Raimondo Montecuccoli, la sua famiglia e i suoi tempi/II5
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Capitolo V - Guerra del 1675
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Capitolo V
Guerra del 1675
Non pareva che mai dovessero aver termine i disastri della campagna dell’anno 1674, provandosene gli effetti allora altresì che prendevano le truppe i quartieri invernali. Pessime notizie giungevano circa i soldati; e di ciò si chiamava in colpa il Bournonville, il quale a sua volta scriveva temere un ammutinamento della sua gente per manco di paghe e di viveri (Avvisi manoscritti di Vienna nell’archivio estense). Peggio fu quando s’intese che Turenna due volte aveva battuto nell’inverno del nuovo anno 1675 gl’imperiali, ricusando poi restituire quelli tra loro rimasti prigionieri, in cambio di ufficiali francesi. Tornarono a Vienna il Bournonville e lo Spork, e il governo delle truppe più specialmente venne affidato al giovane duca di Lorena. Al tempo medesimo mandavasi al campo l’Hofkirchen a fare inquisizione sui fatti della passata campagna, il mal esito della quale venne poi attribuito nella relazione di lui alle discordie dei generali, e all’aver essi poco atteso all’officio loro; se non che non erano queste le sole cagioni dei passati disordini. Incominciavasi intanto a prevedere che mancherebbe l’aiuto delle truppe dell’elettore di Brandeburg, avendo gli svedesi, mentr’egli svernava in Franconia, invasi gli stati di lui, al soccorso de’ quali non andò egli tuttavia se non in giugno.
Temevasi alla corte che la condizion di salute del Montecuccoli potesse distoglierlo dal pensiero di ritornare al campo, e che invece aspirasse all’ufficio di maggiordomo dell’imperatore, che stava per rimaner vacante, e rimase infatti nel braio. Da una lettera del padre Carlantonio, scritta il 13 di gennaio 1675, abbiamo notizia di conferenze che lo Swarzemberg e il Lambert ebbero coi ministri di seconda classe, com’ei li dice, per veder modo che quell’officio non fosse conferito a Raimondo. Sospettavano ne trarrebbe pretesto a rimanere presso l’imperatore, dove malvolentieri, come per altro lato ci è noto, lo avrebbero veduto i cortigiani, che troppo lo sapevano a lui affezionato, e paventavano che gli svelasse abusi e disordini. Mediatore tra loro, a dire del gesuita, era il cappuccino padre Emerico (del quale avremo a favellare più oltre), che molta ingerenza aveva nelle cose della corte: un buon uomo, dice la lettera che seguitiamo, di scarsa intelligenza; che però con faccia franca sapea trar partito dalla fiacchezza di coloro coi quali aveva a trattare. Da codesto tramestio derivò per avventura l’essere rimasta per allora vacante quella carica, che solamente nel successivo anno fu data al conte Dietrichstein, e che fu intanto esercitata temporaneamente dal conte Lambert camerier maggiore, come ci è narrato dagli Avvisi di Vienna. Di questi, che già ci vennero nominati, diremo ora che erano una gazzetta manoscritta che si spediva alla corte di Modena per tenerla informata di quanto giornalmente accadeva così alla corte, come sul luogo della guerra. V’era una rubrica speciale sulla Polonia dove, essendo il regno elettivo, più volte ambirono gli Estensi di avere dignità reale. Avevano l’incarico di riferire le notizie i diplomatici estensi successivamente mandati a Vienna; ma quando non potevano farlo essi, commettevano ad altri quel compito; che dal padre Carlantonio fu affidato ad un Bianchi. E sarà questi quel Bernardino Bianchi, del quale si trova nell’archivio estense unita agli Avvisi una lettera che da Recanati nel 1663 indirizzava (come sembra) al Montecuccoli, e nella quale lo invitava a mandargli un componimento suo per una raccolta poetica che intendeva fare per le nozze dell’imperatore Leopoldo. Io non so poi se sia desso quel Bernardino Bianchi carpigiano, che nel 1687 uscì dall’ordine de’ gesuiti al quale era scritto, come si legge nella Biblioteca modenese del Tiraboschi. Di questi Avvisi avremo a valerci insino alla metà dell’anno 1676, quando cessa nell’archivio la serie di essi. Ricaviamo intanto da quelli di quest’anno, come a vincere l’esitazioni del general Raimondo circa il riprendere il comando, si adoperò quell’ambasciatore di Spagna che vedremo in breve farsegli nemico. Valsero nondimeno più che altro a dileguare i dubbi di lui le reiterate istanze dell’imperatore, non disgiunte da generose offerte. “Al conte Montecuccoli, scrive il padre Carlantonio, è stato esibito un bene (terre cioè in Ungheria) di 100.000 fiorini colla sopravvivenza del reggimento al figlio; e un viglietto imperiale gli promette il titolo di Principe dell’Impero, finendosi con pace onorevole o con qualche buon successo in questa campagna. Da Spagna si crede che haverà intanto titolo di Principe, ed un’annua pensione di quattromila fiorini”. Che Raimondo avesse mai que’ beni in Ungheria, è molto da dubitare, non trovandosene ricordo né pure nel suo testamento. Quanto al principato dell’impero, nel viglietto di Leopoldo di cui si ha una copia nell’archivio estense, è detto che alla prima creazione di principi gli verrebbe conferito in riguardo ai servigi da lui resi, dai quali esso imperatore affermava aver ricevuto molti vantaggi; ma voleva che intanto la cosa rimanesse segreta. Vedremo poi che, troppo tardando l’imperatore a mantenere quella sua promessa, Raimondo cinque anni appresso ebbe a rammentargliela.
Insino dal precedente anno nell’ultima lettera del presidente Arese, che abbiamo alle stampe, questi aggiungeva in poscritta di suo carattere: “S. M. (il re di Spagna, del quale, come milanese, era suddito) ha dichiarato un Principato con tremila scudi d’entrata al signor conte Montecuccoli”: e non fu vero. Ed ora la notizia che ci porge il gesuita, è detto in altra sua che gli veniva dall’ambasciator di Spagna, ma soggiungeva tosto: “Vedremo se si avvererà”: dubbio opportuno, giacché non scrisse poscia che la cosa fosse avvenuta, come non avvenne infatti. Né Raimondo, né il figlio suo presero mai titolo da principato alcuno avuto da Spagna; né di questo è parola nel prolisso epitaffio del generale che riporteremo nell’Appendice. Eppure non manca chi faccia ricordo di quella donazione spagnola. Scriveva l’Huissen, che non allora, ma nel 1678, Raimondo fu fatto duca d’Amalfi; la qual notizia è tanto più inverosimile in quanto che quel ducato, già appartenuto al general Piccolomini, era allora de’ suoi eredi, che solamente nel secolo decimo ottavo lo alienarono. Il Mailàth riprodusse questa notizia; ma per evitare l’errore in cui era incorso l’Huissen (e dopo di lui il Moreri e più altri), inciampava in un altro, dicendo Montecuccoli duca di Melfi, che invece, come si legge negli Annali del Muratori, era feudo di don Vincenzo Gonzaga. Più al largo si tenne un poeta modenese, Giuseppe Maria Pannini; il quale, ignorando forse qual titolo competesse al generale suo concittadino, in un sonetto che gli dedicava, e che è stampato tra le sue poesie edite in Bologna, lo chiamò duca senz’altro aggiungere. In tutto questo non vi fu altro di vero, se non l’intenzione che si ebbe in Spagna di rimunerare allora con un cospicuo donativo un generale cotanto benemerito della casa d’Austria, alla quale i regnanti di Spagna appartenevano pur essi; e la notizia che di ciò si sparse, trasse molti a credere avvenuto quel che non era se non un progetto. Risorse poi questo nel 1675, siccome saremo per dire, ma ad esso anche allora non fu dato seguito.
Vinte, come dicevamo, le esitazione del Montecuccoli, si trattò delle condizioni colle quali consentiva di riprendere il comando, e che erano due, secondo scrisse il Dragoni già per noi nominato: la prima, di non avere a sottostare ad alcun principe dell’impero, alludendo forse all’elettore di Brandeburgo, col quale nella campagna del 1673 non era proceduto sempre d’accordo ; e neppure, secondo scrisse Mailàth, a dipendere dal consiglio aulico di guerra, che in sua assenza sarebbe stato diretto da altri; e la seconda, che gli si dessero 60.000 talleri per provvedere ai bisogni dell’esercito. Aggiunge il Bianchi negli Avvisi, avere egli chiesto altresì la libera disposizione della cassa di guerra, che dell’occorrente venissero forniti i magazzini, e che gli fosse data facoltà di riunire in un solo i diversi corpi, per potere con più vigore trattar la guerra. Ogni cosa gli fu allora consentita, anche i denari, essendo in buon punto venuto a morire quel conte Rothal che avemmo a nominare allorché dicevamo della guerra contro i turchi, lasciando erede l’imperatore; e questi le molte sostanze di lui destinò alla cassa di guerra, ad impinguare la quale si voleva anche chiedere un’anticipazione sui redditi delle saline del Tirolo. Al tempo medesimo, come si ha dal Bianchi, mandavasi all’esercito del Reno il comandante di Komorn perché cercasse scoprire ove fosse andato a terminare il molto denaro spedito già al campo, e che mai non v’era pervenuto. Si facevano intanto altre leve per completare i reggimenti, e ancora per quei 4000 soldati che si volevano spedire a Napoli in aiuto degli spagnoli, contro i quali si era sollevata Messina. Perché poi sapevasi deliberato Turenna ad uscire per tempo in campagna, si pose Montecuccoli a disporre con sollecitudine quanto occorreva per trovarglisi a fronte al tempo opportuno, benché sapesse che con soldati o stanchi pei patiti disagi, o raccolti qua e colà, e non bene addestrati, non avrebbe subito potuto affrontarlo. Né da questo, come narra lo storico Gazzotti, lo trattennero le proposte messe allora innanzi dalla Svezia di una neutralità dell’imperatore, gli stati del quale verrebbero rispettati dai francesi; perché sottoposta la cosa, secondo ei narra, al Montecuccoli, ad Hoche e a Köningsegg, come oltraggiosa all’imperatore la respinsero tosto.
Per mezzo di sua moglie fece Raimondo pregare il padre Carlantonio di volerlo accompagnare al campo; ed esso, dopo pensatovi alquanto, com’ebbe a scrivere, accettò, e calde raccomandazioni ebbe poi dall’imperatore acciò vegliasse alla conservazione della salute del suo parente, che, si trovava ancor debole per incomodi emorroidali poco innanzi sofferti. Partirono l’11 di aprile, il dì seguente erano s Sprinzendorf a dieci leghe da Vienna, ed allora Raimondo sentivasi in miglior condizion di salute. Andarono poscia in Baviera per indurre quell’elettore ad unire alle truppe imperiali 10.000 soldati suoi, che furono poi i primi a giungere sul luogo della guerra. Da Ulm scriveva il gesuita, come gli stati di Svevia avean promesse le milizie loro a Raimondo, che in quel frattempo aveva avuto opportunità di fare molti acquisti di derrate, e andò poscia tra Francfort e il Meno per farvi la rassegna generale dell’esercito . Rimase il padre Carlantonio in Ulm, ove trovò il general Caprara a curarsi d’una malattia che lo aveva incolto; e di là mandava alla corte di Modena quei ragguagli de’ quali siamo per valerci, al pari di quelli del Bianchi, e degli altri fornitici da un discorso inedito che si conserva in Modena presso il marchese Lodovico Coccapani, intitolato: Risposta del cavalier Borgognone alla replica fattagli da un amico sopra la lettera di Basilea . E’ questa una difesa della condotta di Montecuccoli in quella campagna contro nuove accuse dai nemici di lui, che mai non cessarono dal vilipendere un uomo che aveva per essi il torto di innalzarsi troppo al di sopra di loro. L’autore di quella scrittura che militava allora, siccome sembra, sotto Montecuccoli, forse da lui medesimo ebbe notizia di alcuni particolari più reconditi, come dalla narrazione sua si può congetturare.
