Opere di Cesare Beccaria/Notizie intorno alla vita e agli scritti
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NOTIZIE
INTORNO
ALLA VITA ED AGLI SCRITTI
DEL MARCHESE
CESARE BECCARIA
BONESANA
Cesare Beccaria nacque in Milano il giorno 15 marzo dell’anno 1738 1 dal marchese Gian Saverio Beccaria Bonesana, e da donna Maria Visconti da Rho. La famiglia di lui, sebbene da lunga pezza abiti nella nostra città, trae l’origine da Pavia, di cui alcuni de’ Beccaria nel secolo decimoquarto ottennero per qualche tempo il dominio. Venne egli educato nel collegio dei Gesuiti di Parma. Fino dalla prima gioventù chiaro si vide il carattere ch’egli conservò per tutto lo spazio della vita. L’immaginazione sua e le sue passioni erano vivissime: ma avevano però d’uopo di alcun eccitamento per venir poste in azione, altrimenti una certa quale inerzia parea diminuirne, anzi estinguerne la forza. Compiuto lo studio della logica e della metafisica, ripigliò quello della rettorica, persuaso essendo della massima che non puossi ben conoscere l’arte del disporre le idee e gli argomenti, se prima non si è imparata la maniera con cui quelle si svolgono e questi si formano. Acquistò per conseguenza somma cognizione delle belle lettere, del che, oltre a ciò che puossi ricavare dalle sue opere, lasciarono più larga testimonianza gli amici coi quali passò i suoi anni giovanili. Applicossi poscia con assai profitto alle matematiche, dallo studio delle quali apprese il modo di trasferire nelle discipline speculative quel metodo serrato e convincente che è tutto proprio delle scienze esatte.
Era giunto il Beccaria all’età dei ventidue anni, alloraquando il libro delle Lettere Persiane fece ad un tratto nascere in lui l’inclinazione alle cose filosofiche, rinfrancata poscia dalla lettura delle Opere di Elvezio e di Buffon. È agevole l’immaginarsi quale impressione dovessero produrre su di un’anima fervida e perspicace le nuove ed ardite dottrine che stanno in que’ volumi, avvivate, come sono, da uno stile incantatore. Da questo punto il N. A. diessi tutto alla lettura dei filosofi moderni e specialmente dei francesi, la cui fama era salita in que’ giorni al più alto grado. Tali circostanze dei primi studi del Beccaria noi le conosciamo da alcune lettere del medesimo indirizzate all’Abate Morellet, e che videro la luce per la prima volta nell’anno 17972. Ivi egli dice “che studiando in pace la filosofia accontentava tre sentimenti ch’erano in lui vivissimi, cioè l’amore della riputazione letteraria, quello della libertà, e la compassione per l’infelicità degli uomini schiavi di tanti errori.” Fuor d’ogni dubbio sono degni di molta lode questi tre sentimenti; ma, siccome osserva, parlando appunto del N. A.3, il marchese, già conte di Lally Tolendal, di cui l’Europa ammira il coraggio, l’ingegno e la politica condotta, essi hanno d’uopo soventi di venir moderati. In fatti si corre talvolta pericolo ch’essi trascendano i limiti assegnati dalla ragione, e che quindi il soverchio amore della novità sottentri alla brama della gloria letteraria; che si reputino tirannici i vincoli i quali conservano la civile società, e che si rileghino nella folla dei pregiudizi le opinioni necessarie alla felicità dell’uomo e del cittadino. Quindi, benchè ognuno debba essere propenso a scusare il giovane che nel bollore degli anni, e nella cieca adorazione di ciò ch’egli crede essere la verità, lasciasi strascinare da que’ generosi affetti, nullaostante è da dubitarsi che il Beccaria sorpassasse in parte i limiti di cui facemmo parola allorquando nelle lettere scritte a Morellet chiamò assolutamente fanatica l’educazione da lui ricevuta, e diede accusa alla medesima d’avere soffocati in lui i sentimenti d’umanità4.
Questa è nondimeno la condizione delle cose nostre, che i passaggi da uno stato ad un altro diverso siano sempre violenti. In Italia il regno dell’autorità e della dottrina scolastica stava per crollare a que’ giorni, ne per avventura gli si potea sostituire l’impero della ragione se non passando per un tempo quasi di distruzione. Che che ne sia di ciò, egli è certo che il Beccaria ed alcuni altri giovani, che s’erano fatti partigiani delle nuove opinioni, trascorrevano con intenso studio tutte le province della filosofia. I più chiari tra loro erano i due fratelli Pietro ed Alessandro Verri, i quali procacciarono tanta gloria alla patria. Convinti essi che la comunicazione delle opinioni e la loro libera discussione è il mezzo principale pel più rapido e sicuro svolgimento del vero, solevano passare in compagnia molte ore del giorno, e rendersi in certo modo comuni le scientifiche occupazioni. “Io meno una vita tranquilla e solitaria, così scriveva Beccaria a Morellet5, se puossi appellare solitudine una scelta società d’amici nella quale la mente ed il cuore sono in continuo movimento. Noi abbiamo gli stessi studi e gli stessi piaceri. Ecco ciò che forma la mia consolazione, e che m’impedisce di trovarmi nella mia patria come in un esilio.” Il coraggio che è proprio dell’età fervida, ed il desiderio di giungere al possedimento delle filosofiche verità poteano soli indurre quei compagni ad abbracciare uno studio dal quale in Milano non doveano essi allora aspettarsi che disgusti e sprezzo. La giurisprudenza municipale era l’unica strada che conducesse alle cariche dello stato, le quali erano tutte occupate da gente di toga. I Milanesi d’ogni condizione languivano per la più parte in un certo volontario torpore d’ingegno, pel quale la loro compagnia doveva riuscire poco gradita a coloro che di già avevano valicate le barriere da cui erano circoscritte le scienze in Lombardia.
Il maggiore dei Verri erasi particolarmente applicato allo studio della politica economia, il quale poscia gli aperse il cammino a cariche luminose, e gli procacciò un chiaro posto fra gli scrittori di quella materia. Anche il Beccaria vi si adoperava intorno col profitto ch’egli voleva fare in ogni cosa a cui ponesse attenzione. Avrebbe egli bramato un pubblico impiego, massime che, uscito per alcune circostanze domestiche della casa paterna, dovea provvedere alle occorrenze della propria famiglia6. Pietro Verri, che amavalo come fratello7, lo persuase a porsi in vista di chi aveva in mano la somma degli affari dello stato collo scrivere alcuna cosa che si riferisse alla scienza politica. L’occasione si offerse nel disordine delle monete che in quel tempo desolava il Milanese, ed a cui il governo aveva in animo di mettere riparo. L’amico alla fine colle ripetute istanze giunse ad indurre il Beccaria a comporre un libretto su di questo argomento.
Mentre che il Beccaria stava lavorando intorno al medesimo, il marchese Carpani, uomo non ignaro delle cose economiche, diede fuori in Milano verso la metà d’aprile dell’anno 1762 uno scritto col titolo di Risposta ad un amico sopra le monete. Viene supposto con ragione che il Carpani, il quale affettava una superiorità in quelle materie, informato che il Beccaria s’occupasse nello scrivere intorno alla moneta, volesse prevenirlo col mandare in luce prima di lui i suoi pensieri. Nel libricciuolo che venne pubblicato senza nome d’autore, il Carpani, dopo avere dimostrata la grandissima confusione delle monete nelle nostre provincie, e data ad essa la colpa dell’impoverimento del commercio nello stato, proponeva che fossero battute nuove monete, adottandosi una nuova proporzione tra l’oro e l’argento, ed una nuova valutazione dei metalli. Le massime suggerite da questo scrittore coincidevano con quelle contenute in un promemoria manoscritto del Questore Pellegrini. Frattanto in data del 21 aprile 1762 pubblicossi una grida, nella quale con severissime pene proibivasi il ritenere qualsiasi denaro forestiero di rame od eroso, e vietavasi l’estrazione dallo stato dell’oro e dell’argento. Questa grida era l’ottantesima ottava che dal principio del secolo decimosettimo fino a quell’epoca veniva pubblicata in fatto di monete. Colla medesima si annunciava il riaprimento della zecca di Milano, e la prossima promulgazione d’un nuovo sistema monetario da stabilirsi dietro l’esame delle proposte dei diversi corpi dello stato, non che degli illuminati cittadini. Un tal sistema però, lungi dal mandarsi ad effetto in breve tempo, come si prometteva, non videsi punto in tutto il 1762, nè negli anni susseguenti. Quella grida pertanto non valse a togliere i disordini gravissimi nella moneta che dovevano necessariamente eccitare le comuni lagnanze, giacchè non v’ha cosa che tanto triboli le pubbliche contrattazioni.
Persuaso adunque il Beccaria che tutti gli sforzi in questo proposito sarebbero pienamente andati a vuoto, fino a che non si fossero presi per iscorta i veri principii della scienza, volle cercare di ricondurre ad essi le idee colla sua breve ma succosa scrittura. Siccome il segretario del senato Giulio Cesare Bersani, al quale spettava la revisione dei libri, ebbe difficoltà che l’opuscolo del N. A. intitolato Dei disordini e dei rimedi delle monete nello stato di Milano nel 1762, si stampasse nella nostra città, giacchè il metodo fin allora seguíto in queste provincie nel fatto delle monete vi veniva sottoposto a censura; il manoscritto venne spedito a Lucca, dove fu dato in luce da Vincenzo Giuntini al principio di luglio del suddetto anno 1762.
Volendo il N. A. rimontare ai principii regolatori della materia, come si è detto, incominciò dallo stabilire tre teoremi, nei quali tutto si comprende quanto si riferisce alla moneta. Nel primo teorema dimostrò che un’eguale quantità di metallo deve corrispondere ad un egual numero di lire, cioè che la tariffa la quale fissa il valore delle monete deve essere invariabilmente appoggiata al peso ed alla bontà delle monete di cui si vuole determinare il prezzo, seguendo in giusta proporzione le loro variazioni. Nel secondo teorema disse, che come il totale d’un metallo circolante è al totale dell’altro; così una data parte d’un metallo deve essere ad un’egual parte dell’altro metallo. Con ciò intese il Beccaria di affermare che, nel dare il valore alle monete di metallo differente, si deve avere per unica guida la proporzione che passa fra i diversi metalli nel valore che viene loro attribuito dal consenso delle nazioni, almeno europee. Giustissima è la conseguenza che l’autore tragge da questo teorema, ma forse l’esposisione non ne è del tutto esatta, giacchè la proporzione del valore fra i metalli non risulta solamente dalla proporzione delle masse che sono in commercio, ma ancora da altri vari elementi, come dimostrano i moderni scrittori d’economia. Siccome però il Beccaria ritiene che per ottenere il dato della proporzione non sia punto necessario il calcolare le masse dei metalli possedute dai differenti popoli, ma solamente coll’osservare nelle loro tariffe qual pregio diano, per esempio, all’oro sopra l’argento, prenderne poi il valor medio; la conseguenza, come dicevamo, rimane inconcussa. Finalmente l’autore nel terzo teorema sostiene che nello stabilire il valore delle monete, non si deve considerare che la pura quantità di metallo fino, nissun conto facendo nè della lega, nè delle spese di monetaggio, nè della maggior raffinazione di alcune monete ec.
