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VI. Varie - 4. Sonetto fatto al medesimo Tavola delle varianti Ponzio
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NOTA1

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I

La storia del testo delle poesie del Campanella è quasi altrettanto avventurosa e tormentata che quella della sua vita. Scritte, quelle che possediamo, nella massima parte durante il periodo della lunga carcerazione, di nascosto dalle autoritá, che lo sorvegliavano col continuo sospetto e timore di nuovi complotti o di propaganda ereticale, esse giravano clandestinamente in alcune copie frettolose e scorrette tra i compagni di carcere in mezzo ai quali si consolidava ed ingrandiva la fama del monaco dal vulcanico intelletto, e talvolta scivolavano nelle mani di qualcuno dei rari visitatori del Campanella, che meravigliando apprendevano un’altra delle molteplici manifestazioni dell’illustre prigioniero.

Della relativa diffusione di un certo numero di poesie tra le persone a lui piú vicine sono una prova quelle poesie dedicate o a compagni di prigionia o a personaggi, che in un modo o nell’altro ebbero rapporti col Campanella quasi sempre per ragioni di ufficio (vedi per es. le poesie a pp. 101, n. 53; 111, n. 67; 220-1, nn. 3-5; 225-48, quasi tutte, e 256-7). L’Amabile ha trovato altre tracce della fama poetica conquistatasi dal Campanella tra i suoi compagni, che lo sollecitavano di scrivere e ne diffondevano i componimenti, in un curioso documento processuale, cioè un brano di colloquio notturno svoltosi tra lui e il suo fedele compagno fra Pietro Ponzio dalle finestre delle vicine celle, ascoltato da una spia e riferito ai magistrati.

— Li sonetti toi — dice fra Pietro — per tutto Napoli li ho sparso, e io li ho tutti a mente; e non ho piú gran gusto che leggere qualche cosa dello ingegnio tuo.

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E il Campanella:

— Ne voglio fare allo nunzio mò.

— Si, cor mio. Però fammi una grazia: fa’ li mei prima, cioè quelli che voglio per Ferrante mio fratello, e poi fa’ quelli del nunzio.

— Va’ te riposa, bona sera2.

Ma questa, conquistata attraverso una specie di circolo d’iniziati, non poteva essere che una fama locale in una cerchia ristretta, checché dicesse l’entusiasta fra Pietro — con una di quelle allucinazioni cosí comuni tra prigionieri — di avere sparso le poesie per tutta Napoli, dal fondo della sua cella.

È bensí vero che la biografia poetica del Campanella non comincia da Castel nuovo. Anche senza tener conto di quelle giovanili esercitazioni in metri latini su argomenti filosofici, che dal lato dell’arte non dovevano avere nessun valore e che per altro sono andate disperse (vedi appresso, pp. 285-286), noi possediamo alcuni residui della sua attivitá poetica nel tempo della precedente prigionia presso il S. Uffizio in Roma (1594-5) e nei due anni che seguirono (vedi p. 286). Ma a Roma anche piú che a Napoli la sua poesia serpeggiava clandestina e il piú spesso si acconciava a nascondere la sua vera paternitá ed a parlare in nome altrui.

Perché la sua fama poetica cominciasse a fare veramente i primi passi nel mondo bisognò che fosse portata oltre la cinta dei castelli napoletani. E ciò avvenne in seguito ad un concatenamento di fatti, che presero le mosse da un incontro fortuito.

Dei due processi, ai quali fu sottoposto il Campanella, l’uno, quello politico, non si chiuse mai, l’altro, quello d’eresia, si chiuse davanti al tribunale del S. Uffizio il 29 novembre 1602 con la condanna al carcere perpetuo nelle prigioni della congregazione in Roma. Ma poiché pendeva su di lui il processo del tribunale laico di uno stato estero, la sentenza riceveva una parziale modificazione nel senso che il condannato rimaneva affidato al potere giudiziario di quello fino alla chiusura del procedimento, e sotto la sorveglianza del nunzio pontificio presso il governo vicereale di Napoli. Questa complicata situazione giuridica, che in seguito fu causa di non pochi affanni pel povero prigioniero, in un primo [p. 263 modifica] momento gli apportò qualche giovamento. Condannato da una parte, egli era ancora prevenuto per l’altra, e come tale continuò ad essere trattato ancora per circa sei mesi dopo che gli fu data lettura e quindi passò in giudicato la sentenza di Roma (8 gennaio 1603); e il suo stato cambiò assai in peggio solo quando le autoritá religiose e quelle politiche ebbero motivi per esse gravissimi di allarmarsi3. I costumi carcerari del tempo nel periodo del carcere preventivo non erano affatto in armonia coi rigori dell’istruttoria. I detenuti, anche quelli di una medesima causa, erano gettati insieme alla rinfusa in un certo numero di cameroni mal guardati, dove erano in facili rapporti non solo con custodi compiacenti e abitualmente venali4 e con le loro famiglie, ma anche con persone estranee, che venivano a visitare questo o quell’amico approfittando della rilassata disciplina. Inoltre la magistratura inquirente non si preoccupava affatto di tenere separati quelli che erano giá in istato di accusa da quelli che erano ancora trattenuti in attesa delle risultanze delle prime indagini.

Queste circostanze cosí poco poetiche è necessario tenere presenti per seguire l’oscuro e intricato cammino fatto dalle poesie del Campanella per venire alla luce. Il brano di dialogo notturno tra il Campanella e fra Pietro Ponzio illumina di scorcio lo stato d’animo del poeta e dei suoi compagni di prigionia in quel tempo. Vivendo in quell’atmosfera di esaltazione reciproca e di grandi attese spesso fantastiche, che si alimentano tra pochi uomini costretti a vivere nei tormenti in segregazione, quelle poesie non solo erano una forma di legame spirituale tra loro — incitamento, consolazione, ed oblio —; ma essi s’immaginavano che, messe in circolazione pel mondo, fatte conoscere a personaggi di gran merito e autoritá, potessero contribuire a far volgere una piú benevola attenzione su quegli infelici ma non ignobili uomini, che marcivano nei sotterranei di Castel nuovo. Questo spiega meglio il desiderio incessante del Campanella e del fedele fra Pietro Ponzio di far uscire di contrabbando non solo le opere in prosa, destinate a consolidare la fama, giá abbastanza diffusa prima della prigionia, del filosofo e del pubblicista politico; ma anche i componimenti poetici, destinati ad allargare la sua fama in un altro [p. 264 modifica] campo, dove era quasi ignorato, ed a raccomandarlo anche all’opinione degli uomini di lettere o semplicemente a gran signori di un certo buon gusto, fra i quali l’infelice prigioniero sperava di trovarne qualcuno di un certo buon cuore, che prendesse a proteggerlo, se non altro in grazia delle muse. Infatti è da ricordare che oltre i tentativi per far uscire copie di poesie clandestinamente, il Campanella non mancò mai di farne menzione apertamente in difese ed istanze, che indirizzò al pontefice o direttamente o pel tramite di alti prelati: documenti che anzi ci serviranno in seguito per meglio fissare la cronologia del testo.

Ma questi documenti appartengono ad un tempo posteriore a quello del quale ora ci occupiamo, cioè al periodo, che si chiude con la estate del 1603. In questo periodo due occasioni si presentarono, le quali ebbero, in diverso senso, una importanza capitale sul destino delle poesie.

Uno degli stratagemmi piú a portata di mano dei prigionieri per far pervenire qualche loro scritto all’esterno è quello di servirsi di qualche compagno liberando. Questo riusciva relativamente facile in un carcere come quello di Castel nuovo, che ospitava promiscuamente accusati a disposizione dell’autoritá giudiziaria e semplici detenuti o trattenuti a disposizione dell’autoritá politica — per misure di polizia, si direbbe adesso. Tra costoro, nella estate del 1601 si trovava un certo Francesco Gentile, il medesimo che, a quanto pare, nell’autunno precedente, era stato interrogato come testimone nella causa del Campanella e dei suoi compagni. Neanche alla instancabile perspicacia d’indagine dell’Amabile riusci di accertare in modo assoluto chi egli fosse; ma potè concludere con la maggiore probabilitá che si trattasse di un giovane appartenente alla famiglia Gentile, del patriziato genovese, che teneva banco in Napoli. Francesco risiedeva dunque in questa cittá per i suoi affari di commercio; ma non pare che fosse assorbito da essi. Gli affari di amore pare che lo occupassero per lo meno in egual misura, e i rapporti piuttosto tesi con la giustizia, sebbene non precisati, ci fanno intravedere qualche altro campo della sua attivitá.

Il nuovo ospite di Castel nuovo entrò subito in rapporti con il numeroso gruppo dei congiurati calabresi, che per la fama del caso, per la fierezza degli uni, la stranezza o turbolenza degli altri doveva riuscire assai interessante; e siccome il Gentile era certamente uomo non volgare — patrizio lo designa fra Pietro [p. 265 modifica] Ponzio esplicitamente — e doveva essere un po’ intinto di lettere, per lo meno di quel tanto di poesia petrarcheggiante secondo la moda corrente per farsene bello con le sue dame del cuore; cosí non potè non riconoscere la figura sopra tutti imponente di Tommaso Campanella. E quando apprese che questi era non solo il capo riconosciuto del misterioso movimento calabrese, filosofo e profeta, ma anche scrittore di versi profondi od arguti, si strinse ancor piú intorno a lui ed al fedele fra Pietro, fino ed entrare in una grande intimitá con loro.

Era quello il tempo in cui il povero Campanella, parte per distrarsi da dolori presenti e da pensieri assillanti, parte per il bisogno d’ingraziarsi personaggi, che in un modo o in un altro potevano alleviare le sue miserie — amici, testimoni, parenti di funzionari dell’amministrazione carceraria — scriveva poesie d’occasione piuttosto leggiere per contenuto e per valore artistico, talvolta anche in nome altrui. Era probabilmente il genere di poesia che piú gustava il giovane corteggiatore del bel mondo, ed effondendo le sue confidenze amorose sollecitò il poeta a scrivere ora per una Flerida ora per una Maria.

Intanto fra Pietro, col suo chiodo fitto in testa di spargere le poesie del maestro per tutta Napoli, ebbe subito il pensiero che mai occasione migliore si potesse trovare che la rapida simpatia e confidenza stabilitasi tra loro e il giovane patrizio, che aveva larghe conoscenze nella buona societá napoletana e mostrava tanto interesse pel Campanella e nei discorsi tenuti insieme indubitabilmente si profferiva di aiutarlo appena fosse tornato in libertá. Il risultato di accordi presi fra i tre amici fu che il Ponzio avrebbe raccolto un certo numero di poesie del Campanella in un volumetto, che il Gentile avrebbe portato con sé di nascosto nell’uscire. Si comprende che la scelta era fatta secondo il gusto del patrono, e quindi ci prendevano un posto di onore le poesie piú scadenti ed effimere del Campanella, a cominciare precisamente da quelle, delle quali il Gentile stesso era stato il committente.

È probabile che per un qualsiasi contrattempo il progettato contrabbando di versi sia andato a vuoto, e che il Gentile sia uscito da Castel nuovo con l’intesa che avrebbe poi ricevuto il manoscritto pel tramite di terzi. Di lui si perdono anche le poche tracce, che l’Amabile è riuscito ad adombrare fino a quel momento. Certo è che il manoscritto era ancora in possesso di fra [p. 266 modifica] Pietro nei primissimi giorni dell’agosto 1601, quando la notte del 2, a causa di una clamorosa rissa avvenuta il giorno tra prigionieri, operatasi una perquisizione straordinaria nella sua cella, fu trovato mal nascosto in un canestro di vimini e sequestrato5.

E per allora e per quasi tre secoli ancora quella copia manoscritta unica di poesie campanelliane giacque seppellita ed assolutamente ignorata nella congerie degli atti processuali.

II

Pel momento, dunque, l’episodio Gentile non ebbe un effetto tangibile sulle sorti della fama letteraria del Campanella piú di quanto non ne avesse avuto sulle sue sorti di misero mortale. Perché si ravvivassero le sue speranze, e con piú fondamento, bisognò aspettare quasi due anni. Si arriva cosí al periodo immediatamente posteriore alla condanna del S. Uffizio. Aveva perduto il caro ed entusiasta fra Pietro Ponzio, assolto da questo tribunale e rilasciato subito dopo anche da quello laico, e gli rimaneva la compagnia di un altro coimputato, fra Pietro da Stilo, anima semplice ed affettuosa, molto legato a lui, ma che non doveva interessarsi gran che di poesia6, e di un Felice Gagliardo, che invece di poesia si piccava, come ebbe a dire con sprezzante ironia fra Pietro Ponzio in una deposizione contro di lui dopo la famosa rissa, che fu causa della scoperta delle poesie nel canestro; ma allo stesso modo come si piccava di negromanzia, d’intrighi politici ed amorosi e, occorrendo, di ladroneccio7.

Ma sul finire del febbraio venne a rompere la monotonia della sua triste esistenza un giovane straniero cascato in quel carcere napoletano per un caso romanzesco. In quei giorni il conte Giovanni di Nassau si era recato per diporto a Napoli con alcuni amici italiani e stranieri, tra i quali un giovane tedesco, Cristofaro Pflug, che dimorava in Italia probabilmente per ragioni di studio, e che apparteneva forse ad un ramo della famiglia dei Fugger, i rinomati banchieri di Augusta, certo era in stretti rapporti con [p. 267 modifica] quelli. Messo in allarme da una erronea informazione di un suo diplomatico, il governo napoletano ordinò l’arresto di tutta la brigata. Il Pflug con una parte di essa tradotto in Castel nuovo ebbe cosí occasione d’incontrarsi e fare amicizia col Campanella. E questa, sebbene strettasi nel giro di meno di due mesi, non fu un’amicizia effimera, com’era avvenuto col Gentile, ma tenace e costantemente affettuosa, cementata da una benevolenza quasi paterna per una parte e per l’altra da un’ammirazione piú che rispettosa entusiastica. Piú di quattr’anni dopo questi vincoli comuni di affetto sono tutt’altro che allentati, e il Campanella, per esortare il giovane amico a spezzare un certo legame femminile poco degno di lui, gli scrive una delle piú vivaci e patetiche lettere che di lui ci siano rimaste, intramezzata di effusioni, ricordi e confidenze intime, e col tono di chi sente di poter ammonire l’amico col diritto di un secondo padre, che l’amico stesso gli aveva conferito nel chiamarlo maestro8.

