Sopra lo amore/VI
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ORAZIONE VI
Capitolo I
Introduzione al dire di amore
Qui fece fine Carlo Marsupini. Dipoi Tommaso Benci diligente imitatore di Socrate, con allegro animo, e lieta faccia, prese a commentare le parole socratiche, così dicendo.
Il nostro Socrate, dallo oracolo di Apolline giudicato sapientissimo di tutti i Greci, soleva dire sè fare professione della arte amatoria più di alcuna altra. Quasi voglia dire, che per la perizia di questa Arte, e Socrate e qualunque altro fusse da essere giudicato sapientissimo. Questa arte non ebbe da Anassagora, nè da Ammone, nè da Archelao fisici, non da Prodico Chio e Aspasia Retorici, non da Cono Musico: da’ quali molte cose aveva imparate: ma diceva averla da Diotima divinatrice, quando era tocca da spirito divino. E secondo il mio giudizio voleva mostrare che solamente per inspirazione divina, potevano gli uomini intendere che cosa fosse la vera bellezza, e quello che fosse il legittimo Amore, e in che modo si dovesse amare: tanta è la potenzia, e sublimità della facilità amatoria. Da queste celesti vivande adunque state discosto, state discosto, o empii: i quali involti nelle fecce terrene, e al tutto a Bacco, e a Priapo divoti, lo Amore, che è dono celeste, abbassate in terra e in loto a uso di porci. Ma voi, castissimi convitati, e tutti gli altri consacrati a Pallade, e a Diana: i quali per la libertà del purissimo animo e perpetuo gaudio della Mente, siate in giubilo: i divini Misteri da Diotima a Socrate revelati, con diligenzia ascoltate. Ma innanzi, che voi udiate Diotima, è da solvere una certa questione, la quale nasce tra quelli che disopra hanno trattato di amore, e quelli che di sotto ne hanno a trattare. Imperocchè quelli di sopra chiamarono Amore bello, buono, beato, e Iddio: il che a Socrate e Diotima non piace. Ma pongonlo in mezzo tra bello e brutto, buono e malo, beato e misero, Iddio e uomo. Noi approviamo l’una e l’altra sentenzia, benchè l’una per una ragione, e l’altra per un’altra.
Capitolo II
Che lo amore è in mezzo tra la bellezza e il suo contrario: ed è Iddio e Demonio.
La pietra calamita mette nel ferro una sua certa qualità, per la qual essendo il ferro fatto molto simile alla calamita, si inclina verso questa pietra. Questa tale inclinazione in quanto ella è nata da detta lapide e inverso lei si rivolge, senza dubbio si chiama inclinazione lapidea. Ma inquanto ella è nel ferro, si chiama parimente ferrea e lapidea: imperocchè tale inclinazione non è nella pura materia del ferro: ma in materia già formata per la qualità della pietra: e però le proprietà di amendue ritiene. Il fuoco ancora per sua qualità, cioè per il caldo, accende il lino: e il lino acceso, e sospeso per la qualità del caldo s’innalza inverso la superna regione del Fuoco. Questo tale innalzamento che fa il lino in quanto egli, sospinto dal fuoco, si volge verso il fuoco, si chiama igneo, cioè fuoco. Ma in quanto egli è nel lino (nel lino, dico, non semplice, ma già affocato) si chiama da la natura di ciascuno, così del lino come del fuoco, egualmente lineo e igneo. La figura dell’uomo, la quale spesse volte per la interiore bontà felicemente concessa da Dio è nello aspetto bellissima, per gli occhi di coloro che la riguardano, nel loro animo transfonde il raggio del suo splendore. Per questa scintilla lo Animo come per un certo amo tirato, inverso del tirante si dirizza. Questo tale tiramento, il quale è Amore, perchè depende dal buono, bello, e felice, e in quello si torna, senza alcun dubbio possiamo chiamare Bello, Buono, Beato, e Dio, secondo il giudizio di Agatone e delli altri, che di sopra hanno parlato: e perchè egli è nello animo già acceso per la presenzia di quel raggio bello, siamo costretti a chiamarlo un certo affetto medio tra bello e non bello. Imperocchè lo animo infino a tanto che ei non riceve la immagine d’alcuna bella cosa, quella ancora non ama, come cosa non conosciuta da lui. E colui che la intera Bellezza possiede, non è stimolato da gli stimoli di Amore. Imperocchè chi è colui che desidera quello che egli fruisce? Seguita dunque che l’animo in quel tempo s’accenda di ardente amore, quando egli avendo trovata alcuna speciosa immagine di cosa bella, e di quella gustato qualche sapore nel suo giudizio, per tal saggio è incitato a la intera possessione di quella. Conciò sia adunque che l’animo in parte possegga essa cosa bella, e in parte ne manchi: ragionevolmente in parte è bello, e in parte non bello. E in tal modo, vogliamo che per tale mistione Amore sia un certo affetto medio tra bello e brutto, partecipante de l’uno e de l’altro. E certamente per questa ragione Diotima, acciò che qualche volta a lei torniamo, lo Amore chiamò Demonio. Imperocchè come li Demonii sono spiriti medii tra li celesti e terreni spiriti: così lo Amore tiene il mezzo tra la Bellezza e la privazione di quella. Questa sua ragione essere tra la bella natura e la non bella, assai lo chiarì Giovanni nella sua prima e seconda Orazione.
Capitolo III
De l’anime delle spere e de’ Demonii
Ma voglio che conosciate in che modo i Demonii abitano la regione in mezzo tra il Cielo e la Terra, per le parole di Diotima in questo Convito, e per quelle di Socrate nel Filebo e Fedro, e per quelle dello Ateniese peregrino nelle Leggi, e di Epinomide. Stima Platone tutta la macchina di questo Mondo, da una anima essere retta. Perchè il Corpo del Mondo è composto di tutti i quattro elementi: e le particelle del Mondo sono i corpi di tutti gli animali: il corpicino di qualunque animale è particella del corpo del Mondo. E non è detto corpicino, composto de lo intero Elemento del Fuoco, Aria, Acqua, o Terra: ma di certe parti di questi elementi. Adunque quanto il tutto è più perfetto che la parte, tanto è più perfetto il corpo del Mondo, che il corpo di qualunque animale. Certo inconveniente cosa sarebbe che il corpo imperfetto avesse l’anima, e il perfetto fosse senza anima. Chi è sì semplice che dica la parte vivere, e il tutto non vivere? Vive adunque tutto il corpo del Mondo: considerato che i corpi degli animali vivono, che sono parti di esso tutto. Una bisogna che sia l’anima dello Universo, si come una è la materia, e uno è lo edifizio. Conciò sia adunque che, siccome piace a Platone, dodici sieno le Spere del Mondo, otto Cieli, e quattro Elementi; e che queste dodici spere sieno tra loro separate, e diverse di spezie, moti, e proprietà: necessario è ch’elle abbino dodici anime diverse di virtù e spezie. Una sarà adunque l’anima della una prima materia, e dodici saranno le anime de’ dodici cerchi. Chi negherà viver la Terra, e la Acqua, le quali danno vita agli animali generati da loro? E se queste fecce del Mondo vivono, e sono piene di viventi: per che cagione l’Aria e il Fuoco essendo più eccellenti, non debbono vivere? E avere similmente li loro animali? E così i Cieli in simil modo. Certo gli animali del Cielo, che sono le Stelle, e li animali della Terra e della Acqua veggiamo: ma quelli del Fuoco e dell’Aria non si veggono: perchè il puro elemento del Fuoco e dell’Aria non si vede. Ma ecci questa differenza: che in Terra sono due generazioni di animali, razionali, e brutali: e similmente è nella Acqua. Considerato che l’Acqua essendo corpo più degno che la Terra, non debbe essere meno abbondante di animali razionali che la Terra. Ma li dieci cerchi di sopra per la loro eccellenza solamente sono ornati di animali razionali. L’Anima del Mondo, cioè della prima materia, e l’Anime delle dodici sfere, e delle Stelle, perchè sommamente seguitano Iddio, e i divini Angeli, sono da Platonici chiamati Iddii mondani. E quelli animali che sotto la Luna abitano la regione del Fuoco etereo, si chiamano Demonii. E similmente quelli della Aria pura: e così quelli della Aria nubilosa, che è presso alla Acqua. E quelli razionali che abitano la Terra, uomini sono chiamati. Li Iddii sono immortali e impassibili: gli uomini sono passibili e mortali: i Demoni certamente sono immortali, ma sono passibili. Non attribuiscono però a’ Demonii naturalmente le passioni corporali, ma certi affetti di animo pe’ quali amano li uomini buoni: e li cattivi hanno alquanto in odio. E amicabilmente e ardentemente mescolano nel governare le cose inferiori e massime le umane. Tutti questi in quanto a questo offizio paiono buoni: e ancora parte de’ Platonici insieme con li Teologi Cristiani vogliono essere alquanti mali Demonii. Ma qui de’ mali al presente non si disputa. E quelli buoni, che di noi hanno custodia, sono per proprio nome da Dionisio Areopagita chiamati Angeli governatori del Mondo inferiore: la qual cosa non discorda da la Mente di Platone. Possiamo ancora secondo l’uso di Dionisio chiamare Angeli Ministri di Dio, quelli spiriti, che Platone chiama Iddii, e anime delle spere e delle Stelle. Il che non è discordante da Platone: perchè è manifesto nel suo x libro delle Leggi che non rinchiude quelli animi ne’ corpi delle spere, siccome ne’ loro corpi l’anime delli animali terreni: ma afferma loro essere di tanta virtù dal sommo Dio dotati, che insieme possono e fruire Iddio, e senza alcuna fatica o molestia secondo la volontà del Padre loro reggere e muovere i cerchi del Mondo: e movendo questi, facilmente le cose inferiori governare. Si che tra Platone e Dionisio è differenza di parole più tosto, che di sentenzia.
Capitolo IV
De’ sette doni che descendono da Dio agli uomini per il mezzo de’ ministri di Dio.
Le Idee di tutte le cose sono nella Mente Divina: e a queste servono gli Iddii mondani e a’ doni delli Iddii servono i Demonii. Perchè dal sommo grado a lo infimo della natura, tutte le cose per debiti mezzi passano: in tal modo che quelle Idee, che sono concetti della Mente divina, comunicano a gli uomini i loro doni, per il mezzo delli Dii e de’ Demonii. E questi doni principalmente sono sette, sottilità di contemplare, potenzia di governare, animosità, chiarezza di sensi, ardore d’Amore, acume di interpretare, e fecondità di generare. La forza di questi doni, Dio principalmente in sè contiene: dipoi concede questa alli sette Dii, che muovono li sette pianeti: e da noi si chiamano Angeli sette, che intorno al Trono di Dio si rivolgono: in modo che ciascuni ricevono d’un dono più che d’un altro secondo la proprietà di loro natura. E quelli Iddii distribuiscono i doni alli ordini de’ Demonii a loro sottoposti secondo la proporzione medesima. Certamente Dio infonde questi doni a gli animi da principio, quando da lui nascono: e li animi descendono ne’ corpi dal Cerchio latteo per il Cancro, e si rivolgono in un celeste e lucido velame: nel quale rivolti nelli corpi terreni si rinchiuggono. Perchè lo ordine naturale richiede che lo animo purissimo non si congiunga a questo corpo impurissimo, se non per mezzo d’un puro velame, il quale essendo men puro che lo animo, e più puro che questo corpo, è stimato da’ Platonici comodissima copula dell’Animo col corpo terreno. Di qui avviene, che gli animi de’ Pianeti a gli Animi nostri, e i corpi loro a’ corpi nostri, confermano e fortificano quelle sette doti, che da principio ci furono date da Dio. Al medesimo offizio attendono altrettante mature di Demonii che stanno in mezzo tra i celestiali e gli uomini. Il dono della contemplazione fortifica Saturno per mezzo de’ Demonii Saturnini. La potenzia del governo e dello imperio, Giove col ministerio de’ suoi Gioviali Demonii, e similmente Marte per li Marziali favoreggia la grandezza dell’Animo. Il Sole con l’aiuto de’ Demonii Solari aiuta la clarità de’ sensi, e delle oppenioni: onde seguita lo indovinare: Venere per li Venerei incita allo Amore. Mercurio per li Mercuriali desta a lo interpretare e pronunziare. La Luna ultimamente mediante i suoi lunari demonii l’uffizio della generazione augumenta. E benchè a tutti gli uomini concedino facultà di queste cose: nientedimeno a coloro più in spezialità conferiscono, nella concezione e nascimento de’ quali secondo la disposizione del Cielo ànno più dominio. Le quali cose benchè in verità venendo da disposizione divina sieno oneste, nondimeno possono qualche volta disoneste parere, quando noi non le usiamo rettamente. Il che è manifesto nello uso del governo, animosità, amore, e generazione. Adunque lo istinto d’Amore (per abbreviare) è dal sommo Dio e da Venere che si chiama Dea e da’ suoi venerei Demonii concesso. E perchè da Dio descende, si può chiamare Iddio: e perchè da i Demonii si conferma si può chiamare Demonio. Per la qual cosa ragionevolmente da Agatone si chiama Iddio, e da Diotima Demonio. Io dico Demonio Venereo.