Dagli accennati teoremi cava il Beccaria i convenienti corollari; e dopo aver mostrato siccome chi pubblica tariffe non calcolate sul vero e reale valore delle monete faccia lo stesso danno di colui che le falsa, scende nella seconda parte della sua dissertazione ad applicare i principii universali al caso della Lombardia. Toccata di volo la cagione che diè principio al disordine delle monete nel nostro paese, ch’egli fa coeva alla perdita del commercio lombardo, prova che le tariffe in allora veglianti peccavano contro tutti e tre i teoremi da lui esposti nella prima parte del suo scritto, cercando poscia di stabilire con diverse tavole il vero intrinseco valore di ciascuna moneta tanto d’oro, quanto d’argento. Per porre dunque un argine all’abuso introdotto, accennata l’insussistenza dei rimedi suggeriti da taluni, propone egli gli opportuni spedienti, desumendoli dalle citate massime teoriche. Essi consistono primieramente nel costruire una tariffa in cui la stessa quantità d’oro e d’argento abbia lo stesso valore in ogni moneta: ed in secondo luogo nello stabilire, essere la giusta proporzione fra l’oro e l’argento come uno a quattordici e mezzo8. Siccome poi la proporzione fra i metalli suole variare per diverse circostanze, così il Beccaria proponeva che un magistrato dovesse particolarmente sopraintendere a questa materia, e, giusta le variazioni del pregio dei metalli nobili negli stati europei, fissare di mano in mano alle monete il valore corrispondente.
Il conte Verri, il quale aveva suggerita al Beccaria l’idea della sua scrittura, ed era stato da lui indicato come persona la quale avea composta la storia del commercio dello stato di Milano9, scrisse un dialogo intorno alla stessa materia trattata dal N. A. In esso il Verri studiossi di rendere più chiare e di abbassare alla comune capacità le teoriche esposte dall’amico, mostrando inoltre la fallacia delle opinioni popolari in proposito, e combattendo i sofismi che si mettevano in campo per sostenerle. Quel dialogo venne pur esso stampato a Lucca, e fu distribuito gratuitamente insieme al libretto del marchese Beccaria.
Giunta appena in Milano l’operetta del N. A., il marchese Carpani, che vi si vedeva indirettamente confutato, lo assalì pel primo con una tabella volante mandata fuori sul finire di luglio. Senza punto prendersi briga de’ principii generali dimostrati dal Beccaria, il Carpani volle far vedere con quella tabella, che il primo aveva dato nelle sue tavole alle monete un valore che non corrispondeva alla proporzione fra i metalli da lui adottata, cioè a quella di 1:14½. Replicò tosto il Beccaria con un altro foglio volante in cui si rilevava un paralogismo commesso dal suo avversario.
Per verità nelle tabelle del Beccaria era corso un equivoco grandissimo. Nel dare il valore alle diverse monete, egli aveva supposto eguale di peso il grano usato nelle varie zecche, lo che punto non era in fatti. A farlo cadere in questo errore aveano contribuito l’opere del presidente Neri e del conte Carli, nelle quali non era chiaramente avvertita questa differenza. Il conte Pietro Verri poi ha lasciato scritto in alcune sue memorie da noi vedute10 ch’esso aveva avuta buona parte nell’assicurare Beccaria di codesta identità dei grani, e che quindi la colpa dell’errore spettava a lui, sulla fiducia del quale aveva principalmente il Beccaria supposta quell’uniformità. Bello e raro esempio d’ingenuità e d’amicizia si è questo.
Oltre alla critica del marchese Carpani data alle stampe, si deve credere che le massime esposte dal Beccaria fossero impugnate comunemente nel nostro paese. Le scienze economiche uscivano appena allora dalle fasce, e pochissimi erano quelli che ponevano opera in istudiarle. Tutti coloro che s’applicavano alla scienza del governo, credevano di trovarne le sane regole ed i giusti principii negli scrittori giuridici eh cui adottavano le opinioni ed i pregiudizi. Poca grazia per conseguenza doveva trovare il libro del Beccaria presso questa numerosa classe d’uomini, giacchè, lungi dall’essere appoggiato all’autorità dei loro prediletti libri, l’autore andava in esso esponendo le proprie idee col solo lume della ragione, e coll’aiuto delle matematiche, le quali erano presso che sconosciute alla maggior parte delle persone che venivano generalmente appellate colte, e che si reputavano le più addottrinate nelle cose della pubblica amministrazione.
Egli è perciò che il cavaliere Alessandro Verri, il quale attendeva in que’ tempi alla scienza legale, e collo svegliato suo ingegno scorgeva gli errori grossolani in cui erano caduti gli scrittori forensi in parlando delle monete, deliberò di rendere sensibile al pubblico l’irragionevolezza delle massime sostenute dai legisti in codesta materia. Alla metà d’agosto del 1762, egli diede pertanto fuori il libretto che ha per titolo: Riflessioni in punto di ragione sopra il libro intitolato dei Disordini e dei rimedi delle monete ec. Onde meglio riuscire nell’intento il cavaliere Verri, preso il tono dell’ironia, mostrava di combattere nel suo opuscolo il marchese Beccaria, e quindi di mano in mano veniva registrando con continui encomii le opinioni più assurde dei dottori intorno alle monete. Amenissimo è questo scritto tanto per la studiata affettazione dello stile, quanto per lo scherzo sostenuto continuamente da un’aria di giuridica severità. Risulta poi da esso in maniera evidente quanto fallaci siano gli oracoli pronunciati dai meri giurisperiti nelle materie economiche e politiche, la ragione delle quali deve cercarsi in tutt’altro ramo dell’umano sapere. Pure, bisogna confessarlo ad onore dei nostri tempi, così poche erano allora in Milano le menti illuminate e colte veracemente, che dai più non venne inteso lo scopo delle Riflessioni in punto di ragione ec.; anzi uno zio dello stesso marchese Cesare Beccaria approvava con buona fede le massime sostenute nelle medesime, e partigiano coiti’ era delle opinioni dei giureconsulti, godeva che in esse fosse stato trionfalmente combattuto il nipote. Forse tratto in errore da discorsi siffatti, l’abate Parini credette scritto sui serio quei libro; ma giudizioso com’era, andava dicendo, che lo sciocco legale il quale avealo composto meritava un gastigo degno della sua ignoranza. Conviene dire però, che in Torino la filosofia avesse fatti maggiori progressi, giacchè ivi venne letto e gustato grandemente.
Non contento il marchese Carpani d’avere pubblicata la tavola volante di cui fecesi menzione di sopra, diede in luce sul cominciare di settembre una nuova edizione della sua Risposta ad un amico, aggiungendovi una seconda lettera colla firma del suo computista Pietro Antonio Caro. In essa, dopo aver parlato nuovamente della necessità della moneta provinciale, si fece a criticare di proposito il libro del Beccaria. Rispetto ai principii monetari egli confessa di non avere alcuna eccezione da fare; aggiunge nulladimeno che il Beccaria aveali tratti dal Montanari e dal Carli. Noi non diremo sicuramente che il N. A. abbia pel primo proposte in Europa le massime che risultano da’ suoi teoremi, ma soltanto che a lui devesi somma lode per averli esposti con brevità e precisione matematica, per averli dimostrati in nuova e convincente maniera, e finalmente per avergli applicati alle circostanze del nostro stato. Il Carpani poi nell’accennata seconda sua lettera diffusamente dichiarava l’errore preso dal Beccaria nell’attribuire il valore alle monete, avvertendo la differenza che passava tra i grani delle diverse zecche. Quell’errore però, come vedemmo, nulla influiva su quanto cercava di provare e persuadere il Beccaria, e solo rendeva necessaria la materiale correzione delle tabelle.
Pietro Verri, vedendo in tal modo assalito l’amico e se medesimo, pubblicò alla metà di ottobre colle stampe dell’Agnelli di Lugano un ironico libretto col titolo di Gran Zoroastro, ossia Astrologiche Osservazioni, sui veri principii della scienza monetaria in soccorso della Risposfa ad un amico. Esso è scritto colla mordace vivacità di Luciano, e co’ sali di Swift. Mostra l’incertezza dei principii teoretici del marchese Carpani massime intorno alla proporzione tra i metalli da adottarsi; e dopo d’aver posto in ridicolo alcune altre asserzioni dello stesso autore; fa un paragone tra il suo modo di scrivere e quello del Beccaria. Qui veramente puossi dire impar congressus Achillis; giacchè laddove il Carpani avea composto il suo libro senza stile e perfino senza gramatica; il Beccaria seppe innestare nella sua scrittura alcuni passi pieni di passione e d’eloquenza, come è fra gli altri quello intorno alle vicende della ricchezza delle nazioni11.
Da questa contesa, che ci piacque narrare con alcuna lunghezza per far conoscere la condizione delle scienze economiche in Lombardia nel tempo della gioventù del N. A., ne venne però qualche vantaggio al pubblico. Ecco quanto ne lasciò scritto il conte Verri12. «Finalmente la Congregazione dello stato agli 8 febbraio 1763 ha fatto una consulta ragionevole in questa materia, ed essa è la prima che sia comparsa da un secolo e mezzo nel Milanese. Gli scritti dei filosofi restano senza ricompensa? ma non sempre senza frutto. Freme la cabala quando parla la ragione, ma si vergogna la cabala stessa di continuare il suo giuoco in faccia d’un popolo che ha ascoltata la ragione.»
Abbiamo già osservato più sopra come questi illustri giovani che sostennero la quistione delle monete, mal soffrissero il letargo di mente nel quale giacevano i più dei nostri concittadini verso la metà dello scorso secolo. Ma la miglior maniera per diffondere comunemente le utili cognizioni, toglier dagli intelletti le opinioni preoccupate, si è quella della pubblicazione dei giornali letterari. Egli è perciò che per far gustare le idee filosofiche anche al popolo che non ama leggere di proposito libri voluminosi, i fratelli Verri e il marchese Beccaria uniti al celebre matematico P. Paolo Frisi, a Luigi Lambertenghi ed altri coltivatori de’ sodi studi, deliberarono di comporre un giornale in cui trattare delle materie di filosofia senza apparato scolastico, e con semplice ed elegante varietà. Dal giugno 1764 al giugno 1766 venne pubblicato questo giornale col titolo bizzarro del Caffè, fingendosi che in una bottega di caffè si radunassero appunto gli autori che lo scrivevano. Essi però solevano raccogliersi nella casa del conte Pietro Verri, il quale era in certo modo il centro della loro unione. Sommo onore derivò ai giovani compilatori da questo giornale, e per verità è mirabile com’essi vi parlassero di astruse e difficili cose, talora con metodo scientifico e più spesso con amenità, cercando ad un punto d’ampliare il dominio della ragione e di abbattere i pregiudizi. Egli è naturale nondimeno che alcuna volta nei loro scritti si ravvisasse una certa arditezza e libertà, la quale è di solito compagna dell’età non anco matura. Con tutto ciò il Caffè è uno dei pochissimi scritti periodici i quali siano passati alla posterità come libro di merito. Un valente scrittore dei nostri tempi13 affermò che gli autori di esso hanno superato nella varietà e nella profondità degli argomenti lo Spettatore che loro servì di modello, e lo Zimmermann non dubitò di asserire che il giornale inglese a petto dell’italiano pare essere stato scritto soltanto per le donne14.
Vari articoli del Beccaria si leggono nel Caffè, i quali sono sottoscritti colla lettera C, e quasi tutti portano l’impronta d’uno stile forte ed immaginoso. Scherzosi sono il Discorso sugli odori e la Risposta alla Rinunzia alla Crusca. L’articolo che ha per titolo il Faraone mostra quanto il N. A. fosse avanti nelle matematiche, ed il Tentativo analitico sui contrabbandi con qual perizia egli sapesse applicarle alla pubblica economia. Pieno di utili e belle massime si è quello sui Fogli periodici, in cui indaga il loro scopo, ed indica i vantaggi che possono provenire dalle varie specie di giornali. Molta filosofia esposta in aria di paradosso sta nell’articolo sui Piaceri dell’immaginazione, ma per avventura il più bello scritto di Beccaria che trovisi nel Caffè è il Frammento sullo stile. Esso contiene parecchie idee affatto nuove sul suo soggetto, e certamente è interessante il disegno di trovare le ragioni dello stile nell’intima natura dell’uomo. Beccaria in quell’articolo prometteva un’opera più grande intorno allo stesso argomento; e siccome di fatto la pubblicò, così ci riserviamo a parlare de’ suoi pensamenti intorno a questa materia alloraquando ragioneremo dell’opera medesima. Solo qui notiamo che quel frammento venne tosto tradotto in francese e stampato in Parigi nel tomo ottavo della Gazzetta letteraria che pubblicavasi al Louvre, e che a quei tempi passava per uno de’ migliori giornali della Francia.
