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veva essere la beatitudine della suora che aveva aggiustato l’altare, che aveva ricevuto l’Ostia, e adesso forse coltivava le rose nel giardinetto della chiesa, pensando al suo Sposo Divino.

Ma nel continuare la sua solita ispezione, arrivata nel salottino in fondo, ella sentì d’improvviso un senso di paura.

«Sono troppo contenta, troppo sicura di me. E questo è superbia, egoismo, peccato: mi accadrà di nuovo qualche cosa, come quella mattina».

Tutto intorno era fermo ancora, come quella mattina: la meravigliosa tinta verde del cedro e del pino riempiva coi suoi ricami scintillanti il vano della finestra: e un usignuolo pazzo di gioia vi cantava in mezzo: rumori vaghi, i rumori velati delle mattine di festa, quando i lavoratori stanchi si prendono il lusso di dormire fino a mezzogiorno, e l’aria, libera dei gridi del giornalaio e dello stridore dei veicoli, pare si goda anch’essa il suo respiro di riposo, arrivavano di lontano, furtivi, come di contrabbando.

Ed ecco che quest’impressione le ricorda il sor Francesco, che vigila nella sua guardiola come nel casotto in cima a un’alpe; e di nuovo si rinfranca. Di che cosa doveva aver paura? Basta chiudersi bene in casa col catenaccio, non aprire, non ricevere nessuno. E, oltre al sor Francesco,