Per comprendere meglio come potettero stabilirsi in cosí breve tempo rapporti cosí stretti e cosí duraturi, e come l’amicizia di questo giovane straniero sia stata tramite ad altre amicizie, bisogna ricordare che il Pflug, luterano, nel tempo che s’incontrò col Campanella cominciava ad essere vacillante nella sua fede. Era nel momento psicologico propizio per un’opera di conversione, e il Campanella vi si applicò con ardore fondendola col suo insegnamento filosofico. Liberato, il Pflug giunse a Roma pieno di spirito campanelliano, e senza dubbio anche in materia di fede i germi gettati dallo straordinario frate maturarono nel suo animo e contribuirono validamente nel determinarlo di convertirsi al cattolicismo. Questo cambiamento radicale della sua vita fu anche occasione di nuove conoscenze negli ambienti romani intorno al Vaticano, una delle quali fu di un altro neofita, e suo concittadino, giustamente pregiato per la sua dottrina ed abilitá dialettica e giustamente spregiato e guardato con diffidenza pel suo carattere.

Quel curioso e ambiguo tipo di filologo tedesco che fu lo Scioppio, diventato una lancia spezzata della pubblicistica della Controriforma dopo l’abiura del luteranesimo — ma conservando [p. 268 modifica] sempre una vorace curiositá da umanista per tutte le manifesazioni letterarie ed un irrequieto gusto d’intrighi e di prebende — cominciò ad avere una conoscenza concreta del Campanella attraverso le parole infiammate del nuovo giovane amico, il quale lo incitò a leggere le copie di opere filosofiche e politiche, che aveva portate seco nell’uscire da Castel nuovo (l’Epilogo di fisiologia; la seconda redazione della Monarchia di Spagna; forse altre), e ad usare il grande credito acquistatosi nelle alte sfere della Curia romana per tentare la liberazione dell’illustre prigioniero. Partito poi da Roma si recò in Germania, dove, per la mutata fede, dovette essere accolto con piú intima cordialitá dai Fugger, che erano il fulcro di parte cattolica nei paesi renani. Anche ad essi il Pflug parlò calorosamente del lontano amico prigioniero, prospettò tutto il bene che da lui liberato e in condizioni di scrivere apertamente sarebbe venuto alla causa cattolica in Germania, ed incitò soprattutti Giorgio Fugger a fare uso del suo ascendente o del suo danaro perché il Campanella in un modo o nell’altro uscisse di prigione, o mediante trattative diplomatiche dei principi cattolici tedeschi con la corte di Spagna o per intercessioni vaticane o con la fuga9.

Di tutti questi progetti lo Scioppio fu consapevole e partecipe; ma anche in questa occasione il suo carattere non si smentì. In un primo momento il suo ingegno di umanista dotto ed acuto fu vivamente colpito da quella rivelazione; ma subito dopo prevalsero motivi pratici personali. Egli era allora nel fervore delle polemiche contro i suoi antichi correligionari — ricorda opportunamente l’Amabile — e si era impegnato nella controversia dell’Anticristo. Andava in cerca di appoggi dottrinali, e dai libri ricevuti in lettura dal Pflug, e forse da qualche altro che correva manoscritto e che fu invogliato a ricercare, «riconobbe nel Campanella il suo uomo, si offrì di acquistargli la libertá e disse volerlo compagno nei suoi roventi disegni da neofito, che poi riuscirono ad imprese di maneggi diplomatici assai piú utili per la persona sua»10.

Verrá un tempo infatti, in cui lo Scioppio comportandosi sempre piú mollemente nei riguardi del Campanella, per non arrischiare il suo credito in Curia, e lasciando cadere le mirabolanti promesse, finì per trascurare del tutto gl’interessi del povero [p. 269 modifica] prigioniero, che non collimavano piú coi suoi, anzi lo rendevano uggioso agli alti prelati, e «non si degnò piú di rispondere alle lettere di lui»11 . Ma questo avvenne alcuni anni dopo. In quel momento, nel fervore dei suoi progetti, cercò non solo di addentrarsi rapidamente nell’opera del Campanella; ma poi anche di avvicinarlo di persona. Ci fu prima uno scambio di lettere tra i due (inverno 1607), e la primavera seguente lo Scioppio intraprese un viaggio a Napoli a questo scopo12. Quel viaggio però non ebbe tutti i risultati, che i due interessati si ripromettevano, se, come pare certo, bisogna concludere con l’Amabile che il visitatore, benché autorevole per le protezioni della Curia romana e personalmente ricco di espedienti, non riuscí ad infrangere la severa clausura, nella quale il prigioniero era tenuto ancora in quegli anni e non si allentò in qualche misura (e non sempre) se non dopo il 1610. Ed egualmente è da rigettare con l’Amabile l’opinione che si trattasse di una specie di missione diplomatica presso il governo vicereale promossa da Paolo V per ottenere la liberazione del Campanella, sebbene questo abbia affermato il Campanella medesimo per ragioni di opportunitá13.

Non è detto con questo che il viaggio, il tentativo d’incontro e l’interessamento dello Scioppio non abbiano giovato a nulla sia per alleviare le condizioni materiali del prigioniero, che allora erano detestabili, sia per diffondere nel pubblico delle persone colte la fama del suo alto intelletto e delle sue grandi sventure. Questo episodio fu anzi un altro anello della catena, lungo la quale faticosamente si fecero strada verso la posteritá le poesie campanelliane. Perché lo Scioppio ebbe in mano anche buona parte di queste, se non tutte quelle scritte fino allora, e sebbene i suoi interessi di studioso e di pubblicista polemico lo attirassero soprattutto sulla produzione filosofica e di controversia teologica, tuttavia, tornato a Roma, nel parlare agli amici del frate enciclopedico, non potè mancare di citare e mostrare saggi della sua produzione poetica. [p. 270 modifica]

C’era tra questi amici romani un suo giovane connazionale, Enrico di Bünaü (italianamente Bina), che anche lui apparteneva alla larga cerchia di parentele e conoscenze dei banchieri Fugger. Negli anni che seguirono tanto il Pflug quanto lo Scioppio e le famiglie dei Fugger e dei Bünaü si adoperarono in vario modo ed a varie riprese in favore del Campanella. E in questo frattempo cresceva nella casa dei Bünaü a Meissen un giovinetto, fratello minore di Enrico, Rodolfo di Bünaü, sotto la guida di un aio intelligente e amante dei buoni studi, Tobia Adami. (VediInd., s. q. n.). Giunto all’adolescenza, i parenti stabilirono di fargli compiere un lungo viaggio d’istruzione in Oriente e in Italia. E di ritorno da Gerusalemme i due viaggiatori sostarono a Napoli, col vivo desiderio di conoscere da vicino quel monaco filosofo, cospiratore, poeta e quasi mago, la cui fama circolava nei racconti familiari come una leggenda. Dopo il pellegrinaggio in Terra santa, fu in certo qual modo un pellegrinaggio anche questo, nel mondo della scienza esoterica e della poesia.

Il Bünaü e l’Adami si trattennero a Napoli dal febbraio all’ottobre del 1613. In quel tempo il Campanella si trovava in condizioni meno desolate che in quello della tentata visita dello Scioppio; sebbene a sbalzi ed a libito delle autoritá, si tolleravano a suo beneficio certe infrazioni allo stretto regime carcerario. Così non fu difficile ai due stranieri superare la soglia del Castello dell’uovo, dove da qualche anno era stato trasferito, e avvicinare piú d’una volta il prigioniero tanto ricercato e trattenersi ogni volta con lui in lunghi colloqui, che si trasformarono ben presto in un vero e proprio corso di filosofia, completato da uno scambio di lettere. Il Campanella non si appagò di questo; ma per prodigare agli ospiti graditi tutti i tesori della sua sapienza riposta trasse l’oroscopo astrologico del nuovo giovanissimo discepolo, oroscopo che fu assai promettente, e chi sa con quanta sincera compunzione fu ascoltato.

In quest’atmosfera di entusiasmo e di reverenza insieme si strinsero i legami di amicizia tra il Campanella e l’Adami, che non si spezzarono né si allentarono mai. Se il Bünaü, sedicenne, si trovava naturalmente pronto a risentire il fascino di un uomo come il Campanella, l’Adami, per quanto avesse superato la trentina e conoscesse il mondo, non fu meno impressionato del suo giovane allievo. Doveva essere un temperamento serio, riflessivo, ma anche aperto al senso della poesia. Cosi mentre il Pflug fu [p. 271 modifica] precipuamente attratto dalla produzione speculativa del Campanella, e lo Scioppio dalla pubblicistica teologica che favoriva i suoi riposti bisogni, l’Adami, pur raccogliendo quanto piú poteva della produzione campanelliana, ebbe lui per primo veramente l’intuito di trovarsi davanti ad un poeta originalissimo. Fu lui inoltre a comprendere che la parte sostanziale delle poesie si legava strettamente alla produzione filosofica di quel singolare pensatore e ne formava come il commento lirico; e perciò, dando poca attenzione alle poesie di carattere puramente occasionale e di scarso valore, si fermò e mise in rilievo tutta l’importanza della restante poesia, che potrebbe dirsi gnomica14.

Nel congedarsi dall’Adami il povero prigioniero reiterò anche a lui le raccomandazioni che l’opera sua, che aveva affidata nelle sue mani e dalla cui pubblicazione tanto si riprometteva, non finisse anche questa volta per circolare di soppiatto in qualche copia manoscritta o addirittura abbandonata alla curiositá dei topi; e l’Adami promise, e con animo piú risoluto e sincero dei suoi predecessori. Tornato in patria infatti, in un tempo relativamente breve rispetto alle difficoltá da superare, imprese per la prima volta una pubblicazione approssimativamente metodica di un buon gruppo di opere campanelliane: Prodromus philosophiae instaurandae (Francoforte, 1617); De sensu rerum et magia (Francoforte, 1620); Apologia di Galileo (Francoforte, 1622: questa scritta dal Campanella ed inviatagli nel 1616); Philosophia realis epilogistica, a cui fanno seguito gli Aforismi politici e la Cittá del sole. Trasmise inoltre all’amico Cristoforo Besold la Monarchia di Spagna, che ne dette la traduzione tedesca nel 1622 (senza luogo di ed.)15.

Né trascurò le poesie.

Fin dalla prima pubblicazione, in prefazione al Prodromus, dette notizia e promise la pubblicazione di esse, solo dubitando che in Germania si potesse intenderle ed apprezzarle nel loro giusto valore; inoltre con un certo legittimo orgoglio riportò quel sonetto a lui dedicato, che fu poi compreso anche nella Scelta16. Quindi, per preparare il terreno presso il pubblico, fece tradurre [p. 272 modifica] in tedesco alcune poesie dall’amico Giov. Valentino Andreanota; e finalmente nello stesso anno della stampa dell’Apologia di Galileo dette alla luce un volumetto contenente ottantanove poesie accompagnate da un commento — avuto dal medesimo autore, come si vedrá in seguito (p. 288).

L’Amabile ha dato una esatta descrizione di questo cimelio:

«Il libro è cosí intitolato:

Scelta | D’alcune | Poesie filo- | sofiche | di | Settimontano Squilla | Cavate da’ suo’ libri | detti | La Cantica | Con l’esposizione: | Stampato nell’anno | m.dc.xxii.

È in quarto piccolo, ha pagine 8 di dedica ed indice (ma compreso anche il frontespizio) e pagine 128 di testo, nell’ultima delle quali si trova un «Corregimento de gli errori della stampa»; ... presenta le note in corsivo su’ margini delle pagine, ed è veramente impresso con caratteri stanchi su carta assai scadente, come del resto si vede in molte edizioni tedesche dell’epoca»nota.

L’opera non reca nessuna indicazione della stamperia e del luogo di pubblicazione; ma tutto fa credere che sia stata stampata in Germania, come giá prima dell’Amabile affermava l’Orelli nella prefazione alla sua ristampa (della quale parlerò tra breve), avanzando anzi la supposizione che molto probabilmente il libro fosse uscito da una tipografia di Wolfenbüttel (vedi appresso, p. 274).

La ragione di questa pubblicazione quasi clandestina è facile a comprendere. Non aveva torto l’Adami a dubitare che questa poesia, che richiede amorosa attenzione anche da parte del lettore italiano, potesse avere una qualche diffusione in un paese straniero d’idioma tanto diverso. Per di piú la poesia di quello strano frate, che s’era fatto ardente campione dell’anti-luteranesimo, ma che anche si trovava in fondo a un carcere con una condanna d’eresia da parte del S. Uffizio e un’altra per ribellione contro il suo governo, la quale sempre gli pendeva sul capo; e che tuttavia in verso come in prosa continuava a battagliare contro lo stato e contro la chiesa — praticamente contro qualsiasi chiesa canonica —; una tale poesia non poteva essere vista che

(1) 17

(2)18 [p. 273 modifica] con diffidenza in un paese arso dalla guerra religiosa, come la Germania in quel tempo.

Il libretto circolò tra una ristretta cerchia di amici e letterati curiosi di cose nuove ed esotiche; poi presto disparve, come sepolto.

III

Ci passarono sopra quasi due secoli. Che il Campanella avesse scritto anche in versi si sapeva dalla testimonianza autobiografica del De libris propriis e dal catalogo metodico dei suoi scritti, che il Campanella fece seguire all’edizione parigina della Philosophia rationalis, primo volume delle progettate opere complete19; ma nessuno fino all’alba del secolo XIX ricercò quei versi. Dalla metà del Seicento, del resto, fino alla fine del Settecento era eclissata anche la fama del Campanella filosofo. Chi si sarebbe affannato a ricercare l’opera dispersa di uno scrittore, di cui pochissimi si curavano di conoscere l’opera ancora a portata di mano?

Ed infatti la resurrezione del Campanella poeta avvenne attraverso la rivalutazione del Campanella filosofo, ai primordi del movimento romantico tedesco. Giá veramente quell’ingegno universale che fu il Leibniz lo studiò, lo riconobbe tra gli spiriti piú eccelsi e istituí un parallelo con lo Hobbes a tutto vantaggio del filosofo calabrese:

«Che si è pensato di piú ingegnoso di quel che Descartes in fisica od Hobbes in morale? Paragonisi intanto quello con Bacone, questo con Campanella, e si vedrá quelli strisciare al suolo, questi innalzarsi e poggiare alle nuvole per l’altezza dei pensieri, dei consigli, dei disegni, quanto può esserne capace l’umana natura»20.

