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che se dicesse venti non si apporrebbe male (et si dicam viginti annos, non mentiar).

Bisogna allora risalire nel computo degli anni di prigionia continua all’anno 1587? Evidentemente ciò è inammissibile; ma il valore di tutto il brano come strumento di un computo esatto resta inficiato. Ci troviamo davanti ad un’amplificazione rettorica, ad uno sfogo del povero prigioniero e nulla piú.

Tanto vero che quando riprende il medesimo motivo nella lettera al Quarengo, e vuol precisare meglio le cose, distingue tra la sua vita perseguitata in genere e l’ultima e presente prigionia. Le mie sciagure, egli dice, cominciarono da quando avevo diciott’anni e scrissi contro Aristotile (questo ci porta su per giú ai víginta annos della lettera allo Scioppio); ma «il colmo» giunse ai miei ventitré anni; e qui ritorniamo alla data del 1591, ma del tempo in cui «fui perseguitato e calunniato», non messo in carcere perpetuo. Finalmente: «son otto anni continui che sto in man di nemici»; e qui abbiamo il computo esatto della sua ultima carcerazione, dal 1599.

Molte altre volte, del resto, e per ragioni che riguardano piú da vicino la sua persona e la sua sorte, il Campanella numera i suoi anni di prigionia e li numera sempre, senza nessuna eccezione, a partire dall’anno 15991.

Quando dunque nella canzone a Berillo numera in modo chiaro e in forma prosastica «quattordici anni» di prigionia, non è possibile dare al computo un valore diverso da quello dato costantemente dal Campanella le altre e numerose volte che ha fatto il medesimo computo, e preferirgli un computo fondato su di una figura poetica, qual’è l’allusione mitologica a Prometeo.

È poi sicuro che il Campanella si sia servito di quella immagine esclusivamente negli anni tra il 1604 e il 1608, e che appena

  1. Un altro computo esplicito trovasi nelle Orazioni tre in Salmodia metafisicale; dove (Canz. I, madr. 3, v. 14; canz. III, madr. 6, v. 6) parla di dodici anni di prigionia, e queste orazioni sono del 1611 (vediAm. Cast., I, pp. 144-45 ) allo stesso modo che il memoriale a Paolo V, della fine di quell’anno, dove, parafrasando nel preambolo i vv. dei due madr. sopra citt. allude anche ai «duodecim annos passionis» (vedi T. C., Lettere, ed. cit., pp. 170-71). Così egualmente nella lettera Al Papa ed a’ cardinali, che è del 12 aprile 1607, parla di otto anni di prigionia (op. cit., p. 59), nell’altra a Paolo V dello stesso anno dice: «Sendo stato io otto anni in una fossa etc.» (op. cit., p. 52), e due anni dopo, nella Lettera a Paolo V, a Rodolfo II etc.: «Si dice che fra T. C.... non convinto né confesso... di ribellione, per la quale son dieci anni ch’è carcerato» (op. cit., p. 156).