Mentre era di già cominciata la pubblicazione del Caffè; si stampava l’opera del Beccaria, la quale doveva procacciargli un nome ristretto solamente dai confini del mondo incivilito: io parlo del libro Dei Delitti e delle Pene.
In quale miserando stato si trovasse in quel tempo la criminale giurisprudenza tanto in Italia quanto presso altre nazioni, lo dimostrano i volumi degli oramai divenuti oscuri prammatici che servivano d’invariabile norma nei giudizi.
L’abuso della tortura, l’incertezza degli indizi e delle prove, la crudeltà e la sproporzione delle pene, l’irregolarità nel processo erano gravissimi mali che trassero origine dai secoli di squallore e di barbarie in cui rimase involta l’intiera Europa. Non poteva quindi la filosofia far a meno d’invocare un cangiamento totale in ciò che ha tanta influenza sui costumi; sulla morale e sulla felicità delle nazioni. La deplorale condizione delle leggi criminali formava per conseguenza una parte principale degli oggetti intorno a cui la dotta compagina del Caffè faceva le sue ricerche. Alcuno de’ suoi membri era già istrutto nella giurisprudenza, ed Alessandro Verri che sosteneva in quel torno l’ufficio di protettore dei carcerati, era specialmente in grado di conoscere quante vittime innocenti non venissero immolate da quella spada che doveva solo bagnarsi nel sangue degli scellerati.
Pareva ai giovani filosofi milanesi che non si dovesse lasciare sfuggire una così bella occasione di rendere un segnalato servigio all’umanità.
Ma a trattare soggetto cotanto importante venne per comune consenso trascelto il marchese Beccaria, siccome quello che, oltre alle profonde cognizioni filosofiche, scriveva con nerbo, ed avea il dono d’una calda eloquenza, la quale allorquando è unita alla verità, muove, vince, debella il lettore. Solevano quei valorosi amici passare insieme conversando molte ore della giornata, ed uscire al passeggio parimenti in compagnia. Nei loro colloquii continuamente parlavasi delle cose che si riferivano alle materie criminali: si proponevano moltiplici quistioni, ed ognuno dicea il suo parere, e sosteneva la sua opinione. Alla sera poi si rinchiudevano nelle stanze del conte Verri, ove ciascheduno si occupava del suo studio favorito. Pietro Verri attendeva a’ suoi lavori economici-politici; il fratello di lui Alessandro componeva il Compendio della Storia d’Italia, ed il Beccaria scriveva quanto pensava intorno ai delitti ed alle pene. Egli meditava lunga pezza prima di porre in carta il suo concetto: quindi cercava di eccitare nella sua mente una certa quasi ebrietà, nel fervore della quale gli uscivano dalla penna quei passi pieni di sentimento e di forza che si leggono in ogni sua opera. Dopo però avere scritto ciò che aveva nella testa, talora pentivasi, correggeva, cancellava, e finalmente in breve spazio di tempo sentivasi abbattuto: la stanchezza impossessavasi di lui, ne più era in istato di proseguire nel lavoro. Allora egli leggeva ai compagni quello che aveva composto, e lo lasciava presso l’amico Pietro Verri, il quale si prendeva la briga di ricopiarlo diligentemente15. Per tal modo nacque il libro Dei Delitti e delle Pene che, incominciato nel marzo del 1763, ricevette il suo compimento nel gennaio del 1764. Il continuo stimolo degli amici fu quello che fece perseverare il N. A. nel proposito: forse senza di essi si sarebbe il Beccaria lasciato soggiogare dalla sua inerzia. Ecco quanto egli scriveva dalla sua villa di Gessate a Pietro Verri sotto il giorno 13 dicembre 1764, mandandogli alcune aggiunte all’opera di cui parliamo: «I motivi che mi adduci per incoraggirmi a proseguire nella mia carriera, sono tanto più gloriosi per me, quanto partono da un amico sincero. Assicurati che sono lontanissimo dalle matematiche, e che la premura di conservarmi la tua sti ma, e di somministrare sempre nuovo alimento alla nostra amicizia, mi anima di più che la gloria stessa. alla quale sola, se io fossi abbandonato, tu sai che per indolenza vi anteporrei l’oscurità16.»
La delicatezza delle materie sostenute nel libro Dei Delitti e delle Pene trattenne il N. A. ed i suoi amici dall’avventurarsi a pubblicarlo nella nostra città. In Toscana, mercè l’illuminato governo di Leopoldo, godevasi molta libertà nel fatto della stampa, e specialmente la libreria Coltellini di Livorno dava in luce libri che non si sarebbero impressi in nissun’altra parte d’Italia. Il manoscritto venne perciò mandato il dodici aprile dell’anno 1764 in quella città al sig. Giuseppe Aubert, direttore della stamperia suddetta, il quale avea già dato fuori le Meditazioni del conte Verri sulla felicità, ed ivi fu stampato17. Nel luglio ne giunse a Milano il primo esemplare all’autore, il quale non ne fece motto a nissuno, fuori che agli amici ch’erano partecipi del segreto. Nell’agosto susseguente era già stata spacciata tutta la prima edizione senza che se ne avesse notizia in Milano, ove fu conosciuta solamente tre mesi dopo che quell’opera era comparsa alla luce, e che già aveva riscossi gli applausi della Toscana.
Non sarebbe nè utile ne facile impresa il fare in questo luogo l’estratto d’un libro tanto conosciuto e così conciso, come è quello Dei Delitti e delle Pene. Talvolta in una pagina stanno affollate parecchie massime le quali potrebbero dar materia ad intieri volumi. Una robusta ed immaginosa foggia di scrivere tiene attento di continuo il lettore, il quale viene scosso di tratto in tratto da alcuni passi forti ed appassionati. L’ordine delle idee è logico al sommo, e quasi matematico, ma senza che il libro ne porti la ruvida insegna. Le origini della civile società, il fondamento dell’autorità suprema, quello del diritto di punire e tante altre astruse dottrine del gius naturale e pubblico vi sono trattate con brevi e franchi modi, i quali convincono repentinamente l’animo di chi legge, mentre che si spiegano nella mente di lui colla maggiore compitezza e limpidità. Non v’ha poi dubbio alcuno che il libro del Beccaria non fosse il primo d’alta e libera filosofia il quale comparisse in Italia: negli stessi paesi d'oltremonte non erasi ancora veduto nissuno scritto il quale contenesse tante verità in ciò che riguarda la scienza del diritto criminale. Alcuni lampi? per vero dire, brillavano nello Spirito delle leggi, nel Contratto sociale, e in qualche autore inglese: la tortura era già stata riprovata da alcuni uomini maggiori del loro secolo, ma niuno fino a quel tempo aveva saputo ridurre in così breve spazio e dimostrare con evidenza incontrastabile quelle umane massime che dovevano formare col tempo le norme della legislazione penale, e produrre nelle leggi criminali la riforma richiesta dal progresso dell’incivilimento.
Noi dobbiamo confessare, per amore della verità, che non tutto quello che trovasi nel libro del Beccaria è al coperto d’ogni taccia ragionevole. La pena di morte non è ella realmente nè utile nè necessaria? Le nozioni di virtù e d’onore sono nel fatto oscurissime? e si cambiano assolutamente colle rivoluzioni del tempo ed a seconda dei fiumi e delle montagne? Il marchese di Lally18, per esempio, critica la rigida condanna fatta dal N. A. dello spirito di famiglia, e crede di mostrare che le virtù domestiche non sono sempre mediocri, siccome questi asserisce. Lo stesso autore appunta il Beccaria perchè non facesse alcuna eccezione alloraquando scagliossi contro dell’oziosità. Il solo avere, quantunque di sfuggita, messo in dubbio la necessità della proprietà, pare al Lally che possa formare un grave capo d’accusa. A noi però non tocca il far da censore, e solo rammentiamo che il Beccaria non avea ancora veduto nel fatto quali malvage conseguenze si possano ricavare talvolta da massime astratte che si pongono soltanto in campo per ambizione filosofica Inoltre chi non vorrà far grazia di un qualche neo, quando pur vi sia, ad un libro che contiene tante belle verità, e che tanto è benemerito del genere umano?
V’ebbe eziandio chi accusò d’oscurità alcuni passi del libro Dei Delitti e delle Pene, ma se osserviamo le materie trattate nella maggior parte dei luoghi ove altri credette di ravvisare quel difetto, possiamo accorgerci che l’oscurità fu per lo più volontaria. Morellet istesso nella sua prima lettera a Beccaria così si esprimeva. «Le vostre idee sono alcuna volta tanto alte che il lettore le perde di vista: altre volte l’espressione è sottile, e rimota a bella posta, onde non dar motivo di censura agli uomini pregiudicati. Altrove finalmente l’oscurità è un difetto. Io dico senza scrupolo e senza inquietudine il mio giudizio ad un uomo come siete voi 19.” Il Beccaria così rispose in proposito. “Sono obbligato di differire ad un’altra lettera la spiegazione di alcuni passi che voi trovate oscuri. Ma io deggio dirvi che nello scrivere ebbi dinanzi agli occhi gli esempi di Macchiavello; di Galileo, di Giannone: udiva lo strepito delle catene agitate dalla superstizione, e le grida del fanatismo che soffocava i gemiti della verità. L’immagine di questo terribile spettacolo mi ha persuaso ad avviluppare talora la luce nelle nubi. Ho voluto difendere l’umanità senza esserne il martire. L’idea che io doveva essere oscuro, m’ha pure renduto tale alcuna volta senza necessità20.” Qui è di mestieri osservare siccome il progresso nelle cognizioni specialmente filosofiche abbia schiarito d’assai il Beccaria, le cui opere dovevano riescire di più difficile intelligenza a quelli del suo tempo, che non a noi.
La novità ed il coraggio che si ravvisava nel libro Dei Delitti e delle Pene, risvegliò tosto una generale ammirazione nell’Italia. Essendo state, come sopra si accennò, spacciate in brevissimo tempo le prime edizioni, nel susseguente anno 1765 ne venne pubblicata la terza con parecchie aggiunte dell’autore; in essa lo scritto venne per la prima volta diviso in paragrafi21. Il padre Frisi si fece premura di mandarlo col mezzo del padre Noguez al sig. D’Alembert, con cui era legato in amicizia per la comunione delle scienze da amendue professate. Il matematico parigino in una prima lettera di risposta al Frisi, la quale ha la data del 21 giugno 1765, limitossi a dire che l’opera Dei Delitti e delle Pene gli era sembrata d’un buon filosofo e d’un amico dell’umanità. Ma in un’altra lettera del 9 luglio dello stesso anno domandando scusa dello scarso encomio che prima avea tributato a quel libro per avervi solamente dato una rapida occhiata, si protestava che non potea rimaner colpito da entusiasmo maggiore di quello che avea in lui cagionato la lettura dello scritto medesimo. «Questo libro, così egli prosegue, tutto che di piccola mole, basta per assicurare al suo autore un nome immortale. Che filosofia! che verità! che logica! che precisione ed al tempo stesso che sentimento e che umanità nella sua opera!» Il vaticinio dello scienziato francese non fu vano, e di fatto il Beccaria deve specialmente al libro Dei Delitti e delle Pene la grandezza della sua fama.