Che non è poco. Le fortune campanelliane si risollevavano, e si avvicinava il tempo che anche la sua poesia fosse tratta dall’oscuritá secolare e ottenesse il suo giusto riconoscimento. Sulla fine del Settecento lo Herder ebbe occasione di studiare l’opera poetica di Giov. Valentino Andreä, per preparare la [p. 274 modifica] prefazione che egli scrisse per la edizione di Lipsia del 1786. Ed in quella occasione indubitatamente essendosi trovato davanti ai saggi di traduzione, che lo Andreä compose per incitamento dell’Adami, con quel sicuro intuito del suo spirito geniale riconobbe e si accese per quella poesia cosí lontana dalle vie battute. Approfondì l’argomento; ebbe la fortuna di mettere le mani su uno dei rarissimi esemplari della Scelta ancora esistenti e agl’inizi dell’Ottocento, in uno dei fascicoli della sua rivista Adrastea pubblicò un saggio di traduzione di ventisette poesie del Campanella, facendole seguire da una breve, ma calorosa notizia sul nuovo Prometeo e sulla fortuna del suo misterioso libro di versi21.

Ancora pochi decenni ed esso uscirá dall’ombra, anche materialmente come libro, e sará stampato in un numero conveniente di copie, in una seconda e piú degna edizione, la quale finalmente sará la prima edizione uscita da una stamperia italiana. Per arrivare a questa ci fu bisogno di uno di quegli intermediari, che sono tanto benemeriti alla circolazione del pensiero. Gaspare Orelli, l’illustre filologo zurighese, il cui nome è legato alla monumentale edizione di Cicerone, vissuto in gioventú tra la Lombardia e i Grigioni, s’impossessò del nostro idioma e s’appassionò della nostra poesia, di cui diffuse la conoscenza nei paesi di lingua tedesca. Nel corso di questi studi e ricerche continuava ad alimentare un suo sogno giovanile: possedere e mettere alla luce tutte le poesie di quel misterioso poeta calabrese, di cui le pagine dello Herder avidamente lette avevano lasciato nel suo spirito un’impressione incancellabile. Proseguì instancabile le ricerche per venticinque anni, sinché — egli stesso racconta con commossa parola — si potè «procacciare da un angolo dell’ultimo settentrione della Germania quel canzoniere oltre ogni credere rarissimo, dimodoché in tutta Italia forse non n’esiste neanche una sola copia».

Il rarissimo esemplare gli pervenne da Wolfenbüttel, onde argomentò che ivi fosse stato stampato; e su quello condusse la nuova edizione, che uscì nel 183422. [p. 275 modifica]

Quella dell’Orelli era opera di pioniere, e non gli si poteva chiedere la perfezione. Con un poeta come il Campanella e un testo come la prima edizione tedesca e nessun altro aiuto che l’induzione, da parte di uno studioso straniero, che conosceva con sicurezza l’italiano classico, ma non un italiano intriso di dialettalismi, deficienze ed equivoci d’interpretazione erano inevitabili. Una vera e propria manchevolezza da parte di un valente filologo come l’Orelli, fu di avere sbadatamente trascurato l’errata-corrige del prototipo (vedi p. 272); e un’altra deficienza essenziale derivò dall’avere trattato con disinvoltura il commento, parafrasandolo e riassumendolo in annotazioni proprie. È vero che egli era sviato da un’asserzione erronea dello stesso Campanella nel De libris propriis (vedi p. 288), la quale gli faceva attribuire ad altra mano quel commento; però ad un filologo insigne come lui, se si fosse fermato a fare un po’ di critica interna di quel testo, non sarebbe potuta sfuggirne la indubitabile paternitá, come avvenne infatti agli studiosi posteriori.

Deficienze secondarie sono il non aver riprodotto integralmente, ma qua e lá con abbreviazioni peggiorative, i titoli dell’indice della prima edizione — che anch’esso si deve ritenere steso dall’autore —, e di avere tolta la dedica dell’Adami ai suoi amici e con lui ferventi ammiratori del Campanella (vedi in questa ed. pp. 3-5), sostituendola con una propria agli eminenti filologi tedeschi Blanc, Gries, Streckfuss, Wagner e Witte.

Da questa edizione proviene quella che il giovanissimo D’Ancona curò, con un acume critico, che studiosi assai piú maturi potevano invidiargli, per la scelta di opere campanelliane pubblicata nella Nuova biblioteca popolare del Pomba nel 1854 (piú volte cit.). Le poesie vengono immediatamente dopo il lungo discorso del D’Ancona sulla vita e le dottrine del Campanella (pp. ix-cccxliii), e con esse si chiude il primo dei due volumi della raccolta. Si noti che l’edizione non si presenta come nuova, ma piú modestamente come una «seconda edizione con molte correzioni» di quella dell’Orelli (p. 1), di cui riporta anche la dedica (p. 7) e la prefazione. Alla dedica dell’Orelli il [p. 276 modifica] D’Ancona fa precedere una sua breve notizia bibliografica (pp. 3-6); però in questa edizione si può trovare anche la dedica originale dell’Adami nella raccolta di documenti, che chiudono il discorso del D’Ancona. Infatti il doc. E, a p. cccxxxix sgg., è la traduzione del famoso articolo dello Herder nell’Adrastea, nel corso del quale, tra l’altro, è riportata integralmente la dedica dell’Adami. Se non che nella edizione D’Ancona questa traduzione di una traduzione sforma qua e lá il testo originale, com’ebbe a dimostrare l’Amabile23.

Poiché non si trattava che di una ristampa migliorata e il nuovo editore non aveva sotto mano materiale nuovo, non poteva fare altro che rielaborare il vecchio con quella maggiore e piú disinvolta padronanza della lingua italiana, che gli veniva dalla sua origine toscana, sebbene si trovasse poi in condizioni non molto superiori all’Orelli per quello che riguardava la conoscenza — tanto necessaria in questo caso — dei linguaggi vernacoli, nei quali si approfondì solo parecchi anni dopo, quando intraprese gli studi sulla poesia popolare italiana.

Rimasero cosí inevitabilmente troppe incertezze od oscuritá non dilucidate; e rimase inoltre, pel fatto stesso che si trattava solo di una seconda edizione, il doppio grosso difetto della prima: il mancato impiego dell’errata-corrige e l’arbitrario rimaneggiamento del commentario originale24. [p. 277 modifica]

IV

Con la ristampa D’Ancona si chiude il periodo della ricostruzione congetturale, a tastoni, del testo delle poesie campanelliane. Diciassett’anni dopo appariva il libro sul Codice delle lettere del Campanella, etc., con cui l’illustre scienziato e storico Luigi Amabile metteva la prima pietra del monumento da lui innalzato allo stilese con le ricerche indefesse e le poderose opere che seguirono.

Per quello che riguarda il Campanella poeta l’Amabile fece due scoperte fondamentali, che lo misero in grado di fornire finalmente quegli strumenti di comparazione e accertamento indispensabili per una metodica esplorazione filologica:

1. Un nuovo esemplare della prima edizione, recante delle peculiaritá di eccezionale valore;

2. Un codice manoscritto di poesie campanelliane, per la massima parte inedite.

La prima scoperta fu fatta nella Biblioteca dei Gerolamini di Napoli, nel fondo, che costituí giá la biblioteca del celebre economista e bibliofilo Giuseppe Valletta, acquistata dopo la sua morte, ai primi del Settecento, da quei padri oratoriani25. Dandone annunzio nel suo libro su Il codice delle lettere etc., l’Amabile con legittima soddisfazione scriveva:

«Può... facilmente immaginarsi la nostra sorpresa, e diremo anche il nostro rossore, nel trovarcelo non ha guari a casa [dopo averlo ricercato in tanti paesi], nella Biblioteca dei PP. Gerolamini, dove mai avevamo saputo che fosse, mentre pure da tutti era stato desiderato oltremodo, per averne un po’ di luce su’ manifesti errori corsi in gran copia nella edizione dell’Orelli. Ma difficilmente potrá intendersi la nostra ulteriore sorpresa, nel rilevare di primo tratto, guardando il frontispizio e poi alcune pagine di questo esemplare, che esso ha dovuto appartenere al Campanella, da cui è stato cifrato e corretto a penna in molti luoghi» (p. 99). [p. 278 modifica]

E faceva seguire un’accurata descrizione, che è bene trascrivere:

«L’esemplare di cui trattiamo ha nel frontispizio, sulla parola «Settimontano» una cifra a penna (F.-C. riunite in modo speciale e con tre puntini caratteristici) che è la cifra del Frate Campanella, facile a riconoscersi allorché si è veduta qualche sua lettera autografa... Nel corso di esso veggonsi di tratto in tratto correzioni a penna, una delle quali rappresenta un verso tutto intero [si tratta del v. 1 del n. 5, che nel testo della 1a ed. e nelle sgg. si legge: «Dentro un pugno di cervel sto, e divoro»], due aggiungono o mutano qualche parola [allude al v. 12 del n. 10, dove il «tu» è aggiunto a penna, ed alla espos. al madr. 8 del n. 75, dove la frase: «piú miracoli ci vanno in volta» è trasformata in «piú miracoli ci vogliono»], le altre sono costituite da aggiunte o mutamenti di una lettera, di una virgola, di un accento, di un tratto d’unione, ovvero son costituite da cancellature. Si comprende che non può qui pretendersi un facile riscontro di caratteri... Pure in alcune lettere, come per es. la T maiuscola, si vede chiaramente la prima lettera della cifra del Campanella... C’è poi nell’esemplare un’altra particolaritá a nostro parere degnissima di considerazione. Esso venne ligato, senza dubbio nel secolo XVII, in pergamena sfoderata, sul dorso della quale fu scritto longitudinalmente: «Poesie del Campanella»: oggi la covertura di pergamena vedesi in gran parte staccata ed abbastanza sciupata, ma il libro non ne ha punto sofferto, e mostra sempre di essere stato giá prima tenuto a lungo fortemente ripiegato in quattro, come un fascicolo di carta qualunque, innanzi che venisse ligato. Le tracce del ripiegamento, in tutto il libro, non sparirono affatto malgrado le solite manipolazioni della ligatura... Ciò fa legittimamente ritenere che il libro sia stato tenuto a lungo in tasca anziché altrove; e per siffatta circostanza tanto piú viene in mente che esso abbia appartenuto al Campanella, il quale di certo nella sua prigione non aveva un luogo in cui riporlo e forse anche aveva ragione di sottrarlo agli occhi dei curiosi» (pp. 100-101)26.

La seconda scoperta fu fatta a Roma presso privati. Si trattava di una miscellanea di manoscritti riguardanti direttamente o [p. 279 modifica] indirettamente il processo del Campanella, nel 1875 donata da un impiegato pontificio ad un ecclesiastico suo amico27. Di mezzo a questi documenti ritornò alla luce quella copia incompleta intrapresa da fra Pietro Ponzio, che le autoritá carcerarie avevano sequestrata e della quale si era perduta ogni traccia ed ogni ricordo.

L’Amabile descrive cosí il prezioso ritrovamento. Le poesie sono «tutte riunite in un libretto coverto di pergamena con residui di nastri di seta messi per fermagli. Il libretto non ha titolo, ma solo un principio di dedica cosí concepita: Al molto Ill. e Sig. Francesco Gentile Patritio della Rep. a Genovese mio Padron Colendissimo — Havendo io visto con quanto desiderio V. S. va cercando li Sonetti del Padre Campanella. .; né va piú oltre, ma tutto il resto della pagina rimane bianco. Il carattere è di mano di fra Pietro Ponzio, vi sono qua e lá correzioni, talune forse di mano del Campanella, altre peggiorative»28.

La raccolta, acquistata dall’Amabile, passò alla sua morte per legato alla Biblioteca nazionale (ora Vittorio Emanuele III) di Napoli, e fa parte del vol. V dei Processi ecclesiastici di Campanella e soci, col titolo: Processo di Napoli — Scritture trovate a’ frati allegate (ms. xi, AA, 28, a fi. 97-178).

La paternitá del Campanella per le poesie comprese in questo codice è stata assodata dal medesimo Amabile mediante gli stessi atti processuali29. Solo di una (il n. 22 a p. 248 di questa ed.) si può con qualche fondamento dubitare che sia del Campanella30. Le poesie contenute nel manoscritto sono 82 e non sono solamente sonetti, come è detto nella dedica; quindici di esse fanno parte anche della edizione Adami, cioè quelle segnate in essa coi numeri: 19, 20, 21, 22, 36, 37, 38, 39, 45, 50, 51, 53, 55, 60, 61.

Si avverta che il sonetto caudato: Grecia, tre spanni di mar (pp. 216-8) è non precisamente una riproduzione, ma un rifacimento, solo formale però, del n. 36 della Scelta.

In questo stesso libro, in cui dava il primo annunzio di [p. 280 modifica] trambe le scoperte, l’Amabile le utilizzò assai fruttuosamente stabilendo tre rubriche 31:

1. Nella prima sono messe in reciproco confronto il prototipo (tenendo conto dell’errata-corrige trascurato dagli editori posteriori) e le due edizioni similari Orelli-D’Ancona;

2. Quindi sono riportate le correzioni a penna che si trovano esclusivamente sull’esemplare della prima edizione che trovasi nella Biblioteca dei Gerolamini32;

3. Infine le «varianti tratte da un manoscritto del 1602»33, e che da ora in poi, per brevitá, denomineremo qui Ms. Ponzio.

Nel libro che fece seguire l’anno appresso l’Amabile pubblicò poi integralmente il Ms. Ponzio34. Né si fermò nelle sue ricerche, poiché pochi anni dopo trovò a Parigi nella Biblioteca Sainte Geneviève l’egloga per la nascita di Luigi XIV scritta nel dicembre 1638, pubblicata nel gennaio dell’anno dopo35: componimento di nessun valore poetico e che ha un valore di pura curiositá storica, per quanto riguarda l’occasione che lo provocò e le complicate operazioni astrologiche, che vi sono contenute, per trarre l’oroscopo — naturalmente felicissimo — del neonato; ma di notevole importanza per la lunga digressione autobiografica, che vi è inserita (vv. 67-122). Questa egloga l’Amabile riprodusse [p. 281 modifica] nel 1887, nella parte documentaria dell’opera, con cui si chiude la biografia del Campanella (Am. Cast., II, Docc., pp. 347-55), e nel testo la illustrò ampiamente con molte curiose notizie aneddotiche sull’oroscopo del Delfino36, e mise in chiaro inoltre che quel «discepolo», a cui nel titolo si attribuiscono le note, e che l’Echard identificava per il giovane Filippo Borelli, al Campanella molto diletto, che lo seguì da Roma a Parigi e che lo serviva da amanuense ed amava chiamarsi suo nipote — e forse era fratello di chi fu forse figlio naturale del frate, cioè l’insigne matematico Giov. Alfonso Borelli —, era messo innanzi per ragioni di opportunitá, mentre anche le note sono in realtá di mano dell’autore37.