Dagli storici tedeschi da me veduti poco si ritrae circa quest’ultima campagna dei tre maggiori capitani che fossero a quel tempo. Turenna e Montecuccoli specialmente meritavano ben più distinta narrazione delle cose in quell’anno da essi operate, avendo eglino allora fatto prova di tale una perizia nell’arte della guerra, da non esser facilmente superata da altri; ond’è che di quella campagna facessero studio speciale gli scrittori di cose militari. Al Mailàth, come storico della monarchia austriaca, incombeva l’obbligo di narrare per disteso i fatti avvenuti in questa campagna gloriosa per le armi imperiali, e deve destar meraviglia che in sola una mezza pagina della sua storia si trovino essi compendiati. Più distesamente intorno a que’ campeggiamenti si occuparono scrittori italiani e francesi, che ci verranno man mano ricordati; i quali li fecero anche argomento di speciali osservazioni strategiche, essendoché fosse quella campagna, a giudicio del generale francese Folard, il capolavoro di Turenna e di Montecuccoli, e tale che una simile non se ne trovi nella storia antica. A me sembra nondimeno che i documenti inediti de’ contemporanei di Raimondo, e singolarmente dei testimoni che videro le cose narrate, o che da lui stesso le seppero, co’ quali documenti io sarò per confortare in gran parte la relazione che imprendo a fare di quella campagna, porgano di questa un’idea alquanto diversa da quella con che da più storici venne rappresentata.
Allorché ritornava il Montecuccoli a capo delle truppe imperiali, scorate le trovava pei danni sofferti ne’ quartieri invernali, e per le sconfitte patire così allora, come nel passato anno. Era invece Turenna al colmo della sua gloria, a tal segno che pensò di non volere più esporsi a perderla, e chiese al suo re, secondo narra il Ramsay, di poter ritirarsi tra i preti dell’Oratorio, il che altra volta aveva disegnato di fare. Ma di nuovo ciò gli venne negato da Luigi XIV, ed egli, al volere di lui rassegnandosi, ebbe a dire, se crediamo al cavalier Borgognone: “Il provarmi di nuovo col Montecuccoli dee forse costarmi la vita, ma faccia il destino quant’egli sa, non può levarmi di morire da uomo d’onore e di coraggio”. Ma com’ebbe accettato l’incarico di condurre quella nuova impresa, si pose all’opera con vivo desiderio d’uscirne con onore, valendosi di tutte le industrie che le estese sue cognizioni dell’arte della guerra e la lunga esperienza gli suggerivano. E da eguali sentimenti era animato Montecuccoli; onde poi tante arti e l’uno e l’altro adoperarono per riescire nell’intento che si proponevano, facendosi, all’occasione, il Turenna circospetto come il suo avversario, e questi ardito come Turenna. Mirava ciascuno di loro a trar l’altro in inganno circa i proprii disegni; onde quelle tante mosse strategiche che formano l’ammirazione degl’intelligenti delle cose militari, quell’offerire battaglia da chi avesse occupato il luogo migliore, e il ricusarla dall’avversario; e l’arte di accampare al sicuro da sorprese, e la vigilanza continua, spiando le mosse dell’inimico, e le industrie per togliergli i viveri, e quant’altro i più provvidi capitani pensarono mai per cansar pericoli e per conseguire la vittoria. Parziali conflitti si ebbero, ma non battaglie, se non dopo che Turenna fu ucciso. E già negli Aforismi aveva il generale italiano proclamato: “Il dar battaglia vuolsi fidarlo alla guerriera fortezza congiunta a molta sapienza virile per non sacrificare ad occhi chiusi l’esercito senza utile e senza bisogno: chi a prezzo di molto sangue affetta fama di grande capitano, affoga i cadaveri dei vinti nel sangue dei vincitori”; ed era questa l’opinione espressa altresì da Galasso.
Il primo scopo che Montecuccoli all’uscire in campagna si proponeva, dopo avere riordinato l’esercito rinfrancandone gli spiriti abbattuti, e dopo attesi invano i rinforzi promessi dai principi tedeschi, era quello di assicurarsi il passo del Reno pel ponte di Strasburg; nella qual città libera dell’impero germanico, allora fervevano quegli spiriti nazionali che una lunga soggezione ad altro popolo le fece perdere. E a Strasburg andò egli a trattare coi magistrati della città per mantenerli in fede, e per assicurarli che non si sarebbero rinnovati sul territorio loro i disordini che nel passato anno generali incapaci di tener a freno i soldati, non avevano potuto impedire. E là, fidando in quel popolo, fece egli radunare vettovaglie in copia pel suo esercito, e costruire molini e un ponte di battelli, mentre quello stabile l’aveva fatto precedentemente occupare il generale Bournonville da tre mila uomini del Caprara, come negli Avvisi del Bianchi si legge. Ma vane tornarono poi queste previdenze del Montecuccoli, perché Turenna, che già nell’inverno precedente, allorché erano in basso le fortune degl’imperiali, accostandosi minaccioso a quella città, le aveva imposto di mantenersi neutrale, venne di nuovo coll’esercito suo a quattro leghe da essa, ed obbligò i magistrati a non dipartirsi dalla promessa che loro aveva estorta. Si saranno in tale occasione ritirati dal ponte i soldati del Caprara, che sarebbersi trovati disgiunti dall’esercito imperiale; e noi vedremo infatti che più tardi vi ritornarono. Un buon presidio di soldati strasburghesi restò nondimeno in un fortino che difendeva quel ponte. Fece allora Montecuccoli passare il Reno a Spira alle sue truppe, o ad una parte di esse, e offrì battaglia a Turenna; questi non l’accettò, ma poi avvisando che avesse errato il generale cesareo col lasciare indifeso l’oltre Reno, facendo osservare a’ suoi ufficiali come anche i grandi generali fossero esposti a commettere sbagli, passò egli stesso quel fiume. Allora temendo Montecuccoli che potesse egli investire Offenburg che a lui premeva conservare, così celeremente ripassò sull’altra sponda, e corse a quella volta, che Turenna, vedutasi tolta di mano la preda agognata, ebbe a dire che troppo bene l’avversario aveva saputo rimediare al suo errore. E nota il Borgognone, come scrivesse allora quel generale alla sua corte, così acconciamente aver Montecuccoli ordinate le cose sue, che sarebbe stato imprudenza l’attaccarlo. Un colpo molto ardito fu detto da Ramsay quel passaggio del Reno fatto da Turenna: in grave pericolo sarebbesi egli infatti ritrovato, se fosse riescito a Montecuccoli, come tentò di fare, di togliergli i due ponti che gli servivano di comunicazione coll’altra sponda, e perciò colla Francia. A Vienna invece si biasimava Montecuccoli, perché non aveva impedito ai francesi di passare il Reno, il che invero non si vede come in tutti i luoghi avesse egli potuto fare. Incominciò allora un giuoco di astuzie e di sfide, che a lungo durò. S’accampa Turenna in luogo forte tra boschi, e due volte per trarlo di là innanzi che gli giungessero i rinforzi che attendeva, gli presenta Raimondo il fianco del suo esercito: ma egli non si muove, quantunque a disagi mal tollerabili fosse sottoposta la gente sua, come si legge nelle Memorie che un aiutante di lui ci lasciò, e si dovessero nutrire i cavalli con foglie d’alberi. Riesciva intanto a Turenna di comprare con molt’oro alquanti cittadini di Strasburg, che avendo in consegna i grani degl’imperiali, li mandarono a Basilea, dove li compraron poscia i francesi; previde egli allora che anche al nemico sarebbero per mancare i viveri, e persistette nel suo proposito di non muoversi da un luogo nel quale Montecuccoli non avrebbe potuto attaccarlo, senza esporre a rovina il suo esercito. Tutti gli sguardi erano rivolti a quel breve tratto di paese occupato dalle genti di quegli emuli famosi, e nessuno dubitava che una battaglia decisiva non fosse imminente. Da Ratisbona il 23 di giugno scriveva il padre Carlantonio: “Pare giunta l’hora di decidersi la lite con Turenna, il quale trovandosi tra Offenburg piazza imperiale e Argentina (Strasburg) ha il Reno al fianco destro, al sinistro il conte Montecuccoli, e alla fronte il Caprara con buon nerbo di cavalleria, e luoghi paludosi”. Diceva poscia scopertosi venduto ai francesi un Reel, il quale aveva in guardia quel forte che difendeva, come dicevamo, il ponte di Strasburg; e qui si mise tosto guarnigione di soldati dell’impero, che saranno stati bavari o annoveresi, i soli che fossero allora arrivati al campo del Montecuccoli. Avvisava egli infatti che gli altri principi ai quali erano stati assegnati i luoghi, ove le genti loro dovevano opporsi ai francesi, amavano meglio che questa bisogna se la prendessero gl’imperiali, che però meno liberi si ritrovavano ne’ movimenti loro. Di Raimondo diceva alcuni giorni appresso: “Egli è animatissimo a cimentarsi col Turenna: scrive francamente all’imperatore che cerca ogni via per combatterlo, e dalla sua generosa risoluzione incoraggita tutta l’armata anela a segnalarsi, ognuno colla maggior intrepidezza e costanza. La vicinanza in cui si trovano ambi gli eserciti fa credere d’haver in breve a sentire qualche strepitoso conflitto”. Ma così non fu, quantunque non cessasse Montecuccoli di adoperare tutte le arti per indur Turenna ad attaccarlo, facendo anche andare i suoi soldati in luoghi dove avrebbe dovuto sembrar facile ai francesi il batterli, e il liberarsi così dalle pestifere paludi che a molti cagionavano infermità, e spesso la morte. Li aveva infatti Montecuccoli ricacciati più addentro in quelle paludi, quando giunse a toglier loro il passo del fiume a Redenloch. Ai foraggi pei cavalli provvide nondimeno Turenna, facendo occupare Altkirchen, invano a lui opponendosi due mila cavalli imperiali, che nompertanto gravi perdite gli cagionarono, come il Bianchi racconta. Ed altri parziali conflitti riescirono parimente micidiali ai francesi, i quali per questi, per diserzioni, e per malattie si trovarono scemati allora di più che tre mila combattenti, al dire del padre Carlantonio; e questo numero dal cav. Borgognone viene elevato a quattro mila, e a cinque mila dal Bianchi. E dice poi il primo di essi, che i soldati imperiali inferociti più non davano quartiere ai vinti, e se a qualcuno di essi lo concedevano, non lo facevano senza mali trattamenti e ferite, disubbidendo in questo agli ordini precisi del generale. Ma fermo il Turenna nel non voler battaglia per allora, temporeggiava con qualche movimento strategico per allargar la cerchia delle sue operazioni, e ancora per assicurarsi, al bisogno, una via per levarsi di là, imperocché nella posizione in cui si trovava non poteva farlo, senza esporre la sua retroguardia a venir assalita dagl’imperiali. Dell’inazione di Turenna asserivano i francesi esser cagione l’aver Montecuccoli più di quello di loro, numeroso il suo esercito; ma ciò negava il Borgognone, affermando che da essi medesimi erasi numerato quello di Turenna a ventisei mila uomini, mentre soli venti mila ne aveva Montecuccoli. Ancora potrebbe aggiungersi, che tra gl’imperiali erano corpi non destinati ad entrar in battaglia, come que’ mille ungheri a cavallo i quali, come si legge nell’opera delle Azioni di soldati italiani, non si adoperavano se non per scorrerie. Intanto così erano vicini i due eserciti, che le ultime sentinelle dell’uno avrebbero potuto tener conversazione con quelle del nemico, come scriveva il gesuita che seguitiamo: eppure, dice il Ramsay, i soldati dormivano tranquille le notti, tanta era la fiducia che loro inspiravano i due supremi capitani. A lungo andare divenne finalmente una necessità il rimuovere il campo da luoghi che le pioggie e i cresciuti ardori estivi rendevano sempre più infesti, e dove, come il gesuita racconta, giungeva il fango sino al ventre dei cavalli: e inoltre più grave era divenuto colà il difetto de’ viveri. Di questo incolpava egli i fornitori dell’esercito imperiale e i ministri degli stati tedeschi; e soggiungeva che ad Ulma, ove allora si trovava, v’erano derrate in tanta copia, che avrebbero bastato all’esercito per un anno, ed agevolmente sarebbersi potute trasportare al campo. Coloro però che avevano assunto l’impresa della fornitura de’ viveri, colà non facevan acquisti, essendosi provveduti, a risparmio di spesa, nell’interno della monarchia austriaca; e valevansi del Danubio pe’ trasporti, che riescivano lenti e difficili. A Ratisbona, ad esempio, erano molte lor barche cariche di grani, ma innanzi che di quelli potesse fruire l’esercito, sarebbero corse più settimane e forse mesi, secondo ei diceva. Annunziava poi il 17 di luglio che Raimondo aveva collocato altrove il suo campo, guastatogli il precedente dalle pioggie; e che avendo fatti salire, per men disagio, i fanti sui cavalli dei bagagli, s’era egli accostato di più al Reno. Accorse Turenna per impedirgli un passo dei più perigliosi, ma non giunse in tempo: trecento francesi che erano a guardia di un altro, al suo appressarsi fuggirono. Dice poi il gesuita che Raimondo mirasse ad occupare un luogo da lui indicato col nome di Wistab (ossia Wiltsted), per separare Turenna da Strasburg (e pare s’abbia a leggere invece Philisburg), ove aveva suoi magazzini: ma il segreto della sua marcia fu tradito da un ufficiale ai francesi. Non essendo poi questo il primo tradimento che accadesse nel suo campo, prese egli il partito di non indicar più ad alcuno ove fosse per condurre le truppe, di ordinare improvvise le partenze, e di mutare anche strada lungo le marcie. Seguitava talvolta egli stesso i corpi che spediva, in questa o in quella parte; la qual cosa tornogli una volta almeno opportuna, avendo potuto recar soccorso ad una parte de’ suoi ch’era stata battuta. Termina poscia lo scrittore che seguitiamo, col dire, che i frequenti ed improvvisi assalti che dava il generale cesareo ai corpi staccati dei francesi, tenevano questi in tanta apprensione, che se non erano superiori in forze, si ritraevano; laddove tanta baldanza avevan presa gl’imperiali che, anche inferiori in numero, li assalivano. Molti asseriva i francesi che disertavano, e non solo uomini di nuova leva, ma veterani che dicevano non poter più reggere a quella vita e in que’ luoghi. Ad essi, allorché presentavansi al campo imperiale, era dato un passaporto, ma solo per luoghi donde ritornar non potessero ai compagni loro. Degl’imperiali più non fuggiva alcuno, dopo che all’aprirsi della campagna alquanti degli arrolati recentemente avevan preso il largo. Ma riceveva Turenna denari e gente da Francia, ed invece agl’imperiali venivano rinforzi scarsi, e molti rimproveri perché ancora non si fossero sterminati i francesi, o ricacciati se non altro di là dal Reno, e per quelli che i nemici del Montecuccoli chiamavano gli ozii di Offenburg, dal luogo presso il quale aveva egli riunito il nucleo del suo esercito.
