pericoloso e precario d’Asia in Europa, Baiazetto mise a Gallipoli una flotta d’incrociatori che, [p. 333 modifica]signoreggiando l’Ellesponto, impediva la via a quanti soccorsi si spedivano a Costantinopoli dai Latini. Intanto che questo Principe sagrificava senza scrupolo alle sue passioni l’umanità e la giustizia, costringeva i suoi soldati ad osservare rigorosamente le regole della sobrietà e della decenza; si raccoglieano, e si vendeano tranquillamente le messi ne’ campi occupati da’ suoi eserciti. Sdegnato della negligenza e della corruttela che si erano introdotte nell’amministrazione della giustizia, adunò in una casa tutti i Giudici e Giureconsulti de’ suoi Stati, i quali non men paventavano che d’esservi bruciati vivi. Silenziosi tremavano que’ ministri; ma un buffone etiope osò far manifesta al Sovrano la cagion vera di un tale disordine; onde questi per togliere in avvenire alla venalità tutte le scuse, unì all’uffizio di Cadì una convenevole rendita60. Inorgoglito per sì fausti successi, e venutogli a schifo l’antico titolo di Emiro, ricevè la patente di Sultano dal Califfo, schiavo in Egitto sotto gli ordini de’ Mammalucchi61. Dominati dalla forza dell’opinione, i Turchi vincitori rendettero quest’ultimo e tenue omaggio alla prosapia Ab[p. 334 modifica]basside e ai successori di Maometto. Il nuovo Sultano, geloso di meritarsi questo titolo, portò la guerra nell’Ungheria, teatro perpetuo e de’ trionfi, e delle sconfitte de’ Turchi. Sigismondo, re di questa contrada, essendo figlio e fratello degl’Imperatori d’Occidente, la causa di lui, quella della Chiesa e dell’Europa divenne. Alla prima voce del pericolo in cui si trovava, i più valorosi tra i Cavalieri franchi e alemanni si affrettarono a combattere santamente sotto le bandiere del Monarca chiamato a disfida.  [A. D. 1396] Ma Baiazetto nella giornata di Nicopoli, sconfisse un esercito di cenmila Cristiani, datisi orgogliosamente il vanto di poter sostenere sulle punte delle loro lancie il cielo, se questo fosse venuto a cadere. Perito il maggior numero d’essi sul campo, e molti annegatisi nel Danubio, Sigismondo dopo essersi rifuggito a Costantinopoli per la via del mar Nero, fu obbligato ad un lungo giro per ritornare nell’estenuato suo regno62. In mezzo all’orgoglio della vittoria, Baiazetto minacciò di assediar Buda, d’invadere l’Alemagna e l’Italia, di dar la biada al suo cavallo sull’altar maggiore di S. Pietro a Roma. Ma questi divisamenti impacciati vennero, non dalla miracolosa intercessione dell’Apostolo, non da una crociata delle potenze cristiane, ma da un lungo e violento assalto di gotta. Talvolta gl’inconvenienti del Mondo fisico hanno portato rimedio ai disordini del [p. 335 modifica]morale; e una stilla di umore acre che affligga una sola fibra di un solo uomo, può sospendere le sciagure e la rovina delle nazioni.

[A. D. 1396-1398] Tal è l’aspetto generale delle guerra ungarese; ma ai disastri che vi soffersero i Francesi, siamo debitori di alcuni scritti che ne danno meglio a conoscere il carattere di Baiazetto, e le circostanze che gli fruttarono la vittoria63. Il Duca di Borgogna, sovrano della Fiandra, e zio di Carlo VI, non valse a frenare l’ardore intrepido del figlio Giovanni, Conte di Nevers, che partì accompagnato da quattro Principi, cugini di lui e del Monarca francese. Il Sere di Couci, uno de’ migliori e più antichi Capitani della Cristianità, serviva di guida alla inesperienza di questi giovani64; ma l’esercito comandato da un Contestabile, da un Ammiraglio, e da un Maresciallo [p. 336 modifica]di Francia65 non era composto che di mille Cavalieri e de’ loro sergenti: lo splendore de’ nomi era ai nobili guerrieri un’esca alla presunzione, alla disciplina un ostacolo. Ognun d’essi credendosi degno di comandare, nessuno volendo obbedire, i Francesi guardavano con eguale disprezzo i confederati e i nemici. Tenendosi certi che Baiazetto o perirebbe inevitabilmente in quella impresa, o si sarebbe dato alla fuga, già calcolavano quanto tempo abbisognerebbe loro per trasferirsi a Costantinopoli, e di lì a liberare il Santo Sepolcro. Quando le grida de’ Turchi ne annunziarono l’avvicinare, i giovani francesi stavano a mensa, abbandonandosi alla gioia e alla inconsideratezza; e già riscaldati dal vino, addossarono precipitosamente le loro armadure, e montati sui lor cavalli, corsero all’antiguardo, reputandosi ingiuriati dai motivi che avea Sigismondo per non concedere ad essi l’onore del primo assalto. I Cristiani non perdevano la battaglia di Nicopoli, se i Francesi condiscendevano ai prudenti consigli degli Ungaresi; ma forse ottenevano una gloriosa vittoria, se gli Ungaresi imitavano il valor de’ Francesi. Perchè questi avendo rapidamente disperse le truppe d’Asia che formavano il primo fronte dell’inimico, e rotti i palizzati posti per trattenere la cavalleria, misero in disordine, dopo un sanguinoso combatti[p. 337 modifica]mento, gli stessi giannizzeri; ma vennero finalmente oppressi dal grande numero di squadroni che, sbucati dai boschi, assalirono d’ogni banda questo drappello d’intrepidi cavalieri. In tal giornata funesta ai Cristiani, i nemici medesimi di Baiazetto dovettero ammirare il segreto e la rapidità delle sue corse, l’ordine serbato nella battaglia, la dottrina delle militari fazioni: ma non gli viene risparmiata la taccia di avere inumanamente abusato della vittoria. Rispettando unicamente le vite del Conte di Nevers e di ventiquattro Principi, o Signori, il grado e l’opulenza de’ quali attestati gli furono da’ suoi interpreti, fece condursi dinanzi a mano a mano tutti gli altri prigionieri francesi, i quali, ricusando di abbiurare la propria religione, vennero per ordine del Sultano, e alla presenza di lui, decollati. A sì atroce vendetta lo spinse la perdita de’ suoi valorosi giannizzeri; e se fosse vero che nel giorno precedente alla battaglia, i