Poesie (Campanella, 1938)/Scelta di alcune poesie di Settimontano Squilla/31. Canzone del Sommo Bene metafisico

31. Canzone del Sommo Bene metafisico

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31. Canzone del Sommo Bene metafisico
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31

Del Sommo Bene metafisico

madrigale 1

L’Essere è il Sommo Ben, che mai non manca,
e di nulla ha bisogno, e nulla pave.
Amanlo tutti sempre; e’ sol se stesso,
perché non ha maggior né piú soave.
S’egli è infinito, noi di morte affranca,
ché fuor non ha né dentro a lui framesso
puote il Niente star. Né dunque alcuna
cosa s’annulla, ma si cangia spesso.
Lo spazio immenso all’esser d’ogni cosa
è base in lui nascosa,
che solo in sé riposa,
da cui, per cui, ed in cui son tutte in una;
e da cui lontanissima è ciascuna,
da infinito finita; e, perch’è incinta
e cinta, è vicinissima anche, stante
in lui viva e per lui, s’è per noi estinta,
come pioggia nel mar mai non mancante.

L’esser universale nell’essere e causare propone per Sommo Bene: di cui proprio è che sia indeficiente e di nullo abbia bisogno o paura, né ami, né intenda altro che se stesso; ma, amando ed intendendo sé, ama ed intende tutte cose per sé. E, perch’è infinito, non può dentro né fuor di lui stare il Niente. Dunque nulla cosa s’annicchila per morte, ma si trasmuta solo. Poi mostra che la base dell’esser creato sia lo spazio universale, tenuto [p. 74 modifica]da certi arabi per Dio, e ’l quale, secondo noi, è in Dio; da cui, in cui e per cui, ecc. Nota com’ogni ente è intra Dio, ed è cinto ed incinto di lui, e pure da lui è lontanissimo, perché è finito, e quello infinito. E come le cose muoiano in Dio, vivendo; come una gocciola d’acqua, gittata in mare, muore e vive.

madrigale 2

Come lo spazio tutti enti penètra,
locando, e d’essi insieme è penetrato;
cosí Dio gli enti interna, e ’l spazio, e passa,
non come luogo, né come locato,
ma in modo preeminente; donde impetra
lo spazio d’esser luogo, e ’l corpo massa,
e l’agenti virtú d’esser attive,
e gli composti, in cui l’idea trapassa.
E, perch’egli è, ogni ente è per seguela,
qual splendor per candela;
ma si occulta e rivela
in varie fogge, in cui sempre si vive,
come atomi nell’aria. In fiamme vive
spiace a’ legni mutarsi e d’esser vampe;
godon poscia ch’amor, virtute e senso
dell’esser proprio han tutte le sue stampe,
per quanto è d’uopo, dall’Autor immenso.

Dio, simile allo spazio, che penetra tutte le cose, e ’n lui sono internamente tutte. Ma Dio, non come luogo né come locato, contiene le cose o è nelle cose, ma in certa maniera eminentissima, dalla quale il luogo prende l'esser luogo, e la materia l'esser materia, e gli composti l’idea della composta loro. E, perché Dio è, ogni ente è per conseguenza, come per candela lucente è lo splendore conseguente: non per natura, ma per volontá di Dio, e come in Dio. S’ascondono in Dio, quando paion non esser, e si rivelano a noi, quando hanno l'essere sensibile. Poi dice che, mutandosi ogni cosa, non s’annicchilano, ma godono pur dello essere in che si mutano; perché ogni ente ha il potere, il sapere e l’amor di se stesso, secondo l’idea donde provengono.

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madrigale 3

L’uom fu bambino, embrione, seme e sangue,
pane, erba ed altre cose, in cui godeva
d’esser quel ch’era, e gli spiacea mutarsi
in quel ch’è mò: e quel ch’ora gli aggreva,
di farsi in fuoco, in terra, in topo, in angue,
poi piaceralli; e crederá bearsi
in quel che fia, che in tutti enti riluce
la Idea divina, e pe ’l dimenticarsi.
Dunque nullo ama quel che amar gli pare:
altro patire o fare,
che ’l suo esser sa dare.
Ch’un sia due, osta il tutto; e chi esser duce
vuole, è, in quanto è simile, o produce
imago, onde tal si ama; e non è, in quanto
guastarsi in quel ch’è duca abborre, ed anco
v’è quell’altro; talch’egli è un altro tanto;
e ’l savio è tutti, ancor di morte franco.

Leggi, per intender questo, il secondo libro della seconda parte della Metafisica. Per esempio, dell’uomo, in quanto animale, mostra che, quando una cosa è, gode del suo essere e gli spiace mutarsi. E però è da stimarsi che, quando era un altro ente, come a dir pane, non gli piacea diventar carne di uomo; ed or ch’è, gli piace. Cosí, dopo morte, non gli spiacerá esser altro ente, ed ora gli spiace diventar quello: e poi vorrá esser verme che nasce del nostro corpo. E questo piacere avviene, ché in tutti luce la Idea divina, e per la dimenticanza dell’esser passato migliore ed ignoranza del futuro. Dunque non è vero ch’alcun ente ama non esser quel ch’è. E pur chi desidera esser re o duca, non in vero lo desidera, perché desidererebbe mutarsi in altro; e non può esser due. Talché s’adempie il desio in quanto è per similitudine intesa ed amata, e non in quanto non è, né vuol esser, mutato. Però il savio, che tutte cose sa, è tutte cose, senza mutarsi.

