L'argine/Parte terza
Questo testo è completo. |
◄ | Parte seconda | Parte quarta | ► |
PARTE TERZA
Cessarono, d’un tratto, le frequenti lettere raccomandate, per la signora Noemi Davila: lettere con la busta quadrata, sottile ma resistente, chiusa da una pallida luna di sigillo argenteo che pareva volesse custodire il segreto ma sfuggendo all’attenzione dei curiosi. Il primo ad accorgersene fu il portiere dello stabile, che firmava lui per la padrona e poi portava su le lettere, o le mandava, se era di cattivo umore, con la volante Pierina; alla quale ripeteva, fissandola bene negli occhi, che avrebbe poi controllato lui l’arrivo regolare della corrispondenza. Sebbene sulla busta non esistesse l’indirizzo del mittente, tanto lui che la ragazza sapevano bene di chi erano le lettere: e Pierina, quindi, non poteva fare a meno di sbirciarle, lungo la scala cauta si fermava a palparle, quasi con curiosità fisica: ne sentiva l’odore di dramma, le luci e le tenebre di cinematografo: le consegnava alla padrona senza batter ciglio; poi, all’occasione, le cercava con un fiuto di volpe: nulla: le lettere sparivano come volatilizzate, come lettere di spiriti: pareva che la padrona, come certi ladri sorpresi a rubare biglietti di banca, se le ingoiasse, per farle meglio sparire.
A Pierina dunque dispiacque quello spegnersi dell’ultimo guizzo di vita nella casa-museo della sua sempre più sbiadita padrona: il sor Francesco, invece, il flemmatico, il diplomatico portiere, provò un senso di sollievo. Conosceva bene il signor conte ingegnere Franci; come pure conosceva a fondo, forse più di quanto ella stessa si conoscesse, la sua riverita e, in fondo, cara padrona.
Ma quale era la persona che egli non conoscesse, e non solo superficialmente? Oltre i suoi inquilini, poiché egli si considerava moralmente e in certo modo anche economicamente, il padre eterno dello stabile, e le famiglie degli inquilini, i loro parenti, gli amici, le persone di servizio, i loro fornitori, i creditori, i debitori, le lavandaie, le stiratrici, i cani, i gatti, gli uccelli, conosceva tutti gli abitanti del quartiere, e molto più in là ancora: aveva relazioni amichevoli, e disinteressate in un certo modo, con la questura e le agenzie di collocamento e d’informazioni; conosceva una per una le signore dei quartieri intorno che affittavano camere o cercavano persone di servizio: infermieri, tappezzieri, autisti, merciai, stagnini e muratori, preti e strozzini, suore e donnette equivoche, tutti insomma gli anelli di congiunzione fra una classe sociale e l’altra, gli erano, se non amici, conoscenti; e i mendicanti di professione, i profittatori, i ladri, gli adulteri, avevano una speciale paura di lui. A conti fatti, oltre alle doti classiche dei portinai fedeli, onesti, attaccati ai loro padroni dalla forza dell’interesse, dell’abitudine, ed anche da un certo affetto cagnesco, egli conservava intatta la sua potenza quasi passionale di guardia doganale: aveva il fiuto, l’istinto, il coraggio del cacciatore d’uomini fraudolenti, ed anche la coscienza della sua superiorità su di loro. La più grande ingiustizia da lui subìta nella sua integerrima vita, fu quando, per limiti di età, lo misero in pensione: avrebbe potuto trovare un impiego più decoroso, ed anche meno faticoso, ma aveva scelto quello di guardiano di un palazzo, del resto abitato, almeno in apparenza, tutto da gente facoltosa e per bene, per un bisogno di attività fisica e mentale.
Il suo mondo era vasto ancora, quasi come quello che per forza di cose aveva dovuto abbandonare: i confini di monti e di mare, con banditi, agenti anarchici, bracconieri, ladri di sale ed esportatori e importatori clandestini di tabacco, alcool, merletti, quadri e schiave bianche, gente, insomma, con la fedina penale molto sporca, si stendevano ancora intorno a lui, nella città e dintorni.
Era scapolo: gli piacevano le donne e amava mangiar bene, ed anche bere, sebbene a questo riguardo si frenasse egualmente perché la guardia di finanza, il cacciatore e il guardiano di uomini e delle loro case non devono mai ubbriacarsi.
Una sola debolezza aveva: era superstizioso; e come tale sopportava che nello stabile, dove era assolutamente vietato il subaffitto, abitasse un modesto pensionato dell’Intendenza di Finanza, col quale qualche volta aveva anche il piacere di discutere cose di comune competenza, che era gobbo, e la cui signora si permetteva, con molta diplomazia e finezza di affittare, di frodo, una camera dell’appartamento.
Poco dopo che le lettere raccomandate alla signora Noemi Davila cessarono di arrivare, una domenica mattina, il cavaliere gobbo, cercava, nelle caselle della portineria, il giornale al quale era abbonato, quando vide la padrona dello stabile scendere lenta le scale, infilandosi un guanto. Ella non si serviva mai dell’ascensore; e del resto usciva di casa così di rado che lo scendere e salire i trenta gradini dal suo pianerottolo in giù poteva servirle anche d’esercizio. Scendeva, dunque, lenta, cauta, pensierosa. Era vestita di nero, con eleganza corretta e semplice: abito tailleur, non troppo lungo, non troppo attillato, che lasciava scoperta la caviglia affusolata dalle calze di seta grigioscuro; scarpette dello stesso colore, coi tacchi bassi: aveva un piccolo cappello nero con un nodino a vento sull’orecchio, che faceva risaltare il pallore un po’ malaticcio, un po’ quasi sentimentale, del viso affinato, e sotto il braccio il libretto da messa con la copertina di pelle tigrata.
«Già va a messa» pensò l’inquilino; e, poiché aveva una sua particolare idea, aspettò discretamente, dando una guardata al giornale, che ella fosse nel lucido pianerottolo della portineria (tanto ella lo accoglierà bene, perché anche lei è superstiziosa e in modo forse più straordinario e radicato degli altri). E quando ella fu vicina, egli finse di esserne tutto scosso; mise il giornale sulla schiena, come non fosse degno di sfiorarla, e si tolse dai radi capelli neri, lucidi bensì e aggiustati come un’ala di vecchio corvo, la bombetta decorosa. La signora Noemi lo aveva anche lei veduto fin dall’alto della scala, e s’illuminava negli occhi d’un riflesso verdognolo fra il lieto e il malizioso.
Sorrise anche, al gobbo, con lo speciale sorriso che, d’altronde, tutti tenevano in serbo per lui, e per lui solo. Egli lo conosceva, quel sorriso, lo aspettava, lo accoglieva, ma spesso lo ricambiava con una segreta parola: — Crepa.
Non la pronunziò, per la mite e disinteressata signora Noemi: ma non ricambiò neppure il sorriso. Egli non sorrideva mai: sembrava un uomo estremamente serio, a guardarlo nel viso grande, sproporzionato per il suo piccolo corpo d’anfora; un viso virile, scuro, tutto solchi, con la bocca sensuale, i denti da roditore di ossi, gli occhi grandi e belli sebbene nascosti dalle lenti rotonde di cristallo turchino: incuteva quasi soggezione, e la piega satiresca della sua bocca significava ch’egli era pienamente consapevole, — e quasi soddisfatto, — della sua diversità dagli altri uomini. Diversità d’altronde solo fisica, perché per il resto egli se ne infischiava: aveva la sua brava moglie, la pensione, la casa, il gusto della gola, un’ottima digestione, le sue opinioni politiche, un discreto interesse per cose d’arte e di letteratura, un disprezzo fondamentale per il prossimo: che altro ci vuole per essere contenti di vivere? Sì, qualche altra piccola cosa egli voleva, e la signora Noemi, a sua volta, lo sapeva: qualche cosa che dipendeva da lei, ma che lei non voleva concedere, senza però mutare il colore dei sentimenti del gobbo verso di lei.
Quando ebbe quindi finito d’infilarsi il guanto, prese fra le palme il bel libretto da messa, e rese meno generico e più umano il suo sorriso: tanto che l’uomo pensò essere la piccola signora Noemi ancora una piacevole donnina, non molto più alta di lui, e un certo calore di bramosia gli balenò nella schiena.
— Va a messa, donna Noemi? Peccato che io non possa accompagnarla, lei permettendolo.
— Ma perché, cavaliere? Può accompagnarmi benissimo. Andiamo.
Accennò con la testa di seguirla, di andare avanti: ma pensava anche lei che tutti si sarebbero voltati a guardarli, come già li guardava dalla sua gabbia di vetro il sor Francesco, il portiere.
— Io la ringrazio infinitamente, — disse il gobbo, stringendosi al petto il giornale e la bombetta; — io andrò più tardi, alla messa delle undici e mezza. Così vuole la mia sposa, con la quale mi accompagnerò. Scusi anzi, donna Noemi, se le faccio perdere il tempo.
— Oh, no. Come sta la signora Giulia? È un pezzo che non la vedo.
— Sta benissimo: ma si dà sempre troppo da fare. Adesso poi, con questa benedetta faccenda dell’anno santo, abbiamo sempre ospiti: (la signora tese le orecchie, e il suo sorriso tornò a sbiadirsi). Adesso è la volta di un nipote, per parte di mia moglie; perché io, a dir la verità i miei parenti faccio di tutto per fingere di non conoscerli: anzi tento di dire: io sono figlio d’ignoti; io sono figlio di nessuno.
Egli però non aveva ancora finito che già vibrava il pentimento: e fra il sempre più languente sorriso della padrona e lo sguardo di cattiva lince del sor Francesco in ascolto, si sentiva la gobba trapassata come un tordo dallo spiedo.
— Mia moglie, — concluse tuttavia, spinto anche da un certo orgoglio delle sue energie personali, e da dispetto per il portiere, — verrebbe a salutarla, se lei lo permette.
— Permetto, permetto, — rispose Noemi, con moti scherzosi della testa, che avevano qualche cosa di furbesco e civettuolo: tutto un giochetto di mascherina.
Ed ecco, se ne andò; quasi eccitata, come se invece del cavalier Adone Giovi avesse incontrato un bel giovane corteggiatore: se ne andò, stringendo fra le mani il libriccino, che aveva fatto amicizia intima coi guanti e tutto si scaldava al loro vellutato tepore: libriccino, guanti, e le mani esili dentro guizzavano di vita, respiravano anch’esse il respiro nuovo e giovane del mattino: mattino bello, davvero festivo, col sole già ardente ma l’aria fresca, con un sapore di gelato alle fragole. E fragole infatti si vedevano, d’un rosso ombroso di bosco, fra l’oro scialbo delle banane e il roseo pallore delle prime ciliegie, in qualche mostra di fruttivendolo, nella larga strada nuova tutta chiara di marciapiedi intatti e di facciate di palazzi ancora odorose di calce e di smalto.
Ella si fermò a guardare un mazzo violaceo di asparagi, e, sopra tutto, un cestino di funghi neri: ricorda le scorribande nel bosco dei carbonari, con la serva-madre; e non era gioia, la sua, anzi dolore, quasi paura: ma, nello stesso tempo, respiro di fanciullezza, di ansia, di mistero.
Avanti, avanti, signora Noemi: suonava il terzo tocco della messa, e se pareva anch’esso venire dall’antico santuario della foresta, incitava alla corsa di un posticino nei banchi della chiesetta del quartiere, troppo piccola per i già numerosi fedeli.
Eppure, sì, il ricordo fisico delle antiche scorribande la accompagnava: ancora il suo corpo era acerbo, tutto ossa, liberato dall’ombra della casa umida del villaggio: sì, e l’inverno, il passato, il rimorso, i vani ricordi, la cenere delle lettere di «quel disgraziato», lo stesso ritratto del marito-sentinella funebre, tutto era rimasto nell’appartamento vigilato dalla chiassosa Pierina: per il momento, la servetta era lei, che con la scusa di andare a messa si permetteva una piccola gita mattutina. Ma quando fu nella chiesetta, nuova e può dirsi davvero fiammante, per i ceri e le lampade accese senza risparmio, per i fiori, e sopra tutto per le grandi alte finestre coi vetri illuminati d’oro, e sedette nell’angolo dietro la bussola della porta, sentì qualche cosa caderle ai piedi, tanto che, istintivamente, si piegò a guardare.
No, il libro ce lo aveva in mano, il rosario in tasca, col borsellino e il fazzoletto; eppure qualche cosa era caduta: ah, sì, la sua effimera per quanto mesta felicità.