Continuando intanto Montecuccoli la marcia che dicemmo aver intrapresa, mirava a collocare le sue genti presso il fiume Renken, dove più agevole sarebbegli tornato il procacciarsi i viveri. Ma perché in tanta vicinanza del nemico non era facil cosa il pervenir colà, gli bastò l’animo di mettersi con tutti i suoi per sentieri reputati impraticabili, e per essi, dopo fattosi largo tra i francesi, che un luogo periglioso per lui gli contrastavano, raggiungere il fiume ove pose il campo, che tosto ei venne fortificando. Bella impresa di valente capitano codesta, la quale mostra vero quanto lasciò scritto Folard, che pochi cioè si approssimarono al Montecuccoli nel saper disporre le marcie sempre al sicuro dal nemico, e pronto a resistergli. Raggiunto colà da Turenna venutovi di mezzo a boschi, fermò tosto Montecuccoli il piano della battaglia che gli voleva dare in campo aperto, attaccandolo da tre parti . Ciò che allora accadesse diremo, seguitando due diverse relazioni. Si ha nell’opera delle Azioni di generali e soldati italiani, che avendo Turenna spartiti in tre luoghi i corpi del suo esercito, Montecuccoli designasse di assalire il più avanzato di essi comandato dal cavalier Du Plessis, mandandogli di fronte il duca di Lorena e alle spalle il Caprara, nel tempo che due falsi attacchi farebbe egli stesso; ma Lorena s’incontrò in Turenna, e tornò indietro, e non udì Caprara il segnale convenuto: nulla pertanto si poté fare. Questo racconto sembra ottener conferma da quanto narra il generale Feuquières, andasse cioè Turenna a sostenere il corpo di Du Plessis che si trovava in pericolosa posizione alla sinistra degl’imperiali, e che vi giunse quando Lorena già assaliva le guardie avanzate; il quale, vedendo così cresciuti i nemici, si ritirò . L’altra relazione è quella del Ramsay, che non parla della divisione dell’esercito francese in tre corpi, ma dice che Montecuccoli voleva assalire Turenna, e nol poté, essendosi egli solo trovato al luogo convenuto, perché era stato il Lorena tratto fuori di via da guide mal fidate, e perché non udì Caprara il segnale. Scopo finale del Montecuccoli era poi, a suo avviso, una diversione che far voleva su Freystett. E qui osserva Ramsay che, mentre Turenna a 64 anni era tuttavia vegeto e sano, e stava intere giornate a cavallo per tutto vedere cogli occhi proprii, Montecuccoli a 66 anni trovavasi debilitato, ed impedito spesso dalla gotta, e doveva perciò attenersi alle relazioni altrui. Ma questo io stimo che al tempo di cui favelliamo non accadesse, e le parole che riferimmo del padre Carlantonio, ci confermano in questo pensiero. Del rimanente anche le rapide e disagevoli marce delle quali facemmo parola, stanno a prova che buona in questo primo periodo della guerra del 1675 esser doveva la condizione di salute di quel generale. Non potendo egli intanto dar la battaglia così a lungo desiderata, e che al momento opportuno gli sfuggiva di mano, mosse nuovamente il campo, e si fermò a due leghe di là, nel tempo che Turenna conduceva i francesi a Gamhurst, ove intese che con celerissima mossa Montecuccoli, al quale s’era unito Caprara, procedeva alla volta di Sassbach. S’avviò egli allora per incontrarlo, giungendo poi al fondo di quel villaggio allorché dall’altro lato vi arrivava Montecuccoli, il quale fu il più pronto a far occupare la chiesa, che era il luogo ove meglio potevansi apprestare le difese. Quando pertanto Turenna, dopo avere nel suo campo assistito alla messa, ed essersi comunicato, andò per riconoscere il paese, trovò già presidiata dagl’imperiali quella chiesa, che era a capo di un defilé (come lo dicono), pel quale i suoi soldati avrebbero dovuto passare. Voltosi allora ad esaminare le posizione fatte occupare dal Montecuccoli, vide aver esso la sua destra assicurata in modo da non poter venire attaccata; ma gli parve (e vedremo che prendeva errore) che dal lato sinistro si sarebbe potuto trovare un varco, pel quale far passare le sue truppe: e da quella parte risolse condurle. Per riposarsi intanto della sua stanchezza, si ritirò nel suo campo, lasciando ordine lo svegliassero se alcun movimento facessero i nemici: e non si tardò infatti ad avvisarlo che movevano essi verso la montagna, come dice Ramsay, che alluderà probabilmente a quell’eminenza che il Borgognone narra essere stata allora occupata dai cesarei, collocando su di essa una batteria di cannoni. Salito Turenna su di un’altura per osservare le mosse del nemico, lo raggiunse il visconte Saint-Hilaire, generale delle artiglierie, che aveva sulle spalle un mantello rosso, e questo dette indizio agl’imperiali che là era un generale. Voltati pertanto i cannoni verso quella parte, una palla di questi portò via un braccio al Saint-Hilaire, e colpì Turenna nello stomaco. Cadde egli sul cavallo, da cui fu riportato al luogo dond’era venuto, e dove morto precipitò a terra. Fu detto che il colpo micidiale partisse dalla batteria del principe di Baden; afferma invece il Borgognone che fu il quartiermastro Cocolitz quello che ordinò si tirasse sui generali nemici non con un cannone, ma con una colubrinetta che al terzo sparo uccise Turenna. Ciò fu il 27 di luglio alle ore quattro pomeridiane. Cercarono i suoi ufficiali di tener celata la morte sua; Montecuccoli per altro ne fu tosto informato da persona che per speranza di premio andò a lui dal campo francese, ed era il barbiere di Turenna, come da una lettera di là venuta ritrasse il padre Carlantonio. A tal notizia, dice il Ramsay, Montecuccoli non provò altro senso che non fosse di dolore, e ripeté più volte: è morto un uomo che faceva onore all’umanità; le quali parole si trovano ancora nella relazione che di questo fatto fece egli all’imperatore . Fu in effetto Turenna quel sapiente e valoroso capitano che ci è noto per le storie, e al quale i posteri confermarono que’ plausi che i contemporanei gli tributarono; non senza però che si deplorasse la devastazione da lui ordinata di tanti territorii, e la parte da lui avuta nelle guerre civili del suo paese. In buon punto lo colse la morte, quando su lui brillava tuttavia un’aureola di gloria, in procinto di commettersi in una battaglia della quale non è chi possa dire di sicuro quale sarebbe stato l’esito. Io so bene che la vanità nazionale fece dire ad alcuno scrittore francese che il vincitore sarebbe stato Turenna; e so che Fléchier, adulatore sul pulpito, e il gesuita Tournemine, ignari senz’altro di ciò che fosse la strategia, osarono affermare, questi che a Montecuccoli fu risparmiato il rossore d’una sconfitta; e il primo che atterrito Montecuccoli pensava a ritirarsi, e che la Francia attendeva il buon successo di un’impresa che, secondo tutte le regola della guerra, s’aveva a ritenere infallibile: ma so ancora che i fatti a nostra notizia danno una mentita a coteste gonfiezze rettoriche. Sia pure, come alcuni scrittori francesi asserirono, che avesse manifestato Turenna la fiducia di riportar vittoria, il che poté anche avere egli detto per inspirar coraggio a’ suoi soldati, poiché evitar non poteva la battaglia; ma la stessa sicurezza nel trionfo espresse il Montecuccoli al Cavaignac, secondoché quest’ultimo lasciò scritto. E a me sembra che più ragioni stessero allora a far credere meglio fondata l’opinione del Montecuccoli. Aveva egli infatti occupate le posizioni migliori, e disposte le truppe in modo che Turenna medesimo non credé si potessero assalire con vantaggio se non da un lato; che se poi da quella parte avesse egli lanciate le sue truppe, a gravi disastri sarebbe facilmente andato incontro. Leggiamo infatti nell’opera tante volte citata delle Azioni di generali e soldati italiani, che la debolezza apparente di quella posizione non era che un’insidia dal Montecuccoli tesa al Turenna, trovandosi là infatti nascosto un grosso corpo d’imperiali, che da più parti sarebbe piombato sui francesi, se avessero preso quella strada; e già per noi fu detto che di cotali artificii aveva già fatto uso il Montecuccoli per tentare di trarre Turenna ad assalirlo: e tante prove abbiamo della previdenza di lui, da non si poter supporre che non avesse provveduto anche allora alla sicurezza del suo campo. Spontaneo poi, e per desiderio di combattere era andato il general cesareo a Sassbach, ed al contrario il francese vi era stato tratto dalla necessità d’impedire i progressi del nemico. Come credere pertanto che Montecuccoli cercasse cansare un conflitto così a lungo desiderato, e cui Turenna aveva sempre trovato modo di evitare? E ben poteva egli prevedere che disastrosa sarebbe per riescire la ritirata col nemico alle spalle, come vedremo esser poi stata quella de’ suoi avversarii. A coloro che asserirono infallibile la vittoria dei francesi, chieder potrebbesi, perché di questo nessun general francese fu così persuaso da accettare, dopo morto Turenna, una battaglia che non si poteva perdere. Turenna, del rimanente, tante e così belle vittorie aveva riportate, da non aver mestieri che adulatori poco prudenti un’altra di queste, affatto ipotetica, gli avessero ad attribuire. Più circospetto del Tournemine e del Fléchier, un biografo francese di Turenna lasciò scritto, che se quel generale “non fosse morto, era per far conoscere alla Germania che una buona testa è molto da temere”: il che sarebbe anche più probabilmente accaduto se non gli fosse stato a fronte un “général consommé dans son métier” come del Montecuccoli dice l’autor medesimo. Fu senza dubbio l’epoca per noi insino ad ora percorsa una delle più fortunose che nella storia dell’impero germanico s’incontrino; ma Raimondo Montecuccoli che a San Gottardo gli aveva evitato i grandi disastri minacciatigli dagli Ottomani, da quelli ancora lo scampò che gli sarebbero derivati da una invasione francese: onde ben si può dire col Paradisi, che fallì Turenna lo scopo al quale mirava, e che era l’invasione della Germania, e conseguì Montecuccoli il proprio della difesa dell’impero. E ciò fece egli, osserva acconciamente il Foscolo, con un esercito scosso dai rovesci del precedente anno, e che tardò a trovarsi completo; laddove baldanzoso per le recenti vittorie era uscito in campo il suo avversario, ben provveduto d’ogni cosa, e con alle spalle il sicurissimo rifugio delle fortezze, che mancava al Montecuccoli.
Dissero i nemici del general cesareo, che non fu merito di lui se Turenna rimase ucciso: senza dubbio non l’affrontò egli armata mano, ma fu ben esso che lo trasse a Sassbach, che le posizioni migliori occupò, che assegnò il luogo a quelle artiglierie dalle quali ebbe morte quel gran capitano; e sempre fu ascritta a gloria del comandante di un esercito in faccia al nemico ogni ben riescita impresa del medesimo, vie più se preparata dalla previdenza e dal senno di lui. E disse appunto Rotteck, a colui spettare la vittoria, che sapientemente dispose il modo di conseguirla . Ma se non si peritaron gl’invidi della gloria conseguita dal Montecuccoli in tutta questa impresa di cercar modo di contrastargliela, scrittori in buon numero, così di storia come di arte militare, levarono a cielo la virtù di un capitano, degno (per dirlo col francese Folard) di venir opposto a Cesare, e che lo fu onorevolmente a Turenna.