D’Alembert tosto comunicò l’opera di Beccaria ai suoi amici che allora formavano in Parigi quella famosa società degli Enciclopedisti, la quale meritossi tanta lode e tanto biasimo. Il sig. Lamoignon di Malesherbes, ministro celebre per avere protetta e professata la filosofia, ma più celebre ancora per avere avuto il coraggio di difendere il suo Re nel più ingiusto ed atroce giudizio, desiderò che il libro Dei Delitti e delle Pene venisse tradotto in francese22. L’abate Morellet fu incaricato del lavoro, il quale comparve per la prima volta in Parigi nell’anno 1766, ma però colla supposta data di Filadelfia. Essendo sembrato al Morellet che l’autore non avesse in tutte le parti del suo trattato esposte le materie nell’ordine più opportuno, ne seguì nella sua traduzione un nuovo, senza mettere mano nel testo: quest’ordine medesimo venne approvato dal Beccaria23 e fu adottato in quasi tutte le posteriori edizioni italiane. La traduzione di Morellet venne poi nuovamente pubblicata nello stesso anno 1766 colla data di Losanna, e con alcune aggiunte dell’autore che videro la prima volta la luce in francese, giacchè furono comunicate dal Beccaria istesso al traduttore. Tutti i filosofi della Francia ch’ebbero maggior campo di gustare in quella versione i pensamenti dello scrittore italiano, colmarono il N. A. di lodi, e fra gli altri, il barone d’Holbach, Diderot, Elvezio, Buffon ec. Fu allora che il Beccaria, rispondendo a Morellet, scrisse quella lettera di cui facemmo parola più d’una fiata, e nelle quali egli mostrasi senza riserva alcuna partigiano aperto delle dottrine professate dagli Enciclopedisti. Non possiamo a meno in questo luogo di non riportare alcune belle parole in proposito del marchese di Lally Tolendal. “Queste lettere, così egli si esprime, fanno amare in Beccaria particolarmente il figlio, lo sposo, il filantropo; ma come non essere inquieto per l’autore nascente in veggendolo tanto appassionato ammiratore d’una certa Società di Parigi, in cui, se ad ogni tratto risplendeva l’ingegno, la saggezza nulladimeno s’eclissava sovente, e nella quale resistenza quasi paradossa di parecchi uomini si componea di virtù di cuore, e d’errori di mente, di numerose azioni benefiche e d’altrettanti scritti perniciosi?” Quindi, dopo l’avere osservato che Diderot non aveva ancora pubblicato il suo mostruoso Sistema della natura, nè Elvezio quelle opere che comparvero soltanto postume, così conchiude: “Usiamo però alcuna indulgenza ad un giovane che innamorato della gloria letteraria incensava di nascosto coloro che ne credeva essere i dispensatori24.”
Frattanto la Società economica di Berna, la quale costumava di distribuire una medaglia a chi avesse scritta la migliore dissertazione su d’un tema proposto, colpita dal merito del libro Dei Delitti e delle Pene, decretò spontaneamente la medaglia suddetta all’animoso autore di lui, facendo per tal modo un’eccezione alle proprie leggi, della quale ella non diede altro esempio se non coi Dialoghi di Focione dell’abate Mably. «Invitò quindi col mezzo dei pubblici fogli lo scrittore di quel libro a farsi conoscere, e ad aggradire un segno di stima dovuto ad un cittadino che osa alzare la sua voce in favore dell’umanità contro i pregiudizi più radicati25.»
Questo è appunto il vero scopo della filosofia. Il libro di Beccaria aveva troppo ben meritato della medesima, perchè Voltaire, il quale credeasi il filosofo per eccellenza, non dovesse occuparsene. Egli si propose adunque di dichiararne le massime, ed ampliarne quindi la cognizione con un comento, il quale venne in fatti dato da lui alle stampe. Ciò nulla meno le materie trattate dal N. A. erano soverchiamente serie ed astruse, perchè un comento scritto alla maniera con cui Voltaire volea persuadere quanto divisava, fosse corrispondente all’opera cementata. Lo stile facile ed arguto, le bizzarre storielle, i sali frizzanti di cui abbonda ogni volume del Luciano francese non bastano a far obbliare che quelle note sono scritte con poca profondità. Ciò non ostante esse dimostrano di quanta fama godesse un’opera, alla quale non disdegnava di fare un comento colui che d’unanime consenso veniva riputato il primo scrittore dell’Europa.
Noi abbiamo finora parlato degli onori i quali vennero tributati al libro Dei Delitti e delle Pene: ora passeremo a far parola delle non lievi contraddizioni ch’ebbe a soffrire. Uno scritto il quale distruggeva da capo a fondo l’edifizio delle leggi criminali consacrato dall’antichità, la quale ha sempre con se alcuna cosa di venerabile, non potea sfuggire alle censure di coloro che o per abitudine, o per interesse favorivano il vecchio ordine di cose.
Dopo una gloriosa vita di parecchi secoli la repubblica di Venezia sentiva oramai la propria vecchiaia, e ben doveva a suo malgrado accorgersi che la forma interna del governo di lei più non era adattata allo stato in cui trovavasi il resto dell’Europa. La quistione intorno agli Inquisitori di stato agitavasi appunto nel tempo in cui comparve il libro Dei Delitti e delle Pene. Sembrò a molti che l’autore facesse allusione a quella contesa, e che condannasse indirettamente il modo di procedere di quel tribunale nel paragrafo in cui vivamente dipingeva l’ingiustizia e le pessime conseguenze delle accuse segrete. Si sospettò pertanto che quello scritto fosse parto della penna d’alcun suddito veneziano, anzi il sospetto cadde sulla persona del N. H. Angelo Quirini, per lo che il libro venne proibito sotto pena di morte negli stati tutti della repubblica.
Volendo allora far cosa grata ai capi dell’aristocrazia veneziana, il P. Ferdinando Facchinei monaco Vallombrosano, il cui nome passò unicamente alla posterità a motivo dei grandi autori di cui tentò di demolire la fama, scrisse un’aspra censura dell’opera di Beccaria, e la diede in luce col titolo di Note ed Osservazioni sul libro intitolato Dei Delitti e delle Pene. Il principale scopo del critico si fu di convincere il N. A. d’aver offesa con quel trattato la religione e l’autorità sovrana, facendo, per così dire, l’anatomia d’ogni sua espressione, e traendo a significazione perversa tutto quanto stava ravvolto in certa oscurità. E quantunque egli protestasse di scrivere tranquillamente, non lasciò nondimeno di svillaneggiare il libro e l’autore con ogni sorta d’ingiuria.
Rimase atterrito il N. A. dalle accuse con cui il Facchinei avea tentato di aggravarlo. Non è già che nè la maniera d’argomentare del monaco, nè il suo stile potesse fargli ombra di timore, ma il libro avea per necessità troppi nemici, perchè l’autore non paventasse che molti si dichiarassero pel fanatico censore. Parevagli quindi che lo aspettasse un processo come eretico, o come nemico della pubblica podestà, quando colla risposta ponesse in maggior luce le proprie opinioni. Pietro Verri riconfortollo, ed anzi s’addossò l’incarico di scrivere in nome dell’amico l’apologia di lui. Essa fu composta nel solo spazio di quattro giorni, avendo servito d’aiuto al fratello il cavaliere Alessandro Verri. Il giorno 15 gennaio del 1765 era venuto alle mani del Beccaria e degli amici il libro del Facchinei, e di già il giorno 21 dello stesso mese l’apologia venne spedita a Lugano, ove si stampò con somma sollecitudine. Essa porta per titolo: Risposta ad uno scritto che s’intitola: Note ed osseivazioni sul libro Dei Delitti e delle Pene. Quantunque codesta operetta fosse composta in così breve spazio di tempo, riuscì succosa, ordinata e convincente; e quantunque si trattasse di rispondere ad un libro scritto con mal animo e zeppo d’insulti, ella fu comunemente riputata piena di moderazione, e che facesse onore alla morale dell’autore, come si espresse il conte di Firmian nel riferire la cosa all’imperiale corte di Vienna26.
Anche in Lombardia non mancava fuor di dubbio chi volentieri avrebbe destata sul capo del N. A. una tempesta; giacchè quantunque sulle prime il libro fosse stato tenuto artatamente lungi da Milano, come si è detto, più non era dubbio che l’autore non ne fosse il marchese Beccaria. Egli nondimeno si professò debitore d’avere conservata la propria tranquillità all’illuminato ministro, di cui facemmo menzione or ora, il quale prese sotto la sua protezione e lo scrittore e lo scritto27.
Dopo di quanto si è detto di sopra, non converrebbe nemmeno far parola dei dubbi che alcuno volle spargere intorno all’essere Beccaria vero autore dell’opera di cui parliamo. Da principio v’ebbe chi tratto in error dalla premura che il conte Verri prese nella composizione, nella stampa e nella difesa di essa, credette ch’egli medesimo ne fosse l’autore. Che se oltre all’aver il Verri medesimo nell’opere a stampa28 renduto pubblico omaggio al Beccaria, come all’autore del libro Dei Delitti e delle Pene, oltre al vedersene l’autografo presso il figlio del Beccaria medesimo, si volessero aggiungere prove ulteriori ad una cosa che è tanto evidente per se stessa, noi potremmo dire, siccome tutto ciò ch’esponemmo intorno all’autore di quello scritto ed alla maniera colla quale venne composto, sia ripetuto nell’interessantissimo e voluminoso carteggio fra i due fratelli Pietro ed Alessandro Verri, che incomincia dal 1766, e viene sino al 1797, il quale noi avemmo il comodo di esaminare.
Dagli stessi inediti, ma irrefragabili documenti mostrasi parimenti la falsità di quanto spacciò il Linguet ne’ suoi Annali politici e letterari, intorno al libro Dei Delitti e delle Pene, quindici anni dopo la sua pubblicazione. Quel mordace scrittore pretese che gli Enciclopedisti francesi suggerissero l’opera col mezzo d’una lettera di Condorcet al P. Frisi; che tutti i membri della società del Caffè ricusando quest’incarico, il solo Beccaria avesse la temerità d’addossarselo; che l’opera spedita a Parigi venne trovata mediocre, ma che non sapendo i Francesi far meglio, la dessero a Morellet perchè la racconciasse, e che finalmente così raffazzonata uscisse in luce. Non vale la pena di confutare simili scempie asserzioni che deggiono muovere lo stomaco a chiunque abbia fior di senno. Unicamente ripeteremo che il libro fu messo sotto ai torchi nel 1764 appena composto, che solo nel 1765 ne vennero mandati a Parigi alcuni esemplari stampati, e che Morellet altro non fece che tradurre il libro Dei Delitti e delle Pene, e disporne i capitoli in ordine diverso. Ciò poi che toglie perfino la possibilità d’ogni dubbio ragionevole, si è la pubblicazione che fece Morellet istesso nel 1797, cioè dopo la morte di Beccaria, delle più volte citate lettere. Supposto ch’egli avesse avuta maggior parte in quella composizione, e che avesse nulladimeno fatto stampare le lettere medesime, converrebbe dire che anche queste le avesse inventate come si fa d’un romanzo, per continuare senza il menomo scopo ad attribuire agli altri i propri meriti29.
Noi non parleremo nemmeno degli scrittori i quali in non piccolo numero cercarono di confutare il Beccaria sia nella totalità del libro Dei Delitti e delle Pene, sia in alcuna parte di esso e specialmente intorno all’inutilità della pena di morte sostenuta dal N. A.30. Ci basti il citare ciò che Alessandro Verri scriveva al fratello in data del 22 luglio 1780. “Ho veduto un libro d’un avvocato di Torino contro i Delitti e le Pene. Queste critiche sono l’incenso il più grato della vera celebrità. Non si parla dei cattivi libri: la dimenticanza è il peggio31.”
Per mettere fine a ciò che riguarda questo trattato, non è da tralasciarsi che a quest’ora ne vennero fatte circa trenta edizioni italiane: che la traduzione francese di Morellet venne stampata parecchie volte in Francia ed altrove32, e che inoltre vi sono tre altre traduzioni in quella lingua, di cui una pubblicata in questo stesso anno (1821) dall’avvocato Dufey de l’Yonne: che se ne conoscono tre nella tedesca: una nell’inglese ristampata a Filadelfia nell’America settentrionale: una nella Spagnuola 33: una nell’olandese: una nel greco volgare del dottor Corai, nome ben conosciuto nell’Europa per quanto ha fatto a favore delle lettere e de’ suoi compatriotti: ed una finalmente nell’idioma russo di Demetrio Jazikow che voltò in questa lingua il libro del N. A. per espresso comando del regnante imperatore Alessandro.