Adesso la sua anima era di nuovo prigioniera, in una gabbia trasparente e fina, sì, ma sempre gabbia: come l’uccello riacchiappato dopo una pazza piccola fuga: ma non ci si dibatte, anzi si affloscia, si tiene quieta sulla sbarra sicura: è quasi contenta di aver ripreso la sua solita quieta e rassegnata posizione.
La messa non era cominciata ancora, e una giovane suora d’ebano e di avorio come una statuina di Madonna addolorata, si dava un gran da fare per gli ultimi preparativi intorno all’altare: ogni tanto la bussola si spalancava, e coi fedeli silenziosi entrava anche l’aria e il profumo dei giardini intorno: un prete, dentro il confessionale, aspettava i penitenti ritardatari, e poiché questi più non si presentavano, sbuffava con poca reverenza.
Anche lei, che in un primo momento aveva l’idea di confessarsi, pensava che non ce n’era più bisogno: da qualche settimana, aveva già compiuto il precetto pasquale, raccontate al rappresentante del Signore le vicende del suo spirito e della sua carne in pena, era stata assolta aveva ricevuto l’Ostia, il ramo dell’ulivo benedetto, il piccolo cero che ricorda la luce della fine di ogni vanità terrestre: adesso, poi, era più tranquilla ancora, più in accordo con la sua coscienza, dopo che le lettere erano cessate, e anche lei sa che Pia Decobra si è uccisa perché non amava il marito.
Eppure non tutto era sepolto ancora; e uno stridore lieve saliva dalla sua coscienza come quello di una porta non ben chiusa che il vento molesta. Mentre un ultimo arco di fiammelle s’accendeva sopra l’altare, illuminando meglio la veste azzurra alpina della Madonna e la testa calva del vecchio sacerdote, ella si domandò: «Perché non faccio mandar via dalla mia casa quel signor Antioco, il nipote del gobbo?».
Oramai la notizia era ufficiale: il signor Antioco stava in casa del cavalier Adone Giovi e costui era troppo avaro per tenercelo gratis. Un primo allarme lo aveva discretamente dato il portiere: e tanto il portiere, quanto la signora, badavano anzitutto al rigido regolamento delle locazioni dello stabile, che proibiva assolutamente i subaffitti. E — pensava la signora Noemi, — è curioso come certi regolamenti in apparenza semplici e lineari, fatti per la gente che vuol vivere tranquilla, trascendano e diventino quasi leggi superiori. Ed ecco che al signor Antioco era proibito di abitare nella casa dove lei abitava. Ce lo aveva condotto il caso, o un calcolo stabilito? La vita, — aveva scritto «quel disgraziato» — è fatta così: si diverte a giocare con le piastrelle, come i ragazzi nella strada.
Non era il primo né l’ultimo uomo del mondo, il signor Antioco, che venuto a sapere di una vedova ricca, giovane e piacente ancora, poiché le circostanze della vita gliene avevano fatto scoprire l’esistenza, tentasse di avvicinarla e imbastire un possibile matrimonio con lei.
«Ma io me ne rido: la vita può essere sì, innocente come i monelli che giocano nella strada, ma è anche, spesso, come il diavolo che fa la pentola e non il coperchio».
Così ella pensava; e l’aver saputo in antecedenza i fatti dell’ex podestà amico di Franco, non le destava, in fondo, molta sorpresa. Eppure un senso di torbida curiosità la spingeva a pensare a lui, anche in quel momento, mentre il sacerdote bianco e tremulo si volgeva verso i fedeli, invitandoli a pregare.
Sì, ella aveva bisogno di confessarsi ancora, almeno davanti a Dio: poiché, d’impeto, come per un riverbero esterno, improvviso e allucinante, sentiva che tutta la sua esaltazione fanciullesca, nell’incontrare il gobbo, nello scendere nella strada, nel vedere i funghi e ricordare i boschi della sua adolescenza informe, era germogliata, quella mattina, dall’idea che un uomo giovane viveva nella sua casa e forse pensava a lei.
Piegò il viso sul libro, fino a sentirne l’odore di lucertola calda di sole, e chiuse gli occhi.
«Signore, tu vedi l’anima mia, come il pastore la pecora che tenta di sbandarsi. Riprendimi, legami, che io torni all’ovile e alla pastura di erbe semplici alla fontana d’acqua pura. Quell’uomo non deve stare in casa mia. Non tocca a me giudicarlo, né sapere quali sono i suoi doveri e le sue intenzioni: io non so nulla, e forse il mio stesso pensiero è tutto un inganno. Ma egli non deve stare in casa mia: questo è il regolamento».
Tutto il resto era fantasia, romanzo, inutile passatempo.
Il sacerdote si piegava ai piedi della Donna Divina che calpesta il serpente: il trillo del campanello del chierico sembrava un guizzo di staffile; e le parole sacre del Vangelo risonavano nel silenzio della chiesetta come in cima a una montagna.
«Liberami dalle tentazioni, o Signore...».
Ella ricordava le lettere del suo amico, le cose che riguardavano Antioco, le torbide vicende di Agar; e tutto le appariva in una luce demoniaca, di cattivo sogno.
«Via, via; c’è anche un regolamento per scacciare dalla memoria questi subdoli inquilini di ricordi. Liberaci dalla tentazione, o Signore sia fatta, sì, la tua volontà, ma liberaci dal male».
E poi c’è il signor Francesco che vigila nella sua guardiola, e che sa far giustizia dei contrabbandieri, senza tante sofisticherie.
Ella tornava a casa, pallida e tranquilla. Si fermò ancora davanti alla mostra del fruttivendolo: e questi accorse, dal fondo boschivo del suo negozio; accorse, col ventre che gli ballava, le mani verdi, umide, gli occhi ridenti. Che desiderava la ricca cliente? I funghi, le fragole, l’insalatina dalle foglie color di rosa? Ma ella dice d’aver già dato gli ordini a Pierina. Oh, Pierina: ben venga Pierina: quando ella balza dentro il negozio è il più bel frutto, è il più morbido cespo delle buone cose attorno. La padrona, tuttavia, si volse, un attimo, col desiderio di comprare una scatolina di carta gialla piena di fragole, da regalare a quel golosone del sor Francesco; ma poi tira via drizzandosi quasi fieramente sulla schiena. No, non vuol dare più confidenza e neppure troppa importanza al suo portiere: che egli faccia il suo dovere, com’ella farà il suo; e, dopo tutto, ella può vivere con pochi soldi al giorno: magari anche col suo lavoro; non ha bisogno di nessuno, non le importa, in fondo, di nessuno.
D’altronde il sor Francesco la pensava come lei; e nel vederla rientrare la salutò rispettoso, ma anche un po’ rigido, senza dirle una parola. E questo contegno di lui le infuse più sicurezza e coraggio che se egli le avesse offerto le più eroiche promesse di aiuto e di fedeltà.
Adesso era di nuovo nella sua casa, ripresa dall’incantesimo di questo rifugio, che aveva, in più vaste dimensioni, gli stessi colori, gli stessi riflessi, quasi la stessa atmosfera della chiesa lasciata pur ora: solo che il silenzio è diverso, non attraversato dall’inquieto respiro del prossimo: un silenzio tutto suo, di lei; e l’occhio di Dio, qui, era fisso solamente su di lei, con l’occhio stesso del sole che penetrava benigno e radioso dalle finestre aperte.
Dopo essersi cambiata il vestito, andò a rivedere d’istinto il suo compagno.
«Giacomo, — gli disse, con quella sua bassa e quasi dura voce, che aveva però come le scintille del basalto percorso dall’acciarino; — sei contento di me, vero?».
Null’altro; ma anche lei era contenta: aggiustò le cose intorno al ritratto, le sedie, gli oggetti sulla mensola, il fiore bianco nel vasetto prezioso: tutto come aveva veduto fare dalla suora bianca-nera intorno all’altare della chiesetta. Socchiuse infine le persiane: vide riflesso nei vetri il mattino festoso, con l’azzurro, il verde, il giallo dei colori esterni, con sagome liquide di alberi e di case; e le parve che la città dov’ella viveva fosse quella, tutta di cristallo, inconsistente eppure intatta, come una città sepolta dal mare.
Una felicità che si accordava pienamente con questo fantastico clima le cullava l’anima: e di nuovo le sembrava di essere ancora fanciulla, ma quando tornava dall’essersi confessata e comunicata, e per tutto il resto della giornata restava sospesa nella fluida ubbriachezza della presenza di Dio nella sua carne mortale: così doveva essere la beatitudine della suora che aveva aggiustato l’altare, che aveva ricevuto l’Ostia, e adesso forse coltivava le rose nel giardinetto della chiesa, pensando al suo Sposo Divino.
Ma nel continuare la sua solita ispezione, arrivata nel salottino in fondo, ella sentì d’improvviso un senso di paura.
«Sono troppo contenta, troppo sicura di me. E questo è superbia, egoismo, peccato: mi accadrà di nuovo qualche cosa, come quella mattina».
Tutto intorno era fermo ancora, come quella mattina: la meravigliosa tinta verde del cedro e del pino riempiva coi suoi ricami scintillanti il vano della finestra: e un usignuolo pazzo di gioia vi cantava in mezzo: rumori vaghi, i rumori velati delle mattine di festa, quando i lavoratori stanchi si prendono il lusso di dormire fino a mezzogiorno, e l’aria, libera dei gridi del giornalaio e dello stridore dei veicoli, pare si goda anch’essa il suo respiro di riposo, arrivavano di lontano, furtivi, come di contrabbando.
Ed ecco che quest’impressione le ricorda il sor Francesco, che vigila nella sua guardiola come nel casotto in cima a un’alpe; e di nuovo si rinfranca. Di che cosa doveva aver paura? Basta chiudersi bene in casa col catenaccio, non aprire, non ricevere nessuno. E, oltre al sor Francesco, c’era, dentro casa, lui, lui, il suo Giacomo, più vigilante e forte di ogni altro difensore. Di che cosa può aver paura?
«Sono pazza più del solito, — pensa, — o sto per rimbambire: la solitudine e l’orgoglio mi dànno alla testa».
E andò in cerca di Pierina.
Domenica felice per tutti, quella, e specialmente per Pierina, che aveva le sue ore di libertà pomeridiana.
Erano appena le due dopo mezzogiorno, e già ella finiva di rimettere in ordine la cucina. Ci voleva poco, del resto, per la faccenda: eppure ella si arrabattava, si allungava, si torceva, con veri esercizi acrobatici: se avesse avuto a sua disposizione una corda si sarebbe divertita a correrci sopra: e il vestito non le faceva difetto, poiché consisteva in un sottanino giallo aderente alle lunghe dure coscie, e una maglia, già senza maniche, a striscie gialle e brune, che la faceva parere una giovane zebra in amore.
La padrona, che si attardava nella sala da pranzo a leggere un giornale illustrato, la sentiva parlottare, e di tanto in tanto fischiare, ma piano, che il sor Checco, giù in cortile, più che la signora, non avvertisse la sua felice esistenza.
Il nome del sor Checco, è spesso pronunziato sottovoce dalla ragazza: ella ne parla in segreto ai piatti, alla scopa, al pavimento; poi, d’un tratto, si sente un tonfo: è lei che batte lo strofinaccio contro il marmo dell’acquaio, e, nel tumulto, pronunzia forte l’aborrito nome: infine, soddisfatta, prorompe in un canto estemporaneo, dolce e nostalgico come quello di un esiliato.
Ci rivedremo a sera,
ci rivedremo a sera,
come quel dì,
come quel dì,
Le fave e la gruiera,
il campo dell’amor...
oh, ah, ooh, aah...
Ella ha finito: tace: entra nella sua cameretta, dove sopra il letto, fin dalla mattina per tempo, sono preparate le sue cose più raffinate; combinazione di mussola rosa, calze di seta, scarpine gialle a buchi e trafori; vestito lungo di seta verde artificiale, berrettino dello stesso colore: e nastri, collane, orecchini, cipria, profumo, rossetto: un vero corredo per abbigliamento da cocottina.
Quando ella si presentò, al completo, per salutare la signora, questa ne rimase abbagliata: provò anche un po’ di sdegno, forse un po’ d’invidia, e scosse il giornale per mandar via il nauseante profumo che avvolgeva e seguiva la ragazza.
— Ti sei tinta, eh?
— Le giuro, no: ecco, tocchi, se vuole. È che fa già caldo. Tocchi, tocchi: le giuro, sulla tomba di mia nonna.
— Povera tua nonna. Va; e torna presto. Avverti il signor Francesco.