Federico II, nel suo poema sull’arte della guerra, cantò poi con entusiasmo del salvatore della Germania nella sua lotta colla Francia, che tenne in sospeso la fortuna tra sé e Turenna: e all’ammirazione dei giovani guerrieri proponeva le marce, gli accampamenti, il continuo mutarsi d’uno in altro luogo di quel gran capitano, che contenne i francesi, e le difese loro affrontò . Ci fa difetto per venti giorni il carteggio che tanto ci tornò utile del padre Carlantonio, che forse, dopo la morte di Turenna, andò a Vienna con qualche incarico di Raimondo; e prima eraci venuto meno quello del conte Dragoni, il quale nell’ultima sua lettera del 16 di giugno, annunziava aver ottenuto, mercé il Montecuccoli, di servire il duca d’Annover in Danimarca. E quel Montecuccoli sarà senz’altro il gesuita, che più tempo col principe Luigi d’Este dimorò alla corte di quel duca.
Il general Raimondo che, lungamente essendo stato in campo contro gli Svedesi, avea veduto come la morte de’ loro capitani più venerati, quali furono certamente Gustavo Adolfo e Baner, anzi che abbatter gli animi de’ soldati, di un sovrumano ardire li infiammava, così che nel proposito di vendicarlo divenivano invincibili; non senza meraviglia avrà veduto i francesi non accettare il combattimento già iniziato dall’artiglieria, e non d’altro darsi pensiero se non di ritirarsi. E però a lui non rimaneva se non di tener lor dietro, quei danni ad essi cagionando che potesse maggiori. A coloro pertanto ch’erano travolti negli amari passi della fuga, sarà sembrata una sanguinosa ironia quella voce che corse allora in Francia, se pure madama di Sevigné, la quale la riferì, non l’ebbe di suo capo inventata ad imitazione del Fléchier, che avesse cioè offerto Montecuccoli ai francesi di lasciarli senza molestia ripassare il Reno, non volendo esporre la sua fama alla furia e al valore della gioventù francese, alla quale nulla nel primo impeto può resistere. Invece, giovani o vecchi ch’ei fossero, li stava egli allora incalzano alle spalle; e fu per loro gran ventura il trovarsi provveduti di ponti portatili, che mancavano al Montecuccoli, onde sovente al passo di molti rivi o fiumicelli o canali in che s’avveniva, più di loro indugiar si doveva, lasciando ad essi modo e tempo di più presto mettersi in salvo. Poté Montecuccoli raggiungere soltanto la retroguardia loro a Wildist (Wildenstein?): e parve, scrive il Borgognone, che volesse questa opporre resistenza; ma avendo gl’imperiali assalito con gran vigore la città e il castello, i francesi, bruciati prima i viveri, si ritirarono. Aveva assunto il comando, dopo morto Turenna, il De Lorges suo nipote, al quale però lo contendeva il marchese di Vaubrun , più di lui intelligente dell’arte sua, ma che già in un precedente conflitto cogli imperiali rimasto ferito, nella prima fazione campale in cui poi si trovò, rimase ucciso. Questa ebbe luogo presso Altenheim, e fu terribile e sanguinosa; imperocché da un lato la disperazione ridonava vigore ai francesi, e dall’altro gl’imperiali erano ravvivati da quell’ardore che suol produrre il buon esito di recenti conflitti e la confidenza nel senno del duce supremo.
Di questa battaglia abbiamo la descrizione che ne lasciò il Borgognone, e quella più estesa, parimente inedita, che il Bianchi inserì ne’ suoi Avvisi, entrambe le quali qui ci studieremo di compendiare, incominciando da quella del cavalier Borgognone. Dice egli da prima del consiglio di guerra adunato dal Montecuccoli, nel quale fu deciso che l’indomani, 1° agosto, anniversario della battaglia di San Gottardo, si attaccherebbe il nemico, che aveva fatto sosta in una forte posizione difesa dal bosco di Goloschier. E così si fece. Durò tutto il giorno con varia fortuna, accanita sempre la pugna, ma alla sera vennero finalmente respinti i francesi. E qui ai detrattori del Montecuccoli che l’accusavano di non dar battaglie, chiedeva il Borgognone qual nome dar volessero a quel lungo e micidiale combattimento di due grossi eserciti; e soggiungeva che se vero fosse quanto da loro veniva asserito, ch’egli ignorasse cioè di avere a fronte l’intiero esercito nemico, più glorioso ancora tornerebbe quel fatto al generale, che perciò non si smarrì dell’animo, e vinse ad ogni modo. Quantunque in età di 67 anni,1 stette egli in quella giornata quattordici ore a cavallo, e sempre colla corazza: lo si vedeva per ogni dove a tutto provvedere e a dirigere le operazioni, esposto più volte al fuoco del nemico. Mantenne egli per tal modo la consuetudine sua di non sfidare alla cieca i pericoli, ma di affrontarli animosamente se si presentassero. Così il Borgognone. Il Bianchi, riferendosi ad un rapporto mandato subito dopo la battaglia dal Montecuccoli, dice che i francesi, entrati in qualche confusione per la morte di Turenna, atterrarono i fortini (o forse le fortificazioni) fatti da quel generale a difesa da un assalto degli imperiali (e si avrà ad intendere perché non li occupassero questi mentr’essi si ritiravano). «Questi ultimi però investirono intrepidamente, et aprirono le frontiere (trincere?) nemiche nelle quali perirono più di tremila francesi, con perdita di molti carri di munizioni, e non potendo resistere all’impeto de’ nostri si rinchiusero nell’ultimo recinto vicino al ponte, dove continuavano la difesa, inquietati però dagli incessanti tiri del nostro cannone piantato sopra un’eminenza. De Lorges fece prima ritirare di là dal Reno una buona parte del bagaglio e il cannon grosso con disegno di condursi con tutto l’esercito da quella parte, quando lo possa comodamente effettuare. La perdita più considerevole de’ francesi è quella di nove generali, un de’ quali rimase prigione e gli altri perirono. Dalla parte de’ nostri si contano mille tra morti e feriti. Soggiunge il tenente generale nella lettera scritta a Sua Maestà che avendo finalmente il Magistrato d’Argentina (Strasburg) acconsentito che il ponte fosse guardato da gente cesarea,2 aveva spedito i generali Caprara e Harant di là dal Reno con 3000 cavalli per incommodare il nemico, e che anch’esso si avanzerebbe da quelle parti con tutto l’esercito quand’anche il nemico non si risolvesse di farlo”.
Venivano queste notizie in parte rettificate in un secondo rapporto del Montecuccoli che si estendeva su quanto era accaduto dal 24 di luglio al 4 di agosto, e del quale è un sunto negli Avvisi del 17 di quel mese. In esso dicevasi quasi eguale la perdita sofferta da entrambe le parti; e forse la morte di quei tremila francesi si sarà poi trovata non al tutto conforme al vero. Vorrebbe anzi Ramsay far credere maggiore di quella de’ francesi la perdita d’uomini de’ vincitori, il che fa contro ad ogni probabilità. Voltaire, dal suo canto, afferma nella Vita di Luigi XIV, avere i francesi lasciato il campo coperto dei loro morti. Ma sarà prudente stare all’ultimo ragguaglio del Montecuccoli, e ritenere che i danni delle due parti si bilanciassero, salvo che per quanto si riferisce ai generali, essendo tutti i cesarei usciti incolumi dalla pugna. Ma forse non tutti saranno morti gli otto generali francesi de’ quali nel primo rapporto è parola, non certo il Vendôme, che riescì poi celebre maresciallo, e che fu allora gravemente ferito, a capo di un reggimento di cui era forse colonnello. Nel suo secondo rapporto il Montecuccoli aggiungeva, che i francesi nel ritirarsi avevano ben munito diversi fortini, per tener lontani gl’imperiali quando essi passerebbero il Reno. Avendo poi a schermo un bosco foltissimo (quello da noi nominato), col beneficio della notte poterono ritirarsi.3 di Il giorno dopo la battaglia narra il Borgognone essersi deciso nel consiglio, che a tal uopo si tenne, di non assalire i fortini, i quali, perché assai validi e con passaggi dall’uno all’altro, avrebbero costato e sangue e tempo, senz’altro scopo che di far mostra di valore, essendoché si ritirassero ad ogni modo i francesi. Il Montecuccoli pertanto, dopo celebrata sul campo di battaglia la vittoria collo sparo delle artiglierie, e col far cantare il Te Deum, si pose sulle orme de’ francesi; i quali fu detto che per più celeremente mettersi in salvo, gettassero nel Reno una porzione de’ più grossi cannoni e del bagaglio. E già, come più sopra dicemmo affermato da lui, ad ogni modo Raimondo, anche s’ei nol facessero, avrebbe traversato il fiume: che se così questo passo del rapporto s’abbia, siccome credo, da intendere, verrebbe meno, in parte, un’osservazione fatta a questo luogo dal dotto general francese Feuquières nelle sue Memorie, delle quali vidi una seconda edizione stampata nel 1740 a Londra. In quell’opera vien egli tracciando un piano che, a suo avviso, avrebbe dovuto seguire il general cesareo per annientare, dopo la morte di Turenna, l’esercito francese. In luogo d’inseguirlo, prevenire lo doveva per altra strada al Reno, passar quel fiume a Strasburg, città che gli era ossequente, e correre ad occupare Schelestad, che ancora non era stata fortificata. Presentandosi poscia al ponte di Altenheim, lo impediva a’ suoi nemici, che avrebbero dovuto rimontare il Reno per passarlo a Brissac, dove potevano anche giungere in tempo gl’imperiali per distruggervi il ponte, dopo impadronitisi delle fortificazioni di Mortier, le sole che i francesi avessero da quelle parti. Con ciò, dice il Feuquières, Montecuccoli diveniva padrone dell’Alsazia, della Lorena e della Franca Contea, e poteva congiungersi all’altro esercito imperiale, che a quel tempo batteva i francesi di Créqui a Treveri. Opina poi egli che quel disegno di guerra non fosse seguito da Montecuccoli, per non aver bastante conoscenza di que’ paesi. A me invece quel progetto sembra uno di quelli che si tracciano a tavolino, non tenendo esatto calcolo di tutte le circostanze. Lasciamo stare che quelle rapide corse per prevenire i nemici al Reno il Montecuccoli, privo di ponti volanti per passare i corsi d’acque che avrebbe incontrato, non le poteva fare; ma se avesse egli anche prima de’ francesi tragittato il Reno, chi, conoscendo la prudenza di lui, vorrà pensare che si sarebbe avventurato a quelle corse per l’Alsazia che il Feuquières proponeva, perdendo d’occhio i francesi, i quali durante la sua lontananza, più non trovando contrasto, se non passavano il fiume, ben avrebber potuto invadere e depredare que’ territorii alemanni ch’esso Montecuccoli avea il debito di difendere? Allora i principi tedeschi, che, al solo scopo di essere difesi ne’ territorii loro, tenevano le parti dell’imperatore, si sarebbero forse voltati contro di lui. E poteva bene De Lorges lasciar la cura al Condé che moveva dalla Fiandra verso l’Alsazia, di fronteggiare Montecuccoli, valendosi, come effettivamente fece, delle fortezze ch’erano in mano de’ francesi. Che dire poi se invece De Lorges si fosse internato nella Germania, devastando terre, per la lontananza del Montecuccoli rimaste indifese? e se Baviera, ad esempio, della quale non eran ben note le intenzioni, avesse preso a secondarlo? Della Baviera dicono infatti gli Avvisi del Bianchi sotto il 17 di agosto, che si temeva potesse far causa coi francesi, e che s’erano perciò mandate truppe sui confini. Operando siccome fece, e battendo i francesi ad Altenheim, il Montecuccoli impedì ad essi di riprender vigore, e di riordinarsi come loro sarebbe stato necessario; perché il vedersi sempre il nemico alle spalle, l’essere stati sconfitti in battaglia, e la poca fiducia ne’ generali li avea ridotti a mal partito. Cresceva in loro lo sgomento, come un ufficiale che nelle lor file militava lasciò scritto, il trovare ostili ad essi le popolazioni, onde in Francia si teneva per perduto quell’esercito,4 che poi null’altro poté fare. Nell’opera del Cavaignac è detto infatti che, salvo i dragoni, i corpi che soli sostennero la ritirata, rendendola meno disastrosa, erano composti d’inglesi e d’irlandesi; la qual cosa si deduce altresì da quanto si legge nell’opera più volte citata, delle Azioni dei generali e soldati italiani. Di questo, al dire del Cavaignac. mosse lagnanza a Luigi XIV il governo inglese, lamentando che fosse stata esposta quella gente allo sbaraglio, mentre i francesi non pensavano se non a “liberarsi dagl’impacci, ne’ quali li avea posti il conosciuto valore e l’esperienza del Montecuccoli”. Io non so poi comprendere come supponesse il Feuquières che cogli scarsi mezzi dei quali poteva disporre, e mentre quasi bambina era a quel tempo l’arte degli assedii, fosse dato al general cesareo d’impadronirsi in pochi giorni di due fortezze. E se invece avesse egli intorno ad esse dovuto indugiarsi, tutto il piano del Feuquières veniva meno d’un tratto, e gl’imperiali si potevano trovare tra due fuochi. A me sembra pertanto che Raimondo, se anche fosse andato di là dal Reno prima de’ francesi, non peraltro l’avrebbe fatto se non per renderne loro più disastroso il passaggio; pronto però sempre a ritornare sull’altra sponda, e ad assalire i francesi, se avessero accennato di voltarsi ad altra parte: come appunto aveva fatto quando da Turenna fu minacciato Offenburg.