Dopo le indefesse e tanto fruttuose fatiche dell’Amabile la bibliografia campanelliana non ha potuto segnalare altro di nuovo che la duplice scoperta nella Biblioteca estense di Modena, da parte di Edmondo Solmi, e nella giá Biblioteca imperiale di Pietroburgo, da parte di J. Kvacala, dei frammenti degli Antiveneti, il sesto dei quali comprende la «palinodia», con relativo sonetto, che è a pp. 251-4 della presente edizione38. [p. 282 modifica]

Queste pubblicazioni sparse facevano maggiormente sentire il bisogno di vedere unificati i testi poetici campanelliani venuti a nostra conoscenza. Giovanni Papini ebbe la felice idea di andare incontro a questo desiderio degli studiosi, offrendo insieme un testo completo, ben curato e con un corredo di note che facilitasse la lettura anche a persone mezzanamente colte, secondo gli scopi della collezione, per la quale era destinato quel lavoro39. E se il primo buon proposito fosse stato seguito da una indispensabile applicazione al compito addossatosi, la sua edizione avrebbe segnato una data nella bibliografia campanelliana. Rimase invece una delle tante buone intenzioni, delle quali è lastricato l’inferno; se non che può dirsi che produsse indirettamente questo favorevole effetto, che acuí negli studiosi il desiderio di un lavoro di quel genere40.

Subito dopo si mise all’opera con ben altra preparazione generale e specifica Giovanni Gentile, al quale è dovuta la prima edizione effettivamente completa ed organica delle poesie del Campanella, che è per l’appunto la prima edizione comparsa in questa collana nel 1915 e da qualche anno esaurita (T. C., Poesie, a cura di G. G., Bari, Laterza, 1915, Scrittori d’Italia, n. 70).

La raccolta è divisa, esattamente come in questa nuova edizione, in tre parti principali: la prima, dove è riprodotta l’edizione del 1622 integralmente, cioè anche col commento e l’indice originali (vedi retro, p. 275); la seconda, costituita dall’Ecloga, che non faceva parte della Scelta, ma che vide la luce durante la vita dell’autore; infine tutte le altre poesie, che sono venute in luce dopo la sua morte, cioè quelle del Ms. Ponzio non comprese nella Scelta e la Palinodia per Venezia: tutte queste ordinate secondo un criterio logico e cronologico insieme, del quale farò parola tra poco.

Le direttive di massima per la revisione del testo furono cosí esposte dal Gentile:

«Per la Scelta io mi sono fedelmente attenuto al testo Adami corretto dall’autore... Ho modificato solo l’interpunzione e rammodernata la grafia, secondo il metodo generale degli Scrittori d’Italia-, ma ho rispettato scrupolosamente la stessa grafia, dove [p. 283 modifica] essa rispecchia forme dialettali proprie al C. Le poche correzioni (alcune delle quali proposte giá dal Bustelli [vedi nota a p. 276]) introdotte nel testo, perché sembratemi assolutamente richieste dal senso o dalle ragioni del metro e della rima, sono segnate qui appresso nella Tavola delle emendazioni... [Dal Ms. Ponzio] ho desunto... come opera del C. tutte le poesie che erano state escluse dalla Scelta; per le quali non mi son contentato della diligente riproduzione dell’Amabile, ma mi son rifatto dal ms., solo arrecando al testo quelle lievi modificazioni ortografiche che mi sono state suggerite dallo stesso ms.... Per le quattordici poesie... della Scelta, di cui è copia anche nel manoscritto scoperto dall’Amabile, ho creduto sempre di preferire la lezione a stampa, rappresentando essa una revisione posteriore, e in ogni caso la lezione data dallo stesso autore... Pure le differenze che corrono tra la lezione adottata e quella del ms. sono tutte segnate nella Tavola delle varianti Ponzio... Per l’Ecloga, che segue alla Scelta, non mi son contentato di riprodurre la stampa dell’Amabile; ma mi sono procurato una nuova collazione dell’esemplare conservato a Parigi dell’edizione originale... Fra i [componimenti] politici ho inserito, per non fare una categoria a parte, il sonetto contro Venezia col relativo Lamento, giá pubblicato da E. Solmi... Il testo modenese fu messo a stampa dal Solmi non senza sviste o tacite correzioni arbitrarie, sulle quali son potuto ritornare grazie alla diligente revisione del ms., gentilmente fatta per me dal prof. G. Paladino per la poesia, e dal dott. Domenico Fava per la prosa. Piú corretto, in generale, esso si presenta rispetto al ms. russo, fatto conoscere dal Kvacala, che pure ho tenuto presente»41.

Infine questa edizione contiene, oltre la nota bibliografica, ventotto pagine di minute e dotte Annotazioni dell’editore (pp. 259-87), che offrono dilucidazioni cronologiche e sulle persone nominate nel testo e sulle allusioni, nonché numerosi riferimenti bibliografici.

V

Parlando del testo del Ms. Ponzio il Gentile avverte ancora nella sua nota: «Non ho creduto... di rispettare l’ordine del ms. Ponzio, che non è un ordine né cronologico né di materia;... [p. 284 modifica] essendo chiaro che il Ponzio trascriveva i versi via via che gli eran comunicati, non avendoli tutti innanzi fin da principio. E ho classificati perciò tutti i componimenti secondo il contenuto, procurando di disporre in ordine di tempo quelli di ciascuna serie»42.

Quest’avvertenza c’introduce in un’altra serie di questioni, riguardanti la cronologia del testo, le quali sono trattate occasionalmente dal Gentile nel corso delle sue Annotazioni, e saranno invece riunite in questo paragrafo. Esse non possono essere passate sotto silenzio per varie ragioni. Da una parte è necessario giustificare l’ordinamento dato alle poesie in queste due edizioni — che in ciò sono conformi —; ma inoltre la soluzione delle principali questioni cronologiche offre qua e lá utili sussidi ad una piú esatta intelligenza di oscure allusioni, che si trovano nel testo.

I due soli prototipi, che noi possediamo, quello a stampa (edizione Adami) e quello manoscritto (Ponzio) sono ordinati il primo secondo un criterio approssimativo per argomenti, dettato anche questo, è lecito supporre, dall’autore; il secondo, come giustamente osservò il Gentile, piuttosto a caso e forse sotto la doppia dannosa pressione della fretta e dei gusti del committente (vedi retro, p. 265). Da nessuno dei due riceviamo lume per fissare le prime linee di una storia della produzione poetica campanelliana; anzi, per arrivare a questo bisogna fare un lavoro contrario, cioè scomporre mentalmente sia l’uno che l’altro testo, conglobarli, e servendosi della biografia del Campanella — le cui date sono state quasi tutte accertate dall’Amabile — risalire alle probabili date delle poesie. L’Amabile stesso nel corso della sua narrazione, al termine dei principali periodi della vita del Campanella indicò ed analizzò ciascuno dei gruppi di poesie, che, secondo le sue ricerche e congetture, vi si riconnettevano. Ai risultati di quel paziente ed acuto lavoro di ricognizione tutti gli studiosi posteriori devono riferirsi, anche se capita loro di dissentire su questa o quella assegnazione particolare. Tenendo conto anche degli studi posteriori e delle opinioni espresse dal Gentile nella precedente edizione, traccerò qui sotto schematicamente le linee di una cronologia del testo. È però necessaria ancora un’altra avvertenza preliminare. Il Campanella parlò per disteso della sua attivitá letteraria nel giá citato Syntagma, il quale sarebbe quindi una fonte preziosissima in materia, se non fosse piú di una volta [p. 285 modifica] inficiato di inesattezze piú o meno gravi. Un caso ci è giá capitato di notare a proposito del viaggio dello Scioppio a Napoli (p. 269); molti altri ancora ne indicò l’Amabile nel corso dei suoi lavori, spiegandone anche le ragioni, e mettendo in mora giustamente quel libro come una fonte sicura e indiscutibile d’informazione bibliografica43.

La produzione poetica del Campanella si può dunque ordinare cosí44:

1° gruppo: Poesie anteriori alla congiura e all’arresto del 1599.

1) Poesie giovaniliDe philosophia Pithagoreorum, carme lucreziano in 3 libri (intorno al 1590); un altro poema didascalico in latino sulla filosofia di Empedocle (1591-92, nel tempo del primo processo davanti il S. Uffizio).

2) Poesie della prigionia durante il terzo processo davanti il S. Uffizio e della posteriore permanenza in Roma (1594-97) — Il Syntg., che in questo punto si può seguire senza riserve, dice:

«Romae versibus hetruscis scripseram De modo sciendi et Physiologica; amisique utrumque Neapoli. Scripsi etiam Romae Poëticam iuxta propria principia, quam dedi Cynthio Aldobrandino, cardinali Sancto Georgio... Praeterea, orationes etiam et politicos discursos nonnullos, dum Romae essem, carminaque hetrusca ac latina multa amicis dedi, etiam ipsorum nomine propalanda. Hic etiam coepi versus hetruscos latino metro componere, ut in Canticis nostris [cioè nella Scelta: vedi pp. 188-91 di questa ed.] apparent; et Artem metricam vulgaris sermonis persimilem latinae, unde cuiusque syllabae quantitatem discere ac servare queas, certas per regulas patefeci: dedique hanc Ioanni Baptistae Clario medico archiducis Caroli Romae, ac duobus iuvenibus Asculanis» (III, 2, pp. 20-1).

Questo passo è molto importante oltre che per la conoscenza [p. 286 modifica] di un buon numero di componimenti poetici o intorno alla poetica, in maggior parte dispersi, anche per stabilire la data in cui il Campanella cominciò i suoi esperimenti di «poesia barbara», cavandone anche una precettistica. Di tutte queste poesie barbare non sono rimaste che quelle della Scelta ricordate dall’autore, le quali però appartengono al tempo posteriore della seconda prigionia, come risulta chiaramente dal contesto e dalle annotazioni del Campanella.

Riassumendo: allo stato presente delle conoscenze sull’argomento devono ritenersi perduti:

1. Tutti i poemi didascalici in latino;

2. Le «barbare» non comprese nella Scelta;

3. Una notevole quantitá di poesie volgari in metro ordinario, parte delle quali, per dichiarazione dello stesso autore, scritte per commissione o lasciate circolare sotto altro nome.

Un esiguo numero di poesie resta invece a testimoniare l’attivitá poetica del Campanella in quel tempo, e fu giá riconosciuto dall’Amabile in mezzo alla posteriore produzione sia della Scelta sia del Ms. Ponzio. Sono quelle intitolate: Al carcere (Scelta, n. 60, p. 106 di questa ed.), Sonetto fatto sopra uno che morse nel S. Uffizio (Postume, p. 211), All’Accademia d’Avviati di Roma (id., p. 215), A Cesare d’Este (id., p. 249), forse anche Alli defensori della filosofia greca (id., p. 218).

La seconda, la terza e la quarta portano, si può dire, sul viso la loro data. È l’argomento stesso, che ci mette sulla strada per trovarla. Cosi è chiaro che il sonetto contro Cesare d’Este si riferisce al momento del conflitto con Clemente VIII45 (novembre 1597), e intorno allo stesso tempo si può mettere il sonetto per l’Accademia di Avviati, quando cioè il Campanella era giá fuori delle carceri del S. Uffizio, ma viveva ancora in Roma sotto sorveglianza. Appartiene invece al periodo precedente della carcerazione la seconda poesia, scritta sotto l’impressione immediata delPavvenimento, e che con acute e valide ragioni l’Amabile collegò al sonetto Al carcere. Le oscure allusioni alla «gran scienza» e alla «morta gora», e la stessa riservatezza che lo consigliò a non aggiungere commenti a questa poesia; tutto porta a pensare che non si tratti del carcere napoletano, del quale invece il poeta parla sempre apertamente e qualche volta anche enfaticamente. [p. 287 modifica]

3) Poesie del tempo del ritorno in Calabria e della congiura (1598-99) — Maria regina di Scozia, tragedia (dispersa: ricordata in Syntg., I, 2, p. 21).

A questo medesimo tempo l’Amabile assegna con molta probabilitá anche il sonetto La gran donna che a Cesare... ( Scelta, n. 37)46.


2° gruppo: Poesie scritte nei castelli di Napoli (1599-1613 ).

Primo periodo: novembre 1599 - aprile 1600, cioè dal momento dell’arrivo a Napoli e del suo ingresso in Castel nuovo a quello della finta pazzia.

Questo periodo, che è uno dei piú drammatici, sia di tutto l’avvenimento storico in generale sia in particolare della vita del Campanella, è quello in cui si svolse il processo dei laici e s’aprì l’istruttoria del processo degli ecclesiastici47.

In Syntg. il Campanella parla abbastanza diffusamente di questo periodo:

«... Ductus fui Neapolin tanquam reus maiestatis. Ibique dum librorum copia negabatur, condidi latina hetruscaque carmina multa De sapientia prima et potentia, De primo amore, de bono, pulchro et similibus: quae omnia scribebam cum clabatur furtive commoditas; ex quibus VII libri facti sunt attilutati Cantica, [p. 288 modifica] quorum Tobias Adamus quaedam selecta iuxta ingenium suum edidit sub Squillae Septimontani nomine, additis annotationibus. Cecini item Elegias de propriis et amicorum aerumnis, Rhytmos etiam profetales et Psalmodiam quadruplicem de Deo et omnibus eius operibus; atque hac poëtica ratione roboravi etiam amicos, ne in tormentis deficerent» (I, 3, pp. 23-24).

L’Amabile mette però in guardia da buona parte delle notizie contenute in questo passo, dove i ricordi sono ammucchiati «in una completa confusione di tempi» (Am. T. C., II, p. 25), e non di tempi soltanto. È infatti da escludere che la Scelta sia stata fatta dall’Adami «secondo il proprio criterio», e che v’abbia aggiunto il commento di suo. Questo si presentò giá alla mente del Berti e quindi è stato pienamente provato dall’Amabile con una critica interna abbastanza facile del testo, dove, tra l’altro il Campanella, dimenticandosi spesso la sua intenzione di scrivere in nome altrui, parla in persona propria o fa allusioni tali alle proprie opere o ai propri casi che non poteva farle che lui48.

Per quello che riguarda le questioni cronologiche connesse, parrebbe dal passo citato che non solo quasi tutte le poesie a nostra conoscenza (quelle della Scelta e le postume), ma molte altre ancora andate perdute siano state scritte in questo periodo. Il che non regge ad un esame intrinseco di parecchie poesie della Scelta.