Francesi avessero trucidati i prigionieri fatti ai Turchi66, i primi non avrebbero dovuto imputar che a sè stessi gli effetti di una giusta rappresaglia. Uno fra’ cavalieri de’ quali Baiazetto avea salvata la vita, ottenne la permissione di trasferirsi a Parigi, per raccontare colà questa lamentevole storia, e sollecitare il riscatto de’ Principi prigionieri. In questo mezzo, l’esercito turco trasportavasi seco dovunque andava il Conte di Nevers e i Baroni francesi, additati a mano a mano come trofeo a tutti i Musulmani dell’Europa e dell’Asia; e giunti a Bursa, [p. 338 modifica]veniano custoditi in rigoroso carcere tutte le volte che il Sultano in questa Capitale facea residenza. Faceansi intanto giornaliere istanze a Baiazetto affinchè sul sangue di questi vendicasse il sangue de’ martiri Musulmani. Ma il Sultano avea promessa loro la vita, e la parola di lui, o perdonasse, o condannasse, era inviolabile. Al ritorno del messaggiero, i donativi e l’intercessione de’ Re di Francia e di Cipro, non lasciarono più dubbj nel vincitore sul grado e sulla dignità de’ suoi prigionieri. Lusignano gl’inviò una saliera d’oro di squisito lavoro, e valutata diecimila ducati, e Carlo VI gli fe’ pervenire per la strada dell’Ungheria una brigata di falconi norvegi, sei bardamenti del panno scarlatto, che a quei giorni fabbricavasi a Reims, e diversi tappeti di Arras, ove le battaglie di Alessandro stavano delineate. Dopo alcuni indugi prodotti piuttosto dalla lontananza che da divisamento veruno, Baiazetto accettò dugentomila ducati pel riscatto del Conte di Nevers e de’ Baroni che viveano tuttavia. Il maresciallo di Bucicault, rinomato guerriero, in questo picciolo numero d’eletti trovavasi; ma periti erano nella pugna l’ammiraglio di Francia, e nelle prigioni di Bursa il Contestabile e il Sere di Couci. Tale riscatto, di cui le male spese raddoppiarono la somma, cadde principalmente sul Duca di Borgogna, o piuttosto sopra i suoi sudditi fiamminghi, cui le leggi feudali metteano a contribuzione, e quando il primogenito del lor Sovrano veniva armato cavaliere, e quando facea mestieri liberarlo dalla cattività. Alcuni mercatanti genovesi si offersero mallevadori per un quintuplo di tale somma; d’onde quel secolo guerriero potè avvedersi che il commercio e [p. 339 modifica]il credito sono i vincoli della società e delle nazioni. Fra le condizioni del Trattato, vi aveva quella che i prigionieri francesi giurassero di non portare mai l’armi contra il lor vincitore; ma Baiazetto medesimo li sciolse da questo patto men generoso. „Io sprezzo, egli dicea all’erede della Borgogna, le tue armi, siccome i tuoi giuramenti. Sei giovine, e avrai forse l’ambizione di cancellare la macchia, o la sventura della tua prima impresa. Aduna le tue forze militari, fa noto il tuo divisamento, e sta certo che Baiazetto si allegrerà di scontrarsi teco una seconda volta sul campo della battaglia„. Innanzi partire vennero ammessi alla Corte di Bursa, ove i Principi francesi poterono ammirare la magnificenza del Sultano, il cui treno di caccia e di falconeria andava composto di settemila cacciatori e di altrettanti falconieri67. Gli stessi Principi furono presenti, allorchè Baiazetto fece sventrare uno dei suoi ciamberlani, accusato da una donnicciuola di averle bevuto il latte delle sue capre. Gli stranieri rimasero attoniti di un tale atto di giustizia, ma era l’atto di giustizia di un Sultano, che sdegna esaminare il grado delle colpe e il valor delle prove. [p. 340 modifica]

[A. D. 1355-1391] Dopo essersi liberato da un imperioso tutore, Giovanni Paleologo rimase per trentasei anni ozioso spettatore e, a quanto sembra, indifferente della rovina del proprio Impero68; dedito affatto all’amore, o piuttosto alla dissolutezza, sola passione forte che fosse in lui, lo schiavo de’ Turchi dimenticava l’obbrobrio dell’Imperatore romano fra le braccia delle femmine di Costantinopoli. Andronico, figlio primogenito di Giovanni, nel tempo che soggiornò ad Andrinopoli, si strinse in lega di amistà e di delitti con Sauzes, figlio di Amurat, e insieme concertarono il divisamento di privar di trono e di vita i lor padri. Amurat, corso in Europa, scoperse ben presto e dissipò la congiura, e dopo avere fatto cavar gli occhi a Sauzes, minacciò il suo vassallo Giovanni di riguardarlo come complice del figlio, se nello stesso modo Andronico non gastigava. Obbedì Paleologo, e per una cautela da barbaro e da insensato, avvolse nel suo decreto l’innocente fanciullezza del principe Giovanni, figliuol del colpevole; ma l’imperiale comando fu eseguito sì mitemente, o con sì poca destrezza, che all’uno de’ condannati rimase l’uso d’un occhio, l’altro non divenne che losco. Per tal modo privati della successione i due Principi, vennero rinchiusi nella torre di Anema; e l’Imperatore premiò la fedeltà del suo secondogenito Manuele col farlo partecipe della porpora imperiale; [p. 341 modifica]ma in termine a due anni le fazioni de’ Latini e l’incostanza de’ Greci diedero luogo ad una catastrofe, per cui i principi prigionieri saliron sul trono, e i due Imperatori presero il loro posto entro la torre. Non erano ancora scorsi due successivi anni, quando Paleologo e Manuele poterono fuggire col soccorso di un frate, accusato di poi di magia, e indicato a vicenda dalle due parti coi predicati di angelo e di demonio. Riparati a Scutari i due fuggiaschi, i lor partigiani presero l’armi, e i Greci delle due fazioni ostentavano l’ambiziosa nimistà di Cesare e di Pompeo, allorchè questi due campioni contendeano per l’Impero dell’Universo. Ma il Mondo romano allor tutto stavasi in un angolo della Tracia fra la Propontide e il mar Nero, il cui spazio, lungo cinquanta miglia e largo trenta all’incirca, avrebbe potuto paragonarsi ad uno dei piccoli principati della Germania e dell’Italia, se gli avanzi di Costantinopoli non avessero