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madrigale 4

Non fece gli enti per vivere in loro,
qual padre in figli, o maestro in scolari;
né per far mostra altrui delle sue pompe;
ch’altri non vi era; e gli architetti rari
non mostran a una polce un gran lavoro.
Né cerca onor chi in sé non si corrompe.
Or chi dirá perché, se ’l Senno eterno
di tanto arcano il velame non rompe?
S’e’ fu sempre, il Niente non fu mai;
e tutti enti son rai
del Primo, in cui trovai
mondi, virtuti e idee, nel suo interno
fatti e rifatti in piú fogge ab aeterno,
nuove agli enti rifatti, a’ fatti antiche:
figure ed ombre di sacre esistenze,
chi nella prima son una ed amiche,
quantunque abbian tra lor varie apparenze.

Ogni ente genera un altro per immortalarsi in quello, non potendo in sé, o per fama, qual maestro ne’ discepoli. Perché dunque fece Dio il mondo? Se tu dici: — Per mostrar la gloria sua, — dimando: — A chi, se non ci era altro Dio? — Né si può dire: — Per mostrarlo a noi, che non eravamo. — E, sendo noi come polci a rispetto suo, come può esser ch’a noi si avesse a manifestare? Tanto men, ch’onor è rimedio contra la morte, che a lui non tocca1. Poi mostra che mai non fu il Niente; e che gli enti tutti son raggi d’esso Ente; e che in Dio ci sono mondi infiniti e cose per idea, che, in quanti modi possono esser fatti e rifatti temporalmente, rilucono in lui eternamente; perché non solo sa quel ch’è, ma quel ch’è possibile ad essere secondo il suo potere, ch’è infinito ed innumerabile. E come sono uno in lui, ecc.

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madrigale 5

Se ’l fuoco fosse infinito, la terra
non vi saria, o cosa confine e strana.
Se Dio è infinito ben, non si può dire
che vi sia morte o male o stigia tana,
se non per pena a chi e per meglio s’erra.
Rispetto è, non essenza, il mal, se mire
dolce al capro, a noi amara la ginestra.
Se ta’ rispetti averan da finire,
il caos sol d’ogni gioia poi s’imbeve,
come ferro riceve
il fuoco, e ’l freddo neve.
E questo è bello alla virtú maestra,
com’è bel che ’l distingua la sua destra.
Che maraviglia s’alcuno s’ammazzi?
Lo guida il Fato con occulto incanto
per la gran vita, ove énno i mali e i pazzi
semitoni e metafore al suo canto.

Pruova che, sendo Dio bene infinito, non ci è male, né dentro né fuor di lui, né morte, né inferno, se non in quanto è buono esso inferno e morte per punire il male, e perché d’una cosa nasca un’altra. Poi mostra che ’l male è solo rispetto a chi è male, ma non a Dio, né al tutto. E che ad un altro è bene quel che a noi è male. Poi dice che, se mancheranno gli rispetti, mancherá il male, ed ogni cosa sará una, perché il non essere distingue le cose tra loro, che l’una non è l’altra. Dunque il caos è tutto gioia, non vi essendo contrarietá, ma unitá. E che a Dio, comunque sará, sia bello; e che la distinzione e ’l male sono come semitoni e metafore, belle nel poema, bench’in sé vizi, e però s’uccide alcuno per Fato a ben del tutto.

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madrigale 6

L’alme, in sepolcri portatili ed adri
chiuse, dubbie di morte fa ignoranza
d’esser futuro e del passato obblio.
Cosí piú galeotti, per sconfidanza
di miglior vita, e ’n prigion servi e ladri
contentarsi, ché uscir odian, vidi io.
Or l’alma, che nel corpo opaco alberga,
se stessa ignora, e l’altre vite, e Dio;
onde per buchi stretti affaccia, e spia
che cosa essa alma sia,
come ivi, e perché stia.
Regge ella il corpo e nutre, e con sua verga
guida; né sa in che modo il quieti e l’erga,
ch’e’ non traspare; ed essa è breve luce.
Cosí chi opera al buio, sé non vede
nell’opra sua; onde al balcon s’adduce,
e mira in altri, argomenta e rivede.

Rende ragion perché spiace il morire, sendo una morte la vita presente, e la trasmutazione facendosi spesso in meglio; e dice che l’alma sta nel corpo, suo sepolcro portatile ed oscuro, e non sa il passato essere, né il futuro, e si contenta del presente; come molti galeotti e carcerati hanno a male d’uscire di tal vita infelice, perché non conoscono né sanno vivere in altra. Che l’alma dunque stia in sepolcro, lo pruova, perché essa non vede se stessa; né quel che fa essa dentro il corpo, sa, né come lo muove, ferma e nutrica; e però esce a due pertugi, che sono gli occhi, e spia in altri dell’opere sue o del suo proprio essere. Questo fu detto ancora nella Canzone del disprezzo della morte.