Torniamo alla narrazione dei fatti della vita del Beccaria, da cui la storia della maggiore sua opera aveaci allontanato alcun poco. La celebrità della medesima, ed il pregio in cui ella venne subito presso i filosofi francesi, fecero sì che egli fosse invitato da essi col mezzo di Morellet a recarsi a Parigi in compagnia del suo amico conte Verri, onde raccogliere colà i ringraziamenti ed i contrassegni di stima che avea meritati34. Il Beccaria, rispondendo al suo traduttore nel mentre che gli esternava il desiderio di volare a Parigi, accennava le cagioni che non gli permettevano di mandar ciò ad effetto. Egli aggiungeva: “Io spero che le circostanze si cambieranno, e che questo ritardo mi porrà in istato d’essere maggiormente degno della vostra società35.” Di fatto, essendo egli ritornato nella casa del padre dalla quale era uscito, come sopra accennammo, risolvette d’intraprendere il viaggio per la capitale della Francia, onde ammirare quella bella città e conoscere di presenza gli illustri suoi encomiatori. Siccome il conte Verri era stato in quel tempo nominato consigliere di commercio, non poteva abbandonare il suo posto. In vece sua venne trascelto a servir di compagno al Beccaria il cav. Alessandro, le cui produzioni giovanili, inserite nel Caffè, eransi procacciata la stima dei filosofi parigini. Rincresceva per verità al Beccaria l’abbandonare la patria, o per quell’inerzia che abitualmente lo dominava, o per essere grandemente affezionato a una sposa ch’egli aveasi presa per solo genio. Con tutto ciò partì da Milano in compagnia dell’amico il giorno 2 ottobre dell’anno 176636. Non era però discosto se non trenta miglia da Milano, ch’egli di già così scriveva al conte Verri: io oscillo continuamente dall’allegria all’ipocondria. La tristezza erasi di fatto impadronita di lui fino dal primo giorno nel quale avea incominciato il viaggio. Parevagli che più non dovesse rivedere la propria famiglia, nè d’altro parlava se non di questo tristo pensiero che stavagli fisso nell’animo, e che non lasciandolo nemmeno tranquillo nella notte, gli interrompeva con violenza i sonni. Parecchie volle fu sul punto di abbandonare a mezzo un viaggio a cui lo chiamavano la gloria letteraria e la data parola. Giunto finalmente a Lione, più non potè resistere al sentimento ch’erasi impadronito di lui, e scrisse apertamente a Pietro Verri ch’egli avea deliberato di tornare a Milano. “La mia moglie, egli diceva, i miei figli, i miei amici tutti mi assediano: la mia tiranna, l’immaginazione, non mi lascia gustare nè gli spettacoli della natura, nè quelli dell’arte, che non mancano in questo viaggio ed in questa bella città37.” Allora Pietro Verri in un’eloquente risposta gli dipingeva la meraviglia da cui era stato preso nel ricevere la lettera di Lione: lo riprendeva dell’eccessiva sua debolezza, poneagli sott’occhio la gloria che l’aspettava nella capitale della Francia, ed alla fine gli esponeva qual danno ne sarebbe venuto alla sua fama da una tanto repentina e sconsigliata risoluzione. Frattanto era riuscito al cavaliere Alessandro Verri di distogliere l’amico da questo malaugurato proponimento, e d’indurlo a proseguire il viaggio alla volta di Parigi, ove essi giunsero il giorno 18 ottobre. Morellet prese l’incarico di far loro conoscere i filosofi di cui avea tessuto l’encomio nelle sue lettere a Beccaria, e che bramavano grandemente di conversare con lui. Il barone di Holbac, che teneva ogni settimana in sua casa alcuni pranzi a cui erano ammessi gli Enciclopedisti, invitava pure i due Italiani, i quali così aveano l’agio di trattare e discorrere con quegli uomini singolari. Beccaria in ogni luogo e accolto con adorazione: sono queste le frasi con cui Alessandro Verri dava notizia al fratello del ricevimento fatto in Parigi all’amico. Ma il mal genio che lo aveva accompagnato ed afflitto nel tempo del viaggio lo perseguitava ancora in mezzo al frastuono della capitale della Francia, e gli amareggiava le lodi e gli applausi ond’era onorato. Indarno il Verri tentava di torlo alla sua malinconia. Il mio amico, scriveva al fratello, vi fa tutt’ora una brillante figura, è ammirato e festeggiato38: ma quando trovavansi soli, non sapeva parlare che delle memorie della patria e della terribile inquietudine che tenevalo agitato. Chi mai avrebbe potuto prevedere simile pusillanimità nel vigoroso autore del libro dei Delitti e delle Pene? esclama Pietro Verri parlando appunto di ciò. Nullostante tale era il carattere di Beccaria. e l’apparente contraddizione che si ravvisava in lui proveniva dall’indole del suo cuore, il quale provando con intensissima sensazione le impressioni forti, ora si sublimava con ardito volo oltre alla sfera comune, ed ora lasciavasi abbattere fino a parere inferiore all’uomo ordinario. Finalmente gli interni suoi sentimenti la vinsero: abbandonò Parigi, e restituissi quasi inopinatamente in Milano, avendo però nel suo rapido viaggio visitato Voltaire, nel castello di Ferney, dal quale venne festeggiato. Beccaria giunse in patria il 12 dicembre, di modo che non ne stette assente che settant’un giorni, là dove il viaggio era stato intrapreso con animo di rimanere sei mesi fuori d’Italia, e di visitare in quel tempo anche Londra. Alessandro Verri, al quale premeva di accrescere coi viaggi le proprie cognizioni, nè trovavasi stretto da que’ vincoli di sposo e di padre che tanto influivano sull’animo dell’amico suo, dopo avere attraversata la Francia, passò nell’Inghilterra, e di là tornando in Italia andossene a Roma, dove passò la maggior parte della sua vita.
Da quel punto l’amicizia di Beccaria coi fratelli Verri non fu più così viva com’era stata per l’addietro. Ciò nulladimeno tanto l’uno quanto gli altri non mancarono giammai di rendersi scambievolmente giustizia, e le pubbliche testimonianze del conte Verri, di cui facemmo menzione di sopra, sono di parecchi anni posteriori al viaggio di Parigi. Ecco poi come il cavaliere Alessandro Verri, scrivendo da Roma sotto il giorno 26 luglio 1780 al fratello che aveagli mandato il ritratto di Beccaria, si esprimesse riguardo a lui. “Mi ha fatto gran piacere il ritratto del nostro Cesare.... Varie persone si sono fatta premura di conoscere il ritratto, e veramente la sua celebrità è di quella specie superiore a cui non hanno contribuito gli artificii inutili della vanità, ed il suonare la tromba per far gente come i ciarlatani, ma l’intrinseco merito dell’opera. Posso dire che anche il ceto delle persone meno curiose di letterarie notizie, come sono i cardinali ed i prelati, conoscono i Delitti e le Pene. Io credo che chiunque legge soltanto il lunario ha notizia di quest’opera39."
Il nome di Beccaria intanto risuonava per tutta l’Europa. L’Inghilterra doveva per necessità far plauso ad un uomo il quale nel suo libro avea raccomandato così vivamente il giudizio per giurati, di cui ella tanto si gloria, e che è uno de’ più robusti appoggi dell’ammirabile sua costituzione. L’illustre lord Mansfield, oracolo della legge in quel paese, non pronunciava più il nome di Beccaria senza accompagnarlo da un segno di rispetto40. L’altissima fama ne era giunta fino alle sponde della Newa ove regnava la seconda Catterina, la quale nell’interno della sua corte mostravasi talora femmina debole, ma sul trono conducevasi coll’animo di generoso ed illuminato monarca. Essa, com’è noto, avea desiderio di vedere intorno a sè dotti e letterati d’ogni nazione. Per sua istanza adunque fino dai principio dell’anno 1766 un ragguardevole personaggio di Pietroburgo aveva richiesto notizie del marchese Cesare Beccaria al consigliere Antonio Greppi, e quindi nell’autunno del medesimo anno avea poscia domandato allo stesso se il Beccaria sarebbe stato disposto ad andare a stabilirsi nella capitale dell’impero Russo, offerendo al medesimo un impiego adattato al suo ingegno41. Il N. A., a cui Greppi comunicò la cosa, appena restituito in patria ne informò il conte di Firmian, com’era suo dovere, e questi ne fece parte al gran cancelliere di corte e stato conte di Kaunitz-Rittberg, la cui memoria sarà sempre onorata per la bella maniera colla quale diresse gli affari della monarchia Austriaca sotto il regno di Maria Teresa. Quell’illuminato ministro, chiedendo con sua lettera del 27 aprile 176742 conto del N. A. al plenipotenziario della Lombardia, così si esprime. «Supposto che si verifichino in esso, o almeno prevalgano in lui le buone qualità, sarebbe desiderabile di non perdere nel paese un uomo non solamente fornito di sapere, ma che, per quanto appare dal suo libro, sembra assai avvezzo a pensare, massimamente nella penuria in cui siamo d’uomini pensatori e filosofi; anzi parrebbe far poco onore a tutto il ministero, il vedersi prevenuti dagli esteri nella stima dovuta agl’ingegni. A ciò si aggiunge, che la considerazione usata ai talenti degli individui nazionali eccita gli uni dal letargo e dal torpore, e scioglie gli altri dal discoraggiamento.” In altra lettera poi del 21 maggio dello stesso anno nuovamente insiste “sulla necessità di conservare nel paese un ingegno atto ad ispirare eguale spirito ed amore per gli studi filosofici alla gioventù pur troppo aliena dalle occupazioni serie, occupandosi quella d’Italia per lo più nella sola triviale giurisprudenza del foro destituita d’ogni erudizione? o di studi frivoli, i quali, se pure servono alla coltura dell’ingegno, nulla però conducono all’emendazione dell’intelletto.”
Desiderando pertanto la corte di Vienna di non perdere totalmente il Beccaria, ma non volendo d’altra parte impedirgli un’occasione d’illustrarsi nella carriera politica e filosofica, gli permise l’andata a Pietroburgo, colla condizione però che dovesse ripatriare. Ma siccome esso veniva stimolato a stabilire la costante sua dimora in quella città, e tale era l’intenzione di chi ve l’avea fatto invitare, egli preferì di rimanersi in patria, al che senza dubbio l’avranno indotto e l’amore che portava al suolo natale, e le lusinghiere parole del primo ministro, le quali davano ragionevolmente a sperare che si avrebbe avuto per lui alcun riguardo. Di fatto con dispaccio del primo novembre 1768 venne il N. A. eletto professore nelle Scuole Palatine di Milano, essendo stata istituita per lui una cattedra di economia politica sotto il nome di Scienze camerali. Il diploma solenne di nomina fu poscia spedito sotto il giorno 29 dicembre dello stesso anno.