tuttavia mostrata la ricchezza e la popolazione della Capitale di un regno. Per rimettere la pace, fu d’uopo dividere ancora questo rimasuglio d’Impero. Giovanni Paleologo e Manuele conservarono per sè la Capitale; Andronico e il figlio posero la residenza a Rodosto e Selimbria, governando quasi tutto quel poco che fra i ricinti di Bisanzo non si contenea. Nel tranquillo sogno della sua monarchia, le passioni del vecchio Giovanni sopravviveano alla sua ragione e alle sue forze; onde privò il suo amatissimo figlio Manuele, suo collega e successore al trono, di una giovine ed avvenente principessa di Trebisonda, che si prese egli stesso per moglie. Intanto che il rifinito vegliardo sforzavasi in Bisanzo a consumare il suo [p. 342 modifica]matrimonio, il giovine Manuele seguìto da cento giovani greci delle più illustri famiglie, si trasferiva a militare sotto gli ordini della Porta Ottomana. Questi si distinsero nell’armi fra gli eserciti di Baiazetto; ma l’impresa di riedificare le fortificazioni di Costantinopoli irritò il Principe ottomano, che minacciò i suoi ostaggi di morte. Vennero tostamente demoliti i nuovi lavori, e faremmo troppo onore alla memoria di Giovanni Paleologo, che poco dopo morì, coll’attribuire la sua morte al dolore di quest’ultima umiliazione.

[A. D. 1391-1425] Manuele con prontezza avvertito della morte del padre, fuggì di soppiatto e affrettatamente dal palagio di Bursa per trasferirsi a Costantinopoli e impossessarsi del trono. Baiazetto ostentando non curanza sulla perdita di questo prezioso ostaggio, proseguì le sue conquiste in Asia e in Europa, intanto che il nuovo Imperator di Bisanzo guerreggiava il nipote Giovanni di Selimbria, che difese per otto continui anni i suoi diritti legittimi di successione a quel poco avanzo d’Impero. Il vittorioso Sultano volea finalmente compir le sue imprese colla conquista di Costantinopoli; ma arrendendosi alle rimostranze del Visir, che temea fosse conseguenza di tale impresa una nuova e più formidabile Crociata di tutti i Principi della Cristianità, scrisse all’Imperator greco una lettera ne’ seguenti termini concepita.  [A. D. 1395-1402] „Per la grazia di Dio, la nostra invincibile scimitarra ha ridotte sotto la nostra obbedienza, pressochè l’intera Asia, e una parte considerabile dell’Europa. Ne manca tuttavia la città di Costantinopoli; chè già tu sei ridotto a non possederne fuorchè i recinti; escine dunque, e consegnandola nelle nostre mani, spiegati sul [p. 343 modifica]compenso che brami, o trema per te e pel tuo popolo sciagurato, se ardisci imprudentemente darmi un rifiuto.„ Ma le instruzioni segrete di cui vennero incaricati gli Ambasciadori che tal messaggio arrecavano, erano di mitigare il rigor dell’inchiesta, e di proporre un Trattato, che i Greci accettarono con sommessione e gratitudine; e in contraccambio di una tregua conceduta loro per dieci anni, promisero un tributo annuale di trentamila scudi d’oro, oltre al dolore di tollerar pubblicamente fra loro il culto di Maometto; laonde Baiazetto ebbe la gloria di mettere un Cadì e di fondare una moschea nella Metropoli della Chiesa d’Oriente69. Ciò nullameno l’irrequieto Sultano non rispettò lungo tempo la tregua, e prendendo le parti del Principe di Selimbria, Sovrano legittimo, assediò con un esercito Costantinopoli. In tale stremo, Manuele implorò la protezione del Re di Francia, inviandogli una lamentevole ambasceria che ottenne molta compassione e il soccorso di alcuni soldati spediti sotto il comando del Maresciallo di Bucicault70, al pio valore del quale erano sprone la ricordanza della sopportata cattività, e la brama di vendicarsene sugl’Infedeli. Scortato da quattro navi da guerra veleggiò ad Acquamorta verso l’Ellesponto, e superando il passaggio che diciassette turche galee difendevano, introdusse in Costantinopoli seicento armigeri e mille seicento arcieri che ei [p. 344 modifica]passò in rassegna nel vicino spianato, senza degnarsi di contare, o mettere in ordine di battaglia, comunque molti fossero, i Greci. Bastò il suo arrivo a liberare Costantinopoli dal blocco che dal lato di terra e di mare la rinserrava; perchè gli squadroni di Baiazetto furono presti a ritirarsi ad una riguardosa distanza; che anzi diverse Fortezze dell’Asia e dell’Europa vennero prese d’assalto dal Maresciallo e dall’Imperator Manuele che con eguale intrepidezza combattettero l’uno a fianco dell’altro; ma non tardarono a ricomparire in maggior numero gli Ottomani, onde il prode Bucicault, dopo esservisi sostenuto per un anno, risolvette di abbandonare un paese che non potea più somministrare nè stipendio, nè viveri a’ suoi soldati. Prima d’ogni altra cosa però offerse a Manuele di condurlo alla Corte di Francia, ove avrebbe potuto sollecitare in persona soccorso d’uomini e di danari, ma nel tempo stesso gli consigliava a togliere i pretesti alla guerra civile, cedendo il trono al nipote. Accettata questa proposta da Manuele, il Principe di Selimbria fu introdotto nella città, e la sciagura pubblica era giunta a tanto, che la sorte di Manuele esule parve da preferirsi a quella del giovine Imperatore tornato ne’ suoi diritti. Anzichè far plauso ai buoni successi del suo vassallo, il Sultano de’ Turchi chiese Bisanzo come sua proprietà, e avutone rifiuto dall’Imperatore Giovanni, fece soffrire alla Capitale i congiunti flagelli della guerra e della carestia. Contra un nemico di tal natura non giovando omai nè il pregar, nè il resistere, il selvaggio conquistatore sarebbesi divorata la sua preda, se in questo mezzo, non fosse stato balzato dal trono da un altro Selvaggio più forte di lui. La vit[p. 345 modifica]toria di Timur, o Tamerlano allontanò di un mezzo secolo circa la caduta di Costantinopoli, servigio importante, benchè fortuito, che dà alla vita e al carattere del Tartaro conquistatore il diritto di aver luogo nella presente Storia.