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madrigale 7

Se di piante e di bruti e gli uman spirti
formano al buio ospizi tanto adorni,
e gli reggon con arte a loro ignota,
è forza che tu, Dio, che in lor soggiorni,
gli guidi, e gli enti sien per obbedirti,
come penna a scrittor, ch’è cieca, e nota;
o come è il corpo all’alma, e l’alme all’Ente
primo, senza di cui non si fa iota.
Esser, poter, saper, amar, far, sono
passioni in noi e dono,
ed azioni in Dio buono,
che, amandose e sentendose, ama e sente
tutte cose, che ’n lui son conoscente.
Gode di lor comedia, ché la festa
fan dentro a lui; e da lor gioia non prende;
ma e’, gioiendo, a lor la dona, e presta
senso ed amor, mentr’e’ s’ama e s’intende.

Qui pruova che Dio sia in tutte cose, come autore e rettore di tutte le nostre operazioni. Che se l’alme delle piante e de’ bruti animali formano allo scuro corpi con tanto magistero e simmetria, è forza dire che gli guida qualche senno, che tutto vede e può, come la penna è mossa dallo scrittore. E questo pure afferma san Tomaso, benché Scoto si discosti da lui. Nota che ’l potere, il sapere, l’amore e l’essere in noi sono dono d’altrui, e quasi passione: e ’n Dio solo azione ed abbondanza. E che Dio, amando e conoscendo se stesso, e godendo di se stesso, dona a tutti gli enti la conoscenza, l’amore e ’l gioire; e che si fa questa festa delle cose, o comedia, in Dio. Beato chi intende con prattica quel che si dice in questi versi!

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madrigale 8

Ma noi, finiti, anzi in prigion, prendiamo
di fuor, da chi ci batte le pareti,
ov’entra per vie strette il saper corto
e falso, onde voi, falsi amor, nasceti.
Quinci aer, terra e sol morti stimiamo,
che han libero il sentir, non, qual noi, morto;
e però amiam chi in carcere ci serba,
e chi ci rende al cielo odiamo a torto.
Burle, onde ’l Fato i nostri e i solar fuochi
ritiene in stretti luochi:
quanto è uopo a’ suoi giuochi.
Mai non si muore: godi, alma superba,
l’obblio; d’antica ti fa sempre acerba.
Oh felice colui, che sciolto e puro
senso ha, per giudicar di tutte vite!
Che, unito a Dio, per tutto va sicuro,
senza temer di morte né di Dite.

Altamente séguita a dar la differenza tra noi e Dio, dicendo che noi siamo finiti e non infiniti, carcerati e non liberi: però, non come Dio da sé, ma prendiamo il sapere dalle cose che battono le mura del nostro carcere, ove ci entra per stretta via de’ sensi. Tutte le mura sono il tatto; gli altri sensi sono forami. E che di questo saper corto e falso nasce amor corto di cose poco buone, e falso ancora, ed un giudicio, che non abbia sapere chi non sta carcerato come noi; onde stimiamo insensati il cielo e la terra. E questo è una burla, che ci fa il Fato, perché non vogliamo morire fin quando pare a lui per ben del tutto. Poi parla all’anima superba, che sta lieta che non si muore; e pone la felicitá in chi sa giudicare tutte le vite, ed a Dio s’unisce, e seco tutto vede, può ed ama, e s’assicura dalla morte e dall’inferno, accostatosi all’immortale Sommo Bene.

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madrigale 9

Canzon, riconosciamo contro gli empi
l’Autor dell’universo, confessando
belle, buone e felici l’opre sue
tutte, in quanto ed a lui sono ed al tutto
parti, rispetti e frutto
sí giusto, ch’un sol atomo mutando,
giria in scompiglio. E sempre fia chi fue;
dal che farsi contento,
piú che non sa volere, ogn’ente io sento:
come tutti direm con stupor, quando
di Lete aperto fia il gran sacramento.

In questo stupendo commiato conchiude che non ci sia male né bruttezza, se non rispettiva tra l’una parte e l’altra, ma non al tutto, a cui, ecc. Dice pure che tanto bene è aggiustato l’universo, ch’un solo atomo mutandosi, tutto si scompiglierebbe, come un orologio. Questo vedi nella Metafisica. Poi dice: «Sempre fia quel che fue», con Salomone: «Quid est quod futurum est, visi quod factum est?». E che però ogni ente è immortale in qualche guisa, ché solo si muta, non s’annicchila. E che però gli enti sono piú contenti che non sanno volere, poiché in tante vite vivono per successione nel tutto una. E che, quando sará aperto il sacramento del fiume dell’obblio, detto Lete da’ poeti, tutti confesseremo questa veritá: ma, fra tanto che questo segreto è ascoso, ci par morire, perché nullo ente si ricorda quel che fue; e tutti, morendo, passano per Lete, cioè per obblio.


Note

  1. Questi dubbi si risolvono nella Metafisica.