La scoperta del Ms. Ponzio ha avuto somma importanza soprattutto su questo argomento. Poiché dagli atti processuali noi riusciamo a sapere il giorno preciso, e perfino l’ora, in cui quel codicetto fu sequestrato a fra Pietro, possediamo nella data del 2 agosto 1601 un punto di riferimento sicuro per sceverare quello che nel Syntg. è confuso. Noi ora sappiamo di certo che le poesie del Ms. Ponzio sono tutte anteriori a quella data.

L’Amabile andò piú oltre affermando:

«Tra le poesie raccolte da fra Pietro... non si trovano le canzoni, le elegie, le salmodie ricordate nel Syntagma e poi pubblicate veramente dall’Adami; né occorre dire che vi si troverebbero qualora fossero state composte nel tempo anzidetto. Appena vi si trovano i Ritmi profetali; sicché bisogna rimandare le poesie sopra ricordate ad un periodo posteriore di molto» (Am. T. C., II, p. 89). [p. 289 modifica]

L’argomento non è decisivo. Lo sarebbe solo se fosse provato che il Ponzio intendeva fare una raccolta completa delle poesie dell’amico, mentre tutto fa pensare che anche lui avesse intrapreso una scelta, adattandosi per di piú ai gusti della persona, a cui la dedicava. Ed infine, comunque stia la cosa, è certo che il lavoro rimase in tronco, prima per la partenza del Gentile e poi per l’avvenuto sequestro.

Allo stato dei fatti non possiamo dire dunque che le poesie di questo periodo sono tutte ed esclusivamente quelle contenute nel Ms. Ponzio. Con questa sola riserva di ordine generale possiamo ora seguire l’attenta ricostruzione cronologica del Ms. Ponzio fatta dall’Amabile.

Ad eccezione del sonetto: La gran donna, che si riferisce al tempo della congiura (vedi retro p. 287), tutte le altre poesie sono di quello della prigionia. Prima ci si presenta il sonetto: Il fato dell’Italia (vedi p. 219), scritto assai probabilmente al momento dell’ingresso in Castel nuovo (fine novembre 1599), forse contemporaneamente a quello che segue in questa edizione (Spesso m’han combattuto).

Ai giorni tempestosi del rapido processo dei laici (dicembre) si riferiscono il sonetto seguente (Veggio spirti rivolti) e i due madrigali sul De Rinaldis. E si avverta che anche il sonetto originariamente aveva il titolo: In lode di Maurilio Rinaldo, cancellato poi dal Ponzio, evidentemente per ordine del Campanella. Lo scritto è tuttavia visibile sotto la cancellatura (Am. T. C., II, pp. 91-92).

Piú ricco è il gruppo di poesie che ci rimangono riferentesi al periodo istruttorio del processo degli ecclesiastici (gennaioaprile 1600). Tra le prime vanno insieme il Sonetto fatto sopra li segni (vedi p. 222) e l’altro: Veggo in candida robba entrato nella Scelta (n. 55): i quali due sonetti «con qualche altro analogo» di tempo posteriore l’Amabile ritiene che «sarebbero appunto i Ritmi profetali menzionati nel Syntagma» (Am. T. C. II, p. 93).

Seguono i violenti sonetti polemici che sono qui a p. 223; un ambiguo sonetto In lode di Spagnuoli, fatto, crede l’Amabile, con intenzione, nel caso che le poesie fossero trovate (Am. T. C., loc. cit.) e il Sonetto di rinfacciamento a Musuraca. L’Amabile pone qui con la maggiore probabilitá anche il Sonetto fatto a tutti i carcerati; ma non esclude che possa essere stato scritto al tempo del processo dei laici (Am. T. C., II, p. 94). Segue un sonetto, che [p. 290 modifica] si può chiamare diplomatico, In lode di fra Domenico Petrolo, «e che veramente si deve dire di sollecitazione a ritrattarsi» dalle pericolose rivelazioni, alle quali si era abbandonato; il che fece con deposizione del 29 gennaio, ma per poco tempo, perché subito dopo si rimangiò la ritrattazione (Am. T. C., loc. cit.).

Alla fine di gennaio si può collocare il sonetto Di sé stesso entrato poi anche nella Scelta (n. 61). È vero che il Ponzio gli mise il titolo: Di sé stesso subito fu preso; ma questa erronea indicazione cronologica non è plausibile (Am. T. C., II, p. 91). Probabilmente dei primi di febbraio, dopo il primo esperimento della tortura, è l’invocazione Alla beata Ursula.

Tra la fine di febbraio e la prima metá di marzo sono da collocare il sonetto di ringraziamento al suo avvocato di ufficio, i due in lode di fra Pietro Presterá, i tre in lode di fra Dionisio Ponzio (vedi pp. 226-29); tra la fine di marzo e i primi di aprile il sonetto complessivo in lode dei Ponzio e quello a papa Clemente ViIII (vedi pp. 229-30 e cfr.Am. T. C., II, pp. 96-97).

Secondo periodo: Poesie scritte tra il maggio 1600 e il settembre 1602 (il «periodo della pazzia»). Si può dividere a sua volta in due periodi minori:

A) Dal maggio 1600 al 2 agosto 1601 (la data della scoperta del Ms. Ponzio)-, fu il tempo in cui ricominciò a mettere mano ad opere in prosa di lunga lena, componendo o piú probabilmente ricomponendo la Monarchia di Spagna.

La produzione di questo tempo è abbondante, ma di scarsissimo valore artistico. La ragione si trova nel fatto che sono quasi tutte poesie di occasione dettate da necessitá pratiche al povero prigioniero bisognoso di aiuti e protezioni, oppure scritte a freddo secondo lo stile barocco giá di moda. Buona parte sono scritte in lode di funzionari della prigione e loro famiglie; altre scritte per commissione di Francesco Gentile; altre erotiche in persona propria, religiose e di argomento vario.

Sono da porre qui i tre «sonetti profetali» passati nella Scelta coi nn. 50, 51 e 53, i quali, insieme con gli altri due del periodo precedente (vedi sopra) sarebbero i frammenti dei «ritmi profetali » ricordati dal poeta. Intorno al n. 53 l’Amabile ha cercato d’indovinare chi fu colui che con le sue insistenze provocò la risposta del Campanella, ed ha creduto di poterlo individuare nel compagno di carcere Felice Gagliardo (Am. T. C., II, p. 280). [p. 291 modifica]

Si può quindi raccogliere un gruppo di poesie politico-culturali, parte delle quali passate anch’esse nella Scelta: il sonetto all’Italia (Scel., n. 37); Grecia e Italia, entrato anch’esso sostanzialmente nella Scelta (n. 36), ma trasformato nella forma metrica e ampliato; i sonetti A Venezia, A Genova, A Polonia, A’ Svizzeri (Scelta, nn. 38-41) e gli altri tre A Roma, Roma a Germania, Sopra il monte di Stilo (vedi pp. 250-55).

Un altro gruppo è di poesie religiose: i nn. 19-22 della Scelta, piú i due sonetti a p. 212 di questa edizione. A questa collana di sonetti l’Amabile assegna come molto probabile la data della Pasqua del 1601 (Am. T. C., II, p. 288).

Alla vita di carcere ci riporta indirettamente il sonetto Al signor principe di Bisignano (vedi p. 231). Si badi però che il titolo non è esatto. La poesia non è dedicata al principe, ma fa allusione alla prigionia sofferta anche da quello nel medesimo castello, e il poeta trae motivi di speranza per sé e per i compagni dal fatto che il Bisignano da quella prigione era pur uscito.

Segue un primo gruppo di mediocri poesie d’occasione dedicate a vari. Due sono per monacazione: quella di un giovane, che entra nell’ordine dei pp. Somaschi49, e quella di una giovine Artemisia non meglio identificata (vedi p. 213); quindi il sonetto per Cesare Spinola (vedi p. 230), «scritto poco dopo il 15 novembre 1600, giacché a questa data lo Spinola lo difese mentre era chiamato qual testimone dal Pizzoni» (Am. T. C., II, p. 289). Della stessa data approssimativamente sono: In lode di don Francesco di Castiglia (vedi p. 256), testimone anche lui in quegli stessi giorni; Giudizio sopra Dante, Tasso e Petrarca (vedi p. 216), indirizzato quasi certamente allo stesso Castiglia, amante di lettere e sviscerato ammiratore del Tasso (Am. T. C., loc. cit.); l’altro: In stile io canterei... (vedi p. 234) rivolto anch’esso ad un uomo di lettere (Aurelio), che non si è riusciti a scoprire chi fosse.

Un certo numero di poesie è rivolto a persone di famiglia degli alti funzionari del castello. Sono quelle inserite qui a pp. 231-234, coi nn. 24, 25, 26, 27, 30.

«Ed eccoci — per dirla con l’Amabile — all’ultimo gruppetto [p. 292 modifica] di poesie, nelle quali generalmente il pessimo gusto signoreggia sovrano» (Am. T. C., II, p. 293).

Bisogna mettere in primo luogo le poesie scritte in nome di Francesco Gentile (insieme col sonetto a lui dedicato, a p. 233). Esse sono messe in questa edizione nel gruppo Rime amorose (p. 235 sgg.), e portano i nn. 2, 4, 5, 7, 8, 9, 13-21. Non è detto per altro che in questi fugaci amori parte reali parte letterari il poeta non abbia portato qualcosa di piú che la sua penna; sicché ad un certo momento il lavoro di attribuzione diventa complicato. Ma anche su questo argomento, per quanto lieve, l’Amabile ha fermato la sua attenzione cercando di districare la materia:

«Dalle poesie — egli dice — [F. Gentile] apparisce parente di una signora Giulia Gentile, alla quale il Campanella non manca di scrivere un sonetto e un madrigale; innamorato di una Flerida, alla quale il Campanella scrive poesie per conto di lui, e poi anche per conto proprio, e spesso e vivacemente; ad istanza di lui ancora il Campanella scrive il madrigale alla signora Maria... e crediamo che per conto egualmente di lui siano state composte molte poesie di amore anche lascivo, mentre alcune altre dello stesso genere appariscono pure indubitatamente scritte dall’autore per conto proprio». Infatti, dopo la rottura tra il Gentile e Flerida, «rottura completa e perfino villana», espressa nel Sonetto di sdegno e in Sdegno amoroso, una parte delle poesie è scritta dal poeta in nome proprio, «onde abbiamo almeno sei sonetti di relazioni amorose indubbiamente sue [cioè, in questa edizione, egualmente tra le Rime amorose, i nn. 1, 3, 6, 10, 11, 12]... Forse presso Flerida ed anche qualche altra fanciulla egli trovò distrazioni, come di sicuro ne trovò presso una Dianora, al cui indirizzo la raccolta ci offre un sonetto» (Am. T. C., II, p. 295; e i sonetti probabilmente sono due, cioè tanto il n. 3 quanto il n. 12 di questa edizione).

Chi fu Dianora? L’Amabile la riconosce in una «sore Dianora Barisciana di Barletta», di cui ha trovato notizia nei documenti su Castel nuovo, e che «potrebbe supporsi appartenente alla famiglia del ‘torriero’, come allora si diceva il guardiano della torre» (Am. T. C., loc. cit.).

Tra questi sei sonetti c’è quello di ringraziamento pel bagno ricevuto (vedi p. 240), e che per l’allusione al «corpo fracassato» si può con sicurezza dire che è dei giorni immediatamente posteriori alla tortura della «veglia», cioè dei primi di luglio del 1601. [p. 293 modifica] E degli stessi giorni all’incirca devono essere i due sonetti al giovane Petrillo (vedi pp. 256-57), che probabilmente accompagnò lo zio chirurgo nelle visite, che questi fece al detenuto malconcio (Am. T. C., II, pp. 296-97).

B) Dal 3 agosto 1601 al settembre 1602.

In questo tempo il Campanella dovè scrivere un certo numero delle poesie filosofiche, che sono nella Scelta, corrispondentemente all’indirizzo dei suoi studi. In quel medesimo tempo infatti riprese con maggiore intensitá le sue meditazioni filosofiche, cominciando col portare a compimento l’Epilogo di filosofia e stendendo l’Etica, la Metafisica, gli Aforismi politici, l’Economica e la Cittá del sole (Am. T. C., II, pp. 283, 289 sgg., e cfr. Syntg., I, 3, pp. 27-28: «Paulo post Neapoli scripsi Metaphysicam vulgari sermone in tres partes... ubi de principiis essendi, cognoscendi ed operandi, ac supra necessitatem, fatum et harmoniam, primitus mihi excogitata, tunc posui causas et principia et primalitates entis»).

L’Amabile osserva:

«Di tempo in tempo il Campanella dovè scrivere ancora altre poesie [in questi mesi]... e fuori ogni dubbio una gran parte di esse, di natura intima, dovè essere eliminata quando si fece la Scelta:... intanto con un poco di buona volontá si può pervenire a riconoscere qualcuna delle rimaste appartenente al periodo attuale » (Am. T. C., II, p. 305).

Tale pare all’Amabile quello tra i «sonetti profetali», che si chiude con il verso: «e ’n fratellanza l’imperio funesto» (cioè il n. 52), il quale rispecchia le idee della Cittá del sole, alla quale allora lavorava (Am. T. C., loc. cit.).

Terzo periodo: Poesie scritte fra l’autunno 1602 e l’autunno 1613 (partenza dell’Adami col ms. della Scelta). — Questo periodo segna una fase piuttosto di stasi nella produzione poetica del Campanella. «Le speranze di prossima liberazione lo tennero inerte per molto tempo. Dopo di aver menato a termine febbrilmente le opere da doversi trasmettere allo Scioppio scrisse soltanto gli opuscoli epistolari che abbiamo menzionati [cioè operette di occasione su argomenti vari richiestegli da alti personaggi etc.]; compose inoltre molte poesie di dolore e di sdegno pubblicate poi dall’Adami, delle quali riesce di poter determinare talvolta la data precisa e piú sovente la data approssimativa, sia per qualche circostanza che vi si vede notata, sia dietro qualche riproduzione [p. 294 modifica] di pensieri che si trovano espressi nelle lettere e nelle opere di data conosciuta» (Am. T. C., II, p. 416).

Così può dirsi della elegia Al sole (n. 87, III), che dev’essere della fine di marzo del 1607, perché vi si parla del sole in Ariete durante le feste di Pasqua — cioè la Pasqua del 1607: 26 marzo, cioè col sole in Ariete. Inoltre il pensiero dei vv. 19 sgg. («Le smorte serpi» etc.) si ritrova nella lettera a monsignor Quarengo (luglio 1607: vedi C., Lettere, ed. cit., p. 135). «Egualmente il pensiero che è nella stessa lettera, essere cioè il povero prigioniero «un meschino condannato dall’opinione popolare e di principi » (op. cit., p. 131) ci apparisce come quello che ispirò i sonetti Della plebe (n. 33) e Ad amici, ufficiali e baroni etc. (n. 63)», i quali sembra all’Amabile che si debbano datare da questi anni, e non, come altri pensa, da quelli della insurrezione e dei giorni immediatamente dopo l’arresto (Am. T. C., II, pp. 416-17).

