Vinta
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VINTA
Col volgere degli anni e delle vicende la stirpe dei conti Vallarsa di Revel s’era isterilita e il vistoso patrimonio di famiglia, sciupato da invincibili abitudini di grandezza e dalla passività della gleba esausta, cadeva anch’esso in completa rovina. Venduti i palazzi in città, vendute le ville, abbandonate le terre infeconde nelle mani degli avidi creditori, dell’antica ricchezza non rimaneva che un solo ricordo, perduto in una gola delle Alpi carniche tra i pinnacoli d’una secolare abetina, un castello mezzo diroccato il cui nome, nei fasti della signoria medioevale, s’era fatto celebre per la prepotenza del dominio.
Eredi d’una triste gloria, sole rappresentanti ormai dell’illustre casato, due superstiti donne, madre e figlia vivevano derelitte fra quelle memori mura, alimentandosi del loro reciproco, esclusivo e sviscerato amore. Entrambe serbavano intatto l’aristocratico tipo, gelosamente custodito colla distinzione di una discendenza raffinata, ad entrambe traspariva dal volto la dolce dignità che contiene gli sguardi per natura imperiosi, la tristezza amara delle rimembranze e del cadente destino.
Soltanto la vecchia signora pareva rassegnata alla sorte e vinta, ma nè il tempo, nè la sventura erano riesciti ad alterare il nobile disegno della sua bella e pacata fisonomia gravemente raccolta entro due falde di bianchissimi capelli.
La giovane era bionda, d’un biondo grigio e fino e la sua faccia delicata il cui pallore nativo la continua familiarità col sole non aveva profanato, non offriva forse alcuna attrattiva allo sguardo d’un freddo osservatore, ma chi la studiava, non visto, poteva sorprendere in quelle grandi iridi schive, fra il glauco e l’azzurro, illuminate da una larga, strana pupilla, in quella bocca destinata più che alla parola a un doloroso silenzio, dei commovimenti mal contenuti, dei fremiti improvvisi, dei lampi di volontà, il riflesso della continua battaglia interna, in cui s’agitavano forse gli ultimi desiderii, le ultime acerbe e impotenti ribellioni d’una stirpe ormai presso ad estinguersi. Ella portava un nome tradizionale, nella sua casa: Elfrida; e sebbene le mutate condizioni della famiglia ferissero crudelmente il suo nativo orgoglio, sebbene per sorreggere sua madre ella avesse dovuto discendere ai