Capitolo V
Degli ordini de’ Demonii venerei: e in che modo saettano lo amore.
Dicesi il Demonio Venereo essere Amore di tre ragioni. Il primo pongono i platonici in Venere celeste, cioè in essa intelligenzia della angelica Mente. Il secondo in Venere vulgare, che significa quella potenzia che ha l’anima del Mondo del generare. I quali si chiamano due Demonii: perchè sono in mezzo tra la bellezza e privazione di quella, come di sopra toccammo e disotto più chiaramente dimostreremo. Il terzo Amore è l’ordine de’ Demonii, che accompagna il Pianeta di Venere. Questo ancora in tre ordini si divide: alcuni sono assegnati allo elemento del fuoco: alcuni altri allo elemento della aria purissima: alcuni all’aria più grossa, e nebulosa: e tutti si chiamano Eroes, che vuol dire Amatori, il quale vocabolo Eroes viene da un vocabolo greco, che dice Eros che significa Amore. I primi Demonii saettano le lor freccie in quegli uomini, ne’ quali la collera, che è umore focoso, signoreggia: i secondi in coloro ne’ quali signoreggia il sangue, che è umore aereo: i terzi in coloro ne’ quali predomina la flemma, e la malinconia che sono umori acquei e terrestri. E conciò sia che tutti gli uomini dalle saette di Cupidine sieno feriti: nondimeno son più che gli altri feriti quattro generazioni d’uomini. Imperocchè Platone dimostra nel Fedro, quelle anime essere molto saettate da Amore, le quali seguitano Giove, Febo, Marte, o Iunone; e Iunone qui significa Venere. E quelle essendo inclinate a lo Amore da’ principii delle loro generazioni, dice che sommamente amano quegli uomini, i quali sono nati sotto le stelle medesime. Di qui avviene, che i Gioviali a’ Gioviali, e i Marziali a’ Marziali, e così alcuni altri ad altri portano affezione grandissima.
Capitolo VI
Del modo dello innamorarsi
Quello che io dirò nello esempio di uno, intendete degli altri. Qualunque animo sotto lo imperio di Giove nel corpo terreno descende, concepe nel descendere una certa figura di fabbricare un uomo conveniente alla stella di Giove, la quale figura, nel suo corpo celestiale, che è ottimamente adattato a riceverla, molto propria scolpisce. E se similmente avrà trovato in terra temperato seme, ancora in quello dipinge la terza figura, molto simile alla seconda e alla prima. E se e’ truova il contrario non sarà simile. Spesso avviene, che due animi saranno discesi, regnante Giove, benchè in varii tempi: e l’uno di loro essendosi abbattuto in terra a seme adattato, perfettamente avrà figurato il corpo suo, secondo quelle idee di prima. Ma l’altro avendo trovato materia inetta, avrà pure incominciata la medesima opera, ma non l’avrà adempiuta con tanta similitudine ad esempio di sè medesimo. Quel corpo è più bello di questo, ma amendue per una certa similitudine di natura, scambievolmente si piacciono. Vero è che quello più piace, che è tra loro giudicato più bello. Onde nasce, che ciascuno massime ama, non qualunque è bellissimo, ma ama i suoi: dico quelli che hanno avuta natività consimile: ancora che non fussero così belli come molti altri. E però, siccome abbiamo detto, coloro che sono nati sotto una medesima stella, sono in tal modo disposti, che la immagine del più bello di loro, entrando per gli occhi nell’animo di quello altro, interamente si confà con una certa immagine, formata dal principio di essa generazione, così nel velame celestiale della Anima, come nel seno della anima. L’Animo di costui così percosso, riconosce come cosa sua la immagine di colui che se gli fece innanzi: la quale quasi interamente è tale, quale ab antico egli ha in sè medesimo: e quale già volle scolpire nel corpo suo, ma non potette: e quella subitamente appicca alla sua interiore immagine. E quella riformando megliora, se parte alcuna le manca a la perfetta forma del corpo Gioviale. E di poi essa immagine così riformata ama, come sua opera propria. Di qui nasce, che gli Amanti sono tanto ingannati, che giudicano la persona amata essere più bella, che ella non è. Imperocchè in processo di tempo e’ non veggono la cosa amata nella propria immagine presa per i sensi: ma veggono quella nella immagine già formata dalla loro anima a similitudine della loro idea. Desiderano ancora vedere continuamente quel corpo, dal quale ebbono quella tale immagine. Imperocchè benchè l’animo (ancor che sia privato della presenza del corpo) appresso di sè conservi la immagine di quel tale, e quella quanto a lui gli sia abbastanza, nondimeno gli spiriti e gli occhi che sono insirumenti della anima, quella non conservano. Tre cose senza dubbio sono in noi: Anima, Spirito e Corpo. L’Anima e il Corpo sono di natura molto diversa, e congiungonsi insieme per mezzo dello spirito, il quale è un certo vapore sottilissimo e lucidissimo, generato per il caldo del cuore dalla più sottil parte del sangue. E di qui essendo sparso per tutti i membri piglia la virtù dell’Anima, e quella comunica al corpo. Piglia ancora per gli strumenti de’ sensi le immagini de’ corpi di fuori: le quali immagini non si possono appiccare nell’anima, perocchè la sustanza incorporea, che è più eccellente che i corpi, non può essere formata da loro per la recezione delle immagini: ma l’anima essendo presente allo spirito in ogni parte agevolmente vede le immagini de’ corpi, come in uno specchio in esso rilucenti e per quelle giudica i corpi. E tale congiunzione è senso da’ Platonici chiamato. E mentre ch’ella riguarda, per sua virtù in sè concepe immagini simili a quelle, e ancora più pure. E tale concezione si chiama Immaginazione e Fantasia. Le immagini concepute in questo luogo conserva la Memoria. E per questo è spesso incitato l’occhio dello intelletto a riguardare le Idee universali di tutte le cose, le quali in sè contiene. E però l’Anima mentre che riguarda col senso un certo uomo, e quello concepe con la immaginazione comunemente per la sua innata idea, contempla con lo intelletto la natura e definizione comune a tutti gli uomini. Adunque allo animo conservante la immagine dell’uomo formoso (la immagine, dico, appresso di sè una sola volta conceputa) e quella avendo riformata, sarebbe abbastante aver veduto qualche volta la persona amata. Nientedimeno all’occhio e allo spirito bisogna la perpetua presenzia del corpo esteriore: acciocchè per la illustrazione di quello continuamente s’illuminino, si confortino, e si dilettino. I quali si come specchi pigliano la immagine, per la presenzia del corpo: e per la assenza la lasciano. Costoro adunque per loro povertà cercano la presenzia del corpo; e lo Animo il più delle volte, volendo a costoro servire, è costretto desiderare quella medesima.
Capitolo VII
Del nascimento di amore
Ma già è tempo di ritornare a Diotima: conciosia adunque che costei dicesse per le cagioni che noi abbiamo dette Amore essere nel numero de’ Demonii, la sua origine in questo modo dimostrò a Socrate. «Essendo a Convito nel Natale di Venere Poro figliuolo di Consiglio ebbro, che avea bevuto Nettare, si congiunse con Penia, nell’orto di Giove. De la quale congiunzione nacque Amore». Nel Natale di Venere: cioè quando la Mente dello Angelo, e l’Anima del Mondo, le quali noi per la ragione detta chiamiamo Venere, nasceano dalla somma Maestà di Dio. Gli Iddii erano a convito: cioè Cielo, Saturno e Giove, si pascevano già de’ loro proprii beni. Imperocchè quando la intelligenzia nello Angelo e la virtù del generare nella Anima del Mondo, le quali propriamente noi chiamiamo due Veneri, venivano a luce, già era quel sommo Dio, il quale chiamiamo Cielo. Era ancora la essenzia, e la vita nello Angelo: le quali noi chiamiamo Saturno e Giove: e similmente era nell’Anima del Mondo la cognizione delle cose superne, e la agitazione de’ corpi celesti, i quali ancora chiamiamo Saturno e Giove. Poro e Penia significano abbondanza e povertà. Poro figliuolo di Consiglio è la scintilla del sommo Dio. Certamente Iddio si chiama Consiglio, e fonte di Consiglio: perchè è verità e bontà di tutte le cose: per lo splendore del quale ogni consiglio diventa vero: a conseguire la bontà del quale si indirizza ogni consiglio. L’orto di Giove s’intende la fecondità della Angelica vita: nella quale quando descende Poro, cioè il raggio di Dio, congiunto con Penia, cioè con la povertà, che prima era nello Angelo, crea lo Amore. L’Angelo prima per esso Dio è e vive: in quanto a queste due cose, essenzia e vita, si chiama Saturno e Giove. Ha ancora la potenzia dello intendere: la quale secondo il nostro giudizio si chiama Venere: questa tale potenzia se da Dio non è illuminata, è per sua natura informe e oscura: siccome è la virtù dell’occhio innanzi che a lui venga il lume del Sole. Questa oscurità crediamo, che sia Penia: quasi povertà e mancamento di lume. Ma quella virtù dello intendere per un suo certo istinto naturale voltatasi verso il Padre suo, da lui piglia il raggio divino, che è Poro e abbondanza: nel quale non altrimenti che in un certo seme si rinchiuggono le cagioni di tutte le cose: per le fiamme di questo raggio s’accende quel naturale istinto. Questo incendio, e questo ardore, che nasce da la oscurità di prima, e da la scintilla che vi sopragiugne, è lo Amore nato di povertà e di ricchezza. Nell’orto di Giove: cioè generato sotto l’ombra della vita. Conciò sia che subito dopo il vigore della vita gli nasce ardentissimo desiderio di intendere. Ma perchè inducono eglino Poro essere ebbro di Nettare? Perchè trabocca per la rugiada de la vivacità divina. Ma perchè è lo Amore in parte ricco e in parte povero? Perchè noi non usiamo desiderare quelle cose, le quali sono interamente in nostra possessione: nè quelle ancora, delle quali noi al tutto manchiamo. E veduto che ciascuno cerca quella cosa che gli manca, colui che interamente essa cosa possiede, a che proposito cercherebbe più oltre? E dato, che nessuno desideri quelle cose delle quali egli non ha alcuna cognizione, è necessario, che noi abbiamo in qualche modo notizia di quella cosa, che noi amiamo. Nè anco è abbastanza avere qualche notizia: però che molte cose, che ci sono note sogliamo avere in odio. Ma bisogna ancora che noi stimiamo quella doverci essere utile, e gioconda. Nè anco pare che questo ci induca ad una grande benevolenzia, se noi prima non giudichiamo facilmente potere conseguitare quello, che noi pensavamo essere giocondo. Qualunque adunque ama qualche cosa, quella interamente certo non possiede. Nientedimeno la conosce con la cogitazione dell’animo, e quella giudica gioconda: e ha speranza di poterla conseguitare. Questa cognizione, giudizio, e speranza è quasi una presente anticipazione del bene assente. Imperocchè non desidererebbe, se essa cosa non gli piacesse: nè gli piacerebbe se di lei non avesse avuto saggio. Considerato adunque che lì amanti abbino in parte quello, che e’ desiderano, e in parte no, non senza proposito si dice lo Amore essere misto d’una certa povertà e ricchezza. Per questa cagione quella superna Venere accesa per essa prima gustazione del raggio divino, e per amore trasportata a la intera plenitudine di tutto il lume, per questo sforzo accostandosi ella più efficacemente al Padre suo, subito risplende sommamente, per il pienissimo splendore di quello. E quelle ragioni di tutte le cose, le quali prima erano in quel raggio, che noi chiamiamo Poro, confuse e implicate, già in quella potenzia di Venere accostandosi, più chiare e più distinte rilucono. E quella proporzione quasi che ha l’Angelo a Dio, ha ancora la Anima del Mondo a lo Angelo e a Dio. Perchè questa reflettendosi a le cose superiori, similmente da quelle ricevendo il raggio, s’accende: e accendendosi genera lo Amore misto di abbondanza e carestia. Di qui adornata de la forma di tutte le cose, ad esempio di quelli, muove i Cieli: e con la sua potenzia di generare, genera simili forme a quelle nella materia degli Elementi. E qui di nuovo veggiamo ancora due Veneri: l’una è la forza di questa Anima di conoscere le cose superiori: l’altra è la forza sua di procreare le cose inferiori. La prima non è propria della Anima: ma è una imitazione della contemplazione Angelica. La seconda è propria della Anima, e però qualunque volta noi poniamo una Venere nell’Anima, intendiamo la sua forza naturale, la quale è sua propria Venere: e quando ve ne poniamo due, intendiamo che l’una sia comune eziandio allo Angelo, e l’altra sia propria della Anima. Siano dunque due Veneri nella anima la prima celeste, la seconda vulgare: amendue abbino lo Amore: la celeste abbia lo Amore a cogitare la divina Bellezza: la vulgare abbia lo Amore a generare la bellezza medesima nella materia del Mondo. Perchè quale ornamento quella vede, tale questa vuole, secondo il suo potere, dare alla macchina del Mondo. Anzi l’una e l’altra è trasportata a generare la bellezza: ma ciascuna nel modo suo: la celeste Venere si sforza di dipignere in sè medesima con la intelligenzia sua la espressa similitudine delle cose superiori: la vulgare si sforza nella mondana Materia partorire la bellezza delle cose divine, che è in lei conceputa per la abbondanza de’ semi divini. Il primo Amore chiamiamo alcuna volta Iddio, perchè egli si dirizza a le sustanze divine: ma il più delle volte lo chiamiamo Demonio: perchè egli è in mezzo tra la povertà e la abbondanza. Il secondo Amore chiamiamo sempre Demonio perchè e’ pare che egli abbia un certo affetto in verso il corpo, col quale egli è inchinevole in verso la provincia inferiore del Mondo. E questo affetto è alieno da Dio, e conveniente alla natura de’ Dominii.