Pierina giurò che avrebbe avvertito il signor Francesco della sua uscita: ferma in cuor suo, però, di sgattaiolare senza farsi vedere dal Cerbero. Del resto sapeva che egli l’avrebbe veduta egualmente: accidenti a lui e alla sua sorveglianza. È lui che, non più tardi d’ieri, avendola sorpresa a parlare con l’autista spavaldo e sanguigno della villa di fronte, ha promesso di accusarla alla signora, e, se è il caso, di farla rimpatriare per mezzo della Questura. Accidenti a lui e alla sua sorveglianza. È vero che, in caso di rimpatrio, ella si conforterebbe immediatamente con la stessa guardia di compagnia, o con qualche gagliardo ferroviere: ma, insomma, è meglio filar dritti.
— Le occorre niente, adesso, signora?
— Niente; solo mi raccomando, eh? Va.
Ed ella se ne va, col suo vestito verde che sa già di campagna, di odor di fave di orto dietro l’osteria suburbana: e con le guance e le labbra e tutta la persona che sente già il calore dell’esuberante autista.
La signora, invece, andò a coricarsi. Faceva già un po’ di caldo, e non era dannoso, in quelle giornate interminabili, fare una parentesi fra le ore confortevoli del mattino e quelle melanconiche del tramonto: il tramonto che, specialmente in primavera, si divora tutta la baldanza e le illusorie speranze della prima parte della giornata. Il vento di ponente porta già la nostalgia dei mari, dei grandi spazi, delle campagne fresche, e pare inviti, con insidia maliziosa, i cittadini già fiacchi e nervosi, ad abbandonare i loro rifugi polverosi già invasi dal caldo, dagli insetti, dai cattivi odori. Specialmente la domenica è triste, nel pomeriggio, per chi rimane in casa: per questo, le serve, i loro padroni, più servi ancora, con la moglie stanca e i bambini anemici e tuttavia turbolenti, gli operai, gli studenti poveri, escono dalle loro case, vanno nelle osterie fuori porta, o, potendolo, al più vicino scalo di mare, illudendosi di cambiare vita.
Anche la signora Noemi, nel fruscìo del vento fra gli alberi del giardino di fronte, sentiva un vago richiamo di lontananze amene, un invito di fuga. Di solito, ella non andava in villeggiatura: non ne sentiva il bisogno, poiché la sua casa era fresca, silenziosa, forse anche perché le sarebbe bastato desiderare il luogo, il paesaggio, il lido più deliziosi e costosi, per averli: inoltre era padrona assoluta della grande terrazza a nord, sopra il tetto del palazzo, nella quale il signor Francesco aveva per lei impiantato un vero giardino pensile, con alberi dentro conche di creta, una fontana, sedili, spalliere di rampicanti e persino una nicchia con una madonnina tutta cielo e stelle, inghirlandata di roselline di ogni mese. Sulla balaustrata i vasi dei gerani e dei garofani richiamavano l’ammirazione degli intenditori di fiori, tanto erano grandi e perfetti. Di lassù si dominava l’oceano della città, con le oasi dei giardini, i campi di tennis, le nuove costruzioni verso la campagna e infine si vedevano i monti, che sembravano coperti di glicini fiorite; e sull’orizzonte glauco le nuvole bianche davano l’illusione di vele: e, di sera, la luna e le immutabili stelle, amiche e compagne di rotta nel viaggio della vita. Della vita della signora Noemi, s’intende.
L’anno prima, poiché nell’inverno precedente ella aveva sentito qualche lieve dolore alle giunture, — i cardini dell’organismo umano che cominciano ad arrugginire, — era stata per due settimane ad una stazione d’acque salutari: luogo, oltre che di acque, di sole, di verde, di delizie naturali, con tutti gl’ingredienti, sentieri di bosco, passeggiate aeree, canti di uccelli mai prima sentiti, utili per accrescere la felicità della gente: luogo di incanto, ma non per chi è solo e non sa con chi dividere l’abbondanza di queste gioie esterne. E lei era sola, peggio che sola, in compagnia di un fantasma. Il malessere dell’inverno e dell’inizio della primavera di quest’anno, era stato ben diverso: non c’era acqua che potesse guarirlo: tuttavia ella pensò, nell’ascoltare il mormorio degli alberi del giardino accanto, che forse era bene ripetere le due settimane di cura nel bel paese di alti palazzi bianchi, di fonti, di boschi, di gente che dice di esser malata ed è la più gaudente del mondo.
«Porterò con me Pierina: troveremo certo un appartamentino dove si possa cucinare in casa».
Sentì quasi un senso di tenerezza: si era affezionata a Pierina come una bambina alla sua bella pupattola dai colori chiassosi: le piaceva la compagnia della ragazza-animale perché, come appunto quella di un cane o di un uccello, dava una certa allegria, una ventilazione di vita, alla casa inanimata: le piaceva Pierina, per la sua stessa incoscienza, per la sua voluttà incessante di godere, di piacere, di mentire: e quando la ragazza cantava, sentiva quasi voglia di cantare anche lei, come quelli che lo fanno perché hanno paura della solitudine o del buio.
Si era assopita, ma non dormiva; e, senza cercare di spiegarlo troppo a fondo, anche nel dormiveglia si ostinava a pensare a quel giorno, e specialmente al sogno della perquisizione e del fantastico eppure tanto vero colloquio col commissario di pubblica sicurezza. Aveva l’impressione che i due agenti fossero nel corridoio, uno per parte della vetrata d’ingresso, alti, immobili e feroci come due mastini in agguato: eppure Pierina trovava il modo di scivolare fuori della sua camera, vestita solo con una combinazione di mussola verde, e correva dall’uno all’altro con uno svolazzare di mantide perversa e voluttuosa. D’un tratto uno degli uomini allungò la mano e l’acchiappò per le falde della vesticciuola, con atto di schiacciarla. Un senso di oppressione, e nello stesso tempo di compiacimento per il giusto castigo che aspettava la ragazza, svegliò Noemi di soprassalto: ed ebbe una delle sue frequenti sensazioni, che rasentavano l’allucinazione. Sentì cioè, che qualche cosa d’insolito doveva succedere, che anzi succedeva già: una di quelle deviazioni del destino che mutano di un colpo il corso di un’esistenza.
E il campanello squillò, lieve, quasi timido, eppure insistente: come quella volta.
— Ah, no, questa volta non si apre davvero, in casa mia.
Ferma e tesa stette ad ascoltare: il campanello non suonò oltre, ed ella si rassicurò, ma non poté riprendere riposo. Sentiva che qualcuno era sempre davanti alla sua porta, e l’aspettava. Più che inquieta, sdegnata, si alzò, uscì nel corridoio, e si mise anche lei ad origliare piegata sul catenaccio ben chiuso della porta. Ed ecco le scoppiò sul viso, come un petardo innocuo, un nuovo squillo del campanello: questa volta era la realtà; ed ella non aveva paura della realtà.
Socchiuse: la realtà era lì, dietro la sbarra grigia dell’apertura del battente, nella figura alta e grossa della signora Giulia, tutta lucida nel cappotto di raso nero ondulato di frange e svolazzi: il cappellino bianco alla moda, sui capelli neri oleosi di cattiva tintura, rendeva più grottesco il suo grande viso rosso bitorzoluto, col naso costellato di puntini neri: ma ogni cosa era rischiarata e quasi cancellata dal viso buono dai grandi occhi di perfetto colore azzurro.
Era, sì, la realtà; ma accanto, per un baleno, mentre socchiudeva la porta, Noemi aveva veduto scivolare e sparire come l’ombra del suo sogno. Un uomo passava, scendeva, salutava rapidamente la signora Giulia; un attimo, ed egli era già scomparso, sprofondato nel moto delle scale: un attimo, un baleno: ma Noemi aveva intraveduto un viso noto, due occhi ch’ella già conosceva: viso ed occhi simili a quelli del Commissario di pubblica sicurezza.
— Disturbo? Se disturbo vado via subito e le faccio mille scuse. Me lo dica pure, senza complimenti, donna Noemi cara. Disturbo?
La vocina flautata usciva da quel corpaccio che traboccava da tutte le parti del vestito, come quella di una bambola meccanica che la signora Giulia tenesse nascosta nel petto: faceva ridere, destava curiosità e desiderio di sentirla ancora.
Noemi fu vinta: ma vinta anche da un bisogno di svago, e sopra tutto dall’istinto di sapere, in qualche, modo, il perché aveva sognato il Commissario con quel viso e quegli occhi che gli erano apparsi un minuto prima nella realtà dell’uomo che scendeva le scale, che era sicura, doveva essere il signor Antioco.
— Ma entri, signora Giulia, — disse con fare amichevole che stupì la gigantessa. — Come sta? È inutile domandarglielo: si vede che sta benissimo. Ne ho piacere: questa mattina ho veduto suo marito.
Ecco che anche lei chiacchierava, nascondendo però il suo pensiero: la sua voce bassa e quasi stentata, quasi arrugginita dal poco uso, non le sembrava meno strana di quella dell’altra: voci meccaniche tutt’e due, di marionette che recitavano la commedia. E poiché ci si era, ella pensò di entrare subito nel cuore della scena.
— Era suo nipote, quel signore che l’ha salutata?
— Proprio lui. Ma come fa a saperlo? — disse la signora Giulia, fermandosi sorpresa nel corridoio.
— Me lo sono immaginata. Eppoi mi pare che le rassomigli.
L’altra era ingenua e semplice: ma non al punto da non intravedere la canzonatura: che fare, però? Con la signora Noemi non c’era da prendersi confidenze, e bisognava procedere molto cauti, molto prudenti, per ottenere anziché perdere qualche cosa: quindi non le restava che sorridere e avanzare lentamente badando a non scivolare sul pavimento che sembra un vero specchio. Intanto Noemi, dopo chiusa la porta col catenaccio, apriva l’uscio del salottino. Le persiane socchiuse, la tenda abbassata, lasciavano passare con discrezione il verde quasi incandescente del cedro e del pino illuminati dal sole ancora alto. Ed ecco la signora Giulia sprofondata fra i cuscini del divano: le pareva un sogno, di esser ricevuta così cordialmente dall’inaccessibile padrona di casa; e i suoi occhi scintillavano come il cielo di fuori.
— Come è buona a ricevermi così, donna Noemi: sono tanto felice, ma tanto, davvero.
Noemi le stava davanti, quasi ai piedi, seduta su un seggiolino basso, e si aggiustava i capelli ancora un po’ scompigliati, osservando le grandi mani della signora Giulia: mani rosse, con le unghie corte e i polpastrelli tagliuzzati, use ai più duri lavori e che non si vergognavano della loro bruttezza.
— Scusi se l’ho disturbata, donna Noemi forse lei dormiva. Ma da questa mattina, quando il mio Adone mi disse che lei non avrebbe sdegnato una mia visita, sto come quei ragazzi ai quali si promette una gita di piacere. Ho anzi suonato un’altra volta; poi mi sono pentita, e sono scesa giù dal signor Francesco per vedere se la mia servotta era giù in guardiola: s’immagini! C’erano tutte, quelle belle canaglie, e strillavano come cornacchie: finché lui non le ha cacciate via con la scopa.
Una volta afferrato l’argomento; — sor Checco, fantesche, avvenimenti del palazzo, — la conversazione si svolse, per parte almeno della signora Giulia, brillante e movimentata: e Noemi ascoltava non senza interesse, poiché tutto era bene a sapersi.
— Così le dico, le due ragazze, la mia e la sua, sono andate via assieme, non si sa bene dove; non certo in chiesa. La sua Pierina, lei lo sa meglio di me, è un diavolo scatenato, mentre la mia Elviruccia è un’acqua cheta, ma di quelle buone: non parla mai, non canta, non ride neppure; ma il mio Adone dice che non pensa che agli uomini. E mi facesse bene le faccende! Scopa appena il pezzetto di pavimento che si vede, non lava un vetro neppure se l’ammazzano. D’altra parte, come si fa? A cambiare si cambia sempre in peggio. Se non altro questa non risponde e non ruba. E in fatto d’uomini l’ha da fare col sor Francesco, sebbene anche lui, — io glielo dico in faccia, — non sia uno stinco di santo: e le serve le fa filare dritte, sì, ma se gli capita, allunga le mani. Del resto è un bravo uomo; ottimo. E come le vuol bene, donna Noemi. È, direi quasi, innamorato di lei. Scommetto che se lei riprendesse marito, il che le auguro di tutto cuore, egli ne farebbe una malattia.