Passò dunque Montecuccoli il Reno dopo i francesi; e dato un breve riposo alle sue truppe a due leghe da Strasburg, assalì Moshein, che gli si arrese, rimanendo prigioniera la guarnigione; e il simile accadde di altri castelli di minor conto, dove abbondanti provvigioni si ritrovarono postevi dai francesi. Indi cominciò l’assedio di Hagenau. Tornava allora al campo imperiale, secondo è detto negli Avvisi, e come scriveva il padre Carlantonio, il giovane conte Francesco figlio del marchese Giambattista Montecuccoli, il quale per l’onorificenza allora conseguita di ciambellano imperiale, e per la promessa avuta del primo posto di tenente colonnello che rimanesse vacante,5 è a credere che avesse avuto occasione di mostrarsi valente negli ultimi fatti d’arme. Se pure l’imperatore non intese soltanto di onorare nella persona sua un congiunto del generale supremo, che glielo aveva spedito apportatore di que’ dispacci, de’ quali più addietro tenemmo parola. L’imperatore nel congedarlo, levatosi di dito un anello di molto valore, a lui lo regalò. Ebbe esso ancora a sollecitare la spedizione di altri soldati e di danaro al campo, ove non tardarono infatti a giungere cinquemila cavalli comandati dal duca di Sassonia Lauenburg, ed altri cinquecento più tardi, ma non il denaro per essi occorrente.6
Veniva a questo tempo dal vecchio duca di Lorena, che morì poco appresso (il 17 di settembre), sconfitto Créqui che andava al soccorso di Treveri, la qual città non tardò allora ad arrendersi: quel generale, ch’era rimasto ferito, riparò a Thionville, lasciandosi dietro tremila de’ suoi o morti, o prigionieri, la maggior parte di questi ultimi più o men gravemente feriti, ed abbandonando ancora in potere dei vincitori molti cannoni e il bagaglio.
Non va poi taciuto dei processi che, secondo si legge negli Avvisi del Bianchi, si fecero allora a colonnelli imperiali per ruberie sui loro reggimenti, venendo anche destituito il general Spaar, che si era appropriato le paghe de’ soldati, e quanto aveva ricevuto per fare arruolamenti: e ancora a cagion di sevizie usate ad ufficiali suoi.
In questo frattempo s’era interposto Montecuccoli tra le piazze di Hagenau e di Saverne, impedendo le comunicazioni fra loro; e gli Avvisi del 24 di agosto lo dicevano deliberato di assalire il campo francese, che non distava da lui più di un quarto d’ora di marcia. Ma non l’aspettò il nemico, e si ritirò lasciando che venisse egli occupando altre terre, i presidii delle quali incorporò nel proprio esercito, facendo poi trasportate a Strasburg le molte provvigioni di viveri colà trovate. Divise quindi le truppe in due corpi che vigilassero Hagenau e Saverne, della prima di quelle città incominciando l’assedio.
La gravità dei casi indusse a quel tempo la corte di Francia a non indugiare più oltre a richiamare dai Paesi Bassi Condé, “il solo, dice Torunemine, che levar potesse a Montecuccoli la superiorità acquistata” e a metterlo alla testa del pericolante esercito che fu del Turenna. Ciò prevedendo il Montecuccoli, aveva chiesto un rinforzo di tre mila croati, per valersene forse nell’assedio di Hagenau, ed aver libero l’esercito: ma non ottenutolo, non dubitò di levarsi di là per muovere incontro a Condé e provocarlo a battaglia, prima che avesse a porre ferma stanza nel paese. Di ciò fu dai nemici di lui dato carico al Montecuccoli, e vollero far credere che il comandante di Hagenau fosse stato in procinto di arrendersi; ma questo asseverantemente viene negato dal cavalier Borgognone. Narra egli che Montecuccoli il 19 di agosto giunse sotto Hagenau, e che non avendo, come notammo già, artiglieria da assedio, fece il dì seguente erigere una batteria di cannoni, che portavano palle di sole 12 libbre, e con quelli il dì stesso bersagliò le mura della città, senza potere arrecar loro se non lievi danni. Il giorno 21 fu intercettata una lettera, colla quale Condé annunziava essere in via per interporsi tra le truppe cesaree e Strasburg, così che mancando ad esse i viveri, sarebbero state astrette a levar l’assedio. D’altra parte, per le sterminate pioggie cadute tanto si era fatto molle il terreno, da non consentire s’erigessero fortificazioni, e si erano riempite d’acqua le fosse. Tutto pertanto consigliava il general cesareo a ripetere quanto dicemmo aver egli fatto in riguardo alla Fionia, levandosi da un’impresa, che in quelle circostanze non poteva riescire a bene; e ad evitare il pericolo di trovarsi al giungere di Condé tra due eserciti nemici. Né migliore e più magnanima risoluzione poteva seguire, che quella di andare egli stesso con tutto l’esercito a sfidare il Condé. Difficile gli fu resa la marcia dalla qualità delle strade rovinate dalle pioggie, onde non poté giungere alle sponde della Breusca innanzi al 26 di agosto. Il giorno appresso dettero gl’imperiali l’assalto a tre forti presidiati dai francesi, coll’intento di attirare colà il Condé, che si era fermato sull’altra sponda del fiume. Ma quel generale, con insolita prudenza, per usar le parole del Borgognone, o perché i suoi fossero stati presi da qualche timore, non si mosse, e lasciò che conquistassero gl’imperiali que’ forti. I francesi che vi stavano a guardia, rimasero in gran parte prigionieri, salvo quelli di uno di essi che il tenente generale Wertmüller fece trucidare, perché entrandovi i suoi, scoppiarono più granate contro di loro; cosa che fu reputata derivare da un tradimento ordito in lor danno. Del qual fatto così il Borgognone, come il padre Carlantonio dan nota di biasimo a quel generale, uno svizzero come credo, di cui diceva il sarcastico Magalotti, che era uomo intrepido sì, ma inumano, empio, irregolare, di pochissima intelligenza militare, e capace di farsi vincere dappertutto.
Due batterie fece poi collocare Montecuccoli sopra un’eminenza che dominava il campo di Condé, il quale mandò due mila cavalli a spiare le mosse di lui: ma fatti questi attaccare da Raimondo, avrebbero avuta preclusa la ritirata se, come si legge negli Avvisi già citati, non avesse un capitano degli imperiali vilmente abbandonato un posto affidatogli in guardia, pel quale trovarono scampo quelli tra essi che erano sopravvissuti alla molta strage fatta dei compagni loro. Per questo, e pei danni gravi che le batterie, delle quali dicevamo, arrecavano tra loro, caddero d’animo i francesi, onde il lor generale stimò opportuno di sollecitamente ritirarsi da un luogo di troppo pericolo, essendo anche caduto ucciso al fianco di lui un suo ufficiale. E per ritardare il passo agli insecutori fece egli, come il Wagner racconta, ingombrar la strada con alberi atterrati. Impedì ad ogni modo il fiume ingrossato un sollecito inseguimento, essendo che si dovesse andar in cerca di un luogo ove guadarlo: ma venne poi fatto al Montecuccoli di giungere sopra alla cavalleria francese che formava la retroguardia, cinquecento mini uccidendole, altri facendone prigionieri, impadronendosi del bagaglio e delle tende. Altri francesi a lui si arresero allorché conquistò una fortezza, che trovo indicata col nome di Okernac, ma che sarà Obernheim, dove dice Voltaire che Montecuccoli, dopo aver inseguito Condé, pose il campo. Ivi fece egli distribuire ai suoi soldati trenta mila porzioni di pane ch’erano state preparate pe’ francesi. Continuava intanto Condé a rapidamente ritirarsi, né si arrestò prima di aver raggiunto Schelestad, né concesse riposo pur allora ai suoi finché non gli ebbero rafforzato un certo passo, che già per sé era stimato inespugnabile. E tale giudicaronlo infatti i generali adunati da Raimondo a consiglio, i quali proposero che piuttosto si assediassero Zaber e Agremat, e si mettessero poscia i quartieri d’inverno in Lorena e in Borgogna. Ma il conquistare due provincie, dice il Borgognone, non era possibile ad un esercito, che per sei mesi di campeggiamenti non mai interrotti, trovavasi estenuato, e che solo dopo un lungo attendere aveva ricevuto da Vienna il soldo di un mese. Sul qual particolare, di colà scriveva il 25 di settembre il padre Carlantonio: «Ma è una cecità fatale della corte di Vienna, dopo aver ridotte le cose in così gran vantaggio della divina assistenza alla condotta del tenente generale, lasciar perire il frutto di tanti stenti per non saper trovare tutta la potenza austriaca un mezzo milione di fiorini.»
Nel giorno in cui scriveva, come si ha da altra sua dell’8 di ottobre, le truppe imperiali erano a Weissemburg; avevano fatto un ponte sul Reno a Lauterburg per avere i foraggi, de’ quali il paese difettava, e colà attendevasi colle sue genti il giovane duca di Lorena, e inoltre 1500 uomini vi dovevano giungere da Treveri. Fu a quel tempo il Montecuccoli a Strasburg, come si ha dagli Avvisi, forse per ringraziare quel magistrato che gli aveva mandato al campo due cannoni e profferte amichevoli di sovvenirlo di quanto gli potesse occorrere, e anche per visitare i magazzini dell’esercito. Gli Avvisi del 28 di settembre parlano poi di un corriere che da Ochsemberg, dove alloggiava, aveva egli spedito a Vienna per annunziare un allarme dato alla città di Saverne, presso la quale fece egli passare in fila 12.000 uomini, mentre la bombardavano gli artiglieri, incendiandovi i magazzini di viveri. Ma la città non si arrese; ed essendogli intanto pervenuti ordini da Vienna, siccome leggesi nell’opera delle Azioni di generali italiani, di desistere da quell’assedio, di là si ritrasse movendo verso Philisburg. Andò poscia a fronte di Condé che, ricevuti 6000 uomini di rinforzo, tentava in due luoghi di passare il Reno; e dolse assai al Montecuccoli che anche allora, con importuna prudenza rifiutando la battaglia, si ritirassero i francesi, tanto più che la stagione men propizia al combattere gli faceva prevedere che il suo esercito non avrebbe potuto in que’ luoghi durare a lungo. Si provò nondimeno a tentare un’astuzia, facendo uscire da Strasburg con poca scorta un convoglio di viveri e di munizioni, sperando che i francesi avvisati di questo dalle spie, sarebbero venuti a predarlo, porgendogli così l’occasione di piombar su di loro, essendosi posto egli medesimo colla miglior parte della sua cavalleria in imboscata. Ma i francesi non si mossero, e appena alcuni ufficiali loro vennero in ricognizione da quelle parti, sette dei medesimi rimanendo prigionieri degli imperiali. Disperando allora di trovar modo per quell’anno di intraprendere cosa alcuna, e di potere con un fortunato combattimento migliorare le condizioni del suo esercito, si volse, per compiacere ad alcuni ufficiali suoi, a tentar d’incendiare i viveri della guarnigione di Zaber, affine di forzarla ad arrendersi. Ma, come aveva preveduto, la scarsa portata delle sue artiglierie a questo non bastò: né si poté por le mani sui foraggi che erano ne’ sobborghi di quella città, perché gli stessi francesi li bruciarono, un buon tratto di paese devastando altresì intorno a quella piazza e all’altra di Hagenau sino a Philisburg, acciò non vi potessero sussistere gl’imperiali. A questi facevan difetto principalmente i foraggi, così che ben mille cavalli allora perirono. Ostacolo ancor maggiore al proseguimento della guerra furono le malattie che, al sopraggiungere dei freddi autunnali, infestarono il campo, dove, per la consueta imprevidenza dei ministri, mancavano ai soldati le vesti con che ripararsi. Erano mezzi nudi, scriveva il padre Carlantonio, cadevano infermi a frotte, e molti ne morivano. Al Montecuccoli mancavano poi i denari per provvedere a necessità così stringenti. In tale stato pericoloso, decise il generale di mandare il conte Mannsfeld a Vienna per esporre a voce la condizione delle cose, e l’impossibilità di attendere ad assedii, e di più oltre trattenersi in Alsazia. Pe’ quartieri invernali proponeva la Franconia, la Svevia e i paesi lungo il Reno superiore ed inferiore, ove si potrebbero trovare i viveri, che nell’Alsazia gli venivano meno (Avvisi del 12 di ottobre). Intanto faceva egli costrurre a Lauterburg valide opere di difesa, ad assicurarsi il passo del Reno, ben munendo poi sulla riva alsaziana quel ponte stabile che vi pose per potere a suo agio, secondo portasse il bisogno, campeggiare dall’una o dall’altra parte del fiume, e per far sicuri i quartieri invernali: e ancora mirava con quella testa di ponte ad impedire i viveri a Philisburg, alla qual fortezza, come scriveva il padre Carlantonio, il palatino di Heidelberg, benché si protestasse devoto alla causa imperiale, dava comodità di comperare nel suo paese quante derrate volesse.