Note

  1. Prego il leggitore a riandare que’ capitoli della presente Storia ove sono descritti i costumi delle nazioni pastorali e le conquiste di Attila e degli Unni, e da me composti in un tempo in cui io desiderava, più di quanto sperassi, di condurre a termine questo lavoro.
  2. I Kan dei Keraiti molto probabilmente non sarebbero stati capaci di leggere le eloquenti epistole composte a loro nome dai missionarj nestoriani, che presentavano il loro regno di tutte le favolose maraviglie attribuite alle indiane Monarchie. Può darsi che questi Tartari (da essi nominati Pretejanni) si fossero sottomessi al Battesimo e agli Ordini sacri (V. Assem., Bibl. Orient., t. III, part. II, p. 487-503).
  3. Dopo che il Voltaire ha pubblicate la sua Storia e la sua Tragedia, il nome di Gengis, almeno in francese, sembra essere stato generalmente ricevuto. Nondimeno Abulgazi-Kan dovea sapere il vero nome del suo antenato, e sembra giusta l’etimologia ch’egli ha offerta; Zim, in lingua dei Mongulli, significa grande, e Gis è la desinenza del superlativo (Hist. généalog. des Tartares, part. III, p. 194, 195). Non abbandonando quindi il significato di grandezza, fu da quei popoli chiamato Zingis l’Oceano.
  4. Il nome di Mongul, prevalso fra gli Orientali, è divenuto il titolo del sovrano dell’Indostan, del Gran Mogol.
  5. I Tartari, o propriamente i Tatar, discendenti di Tatar-kan, fratello di Mougul-kan (V. Abulgazi, prima e seconda parte) si collegarono in un’orda di settantamila famiglie sulle rive del Kitay (p. 103-112), nella grande invasione d’Europa (A. D. 1238); sembra che marciassero all’antiguardo, e la somiglianza del loro nome colla parola Tartarei, rendè più famigliare ai Latini la denominazione di Tartari (Paris, p. 398).
  6. Scorgesi una singolare somiglianza tra il codice religioso di Gengis-kan e quello del Locke. (V. le Costituzioni della Carolina, nelle sue Opere, vol. IV, p. 535, edizione in 4., 1777).
  7. Raccolta eseguita nell’anno 1294, per ordine di Chasan, Kan di Persia, e quarto discendente di Gengis. Sul fondamento di queste tradizioni, Fadlallà, Visir del ridetto Kan, compose la Storia dei Mongulli in lingua persiana; della quale si è valso Petis de la Croix, nella sua Storia di Gengis-kan. La Storia genealogica de’ Tartari, pubblicata a Leida nel 1726 in due volumi in 12, è una traduzione che gli Svedesi, andati prigionieri in Siberia, fecero sul manoscritto Mongul di Abulgazj-Bahadar-kan, discendente di Gengis, che regnava sugli Usbek di Carasme, o Carizme, tra gli anni 1644-1663; opera assai preziosa per l’esattezza dei nomi delle genealogie e dei descritti costumi della nazione. Essa è divisa in nove parti: la prima delle quali contiene un intervallo che da Adamo giunge sino a Mongul-kan; la seconda da Mongul fino a Gengis; la terza è la vita di Gengis; la quarta, quinta, sesta e settima narra la storia generale de’ quattro figli di Gengis e della loro posterità, l’ottava e la nona, la storia particolare de’ discendenti di Scibani-kan, che regnò ne’ paesi di Morenahar e di Carizme.
  8. Storia di Gengis-kan, e di tutta la dinastia de’ Mongulli suoi successori, conquistatori della Cina, tolta dalla Storia Cinese, opera del R. P. Gaubil Gesuita missionario a Pechino; Parigi 1739 in 4. Questa traduzione porta l’impronta cinese, cioè la scrupolosa esattezza nel raccontare i fatti domestici, e l’assoluta ignoranza in tutto quanto agli estranei si riferisce.
  9. Histoire du grand Gengis-khan premier empereur des Mongouls et des Tartares, par M. Petis de la Croix, à Paris, 1710, in 12. Tale Opera costò all’Autore dieci anni di fatica, ed è tolta in gran parte dagli Scrittori persiani, fra gli altri da Nisavi, segretario del Sultano Gelaleddin che ha i pregi e i pregiudizj di un contemporaneo. O il compilatore, o gli originali hanno dato luogo alla censura di scrivere in istile alquanto romanzesco. V. anche gli articoli di Gengis-kan, Mohammed, Gelaleddin ec., nella Biblioteca orientale del d’Herbelot.
  10. Aitono, principe armeno, indi Fra Premonstrato (Fabricius, Bibl. lat. med. aevi, t. I, pag. 34), dettò in francese la storia de’ Tartari suoi antichi commilitoni; la quale venne immediatamente tradotta in latino, ed è l’opera De Tartaris, inserita nel Novus Orbis di Simone Grineo (Basilea, 1555 in foglio).