Noemi non rispose: ma allungò una mano a sfiorare un ginocchio della signora Giulia: ginocchio che pareva uno scoglio, e che la fece sorridere pensando alle carezze maritali del cavalier Adone. Solleticata, felice, l’altra continuò:
— Del resto, chi non le vuol bene, donna Noemi? Tutti l’ammirano, l’amano, si fanno una gioia di poterla vedere anche alla sfuggita. C’è mio marito che ha per lei una vera adorazione: è più forte di quella del sor Francesco, perché disinteressata. Ma lei se lo merita, perché è una santa.
— Lasci andare, signora Giulia. Forse è più santa lei.
— Ma che, ma che: chi può essere simile a lei? Lei che vive qui come in una chiesa: lei che...
— Lasci andare, signora Giulia. Mi dica, dunque, piuttosto: il signor Francesco distribuisce qualche pizzicotto?
— Eh, beh, siamo vivi. La sua Pierina la rispetta, perché sa con chi ha da fare; ma la mia Elviruccia ieri raccontava a mio nipote Antioco, — perché, vede come sono le ragazze con noi quella sorniona non parla mai, mentre spesso la sento confidare col nostro ospite; — gli raccontava, dunque, che il sor Francesco, mentre lei stendeva i panni su in terrazza, l’afferrò, la sollevò, con la scusa di volerla buttare giù, per scherzo s’intende, e la palpò ben bene. Pazienza: è primavera.
Primavera inoltrata. La signora Noemi rise, per le prodezze galanti del suo portiere, ma nel lucente riverbero del cedro e del pino le apparve, rapido, un paesaggio lontano: e Franco, e Agar: un riverbero, un’ombra, un tremolio al cuore. E la signora Giulia notò che la «santa» aveva le gengive pallide, di un rosa sfiorito: era anemica, certamente; aveva bisogno d’aria, di primavera, anche lei, di amore, di amore.
Era buona, la signora Giulia, forte e buona, con grande cuore materno. L’aveva mandata lì suo marito, per portare la buona fortuna alla signora Noemi, per tastare il terreno e vedere se c’era da tentare qualche cosa per Antioco; ma ella avrebbe voluto condurlo lì addirittura, il suo giovane nipote, e lasciarlo a quattr’occhi con la povera signora Noemi.
Prudenza; aveva però avvertito il cavalier Adone: ed ella aspettava che fosse l’altra, a chiedergli di Antioco, come aveva già ben cominciato: intanto domandò:
— A proposito di terrazze, come va la sua? Dalla strada si vedono i gerani, sulla balaustrata, che sembrano tanti fuochi. Tutti li guardano incantati.
— Non so: li ho veduti anch’io dalla strada. È più di un mese che non vado su: mi sono presa un bel raffreddore, l’ultima volta. So, però, che ci sono già i tulipani e le rose centifoglie.
La signora Giulia chiuse gli occhi e congiunse le mani.
— Signore, le rose centifoglie! che meraviglia di Dio. C’è mio marito che ne va pazzo e il solo lusso che si permette è di comprarne di tanto in tanto un mazzo: ma i fiori costano, e noi siamo poveretti.
— Gliene farò dare dal signor Francesco, — promise Noemi; e per sfuggire alle manifestazioni di gratitudine della signora Giulia si alzò e andò a prendere il vassoio coi bicchierini dorati e la snella bottiglia della Menta glaciale, verde e ardente come la bella Pierina, che adesso è certo nel campo di fave, col suo autista imbambolato, mentre la languida Elviruccia è seduta al tavolo dell’osteria a tenere il moccolo.
— Ma che fa, donna Noemi? Questo proprio mi dispiace, che lei si disturbi, che lei mi serva con le sue mani. Oh, grazie, grazie: basta così: è forte, questo liquore; e come squisito.
— Allora un altro pochino.
— Signora, ma le pare?
La signora Giulia allontanò il bicchierino, e fece anche un tentativo per sollevarsi, ma ricadde più a fondo, e fu tutta in potere della sua ospite; che le fece bere un altro e poi un altro sorso del liquore magico. E d’un tratto la gigantessa si commuove sul serio: la voce le si fa flautata, la parlantina, se è possibile, aumenta.
— Del resto il mio Antioco è buono, affabile, religioso. Lo conosco da piccolo. Il padre era un cugino del mio: teste diverse, poiché mio padre era un bravo fattore di campagna, e il cugino un uomo al quale piaceva correre il mondo una certa fortuna, però l’ha fatta: Antioco possiede terre e una villa in montagna; (se ancora è sua, pensò la signora Noemi), e poi egli prenderà due lauree: il suo avvenire è splendido. Splendido, — ripete, agitando il bicchierino come lo specchietto per le allodole: e Noemi si diverte, aspetta le parole definitive dell’altra, con le laudi di Antioco probabile marito; poi spalanca la bocca come i bambini davanti a una cosa mai veduta, quando la signora Giulia si fa tutta scura eppure compunta in viso, e annunzia con un filo di voce:
— Sì, è un’anima benedetta. Dice che, appena s’è laureato, andrà coi Padri delle Missioni a insegnare a leggere e scrivere ai bambini selvaggi.
Allora lo svago di Noemi prese un altro colore. Dapprima le parve di esser lei la canzonata; poi un fiammeggiare di ricordi le accese la fantasia: le lettere di Franco, la voce deliziosa e perfida di Agar. — Sì, egli vuol farsi frate missionario. — E ridono, i commensali, lassù, nella lontana stanza della parrocchia: ma lei, adesso, Noemi, non ha più voglia di ridere. Le sembra che tutti si piglino un po’ gioco di lei, che si divertano a disturbarla, a prenderle e farle inutilmente perdere il tempo e i pensieri.
Ma che voleva, infine, la signora Giulia? Si era fatta grottescamente seria, con le grosse labbra che tremavano sui denti di cavallo. Riprese, sottovoce:
— Lei ha ragione, di non ridere di quanto le ho detto, donna Noemi: perché lei capisce le cose. Mentre tutto il palazzo crollerebbe dalle risate degli inquilini, se si venisse a sapere che un giovane di talento e di grande avvenire, e bello e sano, vuol andare a istruire i selvaggi. Ma io parlo solo con lei; e sono felice che lei mi ascolti. Ho anche io le mie idee, e approvo quella di mio nipote. Non si vive di solo pane, e un ricco matrimonio può essere una fortuna, per un uomo; ma ci sono altre fortune più grandi. Ho veduto un giornale delle Missioni, nella stanza di Antioco; e ho pianto. Vedesse come sono belli, questi bambinelli di selvaggi: neri, con certi occhi che incantano. E poi le suore, i padri, i vescovi che attraversano le foreste e i deserti; e le chiesette di frasche, i frati dottori che curano i malati, — persino i lebbrosi, anzi i lebbrosi con più amore degli altri, — e insegnano ai piccoli a leggere e scrivere. E i giovanetti convertiti, che vogliono farsi sacerdoti, per meglio spandere la luce della fede nelle loro infelici contrade, e liberarle dal demonio come i guerrieri liberano la patria oppressa dal nemico.
Proprio così, disse, la signora Giulia, stringendosi le mani al petto ansante, entro il quale pareva che la bambolina nascosta piangesse un suo piccolo pianto generoso e impotente: e neppure adesso Noemi sentì bisogno di ridere: anzi, suo malgrado, provò un senso di commozione, che era, sì, il riflesso di quella della sua visitatrice, ma forse più profonda e duratura.
Per istinto diede uno sguardo al suo cestino da lavoro, ricordando che le ore più riposate e sognanti delle sue lunghe giornate erano quando ella lavorava per i bambini poveri: ecco le calzettine di maglia, ecco i corpettini per tener caldi i piccoli corpi, entro i quali palpita un cuore che è il bocciolo di una esistenza fatta di sofferenze e di gioie, di miserie e di errori, ma forse anche di grandezza e di nuova luce per l’umanità.
Cose semplici e antiche, che, come dice bene la signora Giulia, fanno ridere gli spassosi inquilini dei palazzi di città: eppure, perché fanno bene al cuore di chi le rispetta e se ne fa una legge tanto lieve da osservarsi? E gli occhi della signora Noemi si sollevano a guardare il cedro, che arde tutto di lucenti fantasmagorie, come un albero di Natale, e pensa che la vita, oltre all’amore, alle ambizioni, ai piaceri carnali, ha tante altre sorgenti per dissetare l’anima irrequieta dell’uomo.
No, ella non ride più della notizia in apparenza così strana, che un uomo come Antioco voglia cercare una di queste sorgenti: tutti gli uomini al di fuori della media comune, o forse anche tutti, hanno bisogno di evadere dai limiti che la sorte pare abbia loro assegnato. E l’infelice Pia è morta di questo male: e Franco costruisce l’argine: e lei stessa, un giorno, col suo giovane compagno, sono fuggiti dal piccolo paese verso la città dove hanno trovato il denaro, il dolore, la morte. Ma il sogno era bello, il miraggio illuminava l’orizzonte con una luce che neppure il dolore e la morte hanno del tutto spento. Esso permane ancora, nel tramonto che incendia gli alberi del giardino di fronte, nelle fiabesche storie missionarie che la signora Giulia, una volta cominciato, non finiva di raccontare. Finì col dire che lei aveva il suo bravo sogno quello di prendersi in casa, per assisterlo e aiutarlo negli studi, come facevano molte benemerite famiglie, uno di quei giovanetti negri o gialli, neofiti ardenti e convinti, bisognosi di soccorso materiale e morale.
— Il mio Adone è contrario, si capisce. Anche lui è uno di quelli che ride di queste cose. E poi i tempi sono difficili, ed i primi ad aver bisogno di aiuto siamo noi. Ma non mancano le anime generose. (Adesso mi domanda il permesso di affittare la camera, — pensa la signora Noemi, ritornando alla realtà). Ma vedrà, donna Noemi, vincerò io: con qualche sacrificio, con pazienza, con buona volontà, farò tutto da me. Pensi, contribuire io povera donna, povero vecchio bastimento naufragato, a un’opera di bene così grande come lo spandersi della religione di Cristo nelle più lontane regioni della terra! Pensi.
Sì, la signora Noemi ci pensava: era un modo come un altro di illudersi, di passare il tempo: così avrebbero detto gl’inquilini del palazzo, di ritorno dalle loro gite domenicali: ma loro, dopo tutto, che cosa avevano fatto?
Solo Pierina, al suo ritorno, non pareva contenta della sua gita: anzi aveva, nel viso impallidito, negli occhi mortificati e feroci, l’aria di un gatto che ha avuto la peggio nelle sue avventure amorose. E poi era tornata insolitamente presto, mettendosi subito a sfaccendare con un insolito mutismo preoccupante più di ogni lamento.
— Che ti è capitato, Pierina?
La voce della padrona, e il suo stesso benevolo interessamento, avevano anch’essi un tono insolito, più umano, più caldo.
Pierina ne fu tanto penetrata che ebbe voglia di dire tutta la verità: ma tutta la verità è un po’ troppo, per lei; è come se un bambino che possiede una bella mela possa darne più della metà al suo compagno.
— Signora, — disse con fare minaccioso, — la domenica non voglio più uscire di casa; a meno che lei non mi mandi fuori per forza. No, non voglio più uscire.
— Oh, figurati. Ma perché ti dovrei mandar fuori per forza? Che intendi dire?
Anche la signora è austera, quasi sdegnata. Sa che Pierina ha qualche dubbio sulla fredda integrità del cuore della sua padrona, e che forse la sua padrona desidera di star sola a casa per ricevere qualcuno. Una volta era il signor Franco: adesso c’è in vista il nipotino del gobbo, del quale l’amica Elviruccia le deve aver già dato notizie.
— Sì, perché molte ragazze i padroni, la domenica, le mandano fuori, anche se non hanno voglia di uscire. Io non so dire il perché: ma è così.
— Vedrai che così per te non sarà: ma ci andrai da te, ne sono certa.
La ragazza batté i piedi per terra, quasi infuriata.
— Le giuro sulla tomba di mia nonna che la domenica non esco più. Mai più. Andrò su in terrazza, se lei me lo permette, inaffierò i fiori, farò quello che lei mi comanda. Ma uscire, mai più.
— Insomma sei rimasta insoddisfatta, oggi. Era meglio se andavi in chiesa: c’è adesso il mese mariano, ch’è tanto bello. Pierina, bisogna credere in Dio, vivere onestamente, seguire gl’insegnamenti cristiani; solo così si è felici.
I gialli occhi di Pierina si riempiono subito di allegria e di beffa.
— Guarda, guarda, — disse quasi con insolenza, — anche Elviruccia mi predicava così, oggi, perché anche la sua padrona le fa i sermoni: ed anche il signorino Antioco, che si vuol fare frate. Bel frate! Ma poi...