Mentre però soprintendeva egli all’esecuzione di quelle opere e a quelle di Kardal, la salute che insino allora, non ostante le molte fatiche e i disagi incredibili, gli era durata abbastanza buona, gli si affievolì; e da così fieri assalti di podagra fu colto che, al dire del Borgognone, per più giorni e più notti gli fu tolta ogni maniera di requie, né poteva poi reggersi in piedi. Il Magalotti, ministro di Toscana a Vienna, così scriveva il 21 di ottobre: “Il Montecuccoli è malato per una grandissima flussione di catarro che gl’invasa la testa, e gli aggrava il petto. Si trova anche col braccio diritto impedito. Egli non vuole che sia gotta e non bisogna dirglielo, ma in sostanza ognun tiene per indubitato che sia”. E di codesta infermità dava ragguaglio alla corte di Modena il padre Carlantonio. Misera condizione questa di un uomo, che in un luogo mancante d’ogni comodità, e fra gli spasimi di un male crudele, a tante cose provveder doveva, sopra di lui pesando una immensa responsabilità! Intanto una tregua di tre settimane concessa dall’elettor palatino (che sarà forse il medesimo poc’anzi nominato) il quale, dice il gesuita Montecuccoli, avea segrete intelligenze con Francia, alla guarnigione di Philisburg, col pretesto di lasciar campo ai villici di seminare i grani, costringeva gl’imperiali a sospendere i lavori che dicemmo, i quali solo più tardi poterono condursi a compimento; e fecero schermo al Würtemberg e al Baden da scorrerie nemiche.
Si lasciava indurre in questo frattempo il debole imperator Leopoldo a non consentire a Raimondo i quartieri ove chiesti li aveva, e ciò per le istanze de’ principi tedeschi che non volevano que’ soldati sulle lor terre, grandi cose impromettendo se venissero esauditi. Ma stette fermo il Montecuccoli, e dimostrò impossibile il dimorare più oltre nell’Alsazia, dove i nemici di lui, con intrighi che ordivano in Vienna, volevano che rimanesse l’esercito, allegando che sarebbe stata quella una minaccia ai francesi, e li avrebbe impediti d’invader i paesi vicini. Consigliavano si mandasse esploratore della condizion delle truppe un Abele, ma ricusò l’imperatore, per non recar offesa al suo generale; e glielo fece dire per mezzo del conte di Mannsfeld. Erano i ministri specialmente che, come dice il gesuita, “non lo vorrebbero alla corte, e fan mina al conte delle sue stesse virtù”. Sembra che insistessero ancora per l’assedio di Hagenau, la qual piazza, pei pantani che le stavano intorno, prodotti da sterminate pioggie, e per essere stato, come dicevamo, disertato il paese, si poteva stimare inaccessibile . Alle pretese e all’insidie de’ suoi nemici non altro opponeva Montecuccoli se non il disprezzo, ma per ottemperare ai comandi della corte, si trattenne alcun poco in Alsazia, dolente e sdegnoso degli inutili patimenti ai quali venivano sottoposti i suoi soldati; 1300 de’ quali allora morirono, e perirono altri cavalli, de’ quali i rimasti avevan più sembianza di scheletri che di cavalli, come dice il padre Carlantonio. “La corte, così egli, che comandò a Montecuccoli di non ripassare il Reno ha fatto più danno all’armata imperiale che le battaglie e il ferro de’ francesi”. Fu dato finalmente a Raimondo di far comprendere a Vienna che se anche, come si facean le viste di credere, avessero potuto le estenuate sue truppe conquistare Hagenau e Saverne, quelle piazze sarebbero state senza dubbio ricuperate dai francesi, e che il miglior partito era il presidiar fortemente Lauterburg e Weissemburg per serrar da vicino Philisburg, che a buona stagione si assedierebbe, e la quale dai francesi non fu infatti potuta vettovagliare. Ottenuta allora la facoltà di ripassare il Reno, fece la rassegna generale delle sminuite sue truppe: in Lauterburg pose 2500 uomini con 12 cannoni, e presidiò gli altri forti, assicurandosi del ponte di Strasburg col porvi a guardia i confederati tedeschi: e poscia, benché appena potesse reggersi in piedi, dato l’ordine per la marcia, ultimo ripassò egli nel dì successivo il Reno. Cinquanta soldati francesi venuti a spiare la partenza degli imperiali, furono tagliati a pezzi. E qui ci piace riportar le parole del Borgognone, il quale, rispondendo a coloro che dicevano: che ha fatto Montecuccoli in tutta questa guerra? scriveva: “Resistette ad un esercito più poderoso del proprio, ben fornito di tutto, guidato dal più gran capitano del mondo, qual voi dite Turenna. E ciò con un’armata debole di fanteria, in luoghi dove la cavalleria non poteva agire, e mancava di foraggi, mancando di magazzeni e attorniato da città aderenti o per timore o per fellonia al nemico, in paese ove un tozzo di pane valeva un tallero, non avendo il soldo che per un mese, con truppe battute lo scorso anno. Non solo ha resistito il Montecuccoli con tanti svantaggi ai francesi, ma li ha sfidati, e uno de’ maggiori capitani del secolo non ha accettato la sfida. Con stratagemmi ha guadagnato la mano a Turenna che vide per miseria, per morti, per diserzioni scemarsi a migliaia i soldati in faccia, e per opera delle sempre vittoriose truppe cesaree. Ha costretto l’eroe della militare prudenza a ripieghi arrischiati ed estremi, mentre era stato promesso di rovinare, tenendo la mano alla cintola, l’armata imperiale e por le catene a tutto l’impero. Ha prevedute le subite insidie, i casi impensati o l’azzardo alla valle di Saldisbach (Sassbach), e di fronte al valentissimo Turenna e alla brava sua armata ha mantenuto il suo posto in guisa che v’ha perduto il sommo duce la... (vita?) e il gallico ardire il coraggio. Ha costretto un esercito formato di sceltissimi soldati e di sì rinomati generali, dopo la perdita del capo a confidar solo ai piedi la sua salvezza, e a lasciare addietro, per non fermarsi, la città e il castello di Wildstet in cui tenevasi così sicuro il francese di conservarlo che v’avea posto i magazzeni, dicendo Turenna che quello, che era il passo per Strasburgo, non era caduto in mano de’ Cesarei, e perciò nulla era a temere, con che rincorava i soldati ne’ frequenti infortunii che patirono. Ha Montecuccoli investito tutta l’oste nemica per boschi densissimi, poi in campagna nuda esposta al cannone e moschetti dei posti muniti dai francesi, e da questi con strage li ha fugati entro più forti ripari, e poi da questi medesimi, costringendoli a passar il Reno, essi che avrebber pochi mesi prima creduto un delitto il dubitar di trionfar de’ Cesarei. Il grave colpo da essi toccato a Sasbad, e le tante morti a Goldschier così li stordì che fecer venire tutta la potenza di Francia in Alsazia, accampata nei dintorni inaccessibili di Bolschein, eppure al primo annunzio della vicinanza del Montecuccoli si è posta in disordine e in fuga, continuata questa sempre ad onta dei numerosi rinforzi che ricevevano da Francia. Invano si è dato il comando dell’armata al Condé, il più magnanimo guerriero spirito della Francia. Questi ha dovuto sacrificare la sua gloria alla sicurezza della patria, e ha dovuto lasciar preda ai Cesarei i soldati suoi ch’eran di là dalla Breusca senza soccorrerli, e come in segno della riconosciuta superiorità, al comparir del Montecuccoli lasciò le armi l’Achille francese che in faccia all’armi cesaree non seppe essere che retrogrado, e rintanatosi ne’ monti non osò più uscirne. La condotta del Montecuccoli costrinse la Francia a disperar di sé e a mettere in fiamme le proprie provincie”. E noi, alle considerazioni che avrebbe potuto dettarci un esame di questa famosa campagna, abbiamo preferito un sunto, che ci sembra fedele, delle cose che venimmo già esponendo, fatto da un contemporaneo, che secondo ogni probabilità fu testimonio oculare di quanto accadde allora di qua e di là dal Reno. Né molto diverso da quello del Borgognone è il giudizio recato dal generale Cavaignac, quel francese che militava, come dicemmo, nell’esercito cesareo, e del quale il Magalotti, così parco nel lodare, lasciò scritto che era “il più capace uomo assolutamente che abbiamo, dopo il Montecuccoli. Intende tutto, il campeggiamento è il suo forte. Conosce troppo superiormente la condizion del paese. Libero sino a rendersi odioso. La sua maggior tara per aver a servir l’imperatore è l’esser nato franzese”. Alle lodi compartite al Montecuccoli da questi contemporanei suoi per una campagna della quale disse il Foscolo che non se ne trovi una più bella tra le antiche, si potrebbero aggiungere quelle di molti altri. E invero, se non venne fatto a Turenna e a Condé di battere o di far indietreggiare quel valente italiano, che li indusse anzi a far uso di una prudenza che, in riguardo singolarmente al Condé, potrà sembrare eccessiva; io non so qual altro capitano tra i migliori di ogni età in ciò sarebbe riescito. Vado poi lieto di aver potuto, la mercé di documenti inediti, recare in mezzo più particolari insino ad ora sconosciuti circa quest’ultima e così gloriosa guerra del Montecuccoli; e d’avere con l’ampiezza della narrazione, in parte almeno, supplito al laconismo con cui codesto argomento è stato trattato insino ad ora da molti degli storici de’ quali ho notizia.