  11. Gengis-kan e i primi suoi successori tengono verso il fine la nona dinastia di Abulfaragio (Vers. Pococke, Oxford, 1663, in 4); la decima dinastia è quella dei Mongulli di Persia. L’Assemani, Bibl. orient., t. II, ha tolti alcuni fatti dai suoi scritti siriaci e dalla vita de’ Mafriani, giacobiti o primati dell’Oriente.
  12. Fra gli Arabi, tali di lingua e di religione, merita di essere distinto Abulfeda, Sultano di Hamà nella Sorìa, che combattè in persona contro i Mongulli, seguendo le bandiere dei Mammalucchi.
  13. Niceforo Gregoras (l. II, c. 5, 6) intendendo la necessità di collegare la storia degli Sciti con quella di Bisanzo, ha descritto con eleganza ed esattezza i costumi de’ Mongulli dal momento che si stanziarono nella Persia, ma non si mostra istrutto della loro origine, e altera i nomi di Gengis e de’ suoi figli.
  14. Il Signor Levesque (Hist. de Russie, t. II) ha narrata la conquista della Russia operata dai Tartari, sulle tracce del patriarca Nicone e delle Cronache antiche.
  15. Quanto alla Polonia, mi basta la Sarmatia Asiatica et Europaea, di Mattia di Micou, o Michovia, medico e canonico di Cracovia (A. D. 1506), inserita nel Novus Orbis di Grineo (Fabricius, Bibl. lat. mediae et infimae aetatis, t. V, p. 56).
  16. Citerei Turoczio, il più antico scrittore di questa Storia generale (parte 2, c. 74, p. 150) nel primo volume dei Scriptor. rerum hungaricarum, se questo stesso volume non contenesse l’originale racconto di un contemporaneo che fu testimonio e vittima dell’invasione de’ Tartari (M. Rogerii Hungari, varidiensis capituli canonici, carmen miserabile, seu Historia super destructionem regni Hungariae, temporibus Belae IV regis per Tartaros facta, pag. 292-321); pittura eccellente, fra quante io ne conosca, delle circostanze che alla invasione de’ Barbari vanno congiunte.
  17. Mattia Paris, fondandosi sopra autentici documenti, ha narrati i terrori e i pericoli dell’Europa. V. il suo voluminoso indice alla parola Tartari. Due frati, Giovanni de Plano Carpini e Guglielmo Rubruquis, e il Nobile veneto Marco Polo, mossi da zelo, ovvero da curiosità, visitarono nel secolo decimoterzo la Corte del Gran Kan. Le relazioni latine de’ due primi leggonsi inserite nel primo volume di Hackluyt; l’originale italiano, o la traduzione della terza si trova nel secondo tomo del Ramusio (Fabricius, Bibl. lat. medii aevi, t. II, p. 198, t. V, p. 25).
  18. Il Signor De Guignes nella sua grande Storia degli Unni ha ragionato fondatamente sopra Gengis-kan e i suoi successori (V. t. III, l. XV-XIX, e negli articoli de’ Selgiucidi di Rum, t. IV, l. XI, de’ Carizmj, l. XIV, e de’ Mammalucchi, t. IV, l. XXI, e anche le Tavole del primo volume). Comunque l’Autore dia saggio ivi di molta istruzione ed esattezza, non ne ho tolto che alcune osservazioni generali, e alcuni passi di Abulfeda, il testo de’ quali non è ancora stato tradotto dall’arabo.
  19. O più giustamente Yen-king, antica città, le cui rovine vedonsi tuttavia in qualche distanza a scilocco della moderna città di Pechino, fabbricata da Cublai-kan (Gaubil, pag. 146). Nan-king e Pé-king, sono nomi vaghi indicanti la corte d’ostro e la corte di tramontana. Nella geografia cinese troviamo continui impacci or dalla somiglianza, or dalla alterazione de’ nomi.
  20. Voltaire, (Essai sur l’Histoire génerale, tom. III, c. 60, p. 8). Nella parte che si riferisce alla Storia di Gengis e dei Mongulli, trovansi, come in tutte le opere di questo scrittore, molte considerazioni giudiziose e verità generali mescolate con alcuni particolari errori.
  21. Zagatai diede il proprio nome ai suoi Stati di Maurenahar, o Transossiana, e i Persiani chiamano Zagatai i Tartari che migrarono da quel paese. Tale autentica etimologia e l’esempio degli Usbek, de’ Nogai ec., debbono farci istrutti a non negare affermativamente che alcune nazioni abbiano assunti nomi proprj di persone.
  22. Marco Polo, e i Geografi orientali distinguono gl’Imperi del Nort e del Mezzogiorno co’ nomi di Catai e di Mangi; così la Cina rimase divisa fra il Gran-Kan e i Cinesi dall’A. di G. C. 1234 al 1279. Dopo scoperta la Cina la ricerca del Catai sviò i nostri navigatori del secolo XVI, voltisi a scoprire un passaggio a greco.
  23. Mi fido nell’erudizione e nell’esattezza del padre Gaubil, il quale traduce il testo cinese degli Annali mongulli, o di Yuen (p. 71-93-153); ma ignoro in qual tempo questi Annali fossero composti e pubblicati. I due zii di Marco Polo, che militarono come ingegneri all’assedio di Siengiangfu (l. II, c. 61, in Ramusio, t. II; V. Gaubil, p. 155, 157), dovrebbero aver conosciuto e raccontati gli effetti di cotesta polvere struggitrice, e il loro silenzio è una obbiezione che sembra pressochè decisiva. Io sospetto che la recente scoperta della polvere, nata invece in Europa, sia stata trasportata alla Cina dalle carovane del secolo XV, e falsamente adottata dai Cinesi come antica loro scoperta, precedente all’arrivo de’ Portuguesi e de’ Gesuiti. Pure il padre Gaubil afferma che l’uso della polvere da sedici secoli era noto in quelle contrade.
  24. Tutto quanto possiamo sapere intorno agli Assassini della Persia e della Sorìa, lo dobbiamo al sig. Falconet. V. le due Memorie copiosissime di squisita erudizione dal medesimo lotto all’Accademia delle Iscrizioni (t. XVII, p. 127-170).