— Poi? — interrogò la signora, corrugando esageratamente le sopracciglia.
— Poi è tornata a casa con l’autista qui di faccia, Adelmo, non so se lei lo conosce, quel rossone.
— Bene, bene. E il signor Francesco?
— Il sor Francesco non li ha veduti, perché sono smontati dietro la villa. Poi, a me che cosa me ne importa?
Si rabbuiò di nuovo; disse con rabbia:
— Io intanto ho perduto il borsellino: ci tenevo dentro trentasette lire: ma non è per il denaro che mi dispiace; è per il borsellino, che era un ricordo di mia madre. E dentro ci tenevo anche la medaglia con la Madonnina di Loreto, che preserva dai disastri delle automobili. Ma giuro che se lo vedo in mano a qualcuno, il mio borsellino, a questo qualcuno gli rompo la faccia.
— Abbiamo capito: te lo hanno rubato. Non hai sospetti?
Pierina aveva bene fondati sospetti; ma era troppo astuta, troppo legata di omertà coi suoi compagni di gite festive, per confessarsi alla sua padrona. E questa, a sua volta, sebbene avesse desiderio di interrogare la ragazza anche a proposito di quanto Elviruccia poteva sapere su Antioco, non parlò oltre: ma pensava con una certa irrisione anche verso sé stessa che prima di navigare verso la terra dei selvaggi e dei pagani, portandovi la luce della verità e le tavole delle leggi divine, c’era molto da fare ancora nelle civili metropoli fitte di cristiani battezzati e cresimati.
E ricominciò a dubitare circa la visita della signora Giulia, che poteva essere stata tutta una commedia. Ma lei non intendeva di essere burlata e derubata come Pierina; e la disavventura di questa la rendeva inquieta, prendeva proporzioni quasi grottesche. Eppure le pareva di essere tranquilla, nel suo letto morbido, in quella notte di domenica ancora marezzata di musiche lontane e dai canti della radio della villa del cedro. Si sentiva tranquilla, in fondo, sana, col corpo lieve e nitido, col collo nudo accarezzato dal tepore dei suoi capelli allentati: ma non poteva addormentarsi, come le altre notti, e, suo malgrado, le pareva di sentire ancora la voce meccanica della signora Giulia, e poi quella aspra di Pierina, col solo lapidario commento per l’affare del signorino Antioco.
«Bel frate! Sì, bel frate, che va a redimere le creature dei selvaggi, e lascia sperduto per il mondo il suo bambino idiota e sordomuto. E l’anima e l’onore di Agar Bellini, chi li riscatta? Ah, c’è Franco Franci, che fa anche lui, a modo suo, la professione di redentore del mondo». Franco, Franco! Era questo il pernio intorno al quale roteava, da ore e da giorni, la vera agitazione della sua anima. Tutto metteva capo a lui, tutto prendeva luce, ombra da lui: e il vero pericolo, la misteriosa paura che la inseguiva era il pensiero di lui.
«Ma sarei proprio ancora innamorata? E gelosa anche?», si domandò; e spalancò gli occhi, come per veder meglio entro sé stessa. E sentì, sì, che le passioni, le debolezze, l’istinto di vendicarsi, di far male, di uscire dai regolamenti che ella credeva di avere imposto a sé stessa come agli inquilini del suo stabile, erano anche dentro di lei e tentavano di sopraffarla.
«Ma perché? Ma perché?».
Perché, Noemi? Perché sei viva, e il sangue, come dicono i vecchi contadini, il sangue non è acqua.
Il suo stesso spirito di analisi, e quel vago senso d’irrisione per le sue fantasticherie, la rendevano però sicura di sé stessa.
Nessuno, del resto venne nei giorni seguenti a cercarla: la porta rimaneva muta e ferma, e in quella specie di calma grigia ella si sentì di nuovo afflosciare come una vela allentata. Il tempo, di fuori, s’era invece fatto tempestoso e, in certe ore, di una violenza quasi paurosa. Nuvole enormi salivano in cerchio, da tutte le parti dell’orizzonte, e il tuono e la grandine davano l’impressione di un bombardamento aereo sopra la città mortificata. Giorno e notte durava il temporale: anche a tener chiusi scurini e persiane, i serpenti iridati dei lampi penetravano nelle camere, e le cose ne sembravano morsicate. Inginocchiata in cucina, davanti alle fiammelle del gas, Pierina pregava, invocando, questa volta sul serio, l’anima della sua nonna: ma di fuori i diavoli parevano intenti a costruire una cupola mostruosa, coi blocchi delle nuvole nere e marrone, un mausoleo funebre, per seppellire la città e i suoi peccati.
Finalmente, una sera, sopraggiunse un improvviso silenzio: l’opera infernale sembrava finita: solo, di tanto in tanto, un timido rumore di pioggia risonava come un canto religioso. Ma poi il tempo continuò nelle sue stranezze; mentre i mesi precedenti erano stati d’uno splendore quasi monotono, adesso maggio e giugno pareva si fossero dato un appuntamento aggressivo nel campo al confine della primavera, dove giocavano una partita, anzi un duello, a chi meglio la vinceva in capricci e bizzarrie che imitavano quelle di marzo. Sole, vento, nuvole, acquazzoni, tuoni e squarci di cielo diamantino, sassate di grandine e poi ore di caldo estivo, o meglio di afa, con turbini di profumi di rose e canti di usignuoli che pareva annunziassero finalmente vittoria. Un giorno, al contrario, fu visto il cielo coprirsi di cenere, e il sole spegnersi come una lampada fulminata: piovve fango, e Pierina s’inginocchiò di nuovo, davanti al marmo dell’acquaio, come davanti ad un altare troppo a lungo profanato. Singhiozzava forte.
— È il finimondo; il finimondo: — e pensava di confessare alla padrona che anche quella mattina aveva rubato diciotto soldi sulla spesa.
Ma anche l’umore della padrona s’era fatto scuro: ella aveva persino rifiutato, quella mattina, di ricevere il signor Francesco, per le solite comunicazioni. Seduta accanto alla finestra nel salottino di vimini, guardava il cedro e il pino investiti dalla nebbia, e le pareva di trovarsi in un paese nordico, mai prima veduto, dove si stava a disagio, come in terra d’esilio. Il disagio e lo spostamento erano invece dentro di lei, ed ella lo sapeva benissimo. Perché aveva rifiutato di ricevere il fedele signor Francesco? Certo, per timore che egli toccasse definitivamente la questione del subaffitto dei signori Giovi, e le chiedesse l’autorizzazione di provvedere all’allontanamento del loro inquilino.
Ed ella, ed anche di questo sapeva il perché, avrebbe voluto tergiversare, un po’ sempre per superstizione del gobbo, un po’ perché si sentiva legata a quell’ultimo filo del suo dramma. Antioco rappresentava ancora una parte, in questo dramma, ed era umano ch’ella desiderasse conoscere, almeno per una volta, l’amico e nemico di Franco, e sapere da lui come le cose sarebbero andate a finire.
— Finirla, finirla? — In fondo il suo più vivo bisogno era di finirla; di ritornare al punto di prima, quando la sola compagnia del suo compagno silenzioso le bastava nella vita.
Dopo tutto, fra un mese, Antioco Lante avrebbe preso la laurea e se ne sarebbe andato. Le sembrava anche poco dignitoso e generoso disturbare i Giovi per così poco. E se no, se ne sarebbe andata lei, al mare, ai monti, alle acque, lasciando al signor Francesco l’incarico ingrato di far rispettare lui il regolamento della casa.
Tanto per scuotersi, andò, al solito, a cercare Pierina.
— E così, Pierina, andremo presto in campagna, quest’anno: appena il tempo si ristabilisce. Ti porterò con me, perché non mi va di andare all’albergo. Cucineremo in casa. Ho già veduto, lo scorso anno, dov’ero per le acque, una casetta bellissima, piccola, tutta in mezzo alle rose: per un sentiero, fra il grano e le ginestre, e poi per il bosco, si scende alla fonte. Quando non avrò voglia di andar giù, ti manderò a prendere l’acqua, nello stabilimento, e farò la cura in giardino, in santa pace. C’è anche, lì accanto, una chiesetta solitaria, dove chi entra non vorrebbe più uscirne.
Pierina, già mezzo nuda e sbuffante di caldo, si allungava come un baco da seta, spolverando i mobili più alti: non sembrava molto entusiasta dei progetti romantici della padrona, pure credendosi in dovere di dar gridi di gioia e riconoscenza. Avrebbe certo preferito star sola, come lo scorso anno, nell’appartamento; in lotta, sì, con la sorveglianza del signor Francesco, ma spesso anche padrona di scorrazzare su per le scale, dove passavano i garzoni con le provviste per gli inquilini, il materassaio galante, lo stagnaio con la sua cassetta inquietante e le mani più infuocate e svelte dei suoi strumenti; e sopra tutto gli operai del telefono, che quando erano, su in terrazza, sulle antenne simili ad alberi di cuccagna, ad aggiustare i fili guasti, e parlamentavano coi compagni rimasti giù nel cortile, sembravano a Pierina angeli mascherati da diavoli.
Ma la padrona era ferma nel suo proposito. Andare, fuggire, cambiare aria. E poi cominciava a far caldo sul serio, e certi giorni di scirocco, se pure portavano un odore di mare, costringevano a tenere le finestre chiuse, per il vento afoso e la polvere invadente.
Alla notte, poi, Noemi, sentiva un insolito senso di oppressione; le giunture le scricchiolavano; s’immaginava di essere malata, e certi sogni, — Agar, Franco, Antioco, il signor Francesco, e persino padre Leone e le suore del convento ne erano i deformi protagonisti, — le destavano paura. Per distrarsi, tentava di pensare al passato, al suo passato, a quello che apparteneva a lei sola: e certe nenie infantili le risalivano dal mistero della memoria, come il residuo di un profumo di una fiaba antica: nenie infantili, ma già tiepide di una vaga sensualità, nostalgiche e monodiche come i canti dei pastori adolescenti, vaganti dietro il gregge che pascola nella solitudine, privi di donne, di amici, di amore, di madre: gliele aveva cantate, cullandola orfana e straniera, in una terra ostile, la serva fedele: e le erano rimaste in fondo all’essere, come un elemento carnale, poiché ella le aveva ripetute mille e mille volte, durante i periodi inquieti del suo sviluppo di fanciulla, nelle dormiveglie, nei turbamenti della giovinezza, e le servivano ancora, a volte, come un calmante o una musica che addormenta.
E anche adesso finiva, ricantandole a sé stessa, col riaddormentarsi più tranquilla: allo svegliarsi, erano rinnovati propositi di vita serena; tornava a sorriderle la casetta fra i rosai e i campi di frumento, il sentiero del bosco, fra i castagni e le felci, che scendeva alla fonte salutare. Lo stesso fantasma immobile nella penombra della sala, pareva la incoraggiasse a muoversi.
«Va, Noemi, va: la vita è ancora bella, per te, anche se rinunzi alle illusioni dell’amore: tante altre cose ci sono, nella vita. Va, Noemi, va.
Andrà: ma lascia passare i giorni, lascia passare le notti, inerte, o trasportata solo dalla corrente del tempo: e le sembra, infatti, di essere avvolta da un velo di acqua e di aria, e di veder le cose come si vedono nelle fantasmagorie delle nuvole, o riflesse da un lago.
Ed ecco un’altra volta la dolce domenica dei quartieri nuovi di città, che invece di fredde basiliche hanno qualche chiesina dove i ritardatari alla messa devono star fuori e allungare la testa dall’arco della porta spalancata, come davanti alle chiese campestri nei giorni della festa annuale.
La signora Noemi non correva questo pericolo, perché sempre una delle prime ad arrivare: il suo posto è pronto, e il mazzo delle piccole vecchie, intorno a lei, coi fazzoletti puliti intorno alle teste tremule, le pare esali un buon odore di villaggio, di siepi di sambuco, di sentieri che conducono al paradiso. Immersa in mezzo a loro, come la coccinella tra i cespugli selvatici, provava un senso d’innocenza, di riposo: pensava alla chiesetta solitaria, su, fra i campi di grano e le ginestre che nascono dalla pietra, ed era certa che lassù, dove fra qualche giorno sarebbe salita con Pierina per sola compagnia, la sua anima avrebbe ritrovata la completa guarigione. Nessuno, tranne il signor Francesco, sapeva di questo suo progetto: e la incoraggiava, ne era soddisfatto; pensava anche lui che, con quella specie di piccola fuga della padrona e i pieni poteri affidati a lui, il regolamento dello stabile avrebbe ripreso a funzionare perfettamente. Aspettò quindi la signora di ritorno dalla messa, per pregarla di salire, se poteva, sulla terrazza, onde controllare, prima della partenza, alcune innovazioni da lui ultimamente eseguite.