A questo gruppo bisogna poi aggregare il sonetto contro Venezia, che segue alla Palinodia (vedi p. 254), e che, come è stato chiarito, è da riferirsi all’anno 1606 (vedi indietro, p. 281).

L’Amabile colloca quindi le Tre orazioni in salmodia metafisicale (Scelta, nn. 73-75) nell’anno 1611, mettendole in relazione col memoriale a papa Paolo V, che è della seconda metá di quell’anno (Am. Cast., I, pp. 144-45 e vedi C., Lettere, ed. cit., p. 170 sgg.).

L’anno 1612 pare che sia stato sterile di poesia; nell’anno 1613, in occasione della raccolta di poesie progettata con l’Adami, trovandosi a fare una revisione generale del suo zibaldone di poesie, il Campanella fu indotto a scrivere sulla traccia di vari frammenti o piú probabilmente a rimaneggiare quella canzone, che ora si trova nella Scelta al n. 80 col titolo: Canzone a Berillo di pentimento desideroso di confessione ecc. fatta nel Caucaso.

La data da porre a questa poesia rimane per altro una materia controversa, e le conclusioni, alle quali per conto mio sono giunto, richiedono qualche giustificazione e dilucidazione. A prima vista parrebbe che la mia opinione collimasse perfettamente con quella dell’Amabile, il quale trovò in questa canzone «la piú tarda data registrata nelle poesie che l’Adami ebbe dal Campanella»: data espressa esplicitamente nel primo verso del secondo madrigale («Quattordici anni invan patisco...»; quindi dal 1599 al 1613).

E l’Amabile spiegava:

«Il Campanella non rimase inattivo durante il lungo soggiorno dell’Adami e del Bina in Napoli. Non apparisce che siasi occupato [p. 295 modifica] di rivedere e limare le opere delle quali l’Adami si andava procurando le copie, eccetto la Cantica, nella quale sicuramente egli stesso ebbe a fare la scelta delle poesie che furono poi pubblicate, ed ad aggiungervi le molte note che le corredano, comunque nel Syntagma leggasi attribuita all’Adami ogni cosa» (Am. Cast., I, pp. 153, 160, passim).

A conclusioni assai diverse giunse invece il Gentile, partendo non tanto dalla indicazione cronologica offerta dallo stesso poeta quanto da quella che si trova nel titolo: «Canzone ... fatta nel Caucaso».

Questa parola arcana la troviamo nel vestibolo del libro. Nell’ultima terzina del sonetto di proemio (n. 1: vedi p. 7; il poeta si paragona a Prometeo, e nella nota corrispondente, rimasta incompiuta, spiega: «Prometeo rubbò il fuoco, e fu però carcerato nel Caucaso, perché facea...».

Questo avvicinamento mitologico gli balenò alla mente nel periodo della carcerazione di rigore, che culminò negli anni d’imprigionamento nella fossa di Castel S. Elmo (1604-1608), ed in quel tempo l’usò di frequente anche nello scrivere lettere. Sono infatti datate «in Caucaso», «ex Caucaso» o «dal profondo del Caucaso» la lettera allo Scioppio, del giugno 1607, che costituisce la dedica-prefazione dell’Atheismus triumphatus; quella egualmente allo Scioppio del mese successivo «sul modo di evitare il calore estivo», e quella autobiografica, anch’essa del luglio 1607, a monsignor Quarengo50.

Il Gentile conclude che il ritrovarsi della medesima allusione in testa alla canzone a Berillo è una indicazione cronologica non meno esplicita, anzi piú precisa, che la poesia è del periodo della carcerazione in S. Elmo, quindi assai anteriore all’anno 1613.

Il Gentile rinforza la sua tesi con altri argomenti. La canzone è dedicata a un Berillo. Per il momento lasciamo in sospeso la questione, anch’essa controversa, di chi sia Berillo. Quello che importa per ora è di stabilire che anche questo Berillo, o Berillarius, alla latina, è nominato altrove sia dallo stesso Campanella, nella chiusa della sua opera De sensu rerum (nella redazione italiana), sia dallo Scioppio in una lettera, in cui si parla di lui come di persona che, essendo in rapporti personali col Campanella, potrebbe essere utile tramite tra questo e gli amici lontani. Ora, [p. 296 modifica] questa lettera dello Sdoppio è del 31 ottobre 160751 ed anche la redazione del De sensu rerum sopra ricordata è ritenuta dal Gentile degli anni 1605-160752.

Resta tuttavia da spiegare quella frase cosí precisa dei «quattordici anni», che è nel corpo stesso della poesia. Il Gentile li spiega retrodatando il periodo della vita di recluso del Campanella, e saldando insieme la prima e la seconda prigionia nelle carceri del S. Uffizio e la terza e piú lunga prigionia nei castelli napoletani. Computando allora non piú dal 1599, ma dal 1591, i «quattordici anni» cadrebbero al 1605.

Il Gentile si appoggia sul v. 9 del madr. 1 di questa stessa canzone («per cui piú volte non mi fulminasti»), che veramente si esprime in una forma troppo vaga per aver peso in una discussione in presenza dell’aritmetica; e sulle conclusioni di un suo precedente scritto (Il primo processo di eresia di T. C., in Arch. stor. per le prov. napol., 1906, fase. IV, p. 623 sgg.)53. In esso il Gentile assoda che il periodo di detenzione del C. in quel primo processo fu all’incirca tra la metá del 1591 e la metá del 1592, e prosegue:

«Che sia stato imprigionato nel 1591 risulta... dagli accenni concordi che a quella sua prima esperienza di carcere il Campanella fa nella lettera allo Scioppio dell’8 luglio 1607... e in quella a monsignor Quarengo».

In questo scritto il Gentile si serve di quei due testi per comprovare l’esattezza della data del 1591; ma nell’annotazione alla canzone va oltre, e pensa di potersi appoggiare ancora ai medesimi testi per attribuire al Campanella l’idea che dal 1591 fosse cominciato per lui un periodo di ininterrotta prigionia.

È quindi necessario in primo luogo rivolgersi ai testi. Le due lettere furono scritte nello stesso giorno, l’una in latino, l’altra in italiano, e alcuni brani di questa non sono che una redazione in italiano di quella. Tale è il caso dei due brani in questione. Il primo si trova nel preambolo della lettera allo Scioppio, che gli aveva rivolto il quesito del modo di salvaguardarsi dal caldo in estate. Il Campanella fa il modesto: [p. 297 modifica]

«Sed naturae artem illis ostendo unde et arcana inveniant et de alienis recte iudicent. Nec quidem animi unquam tranquillitas affluit mihi ex quo sciolus esse coepi, nec orbem pervagari datum fuit, quin nec coelum intueri, cum iam annis sedecim vel in carceribus latuerim vel persecutionibus laborarim; et si dicam viginti annos non mentiar».

Nello scrivere al Quarengo riprende il medesimo motivo:

«Il giudicio che fa di me, ch’io sia sopra Pico o qual Pico, è troppo alto per me... Io, signor mio, non ebbi mai li favori e grazie singulari di Pico... In bassa fortuna nacqui e dalli ventitré anni di mia vita sin ad ora, che n’ho trentanove da finire a settembre, sempre fui perseguitato e calunniato, da che scrissi contra Aristotile di diciotto anni; ma il colmo cominciò a ventitré con questo titolo: Quomodo literas scit cum non didicerit? Son otto anni continui che sto in man di nemici;... ed inanti a questi otto anni stetti in carceri piú volte, che non posso numerare un mese di vera libertá»54.

A me pare che il contesto dei due brani letti tutti interi, lungi dall’offrire elementi in favore della tesi del Gentile, ne offrano alcuni decisivi in contrario. Non ci fermiamo sul fatto che nella lettera allo Scioppio si parlerebbe di sedici anni di prigionia e non di quattordici, e cerchiamo di farci un’idea complessiva. Il concetto sostanziale di ambedue i brani è questo: sebbene sia stato tanto tempo segregato dal mondo, tuttavia con l’aiuto del mio intuito naturale sono riuscito a farmi una mia idea della scienza attraverso l’osservazione diretta delle cose. Questo contrapposto tra le difficoltá oppostegli dalla vita e il risultato raggiunto dalla sua intelligenza è messo in evidenza con una certa amplificazione rettorica: da ciò quella insistenza nel mettere in luce il lungo periodo di segregazione dal mondo. Non si tratta qui di fare un computo esatto degli anni di questa o quella sua detenzione, ma di dare l’impressione generale di una vita passata quasi tutta tra processi e carceri.

Infatti nella lettera allo Scioppio il Campanella non dice di essere stato in carcere per sedici anni continui, ma che per sedici anni continui era stato tormentato o da prigioni o da persecuzioni (cum iam annis sedecim vel in carceribus... vel persecutionibus...); ed accresce poi la voluta imprecisione della frase aggiungendo [p. 298 modifica] che se dicesse venti non si apporrebbe male (et si dicam viginti annos, non mentiar).

Bisogna allora risalire nel computo degli anni di prigionia continua all’anno 1587? Evidentemente ciò è inammissibile; ma il valore di tutto il brano come strumento di un computo esatto resta inficiato. Ci troviamo davanti ad un’amplificazione rettorica, ad uno sfogo del povero prigioniero e nulla piú.

Tanto vero che quando riprende il medesimo motivo nella lettera al Quarengo, e vuol precisare meglio le cose, distingue tra la sua vita perseguitata in genere e l’ultima e presente prigionia. Le mie sciagure, egli dice, cominciarono da quando avevo diciott’anni e scrissi contro Aristotile (questo ci porta su per giú ai víginta annos della lettera allo Scioppio); ma «il colmo» giunse ai miei ventitré anni; e qui ritorniamo alla data del 1591, ma del tempo in cui «fui perseguitato e calunniato», non messo in carcere perpetuo. Finalmente: «son otto anni continui che sto in man di nemici»; e qui abbiamo il computo esatto della sua ultima carcerazione, dal 1599.

Molte altre volte, del resto, e per ragioni che riguardano piú da vicino la sua persona e la sua sorte, il Campanella numera i suoi anni di prigionia e li numera sempre, senza nessuna eccezione, a partire dall’anno 159955.

Quando dunque nella canzone a Berillo numera in modo chiaro e in forma prosastica «quattordici anni» di prigionia, non è possibile dare al computo un valore diverso da quello dato costantemente dal Campanella le altre e numerose volte che ha fatto il medesimo computo, e preferirgli un computo fondato su di una figura poetica, qual’è l’allusione mitologica a Prometeo.

È poi sicuro che il Campanella si sia servito di quella immagine esclusivamente negli anni tra il 1604 e il 1608, e che appena [p. 299 modifica] si chiusero dietro le sue spalle le porte inchiavardate di Castel S. Elmo abbia stabilito di non usarla piú? Anche l’Amabile si è posta questa domanda, e vi ha risposto negativamente56 . A parte le prove di fatto che l’Amabile si è ingegnato di dare con la profonda conoscenza che aveva dell’argomento, a me pare che in questo caso la questione si possa risolvere rifacendosi un poco ai modi come, in genere, una immagine nasce e sarei per dire si fa la sua casa nella fantasia del poeta. Se si riflette alla cosa da questo lato appare evidente che la prima volta il felice ricordo prometaico germinò come una vera e propria immagine poetica; dopo divenne una ripetizione, una frase fatta, adoperata meccanicamente anche per ragioni pratiche (fare impressione sul lettore, che poteva essere uno sperato soccorritore). Tuttavia la frase aveva ormai messo radice, e il poeta amava questa sua figliuola, l’accarezzava con soddisfazione ed ogni tanto la riprendeva dal suo repertorio poetico57.

Quindi la parola «Caucaso» ci offre solo un termine ante quem: possiamo dire che non prima del 1606 sia stata usata dal Campanella. Ma quando abbia smesso di usarla precisamente non sappiamo e non potremmo mai fissare con una data, perché sarebbe anormale che il poeta avesse deciso di non usarla piú da un certo giorno preciso.

Argomento di maggior peso è quello riguardante la persona di Berillo. Non può non fare in realtá una certa impressione che in una poesia del 1613 si parli e ci si rivolga ad una persona, con la quale si sono avuti rapporti sette anni prima. Questi rapporti continuavano tuttavia nel 1613? Non pare o comunque non ci consta. L’Amabile su questo punto sorvola, e solo propende a posticipare il piú possibile la data di composizione di quell’opera (la redazione italiana del De sensu rerum), in cui Berillo è un’altra volta nominato (vedi p. 296).

Cosa concludere?

Tanto l’Amabile quanto il Gentile a me pare che siano partiti da due premesse, che hanno sviato il loro acume di ricercatori: [p. 300 modifica] che la poesia in discussione sia stata scritta di getto — quale ne fosse la data —, e che il Campanella fosse un uomo preciso, ordinato e sistematico.

Tutto quello che noi sappiamo intorno alla sua persona ce lo mostra in una luce affatto diversa, e quanto al modo da lui tenuto nel comporre sia in versi che in prosa sappiamo egualmente che lungi dal comporre di getto e in maniera definitiva, ruminava continuamente o scrivendo a più riprese, o ricomponendo e trasformando non solo nella forma, ma anche nella sostanza. Cosi è avvenuto, per dire di opere assai note, della Monarchia dí Spagna e della Cittá del sole, e, tra le poesie, ci è dato vedere un esempio tipico di doppia redazione nei due componimenti sostanzialmente identici, l’uno dei quali, incluso nella Scelta, porta il titolo: Agli Italiani che attendono a poetar con le favole greche (n. 36), l’altro è stato trovato nel Ms. Ponzio senza titolo, sotto forma di sonetto caudato (vedi pp. 216-18). Giá lo stesso Amabile, cosí attento, non aveva mancato di fare l’osservazione generale che riusciva assai difficile stendere un catalogo esatto delle opere del Campanella, «perché, tra le sventure sofferte dall’autore, diverse sue opere furono composte e ricomposte anche con diversi titoli successivamente... mentre le fortunose circostanze della vita dell’autore dovevano certamente influire di molto sopra le idee in esse sviluppate» (Am. T. C., I, p. 39). Se non che tralasciò di fare l’applicazione di questo criterio generale al caso particolare, che pure ci rientrava assai bene. Ci è perfettamente lecito pensare infatti che la canzone sia stata abbozzata o anche stesa interamente in una prima redazione tra il 1606 e il ’607; ripresa e completata o rimaneggiata nel 1613. È probabile che questa seconda redazione sia stata fatta in fretta, pel desiderio, molto naturale in uno scrittore, di offrire all’Adami, che si profferiva di pubblicare anche le opere poetiche, una poesia che almeno formalmente si presentasse come originale (onde la determinazione cronologica dei «quattordici anni»). Ma l’impostazione della poesia rimaneva quella di sette od otto anni prima e rimaneva anche nel titolo il nome di colui al quale era indirizzato quell’atto di contrizione in versi (Berillo). Un altro uomo, un poeta sul tipo di un Petrarca, di un Ariosto, si sarebbe sentito assai a disagio davanti a quei due tronconi di poesia di tempi e circostanze tanto differenti, e non avrebbe avuto pace fino a che non li avesse saldati insieme. Ma il Campanella da questo lato era rimasto uno [p. 301 modifica] di quei frati giramondo, nelle cui tasche ampie e profonde della tonaca si possono trovare tante cose disparate. Egli non badò alla incongruenza temporale, o se badò fece un’alzata di spalle. Nel Syntagma, che pure dovrebb’essere un catalogo ragionato delle proprie opere, non ci sono incongruenze ben piú grosse lasciate correre per trascuratezza?