  25. Gl’Ismaeliti della Sorìa o Assassini in numero di quarantamila, aveano acquistate, o fabbricate dieci Fortezze nelle montagne sopra Tortosa, e vennero sterminati dai Mammalucchi verso l’anno 1280.
  26. Alcuni storici Cinesi estendono le conquiste fatte da Gengis sino a Medina, patria di Maometto (Gaubil, p. 42); asserzione atta quanto mai a provare l’ignoranza di quei popoli su tutto ciò che alla storia del loro paese non si riferisce.
  27. Il Dastè-Kipsak, ossia la pianura di Kipsak, tiene sulle due rive del Volga uno spazio immenso che si estende verso i fiumi Iaik e Boristene, e credesi terra natale de’ Cosacchi, che dal paese abbiano preso il lor nome.
  28. Nell’anno 1238 gli abitanti della Gotia, oggidì Svezia, e della Frisia, per timore de’ Tartari, non osarono spedire le loro navi nelle acque inglesi alla pesca delle arringhe, che non venendo in quell’anno asportate fuori dell’Inghilterra si vendeano uno scellino per ogni quaranta o cinquanta (Mattia Paris, p. 396). Ella è cosa assai singolare che gli ordini di un Kan de’ Mongulli, il cui regno era ai confini della Cina, abbiano fatto abassare il prezzo delle arringhe ne’ mercati dell’Inghilterra.
  29. Trascrivo gli epiteti caratteristici o lusinghieri, co’ quali questo ecclesiastico addita le diverse nazioni europee. Furens ac fervens ad arma Germania, strenuae militiae genitrix et alumna Francia, bellicosa et audax Hispania, virtuosa viris et classe munita fertilis Anglia, impetuosis bellatoribus referta Alemannia, navalis Dacia, indomita Italia, pacis ignara Burgundia, inquieta Apulia, cum maris Graeci, Adriatici, et Thirrheni insulis piraticis et invictis Creta, Cypro, Sicilia, cum Oceano conterminis insulis et regionibus, cruenta Hibernia, cum agili Wallia, palustris Scotia, glacialis Norwegia, suam electam militiam sub vexillo crucis destinabant, etc. (Mattia Paris, p. 498).
  30. V. in Ackluyt la relazione di Carpino, vol. I, p. 30. Abulgazi ne offre la genealogia dei Kan della Siberia (part. 8, p. 485-495). Gli stessi Russi non hanno trovata una qualche Cronaca tartara a Tobolsk?
  31. La Carta del Danville e gl’Itinerarj cinesi del De Guignes (t. I, part. II, p. 57) pongono, a quanto sembra, il sito di Holin, o Caracora circa seicento miglia a maestro di Pechino. La distanza fra Selinginsky e Pechino è di duemila verste russe, ossia mille trecento, o mille quattrocento miglia inglesi (Viaggi di Bell., vol. 2, p. 67).
  32. Rubruquis incontrò a Caracora il suo concittadino Guglielmo Boucher, orefice di Parigi, che avea fabbricato pel Gran Kan un albero d’argento, sostenuto da quattro lioni che gettavano quattro liquori diversi. Abulgazi (parte IV, p. 367) cita i pittori del Kitay e della Cina.
  33. L’affezione dei Kan verso i Bonzi e i Lama della Cina, tanto odiati dai Mandarini (Dubalde, Hist. de la Chine, tom. I, pag. 502, 503), parrebbe una prova che i ridetti Bonzi e Lama fossero sacerdoti del Fò, divinità dell’India, il culto della quale prevalse appo le Sette dell’Indostan, di Siam, del Tibet, della Cina e del Giappone. Ma questo misterioso argomento è avvolto fra nubi, che forse le sole ricerche della nostra società asiatica potranno giungere a dileguare.
  34. Alcuni disastri che i Mongulli soffersero nell’Ungheria (Mattia Paris, pag. 545-546) hanno potuto dare origine alla voce di una unione de’ Re franchi, e d’una vittoria dai medesimi riportata sui confini della Bulgaria. Non è difficile che Abulfaragio (Dynast. p. 310) quaranta anni dopo, e standosi di là dal Tigri sia stato indotto in errore.
  35. V. Pachimero (l. III, c. 25, e l. X, c. 26, 27) e il timor panico de’ Niceni (lib. III, c. 27); Niceforo Gregoras (l. IV, c. 6).
  36. V. G. Acropolita, pag. 36, 37, e Niceforo Gregoras, l. II, c. 6; l. IV, c. 5.
  37. Abulfaragio, che scriveva nel 1284, afferma che dopo la favolosa sconfitta di Batù, i Mongulli non aveano assaliti nè i Greci, nè i Franchi, e in questo luogo può essere riguardato come testimonio maggiore d’ogni eccezione. Hayton, principe armeno, si gloria parimente dell’amicizia che a lui, e alla sua nazione mostrarono i Tartari.
  38. Pachimero tratteggia con colori favorevolissimi Kasan-kan, facendolo rivale di Alessandro e di Ciro (l. II, c. 1); e nella conclusione della sua Storia (lib. XIII, c. 36) manifesta la speranza di veder giungere trentamila Toccari o Tartari che respingano i Turchi dalla Bitinia.
  39. L’origine della dinastia Ottomana viene dottamente rischiarata dagli eruditissimi De Guignes (Histoire des Huns, t. IV, p. 329-337) e d’Anville (Empire turc, p. 14-22), due abitanti di Parigi, da cui gli Orientali potrebbero imparare la Storia e la geografia del loro proprio paese.
  40. V. Pachimero (l. X, c. 25, 26; l. XIII, c. 33, 34-36), e intorno alle montagne lasciate indifese (l. I, c. 3-6), Niceforo Gregoras (l. VII, c. 1), e il primo libro di Laonico Calcocondila l’Ateniese.