Ed ella pensò di salirvi subito, col cappello ancora in testa per ripararsi dal sole. La scala era già pulita, l’ascensore, nella luce glauca che scendeva dall’alto, funzionava come una secchia di metallo in un pozzo profondo: si sentivano le donne sbattere i tappeti nelle loggie verso il cortile; e solo un grande uomo vestito di turchino, con un sacco sulle spalle, salutò, su un pianerottolo tutto porte luccicanti, con maniglie che sembravano d’oro, la signora Noemi: era il fattorino della nettezza urbana.
Ella si sentiva fiera del suo stabile, come la feudataria di un castello; tutto vi procedeva bene, fra il nuovo e l’antico, fra il meccanismo più recente e le primordiali leggi applicate da lei e dal signor Francesco: era contenta; e pensava al suo proposito di lasciare in eredità la sua casa ad un Ente morale, perché vi accogliesse famiglie decadute, ma famiglie per bene, con figli studenti, con madri stanche e vedove, e figlie vecchie che non avevano trovato amore, e bambini malaticci.
Fantasie melanconiche, di chi non ha eredi diretti: ed ella scosse la testa, pensando che forse era meglio lasciar fare a Dio.
Questa parola «Dio» fa sempre comodo, in tutte le circostanze della vita: è la parola d’ordine che fa passare l’anima attraverso ogni trincea, che invoca e trova immediatamente aiuto.
E fu anche la parola che ella pronunziò fra sé, quando dalla porta spalancata della terrazza, fra un barbaglio di verde, di azzurro, di altri colori liquidi e tremolanti, ma sopra tutto dei suoi occhi stupiti, vide Antioco e il gobbo, proteso, quest’ultimo, a guardare un grande vaso di terracotta che traboccava di un’onda azzurra di miosotis.
Antioco volgeva le spalle alla porta; era vestito di grigio, a testa nuda: i suoi capelli neri, pettinati all’indietro, avevano un riflesso iridato, come quello dei corvi giovani, e lasciavano scoperte le orecchie e la nuca pallide: teneva una mano in tasca; l’altra, mano bianca e curata di studioso, un po’ indietro sul fianco, con una sigaretta che si spegneva.
Noemi ricordò l’anello descritto da Franco, luccicante al fuoco della stamberga di Paolone, e guardò la tasca dove si affondava l’altra mano di Antioco: forse l’anello era lì; poi pensò che il futuro missionario non avrebbe dovuto fumare, a quell’ora: e fu per andarsene; ma il gobbo l’aveva già veduta, coi suoi occhiali che pareva gli permettessero, come alle cornacchie, di vedere dietro e intorno a lui: e sollevandosi tra le sue due prominenze, con una certa grottesca imponenza, salutò alla romana: poi si avanzò, franco e coraggioso e disse, con la sua voce virile:
— Perdoni, signora: eravamo saliti sull’altra terrazza, e il vedere aperta la porta del suo giardino ci ha destato l’invincibile tentazione di visitare le meraviglie di questo paradiso pensile. Mi permetta di presentarle mio nipote, Antioco Lante.
Turbata, sorpresa, sdegnata era la signora Noemi; sdegnata specialmente contro il signor Francesco, che aveva lasciata aperta la terrazza; ma anche un filo di irrisione si intrecciava a questo sdegno, pensando che stava per accadere appunto quello che il signor Francesco cercava in tutti i modi di evitare: l’incontro di lei con l’amico di Franco.
— Perdoni, — ripeteva il gobbo, — siamo qui, sì: ma, s’intende, vedere e non toccare.
Noemi non l’ascolta: tutta la sua attenzione è attirata dall’altro, che aveva buttato via quasi di nascosto la sigaretta e si piegava con rigido rispetto. Nell’altra mano, tirata subito fuori dalla tasca, l’anello non c’è: e Noemi, non sa per quale mistero, ne prova sollievo.
— Piacere.
Ella tende la sua, verso quella mano nuda, fresca e snodata, che le dà l’impressione della mano di un fanciullo; e i suoi occhi s’incontrano meglio, con quelli che già cercavano con insistenza: ed ecco, d’un colpo, torna l’allucinazione: il Commissario, gli occhi castanei, dolci, quasi languidi come quelli di un uomo che bacia con desiderio inappagabile la bocca di una donna amata; sì, ricordo di un uomo che non è il Commissario, non è Antioco: e che ella tuttavia ha ben conosciuto, in un luogo, in una lontananza indefinita, eppure reali, certi, ancora profondamente vivi entro di lei. Poiché quel viso, quei capelli, quella bocca, sopra tutto quegli occhi tutto amore, sono quelli del suo Giacomo, quando l’ha baciata la prima volta.
— Si accomodino, — disse, accennando le due panchine di marmo, una di fronte all’altra, in mezzo alla terrazza. I due uomini sedettero, il gobbo tirandosi bene i pantaloni sulle ginocchia puntute, l’altro, che già si era ripreso e si dominava freddamente, composto, e con le mani una sull’altra, guardandosi intorno per la terrazza e via per il panorama che si stendeva fino alle ondulazioni azzurre dei monti. Pareva, più che altro, attirato da questo scenario limpido e luminoso, con un’aria volutamente compiaciuta nel viso liscio, sbarbato di fresco, nella bocca piccola, triste e casta.
La signora Noemi notava che, mentre il cavalier Giovi vestiva più che mai inappuntabilmente da mattina, con eleganza addosso a lui alquanto pagliaccesca, il vestito di Antioco presentiva qualche piega, qualche sfumatura di trascuratezza e quasi di povertà: rivelava un non so che di stanco, di vinto.
Il gobbo non finiva di fare inchini, gesti, di ringraziamento e di scusa: e, meglio ancora, cercava di iniziare una conversazione amabile e cordiale che mettesse in buoni rapporti la signora Noemi e il signor Antioco.
— Di nuovo le chiedo mille scuse, e la ringrazio per la sua gentilezza. La mia passione per i fiori mi ha fatto compiere questo reato di violazione di domicilio: ma lei non può sapere a qual punto arrivi questa mia passione: mi fermo a lungo davanti alle vetrine dei fiorai, in modo che le guardie mi tengono d’occhio: e quando posso portare a casa un mazzo di rose mi pare di aver vinto una lotteria. E qui, donna Noemi, glielo dico senza complimenti, è proprio una meraviglia. Perché a me i fiori piace sopra tutto vederli sulla pianta, vivi, palpitanti, felici. Vede; questa rosa gialla, unica sulla sua esile piantina delicata, è una delle specie più rare e più resistenti: vive anche un mese intero, resiste a tutte le intemperie: è la rosa «Kàllista», che vuole dire bellissima, già conosciuta fin dal tempo dei romani.
— Sì, è bella, — ammette la signora Noemi ma anche i suoi occhi distratti, più che la rosa d’oro, guardano lontano. Ella pensa alle vicende dell’uomo grigio sedutole davanti, e alle capricciose vicende della vita. Ricorda le parole di Franco, su certe inverosimili coincidenze della sorte, che sembrano giochi infantili o d’azzardo e Antioco, dunque, per caso e per predisposizione di un calcolo interessato, è dunque lì, davanti a lei, e i suoi occhi rassomigliano a quelli dell’uomo del suo primo amore. Davanti a queste battute straordinarie della vita non si può più sorridere e neppure far commenti: si devono ascoltare con un senso quasi religioso, e aspettare che il loro mistero si risolva da sé.
Quasi avvolto dalle stesse considerazioni, Antioco si era fatto pensieroso: ma poi si riscosse e parlò, senza badare alle chiacchiere del gobbo.
La sua voce aveva un lieve accento toscano, che se giovava alla sua evidente personalità d’intellettuale, distruggeva agli occhi della signora Noemi, la fantastica rassomiglianza, da lei intraveduta, fra lui e gli altri due personaggi della sua vita.
Egli parlava: diceva che aveva l’impressione, in quel momento, di trovarsi in aereoplano: domandava alla signora se c’era mai stata, se non le sarebbe piaciuto di fare, quel giorno stesso, con quell’atmosfera idealmente favorevole, un bel viaggetto, fino al mare.
— Per oggi sono stata a messa, e mi basta, – ella risponde con la sua voce bassa, anzi lievemente rauca. E il gobbo riflette:
— È anche questo un modo di viaggiare in alto: tanto più che donna Noemi è sinceramente religiosa.
Ahi, ahi, si scivola in un argomento che può essere pericoloso: infatti Antioco si fa di nuovo serio, e Noemi s’irrigidisce di più: è meglio parlare della terrazza, lo capisce anche il cavalier Adone.
— Peccato che lei non venga tutti i giorni a godersi questo incanto: io, per me, ci starei anche alla notte: ci metterei un’uccelliera, con gli uccelli più rari: piccoli pappagalli, vedovelle d’America, usignoli nostrani. O almeno qualche coppia di cornacchie, di quelle piccole, nere, tanto intelligenti. E tartarughe, rospetti; anche una scimmietta non ci starebbe male. Non ama le bestie graziose, signora Noemi!
— Mah! Mi ci affeziono troppo. Avevo un gattino, a casa mia, quando mi sono sposata bellissimo, intelligente: volevo portarlo via, ma non fu possibile. Poi scrissero che per tre giorni mi cercò: non mangiava più, non dormiva: morì di dolore. Ed io ne ho sofferto in modo da non voler più animali in casa mia.
Antioco si era tutto animato: vivi e acuti i suoi occhi guardavano adesso il viso della signora Noemi, la sua mano scompigliò, senza ch’egli paresse accorgersene, l’onda composta dei suoi capelli. Disse, quasi con impeto:
— Un fatto simile, ma più straordinario e tragico, è accaduto di recente anche a me. C’era nella mia casa un bambino, figlio di una donna di servizio: era una specie di animaletto anche quello, perché idiota e sordomuto. Eppure si era affezionato a me, e mi seguiva come un cagnolino. Di umano non aveva che gli occhi, ma senza sorriso; solo, a volte, festevoli appunto come quelli di un cane.
— Come quelli del signor Francesco, — tentò di scherzare il gobbo: le sue parole si spensero nel vuoto; un vuoto che si era formato fra Noemi e Antioco e li avvolgeva come se loro due soli esistessero nello spazio.
— Sì, era il figlio di una donna che custodisce una mia casetta di campagna. La madre non lo lasciava avvicinare a nessuno, all’infuori di me. E adesso ella mi scrive che, andato via io, il bambino s’è immelanconito: mi cercava, mi aspettava: non ha più voluto mangiare, non ha più aperto gli occhi: è morto giorni or sono.
— Ah, è morto, — disse la signora Noemi: e provò di nuovo un senso di sollievo, ma di cattivo sollievo; tanto che abbassò gli occhi, poiché le parve che Antioco vedesse i suoi pensieri, come, del resto, ella indovinava quelli di lui. Ma che importa? Anche non più pronunziando una parola, entrambi s’intenderebbero egualmente, così, senza uno scopo preciso, come due compagni di viaggio che, per passare il tempo, si sono raccontate le loro vicende e adesso ciascuno riprende a pensare per conto suo: ma la presenza del gobbo li richiamò al dovere di continuare la conversazione. Domandò Noemi, con una certa curiosità:
— Ma lei, scusi, voleva bene al bambino? Perché il segreto dell’attaccamento di un essere debole e inferiore è quello di sentirsi corrisposto e protetto.
— Che vuole le dica? No, io non volevo bene al bambino: non sono un sentimentale impulsivo forse sì, ma non sentimentale. Ragiono troppo; e se riesco a fare del bene lo faccio con mia piena volontà. Certo, sentivo un certo interesse per il bambino, ma non di più: anzi, spesso mi dava fastidio e quasi repugnanza. Mi piacciono gli animali, e tutte le cose inanimate in genere, ma se sono belli e intelligenti, o capaci di diventarlo: e belli anche se non sono intelligenti; come certi pesci, per esempio, che solo a guardarli dànno l’impressione di opere d’arte. Ora, il bambino era irrimediabilmente idiota, e di una bruttezza deforme: non potevo, Dio mi perdoni, che augurargli di morire presto, come infatti è morto. Eppure, sono certo, egli s’è accorato e spento per la mancanza della mia presenza.