Non tardò il Beccaria ad assumere le funzioni dell’incarico commessogli, e nel giorno 9 gennaio 1769 diede principio alle sue lezioni col recitare una prolusione, la quale venne stampata in Milano nello stesso anno. In essa dopo aver fatto un quadro delle utili riforme che mercè dell’Austriaco governo s’introdussero in questi stati e ne mutarono interamente la faccia, e dopo avere accennata l’utilità della scienza cui era destinato ad insegnare, apresi un passaggio a dimostrare che «una cieca esperienza ed una meccanica abitudine non tengono luogo di principii sicuri e di massime ben ragionate nelle impensate combinazioni politiche; nè basta il possedere le verità generali senza scendere a’ particolari, da’ quali diverse e moltiplici modificazioni soffrono le teorie di questa scienza. Quindi, accennato qual metodo s’abbia a seguire per l’incremento successivo di questo ramo dell’umano sapere, si fa strada a descrivere il collegamento e l’influenza che le scienze economiche possono avere su tutte le parti della civile società. Delineata poscia brevemente la storia delle nazioni antiche e moderne, ritorna a parlare dello stato delle nostre province lombarde, e di quanto a loro maggior profitto s’andava operando. Alla fine chiude il discorso col promettere di parlare in ogni occasione il chiaro ed energico linguaggio della verità, e di allontanarsi dalle sterili ed astratte speculazioni, e dalle decisioni magistrali e dogmatiche, applicando invece continuamente le massime economiche alle circostanze del paese. Questa prolusione venne tradotta in francese da Giovanni Antonio Comparet, e stampata in Losanna nell’anno medesimo in cui fu recitata.
Eseguì in fatti il N. A. tutto quanto aveva promesso nella sua orazione proemiale, e noi ben lo possiamo conoscere dalle lezioni ch’ei tenne nelle Scuole Palatine, e che poscia continuò nella sua casa con superiore permissione, le quali ora corrono stampate per le mani di tutti. Dopo aver egli nel principio delle medesime accennato lo scopo dell’economia pubblica, si propose di considerarne i cinque particolari oggetti, cioè l’agricoltura politica, la manifattura, il commercio, le finanze e la polizia, sotto il qual ultimo capo volle comprendere tutto ciò che riguarda le scienze, l’educazione, il buon ordine e la sicurezza e tranquillità pubblica. Stabilito in tale maniera un ampio e ben ideato disegno, si fece egli a trattare diffusamente le materie ch’erasi proposte, ma per disgrazia di codeste scienze le sue Lezioni rimasero incompiute, non avendo egli fatta parola nè delle finanze nè della polizia, ed avendo soltanto trascorso come di volo quanto riguarda il commercio. Ciò nulla di meno nelle parli che trattò, scorgesi quanto egli si fosse internato ne’ più riposti segreti dell’economia politica, e come collo studio e coll’osservazione avesse saputo dar ragione dei fenomeni tutti che formano l’oggetto di questa scienza. Essa usciva appena allora dalle fasce, ed in Italia non v’era stato per anco alcuno il quale ne avesse trattato con metodica esattezza, tranne Antonio Genovesi, che il Beccaria chiamava il fondatore dell’economia politica in Italia, ma a cui però le circostanze dei tempi e dei luoghi soventi fiate impedirono di compiutamente esaminare le diverse materie. Le Lezioni del Beccaria, o, se così si vogliono chiamare, gli Elementi d’economia pubblica, sono distesi con bellissimo e limpido ordine: le cose vi sono svolte ed esposte con una chiarezza la quale non sempre si ravvisa nel libro Dei Delitti e delle Pene, di cui però di tanto in tanto conservano la vibratezza e la forza. Parecchi pensamenti intorno alle materie economiche vi si rinvengono, i quali danno a divedere tutto il vigore dell’ingegno di questo illustre Italiano, ed ai quali tanto più si deve por mente, quanto che vennero annunciati dalla cattedra cinquant’anni fa. Alcune materie vi sono trattate con tale compiutezza, per cui gli Elementi d’economia pubblica non temono in varie parti il confronto di parecchi libri moderni anche de’ più riputati, a malgrado dei grandiosi progressi che ha fatto nei nostri tempi questa scienza. Di ciò ognuno potrà convincersi, leggendo quanto scrisse il N. A. intorno alla popolazione ed alle cagioni le quali la diminuiscono od accrescono: intorno ai mezzi con cui si rinvigoriscono le arti, e finalmente la teorica della Moneta, trattando della quale il Beccaria diede nuova luce a ciò ch’avea sostenuto nel suo libretto di cui parlammo di sopra. Nel tempo in cui l’Europa e l’Italia erano ancora per la maggior parte desolate da leggi pubblicate in tempi nei quali non si conoscevano le massime della scienza politica, egli accennò con nobile audacia le cause dei mali, e fece utilissime proposte di riforma. Ora che le cose istesse sono ripetute in cento libri, e che il sistema delle leggi è perfettamente cambiato, poco costa il rammentarle ed il dirle, ma grandissimo fu il coraggio del Beccaria che le proclamò alloraquando l’esecuzione di esse da alcuni credeasi inutile, da altri dannosa, dai più impossibile. Egli, per grazia di esempio, registrò avvedutamente tra le cause di spopolazione gli ostacoli troppo frequenti posti nel matrimonio alla libera scelta dei soggetti per la creduta prudenza di avere per primo scopo le circostanze accessorie delle nozze (part. I. § 38): l’enorme disuguaglianza dei beni introdotta dall’illimitata facoltà di testare e dalle primogeniture (ib.): la soverchia diffusione del celibato, e le indiscrete leve de’ soldati (ib. § 41). Dimostrò chiaramente i mali che venivano allo stato dai vincoli imposti alla proprietà, e specialmente dai fedecommessi e dalle mani-morte (part. II. § 10). Parlando della circolazione dei grani, asserì e comprovò che l’assoluta libertà è la sola massima economica da adottarsi, facendo eccezione dell’unico caso in cui una nazione si trovasse impossibilitata veramente di profittare dell’universale concorrenza (ib. § 60). Proscrisse l’uso dei pubblici magazzini per provvedere alla pubblica sussistenza (ib.). Discorrendo dell’annona, stabilì che si dovesse dare a ciascuno la licenza di far pane, ma che però fossero severamente punite le frodi (ib. § 62). Raccomandò la conservazione dei boschi, i quali parve a lui opportuno che siano sottoposti ad un regolamento restrittivo della libertà (ib. § 69). Venendo poi a trattare delle arti, mise in chiaro la fallacia della opinione che sostiene non doversi introdurre le manifatture ne' paesi agricoli (part. III. § 6): condannò le gabelle interne ed i privilegi esclusivi, siccome contrari alla prosperità delle manifatture nazionali (ib. § 10): pose in tutta evidenza l'inutilità ed i danni delle corporazioni delle arti e de’ mestieri (ib. § 15): provò che il lusso diretto al giusto scopo dalle massime economiche anima le arti (ib. § 32), e che al contrario le prammatiche, o siano le leggi sontuarie sono perniciose e contrarie al fine stesso che le medesime si propongono (part. IV. § 35). Veggasi poi un luminoso passo di eloquenza, congiunto colla maggior filosofia e cognizione del cuore dell’uomo e della sua indole, nel paragrafo vigesimosesto della parte terza, ove profondamente dimostra il collegamento che hanno fra loro le arti belle, le meccaniche e le scienze tutte, rispetto all’accrescimento della felicità dello stato.
Tra coloro i quali maggiormente encomiarono gli Elementi del Beccaria, non è da passarsi sotto silenzio il professore Bignami, il quale in una sua prolusione43 studiossi di mettere in bella luce i servigi renduti dal N. A. all’economia politica, e gli diede la lode d'avere insegnato sei anni prima della pubblicazione della grand'opera di Adamo Smith, che la ricchezza delle nazioni consisteva nella massima quantità di travaglio utile44. Lo stesso Bignami riprende il sig. Carlo Ganilh perchè nel suo Trattato dei sistemi abbia annoverato il N. A. fra gli economisti puri o siano fisiocratici, cioè tra coloro che ripetevano dalla sola terra ogni produzione di ricchezza. Per verità la massima prediletta dagli economisti, la quale allora dominava comunemente, mostrasi anche nelle Lezioni del Beccaria, ma egli non ne ricavò conseguenze così ristrette come fecero i seguaci di quella setta, e specialmente i Francesi. Che che ne sia di ciò, il sig. Gio. Battista Say, autore del più bel trattato d’economia politica che ora si conosca, afferma che il Beccaria analizzò pel primo le vere funzioni dei capitali produttivi45, e che avanti d'aver contezza dei libri dello Smith, osservò che la separazione dei lavori è favorevole alla moltiplicazione delle produzioni46, la quale massima divenne tanto feconda nelle mani del filosofo scozzese.
Le lezioni che il Beccaria tenne nel 1769 non furono stampate se non nel 1804 dal barone Pietro Custodi nella collezione degli Scrittori Classici italiani d’economia politica, e formano i tomi xi e xii di quella stimabile Raccolta. Esse diedero chiaramente a vedere siccome, fra tutti gli Italiani, i Milanesi abbiano fatti fare alle scienze economiche i più grandi progressi, giacchè, toltone il napolitano Genovesi, non v’ha nelle altre provincie della nostra penisola alcun autore che possa gareggiare in questa parte col Beccaria e coll’amico e compagno di lui il conte Pietro Verri.
Mentre che il Beccaria era occupato nell’insegnare la pubblica economia, rivolgeasi pure a meditare intorno allo stile, il qual oggetto sembrerebbe a prima giunta affatto discosto dallo studio della filosofia professata dal N. A. Il modo però col quale egli fecesi a considerare questa materia ben dimostra con quanto accorgimento e profondità sapesse rinvenire il punto di contatto che hanno fra di loro le diverse parti dello scibile umano. Di già nel frammento sullo Stile inserito nel Caffè, di cui facemmo parola superiormente, il Beccaria avea poste le basi dei principii filosofici ch’egli si riserbava di svolgere su questo proposito. Avendo poi egli veduto che in quei cenni erasi meritato il gradimento delle persone dotte, spinse innanzi le sue meditazioni, e giunse a comporre il libro al quale diede per titolo: Ricerche intorno alla natura dello Stile.
In questo scritto il Beccaria non si prefisse qià di esaminare lo Stile nel modo con cui veniva comunemente riguardato dagli autori i quali trattarono delle belle lettere. Il metodo tenuto da essi consiste nel ridurre a canoni generali le bellezze già combinate dai maestri dell’arte, ed al contrario il N. A. si propone di fare le osservazioni generali intorno alla maniera colla quale si combinano quelle bellezze; osservazioni le quali si deggiono cavare dal fondo del nostro cuore, ricercando a quale combinazione d’idee, d’immagini, di sentimenti esso si scuota ed irriti, ed a’ quali resti inerte, e stupidamente indifferente47. Di là egli trae la conseguenza che le vere istituzioni poetiche debbonsi ricavare dalle osservazioni sulle interne operazioni dello spirito, e non sulla loro manifestazione. Accennata in tale maniera la scorta fedele che dee guidare il filosofo nel suo esame sullo stile, e dopo aver detto siccome egli intende di parlare dello stile che si riferisce alle idee, non già semplicemente alle parole, scende il Beccaria ad esporre quello ch’egli chiama principio generale. Egli dimostra pertanto che lo stile consiste nelle idee e sentimenti accessorii che si aggiungono ai principali in ogni discorso; e che quanto sarà maggiore il numero delle idee accessorie; s’accrescerà la bellezza dello stile, osservati costantemente i giusti confini.
Noi non seguiremo il Beccaria di passo in passo nelle sottili sue investigazioni. Solamente ci pare necessario di far notare siccome egli abbia in tutto il corso del suo libro sempre avuta innanzi agli occhi la massima che la morale, la politica, le belle arti, che sono le scienze del buono, dell’utile e del bello, derivano tutte da una sola scienza primitiva, cioè dalla scienza dell’uomo; per lo che quando ei prende ad esaminare le diverse parti che compongono lo stile, discende sempre nei recessi del cuore umano, onde rinvenire la ragione delle varie sensazioni che producono sopra di noi le idee espresse con parole. A dimostrare il legame che il Beccaria seppe ravvisare fra le scienze che paiono le più distanti, basti rammemorare quanto leggesi nel capo IV che ha per titolo: Dei contrasti. Dopo d’avere in quel luogo dimostrato che per iscolpire nella mente dell’uditore qualunque cosa o qualunque sensazione, chi scrive deve scegliere il principio, il mezzo ed il fine dell’oggetto che cade sotto il dominio dello stile, siccome le epoche più interessanti onde ottenere lo scopo proposto; e dopo di avere osservato che questo è appunto il metodo col quale s’indagano i fenomeni naturali, così conchiude: “Ciò che dunque viene dai grandi filosofi suggerito per iscoprire gli andamenti occulti e continui della natura, deve imitarsi nelle belle arti, che altro non sono che richiami od accozzamenti artificiosi delle apparenze dei medesimi.”