Di un ultimo fatto pertinente a questa guerra resterebbe a far menzione; ma, a mio giudizio, quel fatto non apparisce molto probabile. Ed è quello narrato in una Memoria del generale Guglielmo Pepe, che non m’è dato scoprire donde lo traesse. Dice egli, che Raimondo, ammaestrato dalla precedente campagna del danno che poteva derivare alle operazioni sue dagli ordini che intempestivamente gli venissero da Vienna, erasi proposto di non aprir le lettere che di là gli si mandassero; e perciò al termine della guerra restituì all’imperatore con intatti i suggelli le lettere che gli aveva scritte, allegando a sua scusa che se le avesse lette avrebbe forse dovuto obbedire ad ordini, che utili sembrando nel gabinetto del principe, tali potevano non essere sui campi di battaglia. Aveva egli perciò voluto esporre la persona propria alle conseguenze di quell’atto audace, anziché mettersi a pericolo di far cosa che arrecasse danno alla causa imperiale. Senonché alla credibilità di questo racconto del Pepe sta contro quanto avemmo a narrare dell’abbandono per comando imperiale dell’assedio di Saverne, e dell’indugiato passaggio del Reno. Né Montecuccoli era uomo da privarsi, per un danno ipotetico, degli avvisi che gli potevano giungere da Vienna, esponendosi anche al pericolo di continuare la guerra, quando per via diplomatica fosse stata o con un armistizio sospesa, o troncata con la pace. Da quella grande impresa militare si ritrasse il Montecuccoli col fermo proposito di non più intraprenderne altra, la cresciuta età e la mal ferma salute a ciò consigliandolo. Scriveva infatti sino dal 3 di ottobre il suo parente più volte nominato: “Il conte Montecuccoli è risoluto di chiudere con questa, che è la cinquantesima sua campagna, la sua carriera”. E questo s’avrà ad intendere, secondo stimo, nel senso che erano 50 anni ch’ei travagliavasi, con alquante interruzioni, in guerra; giacché le campagne fatte da lui, computando ciascuna di esse dall’aprirsi delle medesime sino al loro termine se brevi, o, se protratte, sino ai riposi invernali, e tenendo conto di quelle in un medesimo anno fatte in diversi paesi, sarebbero 41, se fece, come credo, le due ancora di Slesia nel 1627, e quella di Alsazia del 1633 (il che non mi è noto) secondo l’elenco che in nota produrremo . Chiese Raimondo stesso con una lunga lettera all’imperatore di poter definitivamente abbandonare il servizio attivo, allegando le ragioni delle quali più sopra tenemmo parola: e affermano ancora alcuni storici, avere egli detto allora, che chi aveva combattuto contro Gustavo Adolfo, Kuprili, Turenna e Condé, non doveva con altri arrischiare la sua gloria. Andò egli, dopo ripassato il Reno, ad Essling, ove fu a visitarlo il padre Carlantonio, che il 13 di novembre riferiva trovarsi egli allora in buona condizion di salute, salvo che gli durava nelle mani e ne’ piedi qualche resto del male che lo molestò; e che dai generali si reputava indispensabile che da lui venisse governata anche la futura campagna, dichiarandosi pronti a rinunciare l’officio, se ciò non avesse luogo. Che necessaria fosse la presenza di Montecuccoli al campo, veniva riconosciuto anche a Vienna, più specialmente poi dai ministri, i quali, dice il gesuita “han fatto e detto tanti spropositi che temono il suo ritorno alla corte, e procurano d’impedirlo sotto speciali, ma insussistenti pretesti”. Stava a quel tempo lo scrittore di quella lettera raccogliendo le più recondite notizie dell’ultima guerra, per mandarle alla corte di Modena. Avvisava intanto che l’esercito era bisognoso oltremodo di riposo, dopo una così lunga campagna. Se non che da Vienna mandavansi ordini di esenzione dai quartieri per questo e per quel paese, né si sapeva ove allogar le truppe; e ci vien riferito dalla corrispondenza diplomatica del conte Magalotti, che tutte codeste noie pe’ quartieri venivano suscitate dall’ambasciator di Spagna, marchese De los Balbases, il quale odiando, non so perché, il Montecuccoli, ai danni di lui assiduamente si adoperava. Un corpo di truppe, comandato dal duca d’Holstein, aveva avuto facoltà di poter svernare in Vetteravia, ma ottenne Balbases che, senza farne avvertito Montecuccoli, gli venisse ordinato di passare nel paese di Juliers; e probabilmente per opera di costui fu scelto commissario sui quartieri il generale d’artiglieria Capiliers, avverso allora al Montecuccoli. Di questo generale Capiliers lasciò scritto il Magalotti, che era “uomo intelligente, ma irresoluto, amico delle sue convenienze e della sua quiete”; e peggio poi ne disse in un suo dispaccio del 2 di marzo 1676, asserendo che aveva messo da parte un centoventi mila talleri all’anno, e che egli e l’Heister, vicepresidente del consiglio di guerra, erano “acclamati dalle strida universali per i due maggiori ladri dell’Allemagna”. Checché ne fosse, ché giurar non si vuole sulla parola di quel mordace diplomatico, la venuta di Capiliers al campo indusse Raimondo a dichiarare di non volere impacciarsi più in ciò che si riferisse a quartieri: ed era egli altresì sdegnato perché così poca cura si prendessero i ministri di provvedere alle necessità grandi de’ suoi soldati; e notava che non dubitavano quelli di Francia di ritirare sin presso Parigi la loro cavalleria, per meglio ristorarla. Se cotali provvidenze, ei diceva, si prendessero per l’esercito imperiale, potrebbe questo a primavera noverare quarantamila buoni soldati. Queste cose riferir doveva il gesuita alla corte ov’ei lo mandava, con commissione di fare istanza altresì pel suo richiamo a Vienna. E ciò gli fu tosto accordato dall’imperatore, senza consultare i ministri, come impariamo da una lettera del 19 di dicembre di quel parente suo; il quale soggiungeva: ciò “darà da sospirare ai nemici di lui, così infami che discorrono della passata campagna tanto utile a S. M. come di una perdita di tempo e di un tradimento: ma uscirà in breve una scrittura che farà ai ciechi palpare quanto valorose sono state le operazioni del conte, e la piena ineluttabile impossibilità di far di più ec.”. La quale scrittura io non dubito che sia quella del Borgognone. Negli Avvisi del Bianchi troviamo poi che l’imperatore disse al padre Carlantonio, gl’indugi al ritorno del generale esser derivati dal timore che non volesse poi egli nell’anno successivo riprendere il comando dell’esercito; ma il gesuita, che pur sapeva l’intenzione del suo parente, non si peritò allora di asserire il contrario. Anche dopo partito il corriere colla licenza pel generale del ritorno a Vienna, non intralasciarono i nemici di lui di dar opera per impedirlo; però, segue il padre Carlantonio, “l’imperatore stette fermo: solo si riescì a mutar qualche cosa nella licenza, ma vi si rimedierà”. Fra questi nemici del generale il più operoso per avventura fu l’ambasciator di Spagna poc’anzi nominato; e ben ci duole vedergli presso aiutatore, o laudatore almeno, un italiano, il nome del quale va celebrato negli annali delle scienze e delle lettere, cioè il conte Lorenzo Magalotti, del quale riferimmo già più notizie da lui somministrateci. Un sunto di una parte del suo carteggio diplomatico accuratamente fatto dal cavalier Cesare Guasti archivista di stato in Firenze, e che preceduto da un dotto suo proemio venne da lui inserito nel Giornale storico degli Archivi toscani (anno 4°, 1860) più cose ci offre riguardanti questo periodo della vita del Montecuccoli. Il Magalotti, che già era stato, secondo scriveva, a tutte le corti d’Europa salvo quella di Russia, il 5 di aprile dell’anno del quale insino ad ora c’intertenemmo (il 1675) giungeva in Vienna; e nelle istruzioni che gli si dettero per la sua legazione, queste parole si leggevano: “Il conte Montecuccoli che nelle cose politiche e militari tiene mano tanto superiore deve essere considerato da noi (il granduca Cosimo III) in primo luogo, e per cagione del suo posto e per l’amicizia particolare che ci dimostra comprobata da lui in tutti i tempi colle opere, ma ora singolarmente che le occasioni della guerra dandoci motivo d’incomodarlo con offici frequenti a pro de’ nostri sudditi ha Sua Eccellenza la bontà d’ammetterli sempre con singolar compitezza, e non senza profitto dei raccomandati, che lo riconoscono tutti per autore dei loro accomodamenti ed impieghi. Con esso dunque non dovrete limitar espressioni, ma diffondervi largamente nel rimostrarli la nostra pienissima gratitudine, e la fiducia insieme che sempre havremo nella sua bontà. Ditegli che il principale appoggio di cui ci siamo per voi promessi in codesta corte è la protezione dell’Eccellenza Sua, ec.”. Anche tra gli speciali incarichi dati al Magalotti dal cardinal Leopoldo de’ Medici, era quello di salutare il Montecuccoli in nome suo, e con esso il principe Pio e il marchese di Grana. Sarebbe stato da credere che di buon grado avrebbe egli obbedito ai comandi del suo sovrano; e così sembra facesse in sulle prime, perché il 27 di luglio scriveva trovarsi in ottima relazione con quel generale, che aveva probabilmente conosciuto in un precedente suo viaggio a Vienna. E forse a quel tempo fece egli quel ritratto del Montecuccoli, che ora vogliam riferire, e che sebbene non fosse mandato al granduca, insieme con quelli di altri ufficiali superiori, innanzi al gennaio del 1677, sembra tuttavia che fosse scritto mentre Raimondo era al comando dell’esercito imperiale, e forse mentre ancora viveva il Turenna. E il medesimo può credersi del giudizio ch’ei reca su altri generali, porgendone indizio quello sul Capiliers, le grandi ruberie del quale vennero da lui accennate soltanto in un dispaccio posteriore, quando cioè potevano valergli per una indiretta puntura al Montecuccoli, al quale quel generale si era riaccostato. Così dunque scriveva Magalotti: “Montecuccoli – L’Escuriale animato. Cioè nessuno ha più parti insieme di lui, benché separatamente si possa in un altro trovar qualche cosa di più intero. Condé, maggior generale di lui. Turenna, maggior generale di lui. Ma dopo loro, assolutamente il maggiore in questa parte ancora. L’uomo del mondo il più adattato a saper servire alle nostre debolezze. Il suo forte è nelle marce; le quali nessuno intese mai meglio. Sfugge volentieri gl’impegni da lontano, ma non gli teme da vicino. Intende in grado superiore tutto quello che è economia militare, e mantenimento di un’armata. Indulgente nella disciplina, di gran moderazione: del resto intelligenza del politico, erudizioni, ornamenti, tratto, galanteria: tutte le parti di cortigiano e di cavaliere”. Encomii questi che non avrebbe vergati dopo esserglisi fatto avverso, senza almeno mescolarvi molto fiele. Quant’è poi alla superiorità che sul Montecuccoli concede egli a Turenna e a Condé, i fatti che narrammo dell’ultima guerra non sembrano confermarla, se pur non provino il contrario. Diverse, del rimanente, erano le condizioni in cui trovaronsi que’ grandi capitani, invasori i francesi dei territorii altrui, difensore Raimondo di quelli dell’impero germanico, e questo importava un differente sistema di guerra. Col 24 di novembre di quell’anno noi cominciamo poi a trovare nelle lettere sue impigliato il Magalotti nelle reti dell’ambasciator di Spagna, ch’ei cita ad ogni tratto, e all’opinione del quale si riferisce, sembrando che fosse in continua conversazione con lui. Disapprovato il Balbases dalla sua corte pel suo contegno verso il Montecuccoli, e per la cagion medesima disapprovato il Magalotti dal cavalier Vieri Castiglioni, ministro di Toscana a Madrid, non se ne danno per intesi. Fu pregato il nunzio pontificio ad intromettersi, e se lo fece, non riescì. La cosa andò in lungo, né io so poi, mancandoci la continuazione di quel carteggio del Magalotti, se allora che nel 1678 fu tolto mal suo grado d’ufficio, fosse venuto a migliori sentimenti. Quello de’ ministri imperiali che più temeva la venuta a Vienna del Montecuccoli, perché questi sarebbe entrato subito nella confidenza dell’imperatore, era lo Swarzenberg, il quale dal carteggio del Magalotti appare de’ più avversi a lui, così che diceva esso che l’uno o l’altro dei due doveva cadere. Si dava pertanto il Balbases a sostenerlo a tutt’uomo, e cercava impedire il ritorno del generale, sussurrando all’orecchio dell’imperatore che avrebbe posto in mezzo pretensioni grandi, se si volesse rimandarlo alla guerra, e che pericoloso diverrebbe se restasse. Non si peritava pertanto di consigliare che, se il ritorno gli si consentiva, lo si privasse delle cariche, relegandolo al suo governo di Giavarino. Il qual consiglio partir non poteva che da un uomo accecato dalla passione. A codeste trame di alcuni ministri imperiali e di quello di Spagna alludevano senz’altro le ultime lettere che citammo del padre Carlantonio; il quale poté finalmente annunziare alla corte di Modena, essere partito Raimondo da Essling il 2 di gennaio del nuovo anno 1676, aggiungendo che i suoi nemici facevano allora le viste di aver piacere pel suo ritorno, e di tener lui in gran conto. Un nuovo assalto di gotta e di vertigini lo trattenne per altro in non so qual luogo lungo la via, onde non arrivò a Vienna se non il 18 di quel mese, accompagnato, come ci dicon gli Avvisi, dal Caprara e da altri generali. La sera stessa il conte Dietrichstein lo condusse nella sua carrozza dall’imperatore: ma non era punto risanato, e due giorni appresso fu colto da una fiera catarrale. Trovavasi allora in Vienna il rinomato medico Gianforte, professore nell’università di Padova , colà chiamato a curare l’imperatrice Claudia da più tempo inferma di un male che i medici di Vienna non sapevano definire, e ch’egli giudicò essere etisia . Fu esso che si assunse la cura del Montecuccoli, al quale disse tosto che non avrebbe potuto affrontare le fatiche di una nuova campagna, se prima non si fosse sottoposto ad una rigorosa purga. Scriveva allora il gesuita che il male “gli aveva prese le gengive, le guancie, il collo con alterazione di polso, e poi scese al piede con gran dolori”: e questo male derivava, al detto del Magalotti, che fu a visitarlo, da gotta e chiragra. Il Montecuccoli per altro diceva patire di artritide vaga; e perché molto soffriva, facea proteste di non voler più andare a guerre. Nondimeno allorché l’8 di febbraio, quantunque non ben guarito, ritornò a visitare l’imperatore, tutti dicevano che verrebbe indotto a riassumere il comando: ed in fatti molte istanze per questo gli si fecero, a cui egli opponeva sempre la mala condizione della salute sua, come scriveva negli Avvisi il Bianchi, il quale diceva opinare che sarebbe riescito ad esimersi da quell’incarico. Si tennero anche conferenze nella sua casa per disporre i progetti della futura campagna, ma al tempo medesimo rinnovava egli le istanze per un congedo definitivo dal comando delle truppe. E in questa risoluzione non poteva se non confermarlo una ripresa di quella flussione, che come acqua calda gli cadeva sul piede allorché lo posava a terra, per usar le parole del padre Carlantonio; dal qual ci convien ora prender commiato, essendoché lasciasse allora Vienna, chiamato a Roma, come sembra, da’ suoi superiori monastici, i quali da alcuni indizii congetturo che non vedessero di buon occhio la dimora di lui in Germania. Ebbe infatti a scrivere egli stesso il 29 di aprile da Roma, che il padre generale “lo sacrificava vittima dell’invidia”. Non so poi se a difesa sua, o per negozii che avesse a Roma, l’imperatrice vedova Eleonora Gonzaga gli diede una credenziale pel papa Clemente X (che poco di poi venne a morte), come suo incaricato d’affari presso la Santa sede, e lo accompagnò ancora con lettere sue al granduca di Toscana, e ad un ministro, del quale non trovo indicato il nome. Ci rimane la risposta di quest’ultimo, ov’è detto che la testimonianza datagli dalla stessa Maestà Sua dei meriti di esso padre lo fece accogliere da lui colle più distinte dimostrazioni di stima. E forse agli incarichi ch’egli ebbe dall’imperatrice, si riferirà il deposito che presso di lui fu fatto di seimila ducati, del quale è ricordo in un documento dell’archivio Montecuccoli in Modena. A Roma si strinse in amicizia col padre Lodovico Manni, probabilmente modenese , al quale ebbe a scrivere che lo amava “al pari dello stesso conte Raimondo che è il non plus ultra degli affetti del mio cuore”. Morì il padre Carlantonio l’anno appresso (1677), disponendo per testamento di una somma di lire 20.000 per l’erezione di un collegio di educazione nei feudi della sua famiglia nelle montagne modenesi, come già aveva fatto un prete della sua casa. Ma neppur questa volta gli eredi si detter cura di fondare quel collegio. Le notizie che da Vienna mandava egli alla corte di Modena vennero, per incarico che n’ebbe da lui, continuate dal Bianchi ne’ suoi Avvisi, dove, al tempo del quale dicevamo, è fatta menzione dei consigli che dava il generale circa la prossima campagna, insistendo specialmente perché si provvedesse il denaro occorrente, e si apprestassero le artiglierie, la mancanza delle quali cose lo aveva astretto ultimamente ad intralasciare qualche buona impresa che meditava di fare, e che eran forse gli assedii de’ quali tenemmo parola.
Dicevamo poc’anzi ciò che occorse al general Montecuccoli dopo la sua partenza dal campo, secondo le informazioni che il parente di lui e il Bianchi ci somministrarono: sarebbe da vedere adesso con che fiele le cose medesime riferisse alla sua corte il Magalotti, sotto l’ascendente dell’ambasciator Balbases; ma basterà porgerne un saggio. Mostra egli da prima, con lettera del 19 di gennaio 1676, come amarissimo gli riescisse che il Montecuccoli non solo ritornasse a Vienna, ma che anzi si avesse voluto mandargli incontro un messo per affrettarne l’arrivo, la qual cosa non si fece poi per aver esso deliberato di fare il viaggio per acqua. E fu peggio allorché seppe che si erano tenuti per 15 giorni in sospeso gli affari per intendere su di essi il parere di lui. E dire che avevano sperato, egli e il Balbases, che gli verrebbe fatto un processo, nel quale si sarebbe cercato, come sembra, d’insinuare destramente che potesse intendersi coi francesi, e cavarne un centomila ducati prima d’uscire in campagna; e adesso rimanere invece tutti due col danno e colle beffe! E capitar dovevano per giunta sul Magalotti i rimproveri che dicemmo del Vieri Castiglioni! E si aveva da veder eletto a maggiordomo dell’imperatore il Dietrichstein, pel quale il Montecuccoli, secondo ei scriveva, era la quarta persona della Santissima Trinità! Né in peggior momento cader potevagli sul capo quest’altro sasso, perché s’era alla vigilia dell’arrivo del Montecuccoli , sembrando che con quella elezione avesse inteso l’imperatore d’ingraziarsi il suo generale. Neppure si era voluto aspettare l’esito di certa cabala da lui e dal Balbases messa in piede, e nella quale assevera che s’era tirate dentro anche l’inferma imperatrice e Anna sua madre; che se la cosa fosse riescita, quella dignità sarebbesi data ad un altro. L’amarezza era troppa, e il Magalotti più non si tenne dal chiamar debole l’imperatore, e dal dire “il Montecuccoli grand’uomo sì, ma la sua condotta nell’ultima campagna non valer niente... e poi voi altri spagnoli (volgendosi al toscano Vieri Castiglioni) non volete mandar denari a noi che non ne abbiamo per continuar la guerra, voi altri che sapete dare ad una donna di mala vita duemila scudi di pensione!”. Le quali parole avran fatto cadere dalle nuvole il buon Vieri, castissimo uomo certamente, e che non aveva i denari che gli si chiedevano. Quando poi al Magalotti opponeva Castiglioni che il duca di Lorena, al quale sarebbe passato il comando dell’esercito del Reno era troppo inferiore al Montecuccoli, rispondeva l’altro: “Che importa che il Montecuccoli sia il Montecuccoli, se vuol operar da meno del giovane duca di Lorena?”. Se però così arditamente scriveva quel diplomatico, convien supporre che a bastanza celatamente operasse da non ingenerar sospetto di sé, perché sappiamo che andava egli stesso a visitare in casa quel generale, contro il quale tanto fiele nudriva. Di una di quelle sue visite diede conto il 2 di febbraio, allorché un nuovo e violento accesso di gotta e di chiragra alcun tempo lo tenne in letto, siccome dicevamo. Che poi anche più tardi non fosse a cognizione del Montecuccoli quanto operava esso in suo danno (se pure per un riguardo verso del granduca non finse d’ignorarlo), sembra che ritrar si possa dall’averlo egli fatto pregare nell’ottobre di quell’anno medesimo d’insegnargli il modo, che sapeva da lui usato, per render meglio potabile la cattiva acqua di Vienna. Andò allora egli stesso il Magalotti da lui, offerendosi provvederlo dell’acqua risanata mercé di certa essenza che il granduca gli mandava, e della quale non poteva svelare il segreto, né si sarebbero poi trovati in Germania i fiori occorrenti a comporla. E il Montecuccoli, che non usava a cena se non di qualche biscottino bagnato nell’acqua, di buon grado accettò quelle offerte. E scriveva poi il Magalotti al segretario Bassetti, reputare che ciò non dispiacerebbe al granduca, “per essere Montecuccoli italiano, che vuol dir capace di ricordarsi in una occasione di una cortesia ricevuta, e che ricordandosene può pagarla a cento doppi, senza che gli costi niente”. Ma se non seppe, o se dissimulò Raimondo le male opere del Magalotti, le lettere di quest’ultimo ci fanno accorti ch’egli era informato di quanto contro di lui tramavano Swarzenberg e Balbases, e che mostrò risentirsene.
A lungo durò l’incertezza circa la possibilità che potesse Raimondo tornare alla guerra, come il Magalotti e il Bianchi avvisarono. Reiterate istanze per questo facevagli l’imperatore, e venivano incitamenti dal Villahermosa, comandante in Fiandra le truppe spagnole, che non teneva conto di quanto contro il Montecuccoli gli scriveva il Balbases, del quale conosceva gli intenti. La stessa regina di Spagna, non fidando in quel suo ambasciatore, direttamente si rivolgeva all’imperatore suo fratello, scrivendogli che non altri era da mandare al comando delle truppe se non il Montecuccoli. Di questo restringevasi essa a dar contezza al Balbases ordinandogli che in ciò si adoperasse egli pure, promettendo ancora al Montecuccoli quel principato nel napoletano, del quale più addietro tenemmo parola ; i quali ordini, conoscendo la natura di quell’uomo, si può sospettare che non li avrà egli eseguiti. Allora di nuovo l’imperatore volle indurre Montecuccoli ad assumersi quell’incarico, valendosi non solo del Dietrichstein cognato di lui, ma della stessa imperatrice vedova Eleonora Gonzaga, con grave scandalo del Magalotti, che questa chiama un’indegnità. Ma il medico Gianforte avendo dichiarato all’imperatore medesimo che se Montecuccoli non avesse fatto certa cura che gli prescriveva, non avrebbe potuto vivere più a lungo, la cosa per allora fu posta in silenzio. Pertanto il generale, all’aprirsi della primavera, si sottopose alla cura prescrittagli, che fu lunga, e durante la quale non cessarono le dicerie circa il suo andare o non andare all’esercito. Indefessamente nel consiglio di guerra si adoperava egli intanto a preparare quanto occorreva per la prossima campagna, non dando retta a raccomandazioni o a premure di chicchesia, come scriveva il Magalotti, che lo diceva anche ben accordatosi col Capiliers e coll’Heyster, già capitalissimi nemici suoi. Il quale oblio per parte del Montecuccoli delle offese ricevute da que’ due generali (contro i quali proruppe allora Magalotti in quelle accuse, che da noi furono accennate) ci fa prova dell’abnegazione sua al tempo opportuno, allorché ne andava di mezzo il servigio imperiale. Ottenne Montecuccoli che fossero posti a sua disposizione, per provvedere di ogni cosa occorrente l’esercito, due milioni di fiorini, comprese per altro in quella somma le paghe pei soldati in Ungheria, e per quelli che rimanevano ne’ paesi ereditarii, che importavano insieme 800.000 fiorini. Era venuta intanto la stagione propizia ad uscire in campagna, e al duca di Lorena fu dato temporaneamente il comando delle truppe che erano al Reno, le quali negli Avvisi del Bianchi è detto ascendessero a ventottomila fanti e a dodicimila cavalli. Quel comando poi gli fu confermato definitivamente quando venne fatto al Montecuccoli di ottenere il chiesto riposo, riserbandosi soltanto di poter disporre delle cariche militari in que’ reggimenti, e il titolo onorifico di comandante in capo, se non gli fu questo, com’è probabile, offerto dallo stesso imperatore, che gli lasciò la direzione suprema di tutte le sue truppe; la quale a lui rimase in sin che visse, e passò, lui morto, al Lorena. Di quest’ultimo scrisse il Magalotti, che dal Montecuccoli, come da suo maestro, pigliava tutte le maniere del far la guerra, e questa amava sopra ogni altra cosa, e l’intendeva più che non si potesse aspettare. Ma lo diceva tiranno de’ servitori suoi, e che ne sacrificherebbe cento per fare star bene un moschettiere. Né avaro, né liberale perché povero, sobrio, vigilante, laborioso, uomo di probità, di religione, di giudizio, di prudenza. Queste qualità fecero poi avverare il presagio che di lui faceva quel diplomatico, che sarebbe stato cioè in pochi anni uno dei maggiori capitani d’Europa; e di ciò è da dar lode al Montecuccoli altresì, sotto la disciplina del quale ei si venne educando.
- ↑ Montecuccoli non aveva 67, ma 66 anni.
- ↑ Dicemmo già che il forte a difesa del ponte di Strasburg l'avevano in guardia milizia strasburghesi; ora, cessato il pericolo di rappreaglie francesi, il ponte veniva consegnato ai soldati dell'imperatore.
- ↑ Sulla vittoria di Altenheim fu fatto in Modena un sonetto del quel basterà riportare gli utlimi versi che dicono:
«Nè sia che alcino i regni augusti invada,
mentre ad un Fabio e ad un Marcello uguale
Dell'impero roman sei scudo e spada.» - ↑ Mémoirs di M. L. C. D. R. contenant ce qui s'ent passé sous le ministère du cardinal Richelieu
- ↑ Una lettera del re d'Ungheria al marchese Giambattista facevagli la medesima promessa per figlio di lui. (Archivio Montecuccoli in Modena.)
- ↑ Altre truppe mandavansi allora nel milanese agli spagnoli.