— Misteri, — disse il gobbo: e con questa parola credette di aver spiegato tutto. Ma Noemi pensava:
«Il mistero era nel sangue del disgraziato bambino: egli sentiva di essere tuo figlio e che tu lo avevi abbandonato alla sua sorte: sia pace a lui e a noi».
E sollevò gli occhi, ritornati limpidi, pieni di verde, di azzurro, di oro: le pareva, sì, di viaggiare in aereoplano, sempre più in alto, in una atmosfera che dava un senso di ebbrezza buona: poteva guardare negli occhi il suo compagno di viaggio; anzi gli domanda cordialmente:
— Lei è toscano?
— Veramente no: sarei, se ci fossi nato, mentre ci è nato mio padre, di un paesetto al confine fra la Romagna e la Toscana, dove gli abitanti parlano, in dialetto il romagnolo, in lingua il toscano, sebbene alquanto corrotto.
Allora, quasi spinta da un bisogno superiore alla volontà, ella disse:
— So dov’è. C’è anzi, adesso, un mio conoscente; forse lei lo avrà incontrato: l’ingegnere Franco Franci.
— Oh, sì, — egli ribatté, perfettamente calmo e sicuro; — siamo quasi amici, o almeno abbiamo avuto buoni rapporti, anche per certi suoi affari. Poiché io, signora, ho avuto l’onore, fino a qualche settimana fa, di funzionare da podestà del mio paesello d’origine: e l’ottimo ingegnere Franci è lassù, a caccia di mosche.
Risero Noemi ed Antioco: pareva si beffassero d’intesa, di gusto, ma anche bonariamente, del comune amico. Il cavalier Adone, che era, per un caso straordinario, all’oscuro di tutto, si incuriosì e domandò spiegazioni. E Antioco, guardando la signora, come per chiederne l’approvazione, raccontò con calma:
— Quest’ingegnere Franci ha fatto ultimamente una curiosissima eredità: ha cioè ereditato più di un milione, dalla giovane moglie, con l’obbligo di costruire, con la somma non spettante a lui per legittima, qualche opera di pubblica utilità, nel nostro paesello, che è pure stato il luogo natìo della povera signora. Egli ha quindi dapprima tentato di costruire un argine, per un tratto della fiumana indiavolata che passa davanti al paese ed è la rovina dei nostri contadini, ma il Ministero ha respinto il progetto: adesso il Franci pare voglia restaurare la chiesa, veramente opera d’arte, ma ridotta quasi ad un rudero. La sua fissazione è però sempre l’argine, anche perché questo, a quanto si dice, era il desiderio della moglie.
— Un momento, — disse il gobbo, preso subito d’interessamento e di viva curiosità: — ma il testamento è poi valido?
— Non so dirglielo: certo, però, nessuno lo ostacola.
— Non aveva altri eredi, la signora?
— Sì, c’è la famiglia: i nonni, i genitori; ma sono molto ricchi, e non vogliono contrariare la volontà della povera morta.
— Non basta: la legge, ed io me ne intendo, perché molte pratiche del genere sono passate fra le mie mani, la legge dice precisamente questo: il testamento di una donna maritata è valido, sì, ma ove ella lasci altri eredi legittimi, ascendenti o discendenti, al coniuge superstite spetta solo un terzo dell’eredità in usufrutto. Questo diritto non può essere leso da alcuna disposizione testamentaria. Occorre, inoltre, che un testamento sia fatto in favore di persona certa, e giuridicamente rientrano in questa categoria anche gli enti morali; e perciò la formula vaga: «costruzioni di pubblica utilità» porterebbe alla nullità del testamento in discorso. Ora, l’ingegnere di cui noi parliamo non può, senza il concordato con un ente pubblico...
— Oh, cavalier Adone, — intervenne Noemi, — non mi faccia venire il mal di testa: già con questo sole che comincia a scottare...
— Scusi; è vero: l’abbiamo anche troppo disturbata; ma la colpa è sua, perché lei, mi permetta di dirglielo, spande intorno a sé un fluido che incanta.
— Come la musica degli incantatori di serpenti.
Era Antioco, che rincalzava: per ridere, s’intende; e d’improvviso tutti si fecero allegri.
— Sta a vedere che adesso il cavaliere si mette a farle la corte; — continuò Antioco: — lo dirò alla zia.
— È giusto, a proposito: la sposa mi aspetta per andare alla messa: vede, dunque, donna Noemi, lei fa mancare persino ai doveri religiosi.
Ella guardò il suo orologio da polso, ed ebbe voglia di dire:
— Vada pure, cavaliere. — Ma allora sarebbe andato via anche l’altro, ed ella aveva bisogno di sentirlo ancora parlare, di sapere da lui qualche cosa che rasentasse la verità, e la mettesse completamente in pace con la coscienza. Con questa scusa, almeno, ella spiegava la sua curiosità. Disse, con voce incerta:
— È presto ancora: restino un altro poco.
— Io resterei qui tutta la vita, — disse con slancio il gobbo. — Quest’aria mi rende come ebbro di felicità. E più che in aereoplano, dove si soffre il mal di mare, qui pare di essere nei famosi giardini pensili di Babilonia. Da essi, come da questo luogo delizioso, si vedevano i palazzi di marmo, i portici, le piazze, i campi sportivi.
— Questo, però, no, certo, — disse Antioco, sollevando il viso. Passava un piccolo aereoplano azzurro e lucido come un pesce spada: guardò in su anche Noemi, e la sua gola bianca, tesa e vibrante, attirò l’attenzione del gobbo.
«Come è ancora ben conservata, la nostra buona padrona; — pensò: si direbbe una vergine».
Dopo tanti anni, ella infatti provava una freschezza, una levità aerea, quasi un senso di volo, di donna giovane, di fanciulla che ancora non conosce le brutalità della vita: e pensava che, dopo tutto, era una creatura fortunata, protetta da Dio. Che cosa le mancava? Nulla; e forse bastava un solo sguardo per ricominciare una vita ancora più piena e completa: e forse era Dio che le mandava incontro un altro compagno, e, coi fiori e i profumi, riempiva d’un tratto di nuove speranze la terrazza solitaria.
Di Antioco ricordava, oltre al torbido ritratto fattole da Franco, la difesa dell’ingegnere del Genio Civile, e quella stessa di Agar; e d’un tratto gli appariva come un fanciullo smarrito, senza madre, senza amici; lo stesso che errava intorno al convento e per ribellione alla sua sorte di adolescente disprezzato, e segnato da una vergogna non sua, sollevava gli occhi fino alla fanciulla nobile e ricca. Bastava prenderlo per mano, ricondurlo nella strada maestra della vita, per farne un valoroso. Ma ricordò subito che lo stesso sogno lo aveva fatto per l’altro: e le cose erano andate a finire in quel modo. Un crudele bisogno di disilludersi la spinse a guardare con occhi duri, il giovane e il suo compagno: sì, anche il compagno, che, certo, era animato dai suoi piccoli calcoli, a proposito di lei e delle sue decisioni. Domandò:
— Mi dica, signor Lante; crede lei proprio che l’ingegnere Franci riesca a restaurare la chiesa?
Egli spalancò gli occhi; li richiuse: era come se una porta si fosse d’improvviso spalancata davanti a lui, rivelandogli un interno eguale a tanti altri, che egli invece aveva immaginato di cose straordinarie e quasi misteriose.
— Se vuole, certo; i denari non gli mancano. È però un po’ confusionario, romantico e debole; si lascia facilmente rimorchiare dalla fantasia, e dal calcolo degli altri, il che è peggio, per mancanza di volontà propria. Io, per esempio, nella questione dell’argine, mi sarei piantato nell’anticamera del Ministero, e l’avrei spuntata. Non che sia un’opera eccessivamente necessaria per il paese: abbiamo vissuto tanti secoli con la fiumana, e potremo viverci ancora; ma si tratta di una volontà, sia pure anch’essa sentimentale, di una persona cara, e si doveva compiere.
— Si può ancora compiere, — disse Noemi; e l’altro ne provò dispetto. A sua volta continuò a demolire il ricordo del Franci come doveva esistere nel cuore della donna.
— Sarà difficile; credo di conoscere abbastanza l’ingegnere Franci: ho l’impressione che egli si crei un’esistenza fittizia, che si creda vittima di una fatalità inesistente, di una persecuzione del destino. E si piega, si abbandona, non reagisce. Le ripeto, è un romantico. La moglie si è uccisa, forse lei lo sa, un anno appena dopo che si erano sposati. Egli crede di essere stato la causa del suicidio; e, bisogna ammetterlo, forse non ha davvero, appunto per il suo carattere incerto, aiutato l’infelice signora a superare la sua crisi disperata: ma il male, in lei, era congenito; ella apparteneva ad una famiglia di anormali: la madre amorale, leggera e incosciente, il padre malato di tabe dorsale; anche lei, la disgraziata, di natura romantica, allevata ed educata in convento nervosa e piena d’illusioni. Si sarebbe uccisa lo stesso, anno prima o anno dopo, senza lasciare rimpianti.
Oh, verità, o almeno realtà, più di così, che vuoi, Noemi? Le tue ultime ombre dovrebbero sparire, la tua coscienza ritornare limpida come l’aria che ti circonda. Eppure ella non era soddisfatta: desiderava qualche altra spiegazione, se non rivelazione: quella, per esempio, dell’intimo, del vero pensiero dell’uomo che le sta di fronte. Perché? per curiosità umana, per istinto di dargli, se può qualche aiuto. Lo stesso istinto che la spingeva a lavorare per i bambini poveri: il desiderio di fargli, cristianamente, un po’ di bene? O sogno di farsi amare, di poter ancora una volta, prima che il calore della giovinezza svanisca, poter ancora una volta amare? O per vendicarsi dell’altro, che, oramai, era perduto per lei. Ella non sapeva; non cercava di sapere. Il fatto è che la presenza di lui, in quell’ora, in quel luogo, forse lo stesso influsso del desiderio di lui, di piacerle, di conquistarla, eccitavano la sua femminilità; l’eterno inganno li avvolgeva, col sole, con l’odore dei fiori, col ritmo della vita circostante.
Con diversa voce, con nascosta trepidazione, ella d’un tratto s’interessò a lui, come se davvero non lo conoscesse.
— Lei studia? — domandò.
Ed egli sorrise, ma come di un sorriso ch’era tutto per lui solo, e se aveva una lieve piega di sfiducia ed anche di derisione, era tutto per sé stesso.
Tuttavia Noemi ne fu quasi offesa: ella ricordava la lettera nella quale Franco le aveva raccontato la conversazione fra lui e il suo ospite, nella villa del poggio, e i modi quasi sdegnosi di Antioco nel parlare dei suoi studi: non insisté, ma guardò fissa la bocca di lui, come per rispondere severa a quel sorriso sprezzante.
— Dopo tutto sono io la più forte, – significava il suo sguardo; – e se ti interrogo è per un esame ben più vitale di quello dei professori nell’aula delle lauree.
E Antioco intreccia le mani sul petto, e guarda lontano, verso il campo del tennis, dove si vedono come danzare le figure bianche e rosse dei giocatori.
— Sì, — dice, docile e compiacente; – fra poco prenderò la laurea in belle lettere. Quella in filosofia ce l’ho già. La mia tesi è su Pietro Aretino e il suo tempo.
E senza altre insistenze, anzi con una certa interessata sorpresa del gobbo, continuò a parlare.
— Sembrò un forte, Pietro Aretino; invece fu un debole, poiché si dové difendere e fare strada, nel magnifico secolo dei principi e dei cardinali, soltanto con la lingua. Rispetto agli altri coltissimi umanisti del ’500, fu un ignorante; ma di talento così acuto che una notizia gettata là con ardore e con sicurezza dava l’aspetto di una cultura fine e delicata. Aveva, del resto, ben ragione, Pietro, di difendersi a quel modo.