Le questioni attinenti a questa poesia non sono ancora terminate. Si è parlato a varie riprese della persona, a cui la poesia è dedicata; ma chi sia precisamente questo Berillo rimane ancora un mistero. Invano ci si affaticò intorno l’Amabile con un lavoro pazientissimo di ricerche, dalle quali per altro a lui parve di poter trarre una designazione poco piú che ipotetica. Come il lettore avrá visto, la nota apposta dal Campanella al commiato della canzone dice: «Berillo è don Brigo di Pavia, di santitá e caritá ed amicizia singolare con esso lui». L’Amabile, al termine delle sue ricerche, si convinse che «Brigo» poteva rappresentare una storpiatura di altro nome: assai probabilmente — tenuto conto delle caratteristiche della calligrafia del Campanella. — «Hugo», erroneamente trascritto dall’Adami nel preparare l’edizione della Scelta. E l’Amabile concludeva congetturando l’esistenza di un Ugo Berillario, dell’ordine dei basiliani (Am. Cast., I, pp. 48-49).

A questa ipotesi il Gentile obbietta: «Sarebbe strano che il Campanella, il quale tante correzioni fece nell’esemplare della Scelta che si conserva nella Biblioteca dei Gerolamini, non notasse questo errore di un Brigo, non mai da lui conosciuto, creato dall’Adami. E a me pare evidente che l’espressione «Berillo vivo» del commiato non avrebbe senso, se Berillo non fosse un soprannome dato dal Campanella a don Brigo, non nel senso generico di «berillus» = «pietra preziosa» (come prima credette l’Amabile, quasi fosse un vezzeggiativo), ma in quello, ben appropriato al confessore, di «occhiale»; senso, in cui la parola era stata usata, nello scritto De beryllo, dal Cusano, certamente noto al Campanella, che cita spesso questo scritto» (Gent., I, p. 276).

A parte ciò che è qui detto intorno alle molte correzioni fatte dal Campanella nell’esemplare della Biblioteca dei Gerolamini (sul che vedi appresso, p. 303), l’obbiezione del Gentile ha un peso non trascurabile; però solo nei riguardi della ricostruzione ipotetica del nome «Brigo» fatta dall’Amabile. Il nocciolo della questione, che ancora non riusciamo ad intaccare, resta questo: l’esposizione al madr. 13 dice in modo esplicito «Berillo è don Brigo di Pavia», [p. 302 modifica] e aggiunge che è in «amicizia singolare» col Campanella, quindi a lui ben noto. Sia che si trasformi Brigo in Hugo, sia che si metta in chiaro che Berillo è un soprannome, rimane o ignota o assai ipotetica la persona reale di don Brigo di Pavia, che è quello che proprio c’interesserebbe di sapere.


3° gruppo: Poesie scritte dopo il 1613.

Del periodo posteriore al 1613 non ci resta altra memoria poetica che l’Ecloga per la nascita di Luigi XIV, intorno alla quale ho giá dato i ragguagli piú importanti nel precedente paragrafo (pp. 280-1).

VI

Nell’allestire questa seconda edizione riveduta — riveduta soprattutto nel testo delle Poesie filosofiche, che presenta i dubbi e le incertezze piú numerose e piú gravi — non ho creduto di scostarmi affatto dai criteri di massima, che informarono la prima edizione; ma anzi, fattane la prova per mio conto, sono venuto nella conclusione che bisognava applicarli piú strettamente e con maggiore consequenzialitá e continuitá. A prescindere da alcune sviste ed errori materiali o tipografici, dei quali è superfluo dare qui un elenco, ho trovato, nell’applicazione di quei criteri, una certa tendenza all’eclettismo, che, a mio avviso, non giova a stabilire un testo omogeneo, con una fisionomia, che meglio si avvicini a quella del poeta.

Convinto di ciò, ho cominciato ab ovo, cioè da una minuta collazione del testo, compreso l’Errata-corrige, sul prezioso cimelio posseduto dalla Biblioteca dei Gerolamini di Napoli.

Il fatto di tenere sott’occhio un esemplare tenuto sott’occhio e corretto dall’autore potrebbe avere un valore conclusivo nella critica del testo. Purtroppo non è cosí. Il volumetto, stampato in economia e quasi alla macchia, all’estero, senza che fosse rivisto dall’autore, è ricco di errori, e soprattutto d’incertezze ed ambiguitá nella ortografia ed ortoepia, solo una esigua parte dei quali sono corretti nell’Errata-corrige. Ed una parte anche minore appare corretta dalla mano dell’autore nell’esemplare dei Gerolamini. [p. 303 modifica] E qui mi sia permesso, per evitare una naturale perplessitá nel lettore, che ritorni, come ho promesso, su di una frase del Gentile alludente alle «tante» correzioni apportate dal Campanella su quell’esemplare (vedi p. 301). Che fossero «molte» lo disse anche l’Amabile (Am. Cod., p. 99); ma fu espressione momentanea piuttosto del suo legittimo entusiasmo di ricercatore; e lui stesso poco piú innanzi (p. 103), facendo una descrizione sommaria di quelle correzioni, disse con piú esattezza:

«Disgraziatamente le correzioni non furono fatte con assiduitá in tutto il libro, ma solo qua e lá, dove gli errori e le disarmonie riuscivano piú salienti e inducevano l’autore a porvi mano.»

E questo è piú vicino al vero, e potrá accertarsene chiunque vuole, scorrendo la lista completa di quelle correzioni inserita dal medesimo Amabile nel libro citato.

La conclusione di tutto questo è che, malgrado l’esistenza del cimelio napoletano, non si può fare a meno d’integrare la collazione con i soliti espedienti filologici. I quali però sono come i farmachi: è bene usarli in piccole dosi; in questo caso poi con tanta piú cautela in quanto che, bene o male, il prototipo napoletano è stato sotto gli occhi dell’autore, e questo ci fornisce per lo meno un orientamento generale, anche se ci rivela certe trascuratezze nei particolari proprie del temperamento poetico — e non solamente poetico — del Campanella.

Ciò considerato, io mi sono attenuto al criterio della massima possibile fedeltá all’esemplare dei Gerolamini. Si può dire che quando me ne sono staccato l’ho fatto quasi mal volentieri, costretto dall’evidente incoerenza. Invece ho rifiutato di considerare i versi duri, impacciati, insomma «irregolari», secondo i precetti di una metrica piú raffinata, come versi per questo errati o comunque da assoggettare a revisione e rimaneggiamenti per renderli piú «poetici», cioè piú dolci all’udito e piú «regolari».

Il Campanella non fu un puro poeta d’arte, come poteva esserlo un Bembo o un Poliziano. La sua poesia, che in certi momenti si leva tanto alto, partecipa però anche, in strani connubi, della poesia popolare, della poesia dottrinale e profetizzante e della satira politica. È dunque una poesia mai limata, spesso scabra e angolosa, che ritrae dei casi e del carattere dell’uomo, che aveva pur qualcosa «del monte e del macigno» di Stilo.

Perciò non ho creduto di dovermi preoccupare di alcuni versi duri o alquanto contorti, o di altri, che per la posizione di accenti [p. 304 modifica] o cesure non possono dirsi certo metricamente perfetti. Sono persuaso che non se ne facesse una preoccupazione neanche l’autore, e quindi ho lasciato fino a quanto era possibile le cose come stavano.

In armonia con questo criterio, ho mantenuto intatta la determinazione attuata giá nella prima edizione di riprodurre le varianti Ponzio in una tavola a parte per notizia del lettore (vedi p. 307); ma di non accoglierne nessuna. E la ragione principale per me è stata appunto il fatto che le varianti proposte dal Ponzio sono dettate in buona parte dal desiderio di rendere il testo piú levigato, secondo i canoni correnti della lirica d’arte rinascimentale. Per es., al v. 13 del n. 19, di michelangiolesca potenza, la parola «corpo» è mutata in un petrarcheggiante «velo»; il v. 5 del n. 21 è raddolcito, e raddolcito da un «poscia»; il v. 12, tolta l’antitesi, è trasformato cosí: «ch’egli avverrá che l’huomini condanni»; il v. 5 del n. 38 trasformato accademicamente cosí: «d’ogni discordia e servitude immonda», etc.

Ma, coerentemente col proposito di dare carattere unitario al mio lavoro, ho scartato senza rimpianto tutte le altre proposte di correzioni dello stesso genere di quelle del Ponzio, anche se elaborate con maggiore riflessione e con diverso gusto. Se ci si affida ad un certo gusto, uno su per giú ne vale un altro, e non è detto che il gusto dei tempi del Ponzio valesse tanto meno di quello nostro.

Cosi sono ritornato al testo originale quasi integralmente — cioè solo con leggeri spostamenti d’interpunzione, a anche questi non frequenti — in casi come questi: p. 28, n. 20, v. 11: verso giá non piaciuto all’Orelli e poi al D’Ancona, dalla cui manipolazione provenne all’incirca la correzione di questa prima edizione; p. 29, n. 21, v. 7; p. 42, n. 26, v. 13; p. 76, n. 31, v. 2; p. 87, n. 36, madr. 5, v. 1; p. 107, n. 62, v. 1: tutti versi certamente poco fluidi, ma punto alieni dalla fisionomia campanelliana.

In altri casi non mi è parso di modificare il senso del verso cambiando parole, che, se non m’inganno, sono abbastanza intelligibili nel contesto. Cito due casi: p. 66, n. 30, vv. 5-7: la versione originale è come si trova in questa edizione. Nella precedente «briglie» era sostituito con «brighe». Non ne ho vista la necessitá; e cosí a p. 120, n. 73, madr. 4, v. 4, dove il «paghe» originario era mutato in «piaghe». A me è parso che «paghe» aderisse molto di piú al senso di tutta la strofe, dove si parla di suonatori pagati, di furti e pervertimenti tra gente avida. [p. 305 modifica]

Ho quasi sempre corretto invece certe sostituzioni della vocale «e» in «i» («chi» per «che», «si» per «se» in vari punti; «Minelao» per «Menelao» — p. 231, son. 24 —; «bivendo» per «bevendo» — p. 240, son. 11 —; «pinsier» per «pensier» — p. 248, v. 1 —), perché le ho considerate residui di pronunzia calabrese scorsi nella penna. Ho conservato invece certi dialettalismi piú caratteristici e coloriti, come «Giesu» (p. 27, n. 18, v. 3; p. 190, v. 25); «onghie» (p. 183, v. 162), e cosí eccezionalmente ho lasciato la «i» calabrese, dove mi è parso che il poeta ce lo avesse messo di proposito, perché al suo orecchio suonava meglio nel verso.

Ed ho riprodotto infine anche e piú metodicamente un maggior numero di maiuscole che non ce ne avesse lasciate la prima edizione. Non ho creduto di trascurare questo particolare ed ho cercato anche per esso una soluzione in armonia con le direttive propostemi. I testi antichi, si sa, abbondano di maiuscole; la nostra ortografia tende a ridurle al minimo. Riprodurre tutte o quasi tutte le maiuscole del prototipo non sarebbe stato opportuno, né conforme ai criteri di massima di questa collezione; ma ridare, anche da questo lato, un po’ del sapore di quello non mi è parso male. E l’ho fatto costantemente per quel gruppo di parole, alle quali le tendenze mistico-profetiche del poeta non potevano non attribuire un senso speciale, e sulle quali voleva che si fermasse l’attenzione e la meditazione del lettore (Regno, Paradiso, Senno, Sapere, Ragione, Ente, Sommo Bene, Amore, Luce, Potere, Necessitá, Armonia, Natura, PFato). Invece ho mantenuta la «s» minuscola per la parola «stato», come l’autore ha voluto costantemente, e forse non a caso, se si pone mente al suo anti-machiavellismo. Ed a proposito di questa parola dirò che tanto essa quanto il nome del Machiavelli ho preferito di lasciarli anch’essi come li ho trovati, cioè con la «c» raddoppiata, come ancora oggi avviene di sentire nelle province meridionali.

