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vedono come danzare le figure bianche e rosse dei giocatori.

— Sì, — dice, docile e compiacente; – fra poco prenderò la laurea in belle lettere. Quella in filosofia ce l’ho già. La mia tesi è su Pietro Aretino e il suo tempo.

E senza altre insistenze, anzi con una certa interessata sorpresa del gobbo, continuò a parlare.

— Sembrò un forte, Pietro Aretino; invece fu un debole, poiché si dové difendere e fare strada, nel magnifico secolo dei principi e dei cardinali, soltanto con la lingua. Rispetto agli altri coltissimi umanisti del ’500, fu un ignorante; ma di talento così acuto che una notizia gettata là con ardore e con sicurezza dava l’aspetto di una cultura fine e delicata. Aveva, del resto, ben ragione, Pietro, di difendersi a quel modo.

Nato in Arezzo, da Antonio Bacci e, pare, da una cortigiana, fu lasciato solo nel mondo. Dopo varie vicende entrò nelle lettere, e, temendo principi e alti prelati certe sue coraggiose e sfacciate satire, fu tenuto a bada, con denari e favori. Di queste benevolenze ne approfittò in modo che per un suo insulto si buscò una coltellata da un sicario di Strozzi. I tempi, d’altra parte, permettevano la lingua dell’Aretino e i sicari dei patrizi. Dopo una vita piena di vituperi e di ricatti letterari, egli se ne andò nella libera Venezia; quasi ricco e tutto uomo di let-