Il metodo propostosi dal N. A. non gli permetteva sicuramente che l’opera riescisse facile e piana, giacchè l’analisi conducendo il lettore per lungo cammino, obbliga l’attenzione di lui a rimanere in continua azione. È da confessare ciò nullostante che, oltre di questo, trovasi nelle Ricerche sullo stile una certa oscurità, la quale ne rende malagevole la lettura, del che vuolsi ancora dare accusa al ravvolgimento de’ periodi. L’autore istesso, nel confessare d’avere scritto il suo libro con poca diligenza e con fretta48, ci ha avvertiti di non richiedere in esso quella limpidezza e perspicuità di espressione la quale non si dà alle composizioni se non con cura e tempo. Dallo stesso motivo ha origine quella trascuranza la quale alcuno potrebbe ravvisare nei pochi esempi d’autori celebri citati nel libro dello Stile, i quali, per vero dire, non sono i più adattati a rendere ragione di ciò che intendeva l’autore. Quando il Beccaria stava per pubblicare le Ricerche sullo stile, disse più volte al suo fratello Annibale, di temere che questo libro non avesse buona accoglienza, e che fosse trascurato; ma che se fosse avvenuto il contrario, sarebbe ciò stata una prova che la nazione avesse fatto progressi nell’arte del ben pensare, del che egli nulla meno disperava49. Il N. A. che era tanto sublime pensatore, e che nel meditare e nello scrivere avea dovuto necessariamente scorgere i vincoli che univano le idee da lui espresse, potea credere di leggieri che anche ogni lettore assennato fosse in obbligo di vederli senza fatica. Ma ciò non avviene a chi si fa a trascorrere le Ricerche sullo stile; talvolta il lettore è costretto a fermarsi alcun tempo prima di trovare il filo delle idee dell’autore, e tal altra si sente assorto in un vortice di parole che intorbidano il pensiero principale. Tutto ciò è da noi detto senza volere scemare il pregio di questo libro, il quale, ad onta dei difetti che si possono notare in lui, sarà sempre memorabile e degno di altissimi encomi per l’acume con cui è scritto, per le belle e novissime riflessioni onde va io singolare maniera adorno, e finalmente per essere lino dei pochissimi libri che ha prodotti l’Italia, ove le materie che formano il soggetto delle belle lettere sono trattate con filosofica profondità.
Le Ricerche intorno alla natura dello stile furono stampate in Milano dal Galeazzi nel 1770. In quel volume se ne comprendeva solamente la prima parte, ed il Beccaria promise nella prefazione che dopo alcuni mesi sarebbe stata data fuori la seconda, nella quale si proponeva di fare l’applicazione dei principii esposti nella prima parte, indicando i mezzi onde rendere famigliare e pronto ad ogni occasione l’eccitamento di copiose e varie espressioni da scegliersi. Impedito per avventura dalle occupazioni che gli sopravvennero, non potè mantenere la fatta promessa. Solamente fra le carte di lui si rinvenne il Capitolo XVI, il quale era appunto il primo della seconda parte, e che trattava del Principio generale per lo studio dello stile. In esso, mediante acconce premesse intorno alle relazioni che le idee e la loro espressione hanno collo stato del successivo incivilimento delle nazioni, accenna il N. A. siccome per rendere immaginosi una lingua ed uno stile è necessario che le parole corrispondano perfettamente alle idee sensibili che si vogliono rappresentare. Conchiude quindi il lungo ed interessante ragionamento sul proposito col dire “che il principale artificio di chi vuole riuscire eccellente scrittore sarà quello di ridurre alle idee sensibili tutto il corredo delle parole, delle quali egli, conversando e studiando, carica la memoria.” Questo capitolo fu stampato per la prima volta nell’edizione che il Silvestri fece in Milano delle Ricerche sullo stile nell’anno 1809. Il libro medesimo venne stampato in francese nell’anno 1771 nella forma di dodicesimo. La versione è opera dell’abate Morellet, il quale avea dichiarato al Beccaria sino dal 1766 di volere essere suo traduttore ordinario50
Volendo la Corte premiare il Beccaria dello zelo da lui mostrato nell’istruzione pubblica, e mettere a profitto per lo Stato le belle e grandiose massime ch’egli avea professate ne’ suoi scritti e nelle sue lezioni, con dispaccio del 29 aprile 1771 l’elesse consigliere nel Supremo Consiglio d’Economia. Soppresso quindi quel dicastero, passò egli ad essere membro del Magistrato politico-camerale collo stesso titolò di consigliere, e finalmente, per dispaccio del 17 gennaio 1791, entrò nella Giunta per la riforma, del sistema giudiziario civile e criminale.
Negli archivi del Governo trovansi varie Consulte da lui presentate in differenti occasioni ai superiori, le quali dimostrano con quanto studio e con quanta diligenza trattasse egli le pubbliche cose che vennero commesse alla sua cura. Il dotto barone Custodi, il quale ebbe l’agio di esaminarle, ci informa siccome le relazioni sugli affari più gravi fossero di solito affidate a lui; che l’ordine, la chiarezza, la precisione sono il costante distintivo di questi lavori, e che spesso vi si ravvisa in maniera grandiosa l’uomo straordinario, che presa occasione dalle sterili occorrenze del suo ministero s’alza all’origine delle cose51. Fra le accennate Consulte il sullodato scrittore loda specialmente quelle che vennero presentate in diversi tempi sull’annona: l’altra di grandissima importanza, spedita alla Corte nel 1771, sulla necessità della riforma monetaria, mandata poscia ad effetto nel 1778, essendosi seguite le massime suggerite dal N. A., per le quali fu data allo stato di Milano una delle più belle monetazioni che si conoscessero: la Relazione sulla riduzione delle misure e dei pesi all’uniformità, scritta nel 1780: la Consulta sui risultamenti delle tabelle di popolazione che parimenti ha la data dello stesso anno; e finalmente le Riflessioni, scritte nel 1792, intorno al Codice generale sopra i delitti e le pene per ciò che riguarda i delitti politici. Scopo principale di queste è il mostrare, essere soverchia la facilità con cui si prescrivevano nel Codice le pene della berlina e del bastone senza riguardo alla gradazione delle colpe ed alla diversa condizione de’ rei. Dopo aver quindi osservato che aveasi un freno all’abuso nella prudenza dei magistrati, conchiude con quest’aurea sentenza, ben degna di chi avea composto il libro Dei Delitti e delle Pene: “Le leggi ed i codici devono essere fatti per la diuturnità dei tempi, e non per le persone che attualmente hanno in mano la pubblica autorità52.”
Ma di tutte queste Consulte nissuna vide la pubblica luce, all’infuori di quella sulla riduzione delle misure di lunghezza all’uniformità, la quale venne pubblicata dal Custodi nel tomo secondo delle Opere economiche di Beccaria. La precisione e la diligenza che in essa si ravvisano, possono servire di modello per gli scritti di simili materie. Da essa appare quanta cura e quanto scrupolo siasi usato nella riduzione delle misure, alla quale era stato delegato il Beccaria in compagnia del suo fratello Annibale, meccanico abilissimo, e del sommo matematico P. Frisi. Sebbene per allora l’operazione che essi doveano eseguire fosse ristretta alle misure di lunghezza53, il N. A. però proponeva che immediatamente si potesse pensate a mettere ad effetto anche l’altra riduzione dei pesi diversi che si usavano in questo dominio, ed indicava quindi le opportune massime per la formazione dei campioni, per le tavole di ragguaglio, e per la verificazione dei pesi ch’erano in uso.
Ciò però che forma il più bel pregio di quella Consulta; per cui essa sarà sempre tenuta degna di speciale menzione nel fatto delle misure, si è che il Beccaria ivi propone chiaramente di seguir la numerazione decimale, e di ricavare il campione di tutte le misure dal sistema celeste. Ecco come egli si esprime nel § 17 della citata Relazione. “Se la notorietà delle misure non fosse uno dei principali riguardi che si deve avere per indurre il popolo, sempre ritroso ai cangiamenti di sistema; ad accomodarvisi, io avrei desiderato in questa rivoluzione di dividere le misure in frazioni decimali, cioè nella progressione decupla decrescente.” Egli prosegue colf indicare che il P. Frisi proponeva di legare la misura terrestre colle misure celesti, fissando per campione del nostro miglio un minuto di latitudine al nostro paralello, e quindi misurarne la lunghezza in braccia milanesi: aggiunge poscia seguente passo. “Si potrebbe raffinare anche di più. Ritenuto per base d’ogni misura di lunghezza un minuto di latitudine, si potrebbe dividere in decimali, di maniera che presane una parte per unità, costituisse questa il piede; moltiplicata per 10, 100, 1000, formasse il trabucco, la pertica lineare, ed il miglio; e divisa per dieci, per cento, per mille, formasse le once, i punti e gli atomi. Di più, data una materia sensibilmente omogenea, come fosse un metallo nobile purissimo, si potrebbe formarne un cubo, il di cui lato fosse una parte aliquota del piede: se si determinasse per campione del peso da dividersi e moltiplicarsi parimenti in decimali, procedendo collo stesso metodo nelle relative misure di capacità, si otterrebbe il considerabile vantaggio di avere tutto il sistema delle nostre misure legato colle misure lineari e colle misure celesti, e tutta la nostra aritmetica sciolta dall’imbarazzo delle frazioni volgari; e perdendosi anche tutti i campioni maestri della lunghezza, del peso e di capacità, basterebbe che restasse la memoria di un tale sistema, da descriversi in poche linee, per potere ripristinarli se non altro per approssimazione. Ma allontaniamoci dalle idee troppo raffinate, ricordevoli di quel detto, che il più gran nemico del bene sia sovente la ricerca del meglio.” Perciò un tale desiderio non poteva venire mandato ad effetto se non in uno di quei politici universali cangiamenti che sono i soli nei quali diventa fattibile il soggiogare le abitudini d’un popolo e lo sprezzarne i clamori, ed in cui le menti; sbalordite da gravi e strani casi, più piccola attenzione porgono a cose minori. Di fatto nella rivoluzione di Francia la riforma intiera ne’ pesi e nelle misure, procurata dai diligenti lavori degli scienziati di quella nazione, fu eseguita mediante la forza d’un governo che non conosceva ostacolo alcuno. Non è però da obbliarsi per la gloria del nostro paese, siccome il Beccaria fino dal 1780 proponesse le due basi sulle quali unicamente s’appoggia il sistema metrico di cui menano sì gran vanto i Francesi.
Beccaria soleva dividere fra l’impiego e gli affini domestici la sua vita. Era nemico del fasto e dell’ostentazione. Alloraquando il re di Napoli fu in Milano, andò per ben due volte alla sua casa onde vedere quel sommo filosofo, ma non riuscì nell’intento, giacchè il Beccaria si sottrasse alle visite del monarca. Negli ultimi anni poi quasi del tutto sfuggiva il consorzio civile, fino a che la morte con un colpo apopletico lo tolse dal mondo il giorno 28 novembre 1794. Ebbe due mogli: dalla prima nacquegli una femmina, dalla seconda un maschio54 che vivono tutt’ora. Siccome uomo che formava da se i propri pensamenti fu tenace della sua opinione. L’immaginazione fervida che si mostra in tutti i suoi scritti, e che padroneggiava il suo animo, gli fruttava talora disgusti, e facea perfino che la sua filosofia, come dice il barone Custodi55, fosse talora in contraddizione colle sue azioni, e che quest’uomo tanto superiore ai pregiudizi del volgo fosse timidissimo nella solitudine. Egli soleva allegare per iscusa che le forze della natura non sono bastantemente conosciute, e che quindi v’ha sempre pericolo di rimaner vittima d’alcun suo fenomeno. Questo è un bell’esempio delle morali contraddizioni, e serve a provarci quanto ad un tempo stesso ed in uno stesso individuo possa essere grande ed inferma l’umana mente. La figura poi del Beccaria si risentiva di quell’inerzia che con rara unione trovavasi in lui accompagnata da sì grande vigore di cuore e di fantasia.