  41. Ignoro se i Turchi abbiano Storici che si portino a’ tempi anteriori a Maometto II, nè ho potuto su quei tempi far le mie indagini che valendomi di una meschinissima Cronaca (Annales Turcici ad annum 1550), tradotta da Giovanni Gaudier e pubblicata dal Leunclavio (ad calcem Laonic. Calcocondyles, p. 311, 350) con copiosi comentari. La Storia dei progressi e della declinazione dell’Impero romano (A. D. 1300-1683) è stata tradotta in inglese dal manoscritto di Demetrio Cantemiro principe di Moldavia (Londra 1734, in folio). L’autore va soggetto a grandi abbagli intorno alla Storia orientale, ma sembra istrutto dell’idioma, degli annali e delle istituzioni de’ Turchi. Egli trae una parte de’ suoi materiali dalla Synopsis di Saadi, Effendi di Larissa, dedicata nel 1696 al Sultano Mustafà, compilazione preziosa di opere di scrittori originali. Il dottor Johnson loda Knolles (Storia generale dei Turchi fino al presente anno, Londra 1603) come il primo fra gli Storici, notando però che sfortunatamente ha scelto uno sgradevol soggetto. Ma io non so persuadermi che una compilazione voluminosa degli Scrittori latini, ove trovansi mille trecento pagine in folio di aringhe e battaglie, possa istruire, allettare la posterità che pretende da uno Storico qualche poco di sana critica e di filosofia.
  42. Benchè Cantacuzeno racconti le battaglie e l’eroica fuga di Andronico il Giovane (lib. II, c. 6, 7, 8), dissimula la presa di Prusa, di Nicea e di Nicomedia, perdite che Niceforo Gregoras in chiare note confessa (l. VIII, 15; IX, 9, 13; XI, 6). Dagli scritti di questo Storico apparirebbe che Nicea avesse ceduto ad Orcano nel 1330, Nicomedia nel 1339, date che però non si accordano al giusto con quelle de’ Turchi.
  43. La divisione degli Emiri turchi è tolta da due contemporanei, il greco Niceforo Gregoras (l. VII, 1) e l’arabo Marakeschi (De Guignes, t. II, parte II, pag. 76, 77). V. anche il primo libro di Laonico Calcocondila.
  44. V. Pachimero, l. XIII, c. 13.
  45. L’Autore allude qui all’Apocalisse, cioè rivelazioni di S. Giovanni, diretta alle sette società cristiane della Grecia, cioè d’Efeso, di Smirne, di Pergamo, di Filadelfia, di Tiasira, di Laodicea e di Sardi; ma bisognava scrivere, siccome pure nella Nota che segue, in modo più riguardoso. La religione di Gengis è il Deismo, religione naturale e semplice di molti filosofi antichi, e di alcuni moderni, e contro la quale molto scrissero i nostri teologi, sostenendo la rivelazione contenuta nel Vecchio e nel Nuovo Testamento. (Nota di N. N.)
  46. V. i viaggi del Wheeler e dello Spon, del Pococke e del Chandler, e principalmente le Ricerche dello Smith intorno alle Sette Chiese dell’Asia. I più devoti antiquarj si studiano di conciliare le promesse e le minacce del primo autore delle rivelazioni collo stato attuale delle Sette Città. Sarebbe cosa più savia il limitare le proprie predizioni agli avvenimenti del secolo in cui si vive.
  47. L’Autore disegna qui colla parola figli Gesù Cristo, che noi crediamo appunto figlio dell’Esser Supremo, cioè di Dio, e colla parola rivali il Demonio; ma è una maniera impropria il chiamare il Demonio rivale di Dio, benchè si creda che sia sua cura il condurre al male gli uomini colle seduzioni. Si sa poi che il dogma, insegnato da Maometto contro l’idolatria dell’Arabia, era il Deismo, cioè l’unità, e non la trinità dell’Esser Supremo, nè ammetteva per conseguenza che Gesù Cristo fosse figlio dell’Esser Supremo, cioè di Dio, nè che fosse una delle persone della nostra Trinità perchè non vi credeva; si sa pure che nemmeno ammetteva un cattivo essere, seduttore occulto, origine del male, cioè il Demonio. (Nota di N. N.)
  48. Si consulti il quarto libro della Storia di Malta dell’Abate di Vertot. Questo leggiadro scrittore dà a divedere alquanta ignoranza, supponendo che Otmano, un partigiano dei colli della Bitinia, abbia potuto assediar Rodi per terra e per mare.
  49. Niceforo Gregoras si è diffuso volentieri nel descrivere l’amabilità dell’indole di Amiro (l. XII, 7; l. XIII, 4-10; XIV, 1-9; XVI, 6). Cantacuzeno parla con onore del suo confederato (l. III, c. 56, 57-63, 64-66, 67, 68-86, 89-96); ma protesta contro l’accusa datagli di propensione verso i Turchi negando in tal qual modo la possibilità di una così poco naturale amicizia (l. IX, c. 40).
  50. Dopo che i Latini ebbero conquistata Smirne, il Papa assegnò l’incarico di difenderla ai Cavalieri di Rodi (V. Vertot, l. V).
  51. V. Cantacuzeno (l. III c. 95). Niceforo Gregoras che, ove parlasi della luce del Tabor, largheggia all’Imperatore degli ingiuriosi nomi di Tiranno e di Erode, sembra però propenso a scusar queste nozze, anzichè a biasimarle, allegando la passione e la possanza di Orcano, εγγυτατος και τη δυναμει τους κατ’αυτον ηδη Περσικους (Turos) υπεραιρων Σατραπας, avvicinando e per potenza superando i Satrapi persi (Turchi) (l. XV, 5). Esalta in appresso il governo civile e militare di Orcano. V. il regno di questo Principe in Cantemiro, p. 24-30.
  52. Può leggersi in Duca (c. 8) una pittura animata e concisa di questo fatto che, colla confusione di un colpevole, Cantacuzeno attesta.
  53. Cantemiro, e in questo luogo, e quando parlasi delle prime conquiste dell’Europa, ne dà assai cattiva opinione dei suoi testi turchi, nè io ho molto maggiore fiducia in Calcocondila (l. I, p. 12). E l’uno e l’altro hanno dimenticato di consultare il quarto libro di Cantacuzeno che in ordine a ciò può riguardarsi come un monumento autentico più di tutti. Duolmi sempre degli ultimi libri di Niceforo Gregoras, non ancor pubblicati, benchè siavi il lor manoscritto.