Nato in Arezzo, da Antonio Bacci e, pare, da una cortigiana, fu lasciato solo nel mondo. Dopo varie vicende entrò nelle lettere, e, temendo principi e alti prelati certe sue coraggiose e sfacciate satire, fu tenuto a bada, con denari e favori. Di queste benevolenze ne approfittò in modo che per un suo insulto si buscò una coltellata da un sicario di Strozzi. I tempi, d’altra parte, permettevano la lingua dell’Aretino e i sicari dei patrizi. Dopo una vita piena di vituperi e di ricatti letterari, egli se ne andò nella libera Venezia; quasi ricco e tutto uomo di lettere. Piacevoli i suoi ricatti ai ricchi; ma fu generoso con i poveri. E forse, per queste sue azioni di pietà, si possono giustificare i suoi scritti sulla vita di Cristo, di altri santi; e sopra tutto una parafrasi sui Salmi. Certamente i suoi scritti sacri sono d’esaltazione artistica, invece che di fede; e perciò hanno il loro valore caratteristico. Il resto della vita di questo brigante della letteratura è pieno di avventure e di spirito. Ne fanno fede soltanto i titoli delle sue opere, – chiamiamole così, – temporali: Capitoli, Le lettere, Dialoghi, Ragionamenti; e ancora più quelli delle commedie: La cortigiana, Il marescalco, L’ipocrito, Il filosofo, La Talanta. V’è una tragedia bene composta L’Orazia; non si contano le poesie oscene. Morì in un banchetto scoppiato dal ridere – secondo cronaca, – nell’udire che una sua sorella s’era fatta cortigiana. Curioso destino: nato e morto per cortigiane. Sepolto, vi fu l’epigramma:
Qui giace l’Aretin, poeta tosco;
Di tutti disse mal fuor che di Cristo,
Scusandosi col dir: Non lo conosco.
Antioco aveva parlato con voce eguale, monotona, come recitando una lezione a memoria i suoi occhi fissavano sempre il campo del tennis, dove, sul fondo rosso dei recinti battuti, si moltiplicavano e si muovevano come in sale da ballo, agili figure di efebi in maglia e pantaloni candidi e fanciulle vestite di vivaci colori: predominava il rosso; le racchette brillavano al sole come palette d’argento, e le rondini, da un albero all’altro intorno al campo parevano imitare il gioco dei giovani sportivi.
Disse Noemi, per ringraziare Antioco:
— È molto interessante.
— Come conferenza, è stata però troppo breve: ad ogni modo, grazie, — rincalzò il gobbo; ma la sua voce era quasi commossa. L’altro piegò alquanto la testa, sciolse le mani e le sollevò, con le dita aperte, per ringraziare a sua volta dell’attenzione che gli avevano prestata: e Noemi non sapeva se egli lo facesse convinto, o per ironia: ad ogni modo era lusingata per la compiacenza di lui, tanto più che le sembrava aver Antioco parlato del suo personaggio come un attore che studia la sua parte. No, ella non si occupava né s’intendeva molto di letteratura; ma pensava:
«Ecco quello che egli forse vorrebbe essere. Anche sua madre...».
Poi ebbe paura dei suoi pensieri, e di nuovo si domandò se Antioco le piaceva, se poteva penetrare, nella sua vita, se si sarebbero incontrati ancora.
Le piaceva, sì: era intelligente, aveva oltre alla rassomiglianza fisica, qualche vago punto di rispondenza, col morto: ma anche questa impressione le parve cattiva, quasi velenosa, e cercò di riscuotersi.
Ebbe voglia di dire, per reazione:
— Ma questa non è una tesi adatta per uno che vuol andare a far scuola ai selvaggi; — e godersi la sorpresa e lo sdegno di Antioco e dello stesso gobbo: era troppo educata e timida per farlo; però domandò, fingendo una curiosità piena d’interesse:
— E che farà, dopo la laurea?
— Che vuole che faccia? Probabilmente un concorso: avrò una supplenza, andrò ad insegnare in un ginnasio inferiore, in una cittadina sperduta fra i monti o in un’isola, dove, per confortarmi, ci sarà almeno del buon vino.
— E belle donne, — sbofonchia il gobbo, fregandosi le mani, tutto lieto che Antioco non accenni a quei melanconici progetti di apostolo.
— Può anche darsi.
— E ne troverà una, ricca e ben nata, che farà per il caso suo.
— E può anche darsi.
— Nelle vacanze verranno a Roma, o andranno al suo paese?
Ma che fa, la signora Noemi? Vuol pigliarsi gioco di lui? E lui ci sta: la fissa, la sfida:
— Oh, per questo ce ne sarebbero anche al mio paese, di queste donne.
Noemi vorrebbe ribattere:
— La nipote del parroco? — ma, ancora una volta, ha paura: sopra tutto paura di sé stessa, o meglio di quanto le succede dentro: come uno che teme di avere il germe di una malattia.
Il gobbo è però lì, mezzo salvatore.
— Ce n’è qualcuna in vista?
— Sì, ci sarebbe la figlia del Re del tabacco molto ricca, bruttina e ignorante; la sposerei, sì, volentieri, per comprarmi una bella biblioteca.
— Null’altro?
— Non gliel’ho già detto? Un paesetto salubre, buon vino, libri: non c’è altra gioia, nel mondo.
— E l’amore?
— L’amore si prova una sola volta, nella vita: il primo amore: il resto non è che il riflesso del sole nell’acqua.
— È vero: è proprio vero; — disse Noemi, senza alzare la voce: e guardò di nuovo l’orologio.
— Oh, cavaliere; è l’ora della sua messa. La sposa lo aspetta.
I due uomini balzarono in piedi: anche lei si alzò, si aggiustò il cappello, si trovò così vicina ad Antioco che ne sentì l’odore della pelle: profumo di sapone e di tabacco, di capelli e di alito caldo. Un’ultima vampa di sensualità la sfiorò; cadde; e quando tese la mano al gobbo, le parve di sentire anche l’odore intimo di lui, sebbene fasciato da un profumo umido di acqua di Colonia; ed era quello del gobbo, un sentore di animale, di vecchio ariete: odore ch’ella sentiva, nel suo salottino, a certi suoi inquilini quando venivano col deliberato proposito di imbrogliarla o almeno defraudarla.
— No, gobbo, tu non mi ingannerai, — pensa, mentre egli le tiene la mano e gliela accarezza quasi vellicandola; mentre con l’altra mano ella sfiora l’onda azzurra dei miosotis.
Dice il gobbo sollevandosi più che può come per misurarsi con lei:
— Dunque, donna Noemi, presto faremo questo viaggio per aria: per oggi rallegriamoci di quello che la sua gentilezza ci ha permesso di fare qui. Grazie, e tanti auguri.
Ella non gli risponde; ma si rivolge rapida ad Antioco e, con la sua voce bassa, quasi dura, gli dice:
— Gli auguri a lei.
Egli s’inchina; fa il saluto romano: poi mentre se ne vanno, cammina sull’ombra del gobbo, e pare voglia calpestarla.
La signora Noemi sta ancora un momento ferma ad accarezzare i miosotis felici senza più vederli: quando il passo dei due uomini non si sente più, lascia la terrazza, chiude la porticina e rientrata in casa, manda giù la chiave al portiere avvertendo Pierina di non dirgli nulla.
Mortificato rimase il portiere; ma la voce che la padrona aveva ricevuto e trattenuto a lungo in terrazza i due uomini valeva a ritorcere il suo sdegno contro di lei. Ella avrebbe dovuto dare una lezione al gobbo, e, indirettamente, al signorino Antioco; invece era stata gentile; e la prima, dunque, a trasgredire i regolamenti dello stabile, era precisamente lei. Adesso, poiché Pierina, non ostante i suoi eroici propositi, è di nuovo uscita in buona e rinnovata compagnia, egli va a suonare alla porta della padrona: una, due, tre volte: è il segno convenzionale di quando suona lui ed ha qualche cosa d’importante da comunicarle.
— Oh, signor Francesco, che c’è?
Egli aveva, sì, come sempre, il suo sguardo attento e vigile di cane fedele; ma le labbra scure arricciate erano quelle di uno che ha bevuto un cattivo liquido. Con la mano alzata al saluto:
— Due sole parole, — risponde.
La signora Noemi sa già quali sono le due parole; pensa che forse questa è l’ultima scena del suo oramai troppo lungo dramma, e vuole interessarsene, più come spettatrice che come attrice. Poiché il signor Francesco, ella sa anche questo, reciterà a vuoto: ma ella si divertirà per la gelosia di lui, i suoi valorosi propositi, la sua sicurezza di essere anche lui un argine contro i pericoli dei deboli.
— Si accomodi, signor Francesco.
Egli si pulì bene i piedi, prima di entrare; si guardò bene di non sfiorare, neppure con la punta di un dito, la persona e le sacre cose che appartenevano alla sua padrona; cose che, nel salottino giapponese, inondato dalla luminosità quasi marina del pomeriggio calante, assunsero come un aspetto fragile e timoroso alla presenza erculea e risoluta di lui. Ripete la signora, prendendo il suo solito posto come alla prua d’una barca:
— Si accomodi.
Egli se ne guarda bene: se piegasse la sua persona su una di quelle sedie aeree, la barca si capovolgerebbe: alto, lineare, rispettoso, ma energico, dice lentamente:
— È venuta giù da me, poco fa, la signorina Billi, la maestra di pianoforte, lei la conosce brava vecchia ragazza, della quale tutti trovano da dire bene. È lei che mantiene la famiglia, il padre paralitico, il fratello che studia. Dice ebbene, signor Francesco, i tempi sono duri; le lezioni diminuiscono, la gente non paga. Perché, signor Francesco, non intercede presso la buona signora Davila perché mi lasci subaffittare una camera? Avrei un’ottima signora straniera, anziana, tranquilla, puntuale.
— Niente, niente, — interruppe la signora Nomi, agitando la mano quasi con violenza anche lei si era fatta arcigna, dimenticando i suoi propositi di svago. Un istintivo timore che anche il signor Francesco, per reconditi suoi fini, volesse violare il regolamento, la richiamava alla vigilanza, alla tragica serietà quotidiana.
Ma anche lui recitava la commedia, e intendeva farlo con impegno, per la comune dignità.
— È quello che ho risposto subito anche io. Allora la signorina Billi, disperata, ma senza la minima intenzione di male, poiché è una santa ragazza, congiunse le mani e disse: eppure il regolamento è già stato rotto; tutti nel palazzo sanno che il cavalier Giovi affitta una camera.
— Invano, — proseguì il portiere, guardandosi le grosse mani che aveva congiunto per imitare il gesto della maestra di pianoforte, — tentai di assicurarla che il signor Antioco Lante è nipote e ospite della signora Giovi: ella scuoteva la testa e assicurava a sua volta che tutti sanno il contrario. Allora io m’impuntai, e le dissi che nessuno può insegnare alla mia signora l’osservazione rigida del regolamento. Ella si fece quasi cattiva; e, con malizia, mi disse: già la signora è amica dei Giovi e del signor Lante: questa mattina stavano tutti assieme su nella terrazza.
Noemi arrossì, di stizza: volle protestare, anche contro il sor Francesco, che ripeteva con una mal nascosta soddisfazione, le insinuazioni dell’inquilina; ma si frenò, anzi alzò le spalle con indifferenza e anche lei si guardò le mani posate sullo scrittoio.
L’altro rimase alquanto incerto; poi riprese:
— Dissi alla signorina Billi che la mia signora è padronissima di fare quello che le pare e piace e di ricevere le persone che meglio le aggrada; e la pregai di andarsene. Ella se ne andò: ma so che ha chiacchierato con altre signore, e c’è un certo fermento. Mio dovere è quello di informarla, e chiederle che cosa bisogna fare.
Ella sollevò la testa e lo guardò fisso in viso: ma non si scompose, né la sua voce mutò.
— Senta, non è il caso di fare questioni. Fra due o tre settimane al massimo, il signor Lante che è forse l’unico a ignorare questo famoso regolamento, lascerà certamente la casa e non ci rimetterà più piede. Non vale la pena di farci vedere maleducati con lui, e inimicarsi i Giovi.
Il sor Francesco non sembrava convinto: fece anche lui un tentativo per alzare la muraglia delle sue spalle, ma subito le sue sopracciglia, che conservavano come una rimembranza dei rossi irsuti cespugli alpini, si corrugarono nervosamente. Egli vedeva il pericolo; vedeva la terrazza, della quale la signora Noemi possedeva una chiave, la terrazza aperta ai soavi aliti delle sere già estive, complice e mezzana di altri incontri fra la signora Noemi e il signor Lante. Ella intese: di nuovo un calore di dispetto le fece dimenticare i suoi primi propositi di svago. Dopo tutto, che importava al portiere s’ella aveva questa o quella relazione? Era libera, padrona davvero di sé e delle sue azioni. Ed anche Antioco non era, come l’altro, staccato da lei dai legami infrangibili. Ma d’un colpo sentì come una mano batterle le spalle, ed ebbe quasi voglia di guardarsi indietro: e come un giorno aveva veduto il fantasma di Pia Decobra attraversare il salottino, adesso la figura di Agar le si chinò sopra, quasi minacciosa. Disse, con la sua voce bassa, monotona:
— Senta, signor Francesco; ad ogni modo faccia lei, appena, fra due o tre giorni, io sarò partita.