I Milanesi contemporanei del Beccaria si mostrarono forse indifferenti al merito d’un tanto cittadino. Ma egli dovette ben consolarsi di ciò per avere uditi gli applausi dell’intiera Europa che non aspettò la sua morte per tributargli i debiti encomi. Il suo nome sopravvisse a lui, ed è uno di que’ pochi tra i moderni che hanno sostenuto e sostengono tuttavia presso le straniere nazioni la fama e l’onore dell’Italia.
Note
- ↑ Questa è la vera data della nascita del Marchese Beccaria ricavata da i libri battesimali, onde sono da correggersi coloro che ne hanno registrato una diversa.
- ↑ Traité des Délits et des Peines par Beccaria, traduit de l’italien par A. Morellet, précédé d’une correspondance de l’auteur avec le traducteur. Paris, 1797, pag. xliv.
- ↑ Biographie Universelle, art. Beccaria (César)
- ↑ Traité des Délits etc., pag. xli
- ↑ L. c., pag. xlvi.
- ↑ L. c., pag. xlv.
- ↑ L. c., pag. xlviii.
- ↑ Questa proporzione è quella che veniva indicata siccome media dal conte Carli nel secondo tomo della sua opera intorno alle monete. La tariffa pubblicata pel Milanese nel 1778, in cui ebbe molta parte il Beccaria, e che tolse finalmente nello stato nostro la maggior quantità dei disordini delle monete, seguiva appunto la proporzione suddetta. Essa ciò nulla meno dava per avventura troppo valore all’argento, ond’è che gli zecchini e le doppie di Milano coniate in quell’epoca, e valutati i primi a lir.14:10, e le seconde a lir. 24, sparirono quasi tutti. La proporzione seguita nella monetazione francese moderna, e che venne estesa al cessato regno d’Italia col decreto del 21 marzo 1806, è quella di 1:15½.
- ↑ Opere economiche del Beccaria, Milano 1804, tomo ii, pag. 208.
- ↑ Il conte Pietro Verri fece legare in un tometto tutte le scritture relative all’opera di Beccaria sulle monete di cui parliamo, e su ciascuna di esse pose alcuni brevi cenni ed osservazioni, una delle quali è quella qui citata. Detta raccolta ci venne graziosamente mostrata dal conte Gabriele Verri figlio del conte Pietro, il quale ci diede pure il comodo di consultare altri manoscritti che da lui con somma diligenza si conservano, e di cui facemmo uso nello scrivere le presenti notizie.
- ↑ Op. econ., tom. 2, pag. 213.
- ↑ Osservazioni manoscritte nella citata raccolta.
- ↑ Il barone Pietro Custodi nella Vita di P. Verri premessa alle opere economiche di questo autore stampate nella Raccolta dei Classici economisti italiani, pag. 12.
- ↑ Della Superbia nazionale, cap. 13.
- ↑ Traité des Délits et des Peines etc., pag. xlviii. Di tutto quanto abbiamo qui narrato fece inoltre testimonio il cav. Alessandro Verri in una sua lettera del 16 aprile 1803 diretta all’abate Isidoro Bianchi autore dell’Elogio di P. Verri. (V. pag. 140 e segg. dello stesso Elogio). Nell’archivio di casa Verri havvi un esemplare da noi veduto dell’opera Dei Delitti e delle Pene tutto di mano del conte Pietro Verri con alcune correzioni di carattere del Beccaria, il quale è pienamente conforme alla prima edizione. In calce all’esemplare medesimo stanno le note cronologiche relative alla composizione ed alla stampa del libro da noi riportate. Presso il marchese Giulio Beccaria, figlio dell’autore, havvi poi l’autografo scritto su schede separate, che noi abbiamo parimenti esaminato.
- ↑ Lettera inedita nell’archivio Verri (V. la lettera di Beccaria a Morellet, 1. c.
- ↑ Nella serie delle edizioni del libro Dei Delitti e delle Pene compilata dal figlio dell’autore, e che va dietro alle ristampe di quest’opera del Bettoni (Brescia 1809) e del Mussi (Milano 1812) si dice che la prima edizione presumesi fatta in Monaco ligure. Noi però non dubitiamo d’asserire ch’essa venne eseguita in Livorno, giacchè vedemmo l’originale corrispondenza fra il conte Verri ed il libraio Aubert. Anche il P. Facchinei così si esprime: “Io non posso pertanto non detestare quell’uomo indegno e sfacciato che ha voluto stampare in Livorno con iniquo contrabbando il libretto del N. A.”
- ↑ Biog. univ. l. c.
- ↑ Traité des Délits et des Peines etc., pag. xxxviii.
- ↑ L. c., pag. xliii.
- ↑ In questa edizione è pure stampato il Giudizio di celebre professore sopra il libro Dei Delitti e delle Pene. Esso è lavoro del sig. Soria professore nell’università di Pisa.
- ↑ Traité des Délits etc., pag. xxx.
- ↑ L. c., pag. xli et xlii.
- ↑ Biog. univ. l. c.
- ↑ Gazette littéraire, 1.er octobre 1765.
- ↑ Custodi, Vita di Beccaria nelle Vite e ritratti di 60 illustri Italiani. Padova, pel Bettoni, 1812.
- ↑ Traité des Délits etc., pag. 1. Quale opinione poi avesse quel dotto uomo di stato intorno al libro del N. A. si ricava dal seguente squarcio d’un suo inedito biglietto dato in Milano sotto il giorno 3 febbraio 1765. “J’ai lu, l’automne passé, le livre des Dèlits et des Peines: ce qu’on y dit de la question m’a beaucoup plu: ma vanité en était flattée par ce que mon sentiment a été toujours de méme sur ce point. Le livre me paroit écrit avec beaucoup d’amour de l’humanité et beaucoup d’imagination.”
- ↑ Meditazioni sull’Economia politica. Livorno, 1778, pag. 148. Storia di Milano, tomo primo, pag. 193.
- ↑ Parole del Bar. Custodi nelle Vite dei 60 illustri Italiani. Il sig. Formey, segretario dell’Accademia di Berlino, così si espresse in una lettera mandata a Roma al famoso matematico P. Jacquier sotto il 24 luglio 1779. «Avez vous lu les anecdotes que M. Linguet a debitées sur l’origine du livre de M. Beccaria? Elles sont bien injurieuses pour les personnes les plus distinguées de l’Italie, et en parliculier pour mon ancien et digne compagnon le P. Frisi, ou abbé aujourd’hui.» Il precedente squarcio è cavato dalle lettere inedite del cav. Alessandro Verri che si conservano nell’archivio Verri.
- ↑ In Milano, p. e., venne pubblicato il libro che ha per titolo Apologia della giurisprudenza romana, e Note critiche al libro dei Delitti e delle Pene, e che sebbene non porti nome d’autore, si sa essere stato scritto dal professore Giudici: come pure l’altro Della pena di morte, opera del dott. Paolo Vergani famigliare d’un cardinale e poscia prelato romano.
- ↑ Lettere inedite nell’archivio Verri.
- ↑ La migliore ristampa della traduzione di Morellet si è quella del 1797, più volte da noi citata, la quale venne pubblicata per cura del celebre Roederer. In essa si aggiunsero in forma di note le osservazioni fatte da Diderot sul libro dei Delitti e delle Pene.
- ↑ La traduzione porta il nome di Giovanni Antonio de Las Casas. Con tutto ciò Alessandro Verri in una sua lettera inedita del 20 dicembre 1778 dice d’aver conosciuto in Roma il traduttore del libro Dei Delitti e delle Pene, e ch’esso era un giovane cavaliere abate spagnuolo, chiamato don Giovanni Alves, per lo che è d’uopo supporre che l’altro sia un nome supposto.
- ↑ Traité des Délits, etc., pag. xxxiii.
- ↑ Traité des Délits, etc., pag. l.
- ↑ Il barone Custodi nelle sue due Vite del Beccaria parla del viaggio di Parigi, siccome avvenuto nel 1776. Da’ documenti autentici risulta che il N. A. andò a Parigi nel 1766, nè noi sappiamo ch’egli abbia nuovamente intrapreso quel viaggio.
- ↑ Lettera inedita di Beccaria a P. Verri in data 12 ottobre 1766.
- ↑ Lettera inedita di A. Verri al fratello in data del 25 ottobre 1766.
- ↑ Lettera inedita nell’archivio Verri.
- ↑ Lally-Tolendal l. c.
- ↑ Lettera inedita di P. Verri al fratello, del 13 novembre 1766.
- ↑ Troppo onore fanno al ministro gli squarci seguenti, e troppo chiaramente dimostrano la premura ch’egli avea pel ben essere del nostro stato, perchè non vengano da noi riportati. Essi furono pubblicati per la prima volta nel 1804 nella Vita di Beccaria premessa alle sue Opere economiche dal barone Custodi, il quale afferma averli tratti egli stesso dalle carte originali che stavano nell’archivio allora nazionale di Milano.
- ↑ Sulle Dottrine economiche di Cesare Beccaria, Discorso inaugurale letto nella grand’aula dell’università di Padova dal cav. Angelo Bignami. Milano, dalla Stamperia Reale, 1811.
- ↑ El. d’econ. pub., part. I., § 13.
- ↑ Traité d’économie politique. Introduction, pag. xlv. Paris, chez Renouard, 1814
- ↑ L. c., tom. 1, pag. 62. V. Becc., El. d’econ, pub., par. I, § 9.
- ↑ Ricerche sullo Stile. Prefazione.
- ↑ Ricerche sullo Stile, edizione originale (Milano, 1770) pag. 10.
- ↑ Custodi, Vite dei 60 illustri Italiani, § 13 dello Vita del Beccaria.
- ↑ Traité des Délits et des Peines, etc. pag. xlii. Noi abbiamo asserito che Morellet abbia tradotto il libro sullo Stile puramente sulla fede del sig. di Lally (Biog. univ. l. c.), giacchè non ci venne fatto di vedere la traduzione medesima.
- ↑ Vita del Beccaria premessa alle Opere economiche di lui, tom. I, pag. 11.
- ↑ Custodi, Vita del Beccaria tra quelle dei 60 illustri Italiani, § xi.
- ↑ Codesta riduzione ebbe luogo in fatti per tutto lo stato di Milano, essendosi adottata per sola misura di lunghezza il braccio da legname milanese. Nella nostra città v’erano oltre al medesimo altre misure lineari, siccome il braccio da panno, il braccio da seta, ec.
- ↑ Il marchese Giulio Beccaria. Egli ha innalzato all’immortale suo padre un domestico monumento di cui non si saprebbe abbastanza commendare l’idea. In un gabinetto della sua casa a ciò unicamente destinato sono disposti in elegante scaffale gli autografi del Beccaria, le diverse edizioni delle opere di lui, delle quali parecchie in pomposi esemplari, le traduzioni delle opere medesime falle nelle lingue forestiere, e finalmente i libri d’altri scrittori che si riferiscono a quelli del N. A., ovvero che hanno diffusamente parlato di lui. La piccola biblioteca ha da un lato il busto dell’uomo di cui contiene gli scritti, e dall’altra un’analoga iscrizione scolpita in marmo. Lo stesso marchese Giulio Beccaria ha fatto, non ha guari, coniare una medaglia, la quale da un lato ha la testa dell’immortale suo padre, e dall’altro il giorno della nascita e quello della morte di lui.
- ↑ Vita del Beccaria fra quella dei 60 illustri Italiani, § xiii.