  54. Incominciando dall’epoca ove Gregoras e Cantacuzeno finiscono la loro Storia, s’incontra una lacuna di più di un secolo. Giorgio Franza, Michele Duca e Laonico Calcocondila, non iscrissero che dopo la presa di Costantinopoli.
  55. V. Cantemiro p. 37-41 e le rilevanti sue note.
  56. Volto bianco e volto nero sono, in lingua turca, espressioni, di lode l’una, e di rimprovero l’altra. Hic niger est, hunc tu Romane caveto, era anche un apoftegma de’ latini.
  57. V. la vita e la morte di Morad o Amurat I in Cantemiro (pag. 33-45), nel primo libro di Calcocondila e negli Annali turchi di Leunclavio. Un’altra Storia racconta che il Sultano fu trafitto nella sua tenda da un Croatto; il quale avvenimento venne citato all’ambasciatore Busbek (ep. 1, p. 98) come una scusa della cautela insultante che usavasi verso gli ambasciatori delle Corti straniere, non ammessi alla presenza del Sovrano, se non se in mezzo a due guardie turche che gli tenevano le braccia.
  58. La Storia del regno di Baiazetto I, o Ilderim Bayazid trovasi in Cantemiro (p. 46), nel secondo libro di Calcocondila e negli Annali turchi. Il soprannome di Ilderim, o lampo, sembra una prova che i conquistatori e i poeti hanno mai sempre sentita la verità di questa massima, starsi nel terrore il principio del sublime.
  59. Cantemiro che esalta le vittorie riportate sopra i Turchi da Stefano il Grande (pag. 47) ha composta una descrizione del Principato antico e moderno della Moldavia, opera la cui pubblicazione è stata promessa da lungo tempo e ancor non si vede.
  60. Leunclavio, Annal. Turcici, p. 318, 319. La venalità dei Cadì è da lungo tempo un argomento di querele e di scandali. E se non vogliamo prestar fede ai nostri viaggiatori, possiamo crederlo ai medesimi Turchi (d’Herbelot, Bibliot. orient., p. 216, 217-229-230).
  61. Un tal fatto attestato nella Storia araba di Ben-Sciunà, nativo di Sorìa, e contemporaneo di Baiazetto (de Guignes, Hist. des Huns, t. IV, pag. 336), annulla la testimonianza di Saad Effendi, e di Cantemiro (pag. 14, 15), i quali pretendono che Otmano fosse stato innalzato alla dignità di Sultano.
  62. V. le Decades rerum hungaricarum (Dec. III, l. II, p. 379) del Bonfini, Italiano, che nel secolo XV fu chiamato in Ungheria per comporre ivi la sua eloquente Storia di quel reame. Le preferirei per altro una rozza cronica del paese scritta in que’ tempi, se sapessi che vi fosse, e come procacciarmela.
  63. Non dovrei molto dolermi delle molestie e delle cure che mi costa quest’opera, se potessi trarre tutti i miei materiali da libri simili alla Cronaca del dabbenuomo Froissard (vol, IV, c. 67-69-72-74-79-83-85-87-89), che leggea poco, facea molte interrogazioni, e tutto credeva. Le memorie del maresciallo di Boucicault (parte 1, c. 22-28) aggiungono alcuni fatti, ma sembrano aridi e non compiuti a petto della ingenua loquacità del Froissard.
  64. Il Barone di Zurlauben (Hist. de l’Acad. des inscript., t. XXV) ne ha offerte le Memorie compiute della vita di Engherando VII, Sere di Couci, chiaro per distinto grado e per ragguardevoli possedimenti che ebbe così in Francia come in Inghilterra. Nel 1375, egli condusse nella Svizzera un corpo di venturieri per ricuperare un vasto patrimonio che ei pretendeva appartenergli, come erede della sua bisavola, figlia dell’Imperatore Alberto I di Austria (Sinner, Viaggio nella Svizzera occidentale, t. I, p. 118-124).
  65. La carica militare di Maresciallo, tanto rispettabile anche ai dì nostri, lo era maggiormente quando due soli personaggi la sosteneano (Daniel, Histoire de la Milice française, t. II, pag. 5). Uno di questi due, il famoso Boucicault, era Maresciallo della Crociata. Difese indi Costantinopoli, governò la repubblica di Genova, s’impadronì di tutta la costa dell’Asia, fu ucciso alla battaglia di Azincourt.
  66. Al proposito di questo odioso racconto, l’abate di Vertot cita la Storia anonima di S. Dionigi, l. XVI, c. 10-11; Ordre de Malte, t. II, p. 310.
  67. Serefeddin-Alì (Storia di Timur-Bec, l. V, c. 13) fa sommare fino a dodicimila gli ufiziali e i servi spettanti al treno di caccia di Baiazetto. Timur in una sua caccia, sfoggiò con una parte delle spoglie dei Principe turco; 1. diversi cani da corsa colle copertine di raso; 2. più leopardi coi collari tempestati di gemme; 3. cani levrieri della Grecia; 4. mastini d’Europa, che pareggiavano in forza i leoni dell’Affrica (idem, l. VI, c. 15). Baiazetto si dilettava principalmente di dar coi falchi la caccia alle grue (Calcocondila, l. II, pag. 35).
  68. Intorno ai regni di Giovanni Paleologo e del figlio di lui Manuele dal 1354 al 1402, si consultino Duca (c. 9-15), Franza (l. I, c. 16-21) e il primo e secondo libro di Calcocondila, che in mezzo ad una moltitudine di episodj annegò il suo principale argomento.
  69. V. Cantemiro, p. 50-53. Duca (c. 13-15) è il solo che confessi l’istituzione di un Cadì a Costantinopoli e dissimula anche l’affare della Moschea.
  70. Mémoires du bon messire Jean-le-Maingre, dit Boucicault, maréchal de France, parte prima, c. 30-35.