Capitolo VIII
Come in tutte le anime sono due amori: e nelle nostre sono cinque.
Queste due Veneri e questi due Amori non solo sono nella Anima del Mondo, ma nelle anime delle Spere, Stelle, Demonii e uomini. E conciò sia che tutte le anime con ordine naturale, alla Anima prima si riferiscano, è necessario che gli Amori di tutte, a lo Amore di quella in tal modo si referischino che da quello in qualche modo dependino. Per la qual cosa noi chiamiamo questi Amori semplicemente Demonii: e quello chiamiamo il gran Demonio secondo l’uso di Diotima. Il quale per lo universo Mondo attende a ciascheduno, e non lascia impigrire i cuori: ma in ogni parte a lo amare li desta. E in noi non sono solamente due Amori: ma cinque. Li due Amori estremi sono Demoni chiamati: li tre Amori di mezzo non solamente Demonii: ma eziandio affetti. Certamente nella Mente dell’uomo è uno eterno Amore di vedere la bellezza divina: e per gli stimoli di questo seguitiamo gli studi di Filosofia, e gli offizi della giustizia e della pietà. È ancora nella potenza del generare uno occulto stimolo a generar figliuoli: e questo Amore è perpetuo, dal quale siamo continuamente incitati a scolpire nella effige de’ figliuoli qualche similitudine della superna bellezza. Questi due Amori sono in noi perpetui. Quelli due Demonii, i quali dice Platone alle Anime nostre sempre essere presenti (de’ quali uno in su e l’altro in giù ci tira) l’uno si chiama Calodemon, che significa buon Demonio: l’altro Cacodemon, che s’intende malo Demonio: Invero amendui son buoni: imperocchè la procreazione de’ figliuoli è necessaria e onesta, come la ricerca della verità. Ma la cagione perchè il secondo Amore si chiama mal Demonio, è che per il nostro uso disordinato egli spesso ci turba e divertisce lo Animo a ministeri vili, ritraendolo dal principale suo bene: il quale nella speculazione della verità consiste. In mezzo di questi due, in noi sono tre Amori: i quali perchè non sono nell’Animo fermissimi come questi due, ma cominciano, crescono, scemano, mancano, più rettamente si chiamano moti e affetti, che Demonii. Di questi tre Amori l’uno è nel mezzo appunto tra due estremi sopradetti: gli altri due più a l’uno estremo che a l’altro pendono. Certamente quando la figura di qualche corpo, per essere la materia ben preparata, è massime tale, quale nella sua Idea la divina Mente la contiene, facendosi innanzi a gli occhi, per gli occhi nello spirito penetra: e di subito allo Animo piace: perchè consuona a quelle ragioni, le quali come esempi di essa cosa si contengono nella nostra Mente, e nella potenzia del generare, e sono da principio da Dio in noi infuse. Di qui nascono quelli tre Amori: perchè noi siamo generati e allevati con inclinazione a l’una delle tre vite: cioè, o a la vita contemplativa, o attiva, o voluttuosa. Se noi siamo fatti inchinevoli a la contemplativa, subito per lo aspetto de la forma corporale ci inalziamo a la considerazione della spirituale e divina. Se a la vuluttuosa, subito dal vedere caschiamo nella concupiscenzia del tatto. Se a la attiva e morale, noi solamente perseveriamo in quella dilettazione del vedere e conversare. I primi sono tanto ingegnosi che altissimamente s’innalzano: gli ultimi sono tanto grossi, che rovinano a lo infimo: quelli di mezzo, nella media regione si rimangono. Adunque ogni Amore, comincia del vedere: ma lo Amore del contemplativo, dal vedere surge nella Mente. Lo Amore del voluttuoso dal vedere discende nel tatto. L’Amore dello attivo, nel vedere si rimane. L’Amore del contemplativo, s’accosta più al Demonio supremo che a lo infimo. Quello del voluttuoso più a lo infimo. Quello dello attivo s’accosta egualmente a l’uno come a l’altro. Questi tre amori pigliano tre nomi. Lo Amore del contemplativo si chiama divino: dello attivo, umano: del voluttuoso, bestiale.
Capitolo IX
Quali passioni sieno negli amanti per cagione della madre d’amore.
Infino a qui abbiamo dichiarato lo Amore essere Demonio: generato di povertà e di abbondanzia: e essere in cinque spezie diviso. Per lo avvenire dichiareremo secondo le parole di Diotima, quali affetti e passioni naschino nelli Amanti da questa tale natura di Amore. Le parole di Diotima sono queste: «Perchè lo amore è nato nel Natale di Venere però seguita Venere e appetisce le cose belle, perchè Venere è bellissima. E perchè egli è figliuolo della povertà, però egli è arido, magro e squallido: ha piedi ignudi: è umile, senza casa, senza letto, e senza copertura alcuna: dorme agli usci, nella via, al cielo sereno, e sempre è bisognoso. E perchè egli è figliuolo della abbondanzia però egli tende lacciuoli alle persone belle e buone: è virile, audace feroce, veemente, callido, sagace, uccellatore, e sempre va tessendo nuove tele: è studioso nella prudenza, facondo nel parlare: e in tutta sua vita va filosofando: è incantatore, fa mal d’occhio: è potente, malioso, e sofista, e non è in tutto immortale secondo sua natura, nè in tutto mortale: ma spesse volte in un dì medesimo germina e vive: e questo qualunque volta gli abbonda materia: alcuna volta manca, e di nuovo rinvigorisce per la natura di suo padre: e quello che egli ha acquistato, ancora da lui si fugge. Per la qual cosa lo Amore non è mendico, e non è ricco: ed è posto in mezzo tra la sapienza e ignoranza». Infino a qui parla Diotima. Noi le parole sue esporremo con quella brevità che fia possibile. Le predette condizioni benchè siano in tutte le generazioni di Amore, non di meno nelle tre di mezzo, come più manifeste, chiaramente si trovano. Nel Natale di Venere generato, seguita Venere: cioè essendo lo Amore generato insieme con quelli superni spiriti i quali chiamammo Venerei, convenientemente riduce gli animi nostri a le cose superne. Desidera le cose belle perchè Venere è bellissima: cioè accende le anime di desiderio della somma e divina pulcritudine: essendo egli nato in quelli spiriti i quali per essere a Dio prossimi, dallo ornamento di Dio sono illustrati: e rilievano noi a li medesimi raggi. Oltre a questo perchè la vita di tutti gli animali, e alberi, e la fertilità della Terra consiste nel caldo e umido, volendo Diotima dimostrare la povertà dello Amore, accennò mancargli l’umore e il caldo in queste parole: Lo Amore è arido, magro e squallido. Chi è quello, che non sappia quelle cose essere aride e secche, alle quali manca lo umore? E chi negherà la squallidezza e giallura venire da difetto di caldo sanguigno? Ancora per lungo Amore gli uomini pallidi e magri divengono: perchè la forza della Natura non può bene due opere diverse insieme fare. La intenzione dello Amante tutta si rivolta nella assidua cogitazione della persona amata: e quivi tutta la forza e naturale complessione è attenta: e però il cibo nello stomaco male si cuoce. Di che interviene, che la maggiore parte in superfluità si consuma: la minor si manda al fegato, e vavvi cruda: e quivi ancora per la ragione medesima si cuoce male. E però poco sangue e crudo si manda per le vene: per il che tutti i membri dimagrano, e impallidiscono, per essere il nutrimento poco e crudo. Aggiugnesi, che dove l’assidua intenzione dell’Animo ci trasporta, quivi volano ancora gli spiriti, che sono carro e istrumento della Anima. Questi spiriti, si generano nel caldo del cuore, dalla sottilissima parte del sangue.1 L’animo dello amante è rapito inverso la immagine dell’amato, che è nella fantasia scolpita: e inverso la persona amata. Inverso questa sono tirati ancora gli spiriti, e volando quivi continuamente si consumano. Per la qual cosa è di bisogno di materia di sangue puro a ricreare spesso gli spiriti, che continuamente si risolvono: dove le più sottili e le più lucide parti del sangue, tutto il dì si logorano per rifare gli spiriti che continuamente volano di fuore. Il perchè avviene, che risoluto il puro e chiaro sangue, rimane il sangue maculato, grosso, e nero. Di qui il corpo si secca e impallidisce: di qui gli amanti divengono malinconici, perchè l’umore malinconico si moltiplica per il sangue secco, grosso e nero. E questo umore con i suoi vapori riempie il capo, dissecca il cervello, e non resta dì e notte di affliggere l’Anima di immagini nere e spaventevoli. Questo avvenne a Lucrezio filosofo epicureo, per lungo amore: il quale prima da amore, e poi da furore di stoltizia angustiato, sè medesimo uccise. Questo scandalo avviene a coloro, i quali male usano lo Amore: e quello che è della contemplazione, transferiscono a la concupiscenzia del tatto, perchè più facilmente si sopporta il desiderio del vedere, che la cupidità del vedere e del toccare. Le quali cose osservando gli antichi medici dissono lo Amore essere una specie di umore malinconico, e di pazzia: e Rafis medico comandò che e’ si curasse per il coito, digiuno, ebrietà e esercizio. E non solamente Amore fa diventare gli uomini tali e quali abbiamo detto: ma eziandio quelli, che sono per natura tali, sono a lo Amore inclinati. E coloro son tali, ne’ quali signoreggia lo umore collerico o melancolico. La collera è calda e secca: la melancolia è secca e fredda. Quella nel corpo tiene il luogo del fuoco, e questa il luogo della terra. E però quando dice Diotima arido e secoo, intende l’uomo melanconico a similitudine della terra. E quando dice squallido e giallo, intende l’uomo collerico a similitudine del fuoco. I collerici per impeto dell’umore focoso, s’avventano nello amare, come in un precipizio. I melanconici per la pigrizia dello umore terrestre, sono ad amare più tardi: ma per la stabilità di detto umore, dato che hanno nelle reti, lunghissimo tempo vi si rivolgono. Meritamente adunque lo Amore arido e giallo si dipigne, conciosia che gli uomini che son tali, sogliono darsi all’amore più che gli altri: e questo credo che di qui nasca: perchè i collerici ardono per lo incendio della collera, e i melanconici per la asprezza della malinconia si rodono. Il che afferma Aristotile nel VII Lib. dell’Etica. Sì che lo umore molesto affligge sempre l’uno e l’altro: e costringeli a cercare qualche conforto e sollazzo, massimo e continuo, come rimedio contra la continua molestia dello umore. Questo sollazzo è massimamente nelle lusinghe della musica e dell’arte amatoria. Imperocchè noi non possiamo ad alcuno diletto tanto continuamente attendere quanto a le consonanze musicali e considerazioni di bellezza. Gli altri sensi presto si saziano: ma il vedere e l’udire più lungo tempo si trastullano di voci, e di pittura vana. E i piaceri di questi due sensi, non solamente sono più lunghi: ma eziandio più convenienti alla complessione umana. Imperocchè nessuna cosa è più conveniente alli spiriti del corpo umano, che le voci e le figure degli uomini: spezialmente di quelli, che non solamente per similitudine di natura, ma eziandio per grazia di bellezza piacciono. E per questo i collerici e melanconici seguitano molto i diletti del canto e della forma, come unico rimedio e conforto di loro complessione molestissima: e però sono a le lusinghe di Amore inclinati. Come Socrate il quale fu giudicato da Aristotile di complessione malinconica. E costui fu dato allo Amore più che uomo alcuno, secondo che egli medesimo confessava. Il medesimo possiamo giudicare di Saffo poetessa, la quale dipinge sè stessa melanconica e innamorata. Ancora il nostro Vergilio, che per la sua effige fu collerico, benchè vivesse casto, visse sempre in Amore. Lo amore ha i piedi ignudi. Diotima dipinse lo Amore con i piedi ignudi: perchè gli amanti sono tanto occupati delle cose amatorie che in tutte le altre loro faccende private e pubbliche, non usano cautela alcuna: ma senza prevedere alcuno pericolo, temerariamente si lasciano trasportare. E però nelli loro processi incorrono in ispessi pericoli, non altrimenti che colui, il quale andando senza scarpette, spesso da’ sassi e da’ pruni è offeso. Umile; il vocabolo greco Camaipages, significa volante a basso: e così figurò Diotima l’Amore: perchè ella vide gli innamorati, non usando bene lo Amore, vivere senza sentimento: e per vilissime cure perire i beni maggiori. Costoro si danno in modo alle persone amate, che si sforzano transferirsi in esse: e contraffarle sempre in parole e in gesti. Ora chi è quello, che contraffacendo tutto il giorno fanciulle e fanciulli, non diventi femminile e puerile? E chi così facendo, non diventa fanciullo e femmina? Senza casa: la casa del pensiero umano è l’Anima: la casa della Anima è lo spirito: la casa dello spirito è il corpo. Tre sono gli abitatori, tre sono le case: ciascuno di costoro per lo Amore esce di casa sua: perchè ogni pensiero dello amante si rivolge più tosto al servizio dello amato, che al suo bene: e l’Anima lascia indietro il ministerio del corpo suo: e sforzasi trapassare nel corpo dello Amato. Lo Spirito che è carro della Anima, mentre che la Anima attende altrove, ancora egli altrove vola: si che di casa sua esce il pensiero, escene l’Anima, escene lo Spirito. Del primo uscire seguita stoltizia e affanno: del secondo seguita debolezza e paura di morte: del terzo seguita dibattimento di cuore e sospiri. E però lo Amore è privato di propria casa, di naturale sedia, di desiderato riposo. Senza letto nè coprimento alcuno. Questo vuol dire che Amore non ha dove si riposi, nè con che si cuopra. Perchè con ciò sia che ogni cosa ricorra a la sua origine, il fuoco dello Amore che è acceso nello appetito dello Amato, si sforza rivolare nel corpo medesimo onde si accese: per il quale impeto ne porta seco volando lo appetito e lo appetente. O crudel sorte degli Amanti, o vita più misera che ogni morte! Se già l’animo vostro sendo rapito per la violenzia d’Amore fuor del corpo suo, non disprezzi ancora la figura dello Amato, e vadasene nel tempio dello splendor divino: ove finalmente si riposerà e sazierassi. Senza coprimento. Chi negherà lo Amore essere ignudo? perchè nessuno lo può celare: conciò sia che molti segni scuoprino gli innamorati, cioè, il guardare simile al toro e fiso,2 il parlare interrotto, il colore del viso or giallo, or rosso, gli spessi sospiri, il gittar in qua e in là le membra, i continui rammarichi, il lodar senza modo e fuor di proposito, la subita indegnazione, il vantarsi molto, la improntitudine, la leggerezza lasciva, i sospetti vani, i ministerii vilissimi e servili. Finalmente, come nel Sole e nel fuoco la luce del raggio accompagna il caldo: così dello intimo incendio dello Amore, seguitano gli indizii di fuori. Dorme a la porta. Le porte dell’Animo son gli occhi e gli orecchi: perchè per questi molte cose entrano nello Animo: e gli affetti e costumi dell’Animo chiaramente per gli occhi si manifestano. Gli innamorati consumano il più del tempo nel badare con gli occhi e con gli orecchi intorno allo Amato: e rare volte la mente loro in sè si raccoglie, vagando spesso per gli occhi e per gli orecchi: e’ però si dice che dormono a le porte: dicesi ancora che eglino giaciono nella via. La bellezza del corpo debbe essere una certa via per la quale cominciamo a salire a più alta bellezza. E però coloro che si rivoltano nel loto delle libidini, o vero più tempo che non conviene consumano nel guatare, pare che si rimanghino nella via, e non aggiunghino al termine. Dicesi ancora che lo Amore dorme al sereno. E meritamente: perchè gli innamorati in una cosa sola s’occupano sì che non considerano le faccende loro. E perchè vivono a caso, sono sottoposti a tutti i pericoli della fortuna: non altrimenti che quelli che vanno ignudi a cielo sereno da ogni distemperanza dell’aria sono offesi. Per la natura della Madre, è sempre bisognoso. Essendo la prima origine dello Amore da la povertà, e non si potendo interamente sbarbare quello che è naturale, seguita che lo Amore è sempre bisognoso e assetato. Imperocchè mentrechè gli manca qualche cosa a conseguitare, lo Amore bolle forte: e quando il tutto ha conseguitato, perchè manca il bisogno, si spegne il caldo dello Amore immoderato.
Capitolo X
Quali doti abbino gli amanti dal padre dello amore
Queste cose seguono da la povertà, che è madre dello Amore: ma da la copia che è padre di Amore seguitano cose contrarie alle sopraddette. E quali sieno le cose contrarie, ciascuno conoscerà intese le cose superiori. Perchè egli è descritto di sopra così: semplice, trascurato, vile, e senza arme. E qui si pongono i contrarii di questi, così dicendo: astuto, uccellatore, sagace, macchinatore, inventore di agguati, studioso di prudenzia, filosofo, virile, audace, veemente, facondo, mago, sofista. Imperocchè il medesimo Amore, il quale nell’altre faccende fa l’Amante trascurato e da poco, nelle cose amatorie lo fa astuto, e industrioso: sì che con meravigliosi modi va uccellando la grazia dello Amato, implicandolo con inganni, abbagliandolo con servigi, placandolo con eloquenza, addolcendolo col canto. E il medesimo furore che fece lo innamorato lusinghiere ne’ servigii, gli somministra di poi le armi: e se egli si sdegna contro lo Amato, diventa feroce: e se egli combatte per l’Amato, non può essere vinto. L’Amore come dicemmo, piglia origine dal vedere: il vedere è posto in mezzo tra la Mente e il tatto. Di qui sempre nasce che l’animo dello amante si distrae: e ora in su e ora in giù scambievolmente si getta: ora surge la cupidità del toccare, ora il desiderio della celeste Bellezza: e ora quella e ora questa vince: in modo che in quegli, che hanno acuto ingegno, e sono onestamente allevati, vince il desiderio della celestiale Pulcritudine: negli altri il più delle volte supera la concupiscenzia del tatto. Quegli uomini che si tuffano nella feccia del corpo, meritamente si chiamano aridi, nudi, vili, disarmati, e dappochi. Aridi, perchè sempre hanno fame, e mai non s’empiono: nudi, perchè come temerarii a tutti i pericoli sono suggetti, e come uomini sfacciati caggiono in pubblica infamia: vili, perchè non pensano cosa alcuna alta e magnifica: disarmati, perchè son vinti dalla scellerata cupidità: dappochi, perchè son tanto capocchi, che non si avveggono a che termine Amore li tira: rimangonsi nel viaggio non giungendo mai al termine. Ma gli uomini contrari a questi hanno le condizioni contrarie. Imperocchè pascendosi eglino delle vere vivande dell’Animo, s’empiono più e con più tranquillità amano. Temono la vergogna, sprezzano la ombratile spezie del corpo, levansi in alto: e quasi come armati scacciano da sè le vane libidini, sottomettendo i sensi alla ragione. Costoro come industriosissimi e prudentissimi di tutti in tal modo filosofano, che per le figure de’ corpi, quasi come per certe pedate, o vero odori, con providenzia procedono: e sagacemente investigano per questi l’ornamento dell’animo, e delle cose divine. E così prudentemente cacciando, felicemente pigliano quella preda che cercano. Questo tanto dono nasce da la copia: che è padre dello Amore: perchè il raggio della Bellezza che è copia, e padre dell’Amore, ha questa forza, che e’ si riflette quivi onde ei venne: e riflettendosi tira seco lo amante. Certamente questo raggio disceso prima da Dio e poi passando nello Angelo, e nella Anima, come per materia di vetro, e dalla Anima nel corpo preparato a ricevere tal raggio facilmente passando, da esso corpo formoso traluce fuora, massime per gli occhi, come per transparenti finestre: e subito vola per aria, e penetrando gli occhi dell’uomo che bada, ferisce l’Anima, accende lo appetito. L’Anima ferita e lo appetito acceso induce a la medicina e al refrigerio suo, mentre che seco gli tira al medesimo luogo dal quale egli discese per certi gradi: prima al corpo dello amato: secondo a la Anima: terzo a lo Angelo: quarto a Dio, ch’è prima origine dello splendore predetto. Questa è utile caccia. Questa è felice uccellagione delli Amanti, e però nel Protagora di Platone uno famigliare di Socrate chiamò Socrate uccellatore, dicendo così: «Onde vieni tu, Socrate mio? Io credo che tu venga da quella uccellagione, a la quale la onesta apparenza di Alcibiade ti suole invitare». Oltre a questo si chiama Amore sofista e mago. Platone nel dialogo chiamato Sofista, diffinisce sofista essere disputatore borioso e malizioso: il quale con rinvolture di argumentuzzi, mostra il falso per il vero: e conduce coloro, che con lui disputano, a sè medesimi contraddire. Questo medesimo avviene alle volte agli Amanti e agli Amati. Perchè gli Amanti acciecati per la nebbia dello Amore, spesse volte pigliano le cose false per le vere, mentrechè egli stimano gli amati essere più belli, acuti, e buoni, che e’ non sono. Contraddicono ancora a sè medesimi per la violenzia dello Amore: imperocchè altro consiglia la ragione, altro seguita la concupiscenzia. E spesse volte mutano i loro consigli per lo imperio della persona amata: e repugnano a sè per consentire ad altri. Ancora le persone belle, per l’astuzia degli Amanti danno nelle reti: e diventano umane quelle, che innanzi erano pertinaci. Ma perchè si chiamò lo Amore mago? Perchè tutta la forza della Magica consiste nello Amore. L’opera della Magica è un certo tiramento de l’una cosa a l’altra per similitudine di natura. Le parti di questo Mondo come membri d’uno animale, dependendo tutte da uno Amore, si connettono insieme per comunione di natura: e però come in noi il cervello, polmone, cuore, fegato e altri membri, l’uno dall’altro traggono qualche cosa, e scambievolmente si favoreggiano, e alla passione dell’uno compatisce l’altro: così i membri di questo grande animale, cioè tutti i corpi del mondo in fra loro catenati, accattano fra loro e prestansi le loro nature. Per questa comune parentela nasce Amore comune: da tale Amore nasce il comune tiramento: e questa è la vera Magica. Così dalla concavità della spera lunare, si tira il fuoco in alto, per congruità di natura: dalla concavità del fuoco è tirata similmente l’aria: dal centro del mondo la terra: ancora dal suo luogo l’acqua. Di qui la calamita tira il ferro: l’ambra la paglia: il zolfo il fuoco. Il Sole volge inverso sè fiori e foglie: la Luna muove l’acqua, e Marte i venti: e varie erbe tirano a sè varie spezie d’animali. Così nelle cose umane ciascuno è tirato dal suo piacere. Adunque le opere della Magica, sono opere della natura, e l’arte è ministra. Perchè l’arte quando s’avvede che in qualche parte non è intera convenienza tra le nature, supplisce a questo, in tempi debiti, per certi vapori, qualità, numeri, e figure: così come nella agricoltura, la natura partorisce le biade, e l’arte aiuta a preparare la materia. Questa arte Magica attribuirono gli antichi a’ Demonii: perchè, i Demonii intendono qual sia la parentela delle cose naturali tra loro, e qual cosa con quale cosa consuoni: e come la concordia delle cose, dove manca si possa ristorare. Dicesi che alcuni filosofi ebbono amicizia con questi Demonii, o per qualche proporzione di natura, come Zoroastro e Socrate, o per adorazione come Apollonio e Porfirio. E però si dice che essi Demonii porgevano a costoro in vigilia, segni, voci, e cose mostruose: e in sogno revelazioni e visioni. Sicchè pare che costoro sieno divenuti Magi per la amicizia che ebbono con gli spiriti detti: sì come essi spiriti son magi, perchè conoscono la amicizia delle cose naturali. E tutta la natura per lo scambievole Amore maga si chiama. Oltre a questo i corpi belli fanno mal d’occhio a chi molto vi bada: e gli innamorati pigliano con forza di eloquenzia e di cantilene le persone amate, quasi come per certi incantesimi: e con servigi e doni gli adescano e occupano quasi come con malie. Per la qual cosa a nessuno è dubbio, che Cupidine non sia mago. Conciosia che tutte le forze della Magica consistino nello Amore: e l’opera dello Amore s’adempia in un certo modo col mal d’occhio, incantesimi, e malie.
E non è mortale interamente, nè anche immortale. Lo Amore non è mortale, perchè quelli due Amori che noi chiamiamo Demonii, sono in noi perpetui. Non è immortale: perchè i tre Amori, quali ponemmo in mezzo di quei due, ogni dì si mutano, crescendo e scemando. Aggiugnesi che nello appetito dell’uomo dal principio della vita è acceso un fervore, che non si spegne mai. Questo non lascia l’Animo in sè posare: ma sospignelo sempre ad appiccarsi con veemenza a qualche cosa. Diverse sono le nature degli uomini: onde quel continuo fervore dello appetito il quale è il naturale Amore, induce alcuni a le lettere: alcuni a la musica, o a le figure: alcuni ad onestà di costumi, o a vita religiosa: alcuni agli onori: alcuni a ragunare danari, molti a lussuria di gola e di ventre e altri ad altre cose: e ancora il medesimo uomo in diversi tempi di età a diverse cose. Adunque il medesimo fervore si chiama immortale, e mortale: immortale, perchè non si spegne mai: e muta materia più tosto, che si spenga: mortale, perchè non attende sempre a una cosa medesima: ma cerca nuovi diletti, o per mutazione di natura, o per essere sazio per lungo uso d’una cosa medesima. Sì che quel fervore che muore in una cosa, resuscita in un’altra. Dicesi ancora immortale per questa cagione, perchè la figura, che una volta è amata sempre si ama. Imperocchè quanto tempo una medesima figura persevera in uno medesimo uomo, tanto s’ama in quel medesimo. E quando da lui è partita, non è più quella in colui la figura la quale tu prima amavi: ma evvene una nuova, la quale nuova tu non ami, perchè anche in prima non l’amavi: e non cessi però di amare la prima: ma evvi questa differenzia, che prima tu vedevi quella figura antica in altri: e ora la vedi in te medesimo: e questa medesima sempre fissa nella memoria ami sempre. E quante volte si rappresenta all’occhio dell’Animo, tante volte t’accende ad amare. Di qui nasce, che qualunque volta ci riscontriamo nella persona anticamente amata, ci commoviamo subito sentendo o tremito nel cuore o liquefazione nel fegato. E alcuna volta battono gli occhi: e il volto non altrimenti di varii colori si veste, che si faccia lo aere nebuloso, quando per aver il sole avverso, crea lo arco baleno. Imperocchè la presenza della persona amata, desta la figura sua che prima dormiva nello animo dello amante, e offeriscela agli occhi dell’Animo: e soffiando riaccende il fuoco, che sotto la cenere giaceva. Per questa cagione lo Amore si chiama immortale. Ma dicesi ancora mortale, perchè benchè gli amati volti stiano sempre nel petto infissi: non dimeno non si offeriscono ugualmente agli occhi dell’animo. Il perchè pare che la benevolenza scambievolmente bolla e intiepidisca. Aggiugnesi che l’Amor bestiale e anche l’umano non può essere senza indegnazione giammai. Chi è che non si sdegni contra colui, che gli ha rubato l’Animo? Quanto è grata la libertà, tanto la servitù è molesta. E per questo hai in odio le persone belle insieme e amile, haile in odio, come ladre e micidiali: amile, e onorile come specchi, in cui risplende il celeste lume. O misero, tu non sai quel che tu facci! Tu non sai, uomo perduto, dove tu ti rivolga. Tu non vorresti essere col tuo micidiale: e non vorresti vivere senza la felice presenza: tu non puoi essere con costui che ti uccide: e non puoi vivere senza colui, che con tante lusinghe ruba te a te, e te tutto a sè usurpa. Tu desideri di fuggire chi con le fiamme sue ti abbrucia: e desideri accostarti a lui, acciocchè accostandoti a chi ti possiede ti accosti a te stesso. O misero, tu cerchi te fuori di te: e accostiti a chi ti ruba per ricomperare te qualche volta, che sei prigione. O stolto, tu non vorresti amare, perchè tu non vorresti morire: ancora non vorresti non amare, perchè tu giudichi di servire alle immagini delle cose celesti. Per questa alterazione avviene che quasi in qualunque momento l’Amore s’appassa e rinverdisce.
Oltre a questo Diotima pone lo Amore in mezzo tra la sapienza e l’ignoranza, perchè l’Amore per suo obbietto seguita le cose belle: e delle cose belle, la sapienza è la più bella, e però appetisce la sapienza. Ma colui che appetisce la sapienza non la possiede in tutto, perchè chi è quello che cerchi quello che possiede? E ancora interamente non ne manca. Ma in questo solo almeno è savio, che e’ riconosce l’ignoranzia sua. Colui che non sa sè non sapere, senza dubbio non sa le cose: e non sa il suo non sapere: e non desidera la scienza della quale non s’accorge essere privato. Adunque lo Amore della sapienza, perchè è in parte di sapienza privato, e in parte è sapiente, però in mezzo tra la sapienza e la ignoranza si pone. Questa disse Diotima essere la condizione dello Amore: ma la condizione della superna bellezza è questa, che è delicata, perfetta e beata. Delicata, in quanto per la sua suavità lo appetito di tutte le cose a sè alletta. Perfetta, inquanto le cose che allettò tirando le illustra con i raggi suoi e falle perfette. Beata, in quanto empie le cose illustrate de’ beni eterni.
Capitolo XI
Qual sia la utilità d’amore per la sua diffinizione
Poi che Diotima narrò quella che è l’origine dello Amore e la sua qualità già dichiara qual sia il fine e la utilità in questo modo. Tutti desideriamo aver beni, e non solamente averli: ma avergli sempre. Ma tutti i beni de’ mortali si mutano e mancano: e tosto tutti si perderebbero se in luogo di quelli che se ne vanno continuamente non rinascessino nuovi beni. Adunque acciocchè i beni ci durino, noi desideriamo rifare i beni periti: i beni periti non si rifanno se non per la generazione. Di qui è nato lo stimolo di generare in ciascuno. La generazione perchè fa le cose mortali nel continuare simili alle divine, certamente è dono divino: alle cose divine, perchè sono belle, le cose brutte sono contrarie: e le cose belle sono simili e amiche. E però la generazione, che è opera divina, perfettamente e facilmente s’adempie nel suggetto bello: e per contrario, nel suggetto contrario. Per la qual cosa quello stimolo del generare cerca le cose belle: e fugge le brutte. Dimandate voi che cosa sia lo Amore degli uomini, e a che giovi: egli è appetito di generare nel subbietto bello per conservare vita perpetua nelle cose mortali. Questo è lo Amore delli uomini viventi in terra. Questo è il fine di nostro Amore. Certamente in quel tempo che ciascuno de’ mortali si dice vivere, e essere quel medesimo, come è dalla puerizia a la vecchiaia, benchè sia chiamato quel medesimo, nondimeno non riserva in sè mai le cose medesime: ma sempre di nuovo si riveste (come dice Platone) e spogliasi delle cose vecchie, secondo peli, carne, ossa, sangue, e tutto il corpo: e non solo avviene questo nel corpo: ma eziandio nella Anima: continuamente si mutano costumi, consuetudini, opinioni, appetiti, piaceri, dolori, timori, e nessuno di questi persevera il medesimo e simile: le cose di prima se ne vanno, e succedono le nuove. E quello che è più maraviglioso, è questo, che le scienze patiscono la medesima condizione, e non solamente l’una scienza ne va, l’altra ne viene: e non siamo sempre secondo le scienze quelli medesimi: ma eziandio, ciascuna scienza quasi patisce questo: perchè la meditazione e la ricordanza è quasi un ripigliare la scienza che periva. Perchè la dimenticanza è quasi una dipartenza della scienza: ma la meditazione restituisce nella memoria nuova disposizione del sapere, in luogo di quella che si partiva: in modo che pare la scienza medesima. In questo modo quelle cose, che nell’animo e nel corpo sono mutabili, si conservano. Non perchè elle sieno sempre appunto quelle medesime (perchè questa dote è propria delle cose divine), ma perchè quello che si parte, lascia nuovo successore a sè simile. Con questo rimedio le cose mortali, alle immortali simili si rendono. È adunque nell’una e nell’altra parte della anima (sì in quella che ha a conoscere, sì in quella che ha a reggere il corpo) ingenerato lo Amore di generare per conservare vita perpetua. L’amore che è nella parte che regge il corpo, subito di principio ci costringe a cercare il mangiare e il bere: acciocchè per questi nutrimenti si generino gli umori, de’ quali si ristori quello, che di noi continuamente si perde. Per questa generazione si nutrica il corpo, e cresce. Cresciuto il corpo, quello Amore sospinge il seme: e provocalo a la libidine di procreare figliuoli: acciò che quello che in sè medesimo non può sempre stare, riservandosi3 nel figliuolo simile a sè, così si mantenga in sempiterno. Ancora lo amore del generare, ch’è in quella parte della Anima che conosce, fa che l’Anima cerca la verità, come proprio nutrimento: per il quale nel modo suo si nutrichi e cresca. E se alcuna cosa per dimenticanza è cascata da lo Animo, o dorme di dentro per negligenza, con la diligenza del meditare quasi rigenera, rivocando nella mente quello che per dimenticanza era perito, o vero sopito per negligenza. E poi che l’Animo è cresciuto, questo Amore lo stimola d’ardentissimo desiderio di insegnare e di scrivere: acciò che restando la scienza generata nelle scritture, o negli animi de’ discepoli, la intelligenzia dello autore rimanga eterna tra gli uomini. E così per benefizio dello Amore, il corpo e la Anima dell’uomo pare che restino tra gli altri uomini in sempiterno. L’uno e l’altro Amore ricerca cose belle. Certamente quello che regge il corpo desidera nutrire il proprio corpo di nutrimenti delicatissimi, suavissimi, speciosissimi: e desidera generare belli figliuoli, e di bella femmina. E lo Amore che s’appartiene a lo Animo, s’affatica di empirlo di ornatissime e gratissime discipline: e scrivendo con bello e ornato stile, pubblicare scienza alla sua simile: e insegnando, generare la medesima scienza per similitudine in qualche Animo bello. Bello è, dico, quello Animo, che è acuto e ottimo. Noi non veggiamo esso Animo, e però non veggiamo la sua bellezza: ma veggiamo il corpo, ch’è immagine e ombra dello Animo: sì che per questa immagine conghietturando, stimiamo che in un formoso corpo uno Animo specioso sia: e di qui avviene, che noi più volentieri insegniamo a’ più belli.
Capitolo XII
De’ due amori: e che l’anima nasce formata di verità.
Assai abbiamo parlato de la deffinizione d’Amore: dichiariamo ora qual sia la sua distinzione: la quale appresso Platone si fa per la fecondità della Anima e del corpo. Le parole di Platone sono queste: in tutti gli uomini è pregno il corpo, e è pregno l’Animo. Nel corpo sono da natura infusi i semi di tutte le cose corporali, di qui per ordinati transcorsi di tempo vengono fuora i denti, escono i peli, spandesi la barba, multiplica lo sperma. E se il corpo è fecondo e gravido di semi, molto maggiormente lo Animo, che è più nobile che il corpo, debbe essere abbondante, e possedere da principio i semi di tutte le cose sue. Adunque da principio lo Animo possedette le ragioni de’ costumi, arti, e discipline: onde se egli è ben cultivato, mette fuora i frutti suoi ne’ tempi debiti. E che lo animo abbia dentro ingenerate le ragioni di tutte le cose sue lo comprendiamo per il suo appetito, inquisizione, invenzione, giudizio, e comparazione. Chi negherà lo Animo subito da la tenera età desiderare cose vere, buone, oneste e utili? Nessuno desidera le cose non conosciute. Adunque nell’Animo son qualche note impresse di queste cose, innanzi che egli le appetisca: per le quali quasi come per forme esemplari di dette cose, giudica essere degne che si appetischino. Questo medesimo si pruova per la inquisizione e invenzione, in questo modo. Se Socrate cerca Alcibiade in una turba di uomini, e abbilo qualche volta a ritrovare, è necessario che nella mente di Socrate, sia qualche figura di Alcibiade: acciocchè sappia quale Uomo innanzi agli altri cerchi: e poi possa nella turba di molti, Alcibiade dagli altri discernere. Così l’Animo non cercherebbe quelle quattro cose, cioè verità, bontà, onestà, utilità, e non le troverebbe mai, se non avesse in sè qualche nota, per la quale cercasse queste cose, in modo da poterle trovare: acciocchè quando si scontra in loro le riconosca, e da contrarii loro le discerna bene. E non solamente manifestiamo questo per lo appetito, inquisizione, e invenzione: ma eziandio per il giudizio. Qualunque giudica alcuno amico a sè, o inimico, conosce quello che sia amicizia o inimicizia. In che modo adunque giudicheremmo noi tutto il giorno rettamente (come sogliamo) molte cose vere o false, buone o male, se e’ non fusse da noi la verità e la bontà in qualche modo innanzi conosciuta? In che modo, molti rozzi nello edifizio, Musica, e Pittura, e altre simili arti, e nella filosofia, approverrebbono spesso, e riproverrebbono rettamente le opere di dette facultadi, se non fusse loro dato dalla Natura qualche forma e ragione di dette cose? Oltre a questo, la comparazione questo medesimo ci dimostra: perchè qualunque comparando il mele con il vino, giudica lo uno essere più dolce che l’altro, certamente conosce quale sia il sapore dolce. E colui, che agguagliando Speusippo e Senocrate a Platone, stima Senocrate essere a Platone più simile che Speusippo: senza dubbio conosce la figura di Platone. Similmente perchè noi stimiamo rettamente di molte cose buone l’una essere migliore che l’altra, e perchè secondo maggiore o minore partecipazione di bontà apparisce l’una cosa migliore che l’altra, è necessario che noi non siamo di essa bontà ignoranti. Oltre a questo perchè spesse volte ottimamente giudichiamo tra le varie oppenioni de’ filosofi, qual sia più verisimile, e più probabile, bisogna che in noi sia qualche chiarezza di verità: acciocchè possiamo conoscere quali sieno le cose a lei più simili. Per la qual cosa alcuni nella puerizia, alcuni senza maestro, alcuni con pochi principii presi da altrui, sono divenuti dottissimi. Il che non potrebbe advenire, se la Natura a questo non giovasse molto. Questo abbondantemente dimostrò Socrate ai tre giovanetti Fedone, Teeteto e Menone: e chiarì loro che i fanciulli possono (se sono prudentemente domandati) in ciascuna arte rettamente rispondere. Conciosia che e’ siano dalla natura ornati delle ragioni di tutte le arti e discipline.
Capitolo XIII
In che modo nella anima sia il lume di verità
Ma in che modo queste ragioni siano nello Animo, pare appresso Platone ambiguo. Chi legge que’ libri, che Platone scrisse in gioventù, come il Fedro, Fedone e Menone, stimerà forse quelle essere dipinte nella sustanzia dell’Anima da principio, come figure in tavola: secondo che disopra più volte da me e da voi è tocco, perchè così pare che Platone i detti luoghi accenni. Dipoi questo uomo divino, cioè Platone, nel sesto Libro della Repubblica aprì la sua sentenzia dicendo, che il lume della mente a lo intendere tutte le esose è quello medesimo Iddio che fa tutte le cose. E agguaglia insieme il Sole e Dio in questo modo: che qual rispetto ha il Sole a gli occhi, tale a le Menti ha Dio. Il Sole genera gli occhi, e dona loro virtù di vedere: la quale virtù sarebbe invano, e in sempiterne tenebre, se non s’appresentassi a lei il lume del Sole, dipinto di colori e figure di tutti i corpi. Nel qual lume lo occhio vede i colori e le figure de’ corpi. E in verità non vede altro che il lume: benchè paia che vegga varie cose: perchè il lume che a lui s’infonde, è ornato di varie forme di corpi. L’occhio vede questo lume, in quanto si riflette ne’ corpi: ma essa luce nel fonte suo non può comprendere. Similmente Iddio crea l’Anima, e donagli la Mente, la quale è virtù d’intendere: e questa sarebbe vota e tenebrosa, se il lume di Dio non le stesse presente, nel quale vegga di tutte le cose le ragioni. Sì che intende per il lume di Dio: e solo questo lume intende, benchè paia che conosca diverse cose, perchè intende detto lume sotto diverse Idee e ragioni di cose. Quando l’uomo con gli occhi vede l’uomo, fabbrica nella fantasia la immagine dello uomo: e rivolgesi a giudicare detta immagine. Per questo esercizio dell’animo dispone lo occhio della Mente a vedere la ragione e Idea dello uomo, che è in esso lume divino. Onde subitamente una certa scintilla nella Mente risplende. E la natura dello uomo di qui veramente si intende, e così nell’altre cose adviene. Adunque ogni cosa per il lume di Dio intendiamo: ma esso puro lume nel fonte suo in questa vita non possiamo comprendere. In questo certamente consiste tutta la fecondità della Anima che ne’ segreti seni di quella risplende la eterna luce di Dio, pienissima delle ragioni e Idee di tutte le cose. A la quale luce l’anima qualunque volta vuole, si può voltare per purità di vita, e attenzione di studio: e rivolta a quella risplende di scintille delle Idee.
Capitolo XIV
Onde viene lo amore inverso i maschi, e lo amore inverso le femmine.
Così è pregno il corpo degli uomini (come vuole Platone) così è pregno l’Animo: e amendue per gli incitamenti di Amore, sono stimolati a partorire. Ma alcuni o per natura o per uso sono più atti al parto dell’animo che del corpo: alcuni, e questi sono i più, sono più atti al parto del corpo, che dell’Animo. I primi seguitano il celeste Amore: i secondi seguitano il vulgare. I primi amano i maschi piuttosto che le femmine, e adolescenti piuttosto che puerili: perchè in essi, molto più vigoreggia lo acume dello intelletto: il quale è suggetto attissimo, per la sua eccellente Bellezza a ricevere la disciplina, la quale per natura generare coloro appetiscono. I secondi per il contrario mossi dalla voluttà dello atto venereo, a lo effetto della generazione corporale intendono: ma perchè la potenzia di generare, che è nella Anima, manca di cognizione, però non fa differenzia tra sesso e sesso. E nientedimeno per sua natura tante volte ci invita a generare, quante volte veggiamo un bello obbietto. Laonde spesse volte adviene, che quelli che conversano con maschi, per voler rimuovere gli stimoli della parte generativa, si mescolano con loro: e quelli massime nella natività de i quali, Venere si è trovata in segno masculino, congiunta con Saturno, o ne’ termini di quello, o vero a quello opposta. Non era però conveniente così fare: ma era da considerare che gli incitamenti della parte generativa, non richiedevano naturalmente questo gittare di seme invano: ma che l’offizio del generare è per nascere: e però bisognava l’uso di detta parte da’ maschi a le femmine convertire. Per questo errore stimiamo essere nata quella nefaria sceleratezza: la quale Platone nelle sue Leggi, come spezie di omicidio, agramente bestemmia. E certamente non è meno micidiale colui che interrompe l’uomo che debbe nascere, che colui che leva di terra il nato: più audace colui che uccide la vita presente, ma colui è più crudele che porta invidia ancora a chi ha a nascere e uccide i suoi propri figliuoli prima che naschino.
Capitolo XV
Per che via si mostra che sopra il corpo è l’anima, sopra l’anima è l’angelo, e Dio.
Insino a qui si è detto de le due abbondanze dell’Anima, e de’ due Amori: per lo avvenire diremo per che gradi Diotima innalza Socrate da lo infimo grado per i mezzi al supremo, tirandolo dal corpo a l’Anima: da l’Anima a lo Angelo: da l’Angelo a Dio. Che e’ sia di bisogno essere nella natura questi quattro gradi argomenteremo in questo modo. Ogni corpo è mosso da altri: e non può sè medesimo per sua natura muovere: conciosia che non possa per sè alcuna cosa fare. Ma pare che si muova per sè medesimo, quando dentro a sè ha la Anima: e per lei vive: e presente lei in qualche modo sè medesimo muove. Dipartita la Anima, bisogna che da altri sia mosso, come quello che tale facultà di muoversi da sè non possiede: ma l’Anima è quella in cui regna la facultà di muovere sè medesima. Imperocchè a qualunque ella si fa presente, gli presta forza di muovere sè medesimo, e quella forza che ella presta ad altri, debbe ella prima e molto più avere. È dunque l’Anima sopra il corpo, come quella che può sè medesima secondo la sua essenzia muovere: e per questo debbe soprastare a quelle cose, che pigliano facultà di muoversi non da sè medesime, ma per presenzia d’altri: e quando noi diciamo l’anima per sè medesima muoversi, non l’intendiamo in quel modo corporale, il quale Aristotile cavillando appose al gran Platone: ma intendiamolo spiritualmente, e in modo assoluto più tosto che transitivo: in quel modo che intendiamo quando diciamo Iddio per sè stare, e il sole per sè lustrare, e il fuoco per sè essere caldo. Non si intende che l’una parte dell’Anima muova l’altra: ma che tutta l’Anima da sè, cioè per sua natura, si muova. Questo è, che discorra con la ragione d’una cosa in un’altra: e trascorra l’opere del nutrire, augumentare, generare per distanzia di tempo. Questo temporale discorso si conviene alla Anima per sua natura. Imperocchè quello che è sopra lei non intende in diversi momenti cose diverse: ma in un punto insieme tutte. Per la qual cosa rettamente Platone pone nell’Anima il primo intervallo di movimento, e di tempo: onde il moto e il tempo ne’ corpi passano. E perchè egli è necessario che innanzi al movimento sia lo stato essendo lo stato più perfetto che il movimento, però sopra la ragione della Anima che è mobile, bisogna che si truovi qualche stabile intelligenzia, la quale sia intelligenzia secondo sè tutta, e sempre sia intelligenzia in atto. Perchè l’Anima non intende secondo sè tutta e sempre: ma secondo una parte di sè, e alcuna volta: e non ha virtù d’intendere senza dubbii. Adunque acciò che il più perfetto sopra stia al meno perfetto, sopra lo intelletto della Anima che è mobile, e parte interrotto e dubbio: si debbe porre lo intelletto angelico stabile tutto, continuo, e certissimo: acciò che come al corpo che da altri è mosso precede l’Anima, che per sè si muove, così all’Anima che per sè si muove preceda lo Angelo il quale è stabile. Certamente come il corpo acquista da la Anima che per sè si muova (e però non tutti i corpi: ma gli animati pare che per sè si muovino) così la anima da la Mente acquista che sempre intenda. Imperocchè se per sua natura nell’Anima fusse lo intelletto, sarebbe lo intelletto in tutte le Anime: eziandio nelle anime delle bestie sì come la potenzia di muovere sè medesime. Non si conviene adunque alla Anima, lo intelletto per sè, e principalmente. E però bisogna che sopra l’Anima sia lo Angelo: il quale sia per sè intellettuale. Finalmente sopra la Mente angelica è quel principio dello universo e sommo Bene, il quale Platone nel Parmenide chiama esso Uno. Imperocchè sopra ogni moltitudine delle cose composte debbe essere esso Uno semplice per sua natura. Perchè da Uno in numero e da i semplici ogni composizione depende. E quella Mente Angelica benchè sia immobile, nondimeno è essa Unità semplice e pura. Ella intende sè medesima: ove pare siano tra loro diverse queste tre cose: quello che intende, quello che è inteso, e lo intendimento. Altro rispetto è in lei in quanto intende: altro in quanto è intesa, e altro in quanto a lo intendimento. Oltre a questo ha la potenzia di conoscere: la quale innanzi a lo atto de la cognizione, per sua natura è senza forma: e conoscendo s’informa. E questa potenzia intendendo desidera il lume della verità e piglialo quasi, come quella che di questo lume, prima che intendesse, mancava. Ha ancora in sè moltitudine di tutte le idee. Tu vedi quanta e quanto varia moltitudine e composizione sia nello Angelo. Per la qual cosa siamo costretti quello che è Unità semplice e pura, preporre allo Angelo: e a questa Unità che è esso Dio, non possiamo alcuna cosa anteporre. Perchè la vera Unità è fuori d’ogni moltitudine e composizione: e se ella alcuna cosa avesse sopra di sè, da quella cosa dependerebbe, e sarebbe di meno perfezione di lei: come suole ogni effetto essere men degno che la sua cagione. Per la qual cosa non sarebbe Unità in tutto semplice: ma di due cose almeno sarebbe composta: cioè del dono della sua cagione, e del difetto proprio. Dunque come vuole Platone, e Dionisio Areopagita conferma, esso puro Uno tutte le cose sopravanza: e amendui stimano che esso Uno sia lo Eccellente nome di Dio. La sublimità del quale, questa ragione ancora ci mostra: che il dono della causa eminentissima debbe essere amplissimo, e per la presenza di sua virtù per l’Universo distendersi. Il dono di esso Uno si diffonde per lo Universo: perchè non solo la mente è una, e ciascuna Anima una, e qualunque corpo uno: ma eziandio la materia delle cose, che per sè è senza forma e la privazione delle forme in qualche modo una si chiama. Perchè noi diciamo una materia dello Universo: e diciamo spesse volte, qui è un silenzio, una oscurità, una morte: nientedimeno i doni della Mente e della Anima non si distendono insino a essa materia vacua, e a la privazione delle forme. L’uffizio della mente è donare spezie artificiosa e ordine. L’offizio della Anima è prestare vita e movimento: ma la informe e prima materia del mondo per sua natura e la privazione delle cose è senza vita e spezie. Così esso Uno antecede la mente e la Anima: conciosia che il suo dono più largamente si sparga. Per la ragione medesima la mente è sopra l’Anima: perchè la vita ch’è dono della Anima, non si dà a tutti i corpi: nondimeno la mente a tutti i corpi spezie e ordine concede.
Capitolo XVI
Quale comparazione è tra Dio, angelo, anima e corpo.
Adunque dal corpo a la Anima, da l’Anima a l’Angelo da l’Angelo a Dio, salire dobbiamo. Dio è sopra la eternità: L’Angelo nella eternità è tutto: perchè la essenzia è operazione sua e stabile. E lo stato dell’eternità è propio. La Anima è parte nella eternità, e parte nel tempo. Perchè la sustanzia sua è sempre quella medesima senza alcuna mutazione di crescere, o di scemare. Ma l’operazione sua (come di sopra mostrammo) per intervalli il tempo discorre. Il corpo in tutto è sottoposto al tempo: perchè la sustanzia sua si muta, e ogni sua operazione richiede spazio temporale. Adunque esso Uno è sopra movimento e stato: l’Angelo è nello stato: l’Anima nello stato, e nel movimento insieme: il corpo è solo nel movimento. Ancora esso uno sta sopra il numero e movimento e luogo: l’Angelo sta nel numero sopra il movimento e il luogo: l’Anima è nel numero e nel movimento, ma sopra luogo: il corpo è sottoposto al numero, movimento e luogo. Imperocchè esso Uno non ha numero alcuno: non ha composizione di parti: non si muta da quello che è in alcun modo: e non si rinchiude in luogo alcuno. L’Angelo ha numero di parti, o vero di forme, ma è libero di movimento e luogo. L’Anima ha moltitudine di parti e d’affezioni, e mutasi nel discorrere della ragione e nelle perturbazioni de’ sensi; ma da’ termini del luogo è libera: il corpo a tutte queste cose è sottoposto.
Capitolo XVII
Quale comparazione è tra la bellezza di Dio, angelo, anima e corpo.
La medesima comparazione che è fra costoro, è ancora tra le forme loro. La forma del corpo consiste nella composizione di molte parti: è stretta dal luogo: casca per tempo. La spezie dell’Animo patisce variazione di tempo, e contiene moltitudine di parti: ma non è da termini di luogo stretta. La spezie dello Angelo ha solo il numero senza le due altre passioni. Ma la spezie di Dio nessuna delle dette cose patisce. Tu vedi la forma del corpo: dimmi, desideri tu oltre a questo la spezie dell’Animo vedere? Leva col pensier tuo da la forma corporale quel peso della materia che sotto vi giace: leva i termini del luogo: e lasciavi il resto: e hai già la spezie dello Animo trovata. Vuoi tu ancora trovare la spezie dello Angelo? Leva oltre a questo da quella forma non solamente gli spazii locali, ma eziandio il temporale progresso: ritieni la composizione multiplice: subito l’arai trovata. Vuoi tu la Bellezza di Dio vedere? leva oltre a questo quella multiplice composizione di forme: lasciavi la forma in tutto semplice, e subito la spezie di Dio ti fia presente. Ma tu mi dirai: or che mi resta egli al presente, levate via le tre cose dette? e io ti risponderò, te essere ignorante, se la Bellezza altro che luce essere credessi. La Bellezza di tutti i corpi è questo lume del Sole, che tu vedi macchiato delle tre dette cose: cioè di moltitudine di forme, perchè lo vedi di molti colori e figure dipinto: di spazio locale: di temporale mutazione. Leva via la sedia, che questo lume ha nella materia in modo che fuora del luogo ritenga le altre due parti: tale appunto è la Bellezza della Anima. Leva ancora di qui la mutazione del tempo e lasciavi il resto, e resteratti il lume chiarissimo, senza luogo, e senza movimento: ma sarà scolpito delle ragioni di tutte le cose. Questo è lo Angelo: questa è la sua Bellezza. Leva via finalmente quel numero di diverse Idee: lascia una semplice e pura luce a similitudine di quella luce, che si sta nella ruota del Sole, e non si sparge fuora: qui comprendi quasi la Bellezza di Dio, la quale almeno tanto le altre Bellezze supera, quanto quella luce del Sole, che si sta in sè medesima pura, una, inviolata, supera lo splendore del Sole: il quale per l’aria nebulosa è disperso, diviso, maculato, e oscurato. Adunque il fonte di tutta la Bellezza è Iddio. Iddio è il fonte di tutto lo Amore. Considera che il lume del Sole nella acqua è come ombra, a rispetto del più chiaro lume del Sole nell’aria. Lo splendore che è nell’aria, è una ombra a rispetto di quello, che è nel fuoco. Il fulgore che è nel fuoco, è ombra a la luce del Sole, che nella ruota sua riluce. La medesima comparazione è tra quelle quattro Bellezze, del Corpo, Anima, Angelo, e Dio. Iddio non è mai ingannato, in modo che ami l’ombra di sua Bellezza nell’Angelo, e dimentichi la sua Bellezza propria è vera. E ancora l’Angelo non è mai preso dalla Bellezza dell’Anima, la quale è ombra di lui, in modo che badando a questa sua ombra, abbandoni la propria sua figura: ma sì l’Anima nostra. De la qual cosa è da dolersi molto: perchè questa è la origine di tutta la nostra miseria. La Anima, dico, sola è tanto lusingata da la forma corporale, che manda in oblivione la propria spezie: e dimenticando sè medesima, seguita ardentemente la forma del corpo, la quale è ombra della spezie della Anima. Di qui seguita quel crudelissimo fato di Narciso che canta Orfeo: di qui seguita la miserabile calamità degli uomini. Narciso adolescente, cioè l’Anima dell’uomo temerario e ignorante, non guarda il volto suo: che si intende, che egli non considera la propria sustanzia e virtù sua: ma l’ombra sua nella acqua seguita, e sforzasi d’abbracciarla: cioè bada intorno alla Bellezza che vede nel corpo fragile, corrente, come acqua, la quale è ombra dello Animo: lascia la sua figura, e l’ombra mai non piglia. Perchè l’animo seguitando il corpo, sè medesimo disprezza, e per l’uso corporale non si empie: perchè egli non appetisce in verità il corpo: ma desidera (come Narciso) la sua spezie propria, allettato dalla forma corporale: la quale è immagine della spezie sua: e perchè non s’avvede di questo errore, desiderando una cosa, e seguitandone un’altra, non può mai empiere il desiderio suo. E però si distilla in lagrime, cioè l’animo poi che è caduto fuori di sè e tuffato nel corpo, da mortali turbazioni è tormentato e macchiato dalle macule corporali, quasi affoga, e muore: perchè già apparisce corpo piuttosto che animo. Onde Diotima volendo che Socrate schivasse questa morte, lo ridusse dal corpo a lo Animo, da l’Animo a lo Angelo, e da l’Angelo a Dio.
Capitolo XVIII
Come s’innalza l’anima da la bellezza del corpo a quella di Dio.
Orsù, carissimi convitati, fingete nello animo vostro che Diotima di nuovo ammonisca Socrate in questo modo. Considera, Socrate mio, che nessuno corpo è interamente bello. Imperocchè o veramente egli è in una parte bello, nell’altra brutto, o veramente oggi bello e altra volta brutto, veramente agli occhi d’alcuno riesce bello agli occhi d’un altro riesce brutto. Adunque la Bellezza del corpo essendo macchiata per contagione di bruttura, non può essere Bellezza pura, vera, e prima. Oltre a questo, nessuno può pensare la Bellezza essere brutta: siccome nessuno può pensare la sapienzia essere pazza. Ma la disposizione de’ corpi, alcuna volta speciosa, alcuna volta turpe stimiamo: e in un medesimo tempo, di quella, varie persone variamente giudicano. Non è adunque ne’ corpi la Bellezza vera e somma. Aggiugnesi a questo, che molti corpi sotto un medesimo nome di Bellezza si chiamano: una è adunque in molti corpi la natura della Bellezza comune, per la quale molti corpi similmente begli si chiamano. Questa una natura, perchè ella è in altri, cioè nella materia, però stima che da altri depende. Imperocchè quello che non può in sè fermarsi, molto meno può da sè dependere. Credi tu però che ella dependa da la materia? Deh non lo credere! Nessuna cosa brutta, e imperfetta, può se medesima ornare, e fare perfetta: e puro quello che è uno, da uno nascere debbe. Per la qual cosa una bellezza di molti corpi, da uno incorporale artefice depende. Uno artefice del tutto è Iddio: il quale per mezzo degli Angeli, e delle Anime, continuamente fa bella la materia del Mondo. E per questo è da stimare, che quella vera ragione della Bellezza, si truovi in Dio, e ne’ suoi ministri, più tosto che nelli corpi del mondo. Levati su, o Socrate, e per questi gradi che io ti mostrerò, a quella di nuovo sali. Se la natura t’avesse dato, Socrate mio, gli occhi più acuti, che al lupo cerviere, in modo che i corpi che in te si scontrano, non solamente di fuori, ma eziandio dentro vedessi: quel corpo del tuo Alcibiade, il quale di fuori apparisce bellissimo, certamente ti parrebbe bruttissimo. Amico mio, quanto è egli però quello, che tu ami? Ella è una superficie di fuori: anzi è un poco di colore, quello che ti rapisce: anzi è una certa levissima riflessione di lumi e di ombre. E forse più tosto una vana immaginazione ti abbaglia: in modo che tu ami quello, che tu sogni, più tosto che quello che tu vedi. E perchè e’ non paia che io mi ti contrapponga in tutto, se pure ti pare così, sia bello questo Alcibiade. Ma dimmi, in quante parti è egli bello? Certamente in tutti i membri fuor che nel naso e nelle ciglia, che troppo in su si arricciano. Nondimeno queste parti son belle in Fedro, ma e’ ti dispiacciono in lui le gambe grosse: in vero queste son belle in Carmide: ma il collo sottile ti offende. Così se tu consideri bene ciascuna persona, nessuna interamente loderai. Ragunerai dunque ciò che è retto in qualunque di loro, e fabbricherai appresso di te, per la considerazione di tutti, una figura intera. In modo che la intera Bellezza della generazione umana, che si truova in molti corpi sparsa, sia nell’animo tuo per la cogitazione d’una immagine ragunata. O Socrate, tu sprezzerai la figura di qualunque uomo, se a questa ne farai paragone. Tu sai bene che non possiedi questa per bontà de’ corpi esteriori: ma del tuo animo. Adunque ama questa, la quale fabbricò lo animo tuo: e ama lo animo suo artefice: più tosto che quella di fuora che è troncata, dispersa, e debole. Or che comando io che ami nello animo? Comando che ami la bellezza sua. La bellezza de’ corpi è luce visibile: la bellezza dell’Animo è invisibile luce. La luce dell’animo è verità: e questa sola Platone nelle sue orazioni chiedere a Dio soleva, dicendo: così Dio concedimi che lo animo mio diventi bello: e che le cose, che s’appartengono al corpo, la bellezza dello animo non impedischino: e che io stimi colui solo essere ricco, il quale è savio. Platone dichiara in questa Orazione, la Bellezza dello animo nella verità e nella sapienzia consistere: e quella da Dio agli uomini concedersi. Una verità medesima a noi data da Dio per varii suoi effetti, varii nomi di virtù acquista. In quanto ella mostra le cose divine, sapienzia si chiama, la quale Platone a Dio sopra ogni altra cosa chiedeva: in quanto ella mostra le cose naturali, Scienzia: in quanto le umane, Prudenzia si nomina: inquanto ella ci fa con gli altri ragionevoli, Giustizia: inquanto ci fa insuperabili, Fortezza: in quanto ci rende tranquilli, Temperanza si appella. Onde due generazioni di virtù si annoverano, cioè virtù morali, e virtù intellettuali: le quali sono più nobili, che le morali: le intellettuali sono Sapienza, Scienza, e Prudenza; le morali, Giustizia, Fortezza e Temperanza. Le morali per le loro operazioni e civili offizii sono più note. Le intellettuali, per cagione della verità nascosta, sono più occulte. Oltre a questo, colui che si allieva con onesti costumi, come quello che è più puro che gli altri, facilmente a le virtù intellettuali s’innalza. E però ti comando che imprima consideri quella Bellezza dell’animo, la quale negli onesti costumi si ritruova: dove intenda che egli è una ragione di tutti questi costumi, per la quale similmente belli si chiamano. E questa è una verità di purissima vita: la quale per l’operazione di Giustizia, Fortezza, Temperanza, a la vera felicità ci mena: adunque dà opera, che tu in prima ami questa una verità di costumi, e luce di Animo speciosissima. E sappi che debbi salire sopra i costumi a la lucidissima verità di Sapienzia, Scienzia e Prudenzia: considerato che queste cose si concedono allo Animo in costumi ottimi allevato: e che la regola rettissima della vita morale in essa si contiene. E benchè tu vegga varie dottrine, di Sapienzia, Scienzia, e Prudenzia, non dimeno stima che in tutte è una luce di Verità: per la quale similmente tutte belle si chiamano. Io ti comando, che tu ardentemente ami questa luce, come suprema Bellezza dello Animo. Ma questa una verità, la quale in più dottrine si truova, non può essere la verità somma: imperocchè ella è in altri, essendo in molte dottrine distribuita. E ciò che in altri giace, da altri certamente depende. Non nasce però questa verità, la quale è una, da la moltitudine delle dottrine: perchè quello che è uno, da uno nascere debbe. Il perchè bisogna, che sopra l’Anima nostra sia una Sapienzia, la quale non sia sparsa per diverse dottrine: ma sia unita: e da la unica verità sua, nasca la multiplice verità degli uomini. Ricordati, o Socrate, che quella unica luce dell’unica Sapienza, è la Bellezza dell’Angelo: la quale tu dei sopra la Bellezza dell’Anima onorare. Quella, come di sopra mostrammo, avanza in questo la forma de’ corpi: che non è chiusa in luogo alcuno: nè secondo parti di materia si divide, nè si corrompe. Avanza ancora la Bellezza dell’Animo, perchè è in tutto eterna; e per temporale discorso non si muove. Ma perchè quella luce Angelica risplende nell’ordine di più Idee, che sono nell’Angelo, e pure bisogna che fuora e sopra ogni moltitudine sia essa unità, la quale è origine d’ogni numero, però è necessario che la detta luce Angelica esca da quello uno principio dello Universo, il quale essa Unità si chiama. La luce adunque di essa Unità in tutto semplicissima, è l’infinita Bellezza: perchè non è macchiata da macule di materia, come la forma del corpo: nè si muta per temporale progresso, come quella dell’Animo: nè è in moltitudine di forme sparsa, come quella dell’Angelo. E ogni qualità, che è spiccata da estrinseche condizioni, appresso i fisici si chiama infinita. Se il caldo fusse in sè medesimo, non impedito dal freddo e umido, non gravato da peso di materia, si chiamerebbe infinito caldo: perchè la forza sua sarebbe libera: e non sarebbe da termini di condizione estrinseca ristretto. Similmente il lume d’ogni corpo libero è infinito: imperocchè senza modo e termino riluce, chi per natura sua riluce, quando non è da altri terminato. Adunque la Luce e Pulcritudine di Dio, la quale è interamente pura e da ogni condizione libera, senza dubbio è Pulcritudine infinita. La Pulcritudine infinita, infinito Amore richiede. Per la qual cosa, io ti prego, Socrate mio, che tu ami le creature con certo modo e termine: ma il Creatore ama con amore infinito: e guardati quanto tu puoi che nello amare Iddio non abbi nè modo nè misura alcuna.
Capitolo XIX
Come si debbe amare Dio
Questi sono li ammonimenti, i quali noi abbiamo figurato che Diotima sacerdotessa castissima dia a Socrate: ma noi, virtuosissimi Amici, non solamente senza modo ameremo Dio, come abbiamo finto che Diotima dica: ma solo Iddio ameremo. Quello rispetto ha la mente a Dio, che ha lo occhio al lume del Sole. Lo occhio non solamente cerca il lume sopra le altre cose: ma eziandio cerca il lume solo: se e’ ci piaceranno i corpi, gli Animi, gli Angeli, non ameremo questi proprii: ma Dio in questi: ne’ corpi ameremo l’ombra di Dio: nelli animi la similitudine di Dio; nelli Angeli la immagine di Dio. Così nel tempo presente, ameremo Dio in tutte le cose: acciò che finalmente amiamo tutte le cose in lui. Imperocchè, così vivendo, perverremo a quel grado che noi vedremo Dio e tutte le cose in lui. E ameremo lui in sè e tutte le cose in lui: qualunque nel tempo presente con carità si dà tutto a Dio, finalmente si ricompera in esso. Perchè tornerà a la sua Idea per la quale egli fu creato. E quivi di nuovo sarà riformato, se parte alcuna di sè gli mancasse: e così riformato, starà unito con la sua idea in sempiterno. Io voglio che voi sappiate, che il vero uomo, e la Idea dell’uomo è tutto uno. E però nessuno di noi in terra è vero uomo, mentre che da Dio siamo separati: perchè siamo disgiunti da la nostra Idea: la quale è nostra forma. A quella ci riducerà il divino amore con vita pia. Certamente noi siamo qui divisi e tronchi: ma allora congiunti per Amore a la nostra Idea ritorneremo interi: in modo che apparirà, che noi abbiamo prima amato Dio nelle cose, per amare poi le cose in lui: e noi onoriamo le cose in Dio, per ricomperare noi sopratutto: e amando Dio, abbiamo amato noi medesimi.