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confini; come in effetto accadde. Parve buono il consiglio, e per due strade diverse mossero gli alleati verso Treveri. Negò il vescovo di quella città i passi della Mosella e del Reno, allegando la neutralità convenuta; e lo stesso fece il vescovo elettore di Magonza, al quale, come raccontano più storici, tra cui il Mailàth, aveva scritto Lobkowitz di non permettere il passaggio pel suo ponte né ai soldati di Montecuccoli, né a quelli di Brandeburg; essendoché non di sua volontà, ma per le istanze altrui, aveva l’imperatore inviate colà le sue truppe. E dai francesi veniva intanto bruciato il ponte di Strasburg. Nondimeno il Montecuccoli, checché fosse per dirne Lobkowitz, fece passare il Reno a Niderstein a sei mila uomini; e allora, dice il Menzel, temendo Turenna un’invasione in Francia, con tanta furia ripasso quel fiume ad Andernach, che mille de’ suoi soldati ch’erano a foraggiare per la campagna, non potuti avvertire in tempo, e rimasti dispersi, vennero trucidati dai contadini di Westerwald. Ma Federico II nelle sue Memorie di Brandeburg, ascrive ad una mossa de’ brandeburghesi verso Francfort il passaggio del Reno di Turenna, e il richiamo di altri 30.000 uomini dall’Olanda. Vien chiaro però che il passaggio degl’imperiali di là dal Reno tornava di più pericolo alla Francia che non il volgersi de’ brandeburghesi verso Francfort. Dall’Olanda pertanto il campo della guerra fu tramutato al medio Reno, dove poi i piccoli principi che colà dominavano, tenevano, più o meno scopertamente, le parti dei francesi. Erano inoltre desolati que’ paesi in modo, che a lungo non avrebbe potuto durarvi un esercito. Se fosse stato libero Montecuccoli di agire a sua posta, ben può credersi che avrebbe tenuto dietro egli stesso a quei seimila uomini che aveva mandato di là dal Reno, e si sarebbe risolutamente avanzato per attaccare i francesi; e veramente temevasi a Vienna che lo facesse. Il conte Bartolomeo Arese, presidente del senato di Milano, che apparteneva allora alla Spagna, e uomo devotissimo alla casa d’Austria, indirizzava una serie di lettere a quell’abate Domenico Federici, che vedemmo segretario del nunzio veneto a Vienna, e che a questo tempo s’era mutato in residente impe-