M. V.



Note

  1. Le frequenti citt. delle fondamentali opere di Luigi Amabile saranno fatte con le seguenti abbreviazioni:
    Am. Cod.: Il codice delle lettere del Campanella nella Biblioteca nazionale e il libro delle poesie dello Squilla nella Biblioteca de’ pp. Gerolamini in Napoli, descritti ed illustrati da L. A., con una tavola, Napoli, 1881.
    Am. T. C.: Fra T. Campanella, la sua congiura, i suoi processi, la sua pazzia, Napoli, Morano, 1882.
    Am. Cast.: Fra T. Campanella ne’castelli di Napoli, in Roma ed in Parigi, Napoli, Morano, 1887.
    Inoltre saranno contrassegnate con la sigla Gent. I le citazioni, che ci occorrerá di fare delle dotte annotazioni che G. Gentile appose alla prima ed. di questo libro (di cui si parlerá a p. 282 segg.), e con la sigla D’Anc. quelle delle Opere di T. C. scelte... da A. D’Ancona, Torino, Pomba, 1854.
    L’opera autobiografica ed autobibliografica del C. De libris propriis et de recta ratione studendi syntagma sará cit. nella recente ed. cur. da V. Spampanato: T. C., Syntg. de libr. propr., a cura di V. S., Firenze, Milano etc., Bestetti-Tumminelli, 1927, e sará indicata con la sigla: Syntg.
    Infine tutti i riferimenti all’Indice analitico, con cui si chiude la presente ed., saranno fatti con la sigla: Ind.
  2. Am. T. C., III, p. 328: il son. pel nunzio, cioè da inviare al papa, è forse il n. 21 della Scella; quello sollecitato da fra Pietro è certo il n. 20.
  3. Am. T. C., II, pp. 346-54 e cfr. Ind. ai nomi: Campanella, Ponzio (Dionisio).
  4. Si giuocava perfino tra carcerieri e carcerati. Vedi Am. T. C., II, 239.
  5. Am. T. C., II, p. 230 sgg.; III, p. 519 sgg.
  6. VediInd., s. q. n., e i due sonn. a p. 127, che sono una bella testimonianza della coraggiosa fedeltá di lui.
  7. VediInd., s. q. n., e cfr.Am. T. C., III, p. 527 (doc. n. 421).
  8. Am. T. C., II, pp. 346-48; Am. Cod., pp. 22-24. La lett. del C. al P., senza data, ma dell’autunno 1607, fu per la prima volta pubbl. integralmente nel med. Am. Cod., pp. 63-68; ripubbl. in T. C., Lettere, a cura di V. Spampanato, Bari, Laterza, 1927, pp. 117-23.
  9. Am. T. C., II, pp. 393 - 95
  10. Am. Cod., pp. 73-74.
  11. Am. Cod., p. 76;Am. T. C., II, p. 409 sgg. D. Berti, Nuovi documenti su T. C., Roma, Tip. bodoniana, 1881, p. 26.
  12. Am. T. C., III, p. 596 sgg.;Am. Cast., I, p. 14. Per errore il C. in Syntg., I, 3, p. 35, dá a questo viaggio, che durò precisamente dall’aprile all’agosto 1607, la data del 1608. Circa le frequenti inesattezze di quest’op. vedi in seg. pp. 284-285.
  13. In Syntg., loc. cit., e cfr. D’Anc., I, pp. clxi, clxvii;Am. T. C., II, p. 396;Am. Cast., I, p. 46; 50-51;Am. Cod., p. 78.
  14. Am. Cod., p. 127 sgg.;Am. Cast., I, p. 160 sgg.
  15. Am. Cod., p. 130; Gent., I, p. 294.
  16. Vedi p. 113 e cfr. Gent., I, pp. 293-94.
  17. Inserite dall’A. in Geistliche Kurzweil (1619): cfr. Gent., I, p. 294; Am. Cod., p. 139.
  18. Am. Cod., pp. 99-100.
  19. T. C., Phil. rat., Parigi, Du Bray, 1638. Vedi foglio aggiunto dopo la p. 258 del to. II, ed ultima dell’op.
  20. D’Anc., I, pp. CCCXII, CCCXLIII.
  21. D’Anc. pp. cccxii, cccxxxix sgg.; {{Sc|Gent}., I, pp. 294-95 e cfr. Herder, Sämmtl. Werke hg. vedi B. Suphan, xxvii (Berlin. 1S81) 332-46 e 361-62. Le poesie trad. dallo H. corrispondono precisamente ai seguenti numeri della Scelta: 1, 2, 4, 5. 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 15, 16, 17, 24, 25, 30, 32, 40, 41, 42, 59, 65, 67, 75. 78.
  22. Poesie | filosofiche | di Tommaso Campanella | pubblicate per la prima volta | in Italia | da Gio. Gaspare Orelli | professore all’Universitá di Zurigo | Lugano | Presso Gius. Ruggia e C. | mdcccxxxiv (pp. xx-123 e 1 non num.).
    L’esemplare posseduto dall’Orelli fu poi da lui donato alla Stadt-Bibliotheck di Zurigo.
  23. Am. Cod., pp. 101-10
  24. Il D’Ancona anzi in questo punto credette bene di modificare il testo dell’ed. Orelli, aggiungendo al titolo originale: Poesie filosof. di T. C. le parole: col commento di T. Adami (vedi D’Anc., I, p. 1). Sul testo Orelli-D’Ancona, oltre Am. Cod., pp. 101-23, vedi G. Bustelli, Emendazioni critiche al testo delle Poesie filosofiche di T. C. (1875) in Scritti, ii (Salerno, 1878), 180-238.
    Nulla aggiunge ad una migliore conoscenza del testo campanelliano la ristampa quasi completa inserita da L. Leoni nella sua Istoria della Magna Grecia e della Brezia (Napoli, 1861) e pubbl. anche in un estr. a parte (Poesie filosof. di T. C. estr. dal cap. XXXVI, vol. II della Istoria etc. di N. L., Napoli, 1861). Su questa pubblic. scrisse V. Imbriani (con lo pseudon. di I. Moeniacoeli) in Giorn. napolet. della domen., 20 gennaio 1882, a cui rispose L. Amabile nello stesso periodico il 12 febbraio seguente.
  25. Il libro da lui posseduto era semplicemente cit. dal V. in una sua opera, che aveva fatta anche stampare, ma non vide la luce. E da presumere che il Vico, assiduo in quella casa, abbia avuto sotto gli occhi il libro, sebbene non se ne trovi menzione nelle sue opp. Cfr. Gent., I, p. 294, e per esaurienti notizie sul Valletta vedi B. Croce, Uomini e cose della vecchia Italia, Bari, Laterza, 1927, pp. 278-80.
  26. Solo da poco tempo Benedetto Croce è riuscito a scoprire un terzo esemplare della ed. principe, assai bello per l’ottimo stato di conservazione, e che trovasi presentemente nella sua biblioteca.
  27. Per maggiori particolari vedi la nota bibliografica di V. Spampanato in T. C., Lettere, ed. cit., pp. 427-28.
  28. Am. T. C., III, p. 549.
  29. Am. T. C., III, pp. 526-27.
  30. Am. T. C., II, 297.
  31. Am. Cod., pp. 104-27.
  32. Per maggiore dilucidazione del testo l’Amabile chiuse il libro con una tavola, nella quale sono dati un facs. della scrittura del C., del frontespizio della Scelta, dov’è la sigla del C., e di due brani delle pp. 405, che recano correzioni a penna.
  33. Piú esattamente del 1601, poiché nell’agosto di quell’anno fu tolto dalle mani del proprietario (vedi retro, p. 266). La frase sopra riportata e l’altra del med.Am. Cod. a p. 103: «Furono [le poesie] nel 1602 raccolte da fra Pietro Ponzio» sono implicitamente corrette daAm. T. C., III, p. 594, dove è detto: «Le poesie del C., raccolte da fra P. P., trovate nell’agosto 1601, emerse in processo nel 1602».
  34. Am. T. C., III, pp. 549-81.
  35. Am. Cast., II, Docc., p. 347, cosí descrive l’ediz.: «Frontispizio: — Ecloga Christianissimis Regi et Reginae in Portentosam Delphini, orbis Christiani sutnmae spei, nativitatem. F. Thomas Campanellae Ord. Praed. Saeculorum excubitoris cantus cum annot. Discip. — sta qui una vignetta che reca lo scudo de’ Reali di Francia con la corona e i tre gigli, sotto cui una stella, dalla quale pende una campana col motto: Isai, 62: Propter Sion non tacebo, e in basso e a destra una mano chiusa con l’indice spiegato verso lo scudo. Inferiormente si legge un altro motto: Donec egrediatur Iustus eius, alludendosi a Luigi XIII, detto il giusto. — Ed a piede della pagina che costituisce il frontispizio: «Parisiis, apud Ioannem Du Bray, MCLXXXIX, cum permissu Superiorum». Le molte note, che l’accompagnano nella edizione parigina, son marginali».
  36. Tratte la piú parte dai Mèmoires del conte di Brienne pubblicati dal Barrière (Paris, 1828): vediAm. Cast., II, pp. 132-35.
  37. Am. Cast., II, pp. 135-37. Di tutte le questioni connesse coi due Borelli tratta esaurientementeAm. Cast., II, Docc., p. 361 sgg. e Am. T. C., III, p. 649 sgg.
  38. Pubblicati dal Solmi nella sua ed. della Cittá del sole, Modena, tip. della «Provincia», 1904, p. 52 sgg.; da J. Kvacala comunicati in una nota Intorno ad alcuni niss. finora non considerati di opp. di T. C., presentata all’Acead. pontaniana dal socio B. Croce (Atti Acc. pont., Napoli, 1913, mem. n. 3, pp. 4-9) e in Neue Nachträge Z. d. Abhandlung: Ueb. d. Genese der Schriften Th. C., in Acta et Commentationes Imp. Univ. Iurievensis, 1913, pp. xx-xxiii; rived. e ripubbl. da R. de Mattei in Studi campanelliani, Firenze, Sansoni [1934], pp. 125-51 (e cfr. il cap. C. e Venezia, pp. 21-31). Gli Antiveneti sono l’opera polemica contro Venezia, di cui fa menzione ed espone l’argom. il C. in Syntg., 3, p. 33 («... tres libros, videlicet Monarchiam Messiae Venetis... Item libellum Pro papa iuxta canones et politicam optimam; ac demum alium libellum, Lamentationes vocatum, instar Threnorum Hieremiae, mala futura in toto orbe, si dissidium illud amplius duraret, nunciantem per oraculorum et Scripturarum enucleationes»: i framm. sopra citt. appartengono a questa terza parte). Scritta dal C. intorno al 1606 per istigazione dello Scioppio, e nella speranza d’ingraziarsi Paolo V sostenendo le ragioni papali nella lotta dell’interdetto, e consegnata al medesimo Scioppio per farne omaggio al papa e poi pubblicarla, non fu né presentata al papa né pubblicata né restituita, e probabilmente gli fu sequestrata una volta che si trovò sul territorio della Repubblica, la quale dette la caccia a quante piú copie di quest’opera si trovassero in circolazione. Cfr.Am. T. C., II, p. 396 sgg.;Am. Cast., pp. 43, 78.
  39. T. C., Le poesie. Ed. completa rivista sulla prima ed. (1622) con l’aggiunta di 69 poesie, a cura di G. P., Lanciano, Carabba, 1913; in due volumi di pp. 175, 179.
  40. Vedi recensioni di B. Croce: in Critica, 1913, pp. 254-59, 338-40; T. Parodi in Nuova Cultura, 1913, pp. 273-80; e cfr. Gent., I, p. 298.
  41. Gent., I, pp. 298-303, passim.
  42. Gent., I, p. 303
  43. Dettato in Roma al Naudé nel 1631, a memoria; mai piú riveduto, checché dica il N., e pubbl. tanto piú tardi, dopo la morte del C. (nel 1642); onde «alle affermazioni del Syntagma si può prestar fede assai meno che a quelle di qualunque altro fonte».Am. T. C., I, pp. 40, 80; e cfr. id., II, pp. 89, 146;Am. Cast., I, p. 446 sgg.;Am. Cod., p. 78.
  44. Per i riferimenti biografici vediInd., sotto Campanella e gli altri nominati.
  45. Am. T. C., I, pp. 85, 89; III, p. 32.
  46. Am. T. C., I, p. 146; II, p. 90.
  47. I processi furono due, paralleli: quello «di maestá» (congiura e ribellione contro il governo spagnuolo) e quello di eresia, per gli arrestati ecclesiastici. Per costoro inoltre — giusta la legislazione vigente sulle immunitá ecclesiastiche — il governo spagnuolo non potette procedere direttamente, ma bisognò che si mettesse d’accordo con la Santa sede. Si giunse cosí (gennaio 1600) alla formazione di un tribunale misto. Riassumendo, la complicata azione giudiziaria si svolse cosí:
    1. Processo di maestá contro gli accusati laici, di piena giurisdizione del governo spagnuolo, chiuso nel dicembre 1599;
    2. Processo di maestá contro gli accusati ecclesiastici, devoluto alla competenza di un tribunale misto e chiuso per quasi tutti gl’imputati nel corso dell’anno 1602, dopo la chiusura del processo di eresia; rimasto aperto sine die per il Campanella e per qualche altro, latitante o evaso, come fra Dionisio Ponzio;
    3. Processo di eresia, presso il tribunale del S. Uffizio a Roma, chiuso nel settembre 1602.
    La finta pazzia de! Campanella (per cui vediInd. s. q. n.) è come l’episodio culminante e conclusivo di questo periodo (Am. T. C., II, p. 283 sgg.). Da essa ha principio il lungo, angoscioso periodo della prigionia di rigore.
  48. D. Berti, Lettere inedd. di T. C. e catalogo dei suoi scritti, in Memorie dell’Accad. dei Lincei, serie III, Scienze mor., stor., filol., voi. II, 19 maggio 1878;Am. Cod., pp. 131-32;Am. Cast., I, pp. 162-63.
  49. Il preciso titolo di questo sonetto nel Ms. Ponzio è: Ad un novo alunno della Religione di son Maschi; e Am. T. C., III, 571 annota: «Intendi Somaschi; parrebbe scritto a quel modo per uno scherzo piuttostoché per un errore di fra Pietro».
  50. C., Lettere, ed. cit., pp. in, 130, 136.
  51. Am. Cast., II, docc., p. 29.
  52. È però un’attribuzione controversa.Am. T. C., II, pp. 371-72 propende per gli anni 1610-1612.
  53. Gent., I, pp. 275-76.
  54. C., Lettere, ed. cit., pp. 124, 133.
  55. Un altro computo esplicito trovasi nelle Orazioni tre in Salmodia metafisicale; dove (Canz. I, madr. 3, v. 14; canz. III, madr. 6, v. 6) parla di dodici anni di prigionia, e queste orazioni sono del 1611 (vediAm. Cast., I, pp. 144-45 ) allo stesso modo che il memoriale a Paolo V, della fine di quell’anno, dove, parafrasando nel preambolo i vv. dei due madr. sopra citt. allude anche ai «duodecim annos passionis» (vedi T. C., Lettere, ed. cit., pp. 170-71). Così egualmente nella lettera Al Papa ed a’ cardinali, che è del 12 aprile 1607, parla di otto anni di prigionia (op. cit., p. 59), nell’altra a Paolo V dello stesso anno dice: «Sendo stato io otto anni in una fossa etc.» (op. cit., p. 52), e due anni dopo, nella Lettera a Paolo V, a Rodolfo II etc.: «Si dice che fra T. C.... non convinto né confesso... di ribellione, per la quale son dieci anni ch’è carcerato» (op. cit., p. 156).
  56. Am. T. C., II, pp. 418-19;Am. Cod., p. 128.
  57. Un altro esempio si può citare per analogia. Di un’altra immagine mitologica si serve il C. nel son. all’Adami, che è del 1613 (n. 70 della Scelta): quella di Ulisse nella caverna di Polifemo («ciclopea caverna»). Venticinque anni dopo l’immagine ritorna nei vv. 101-102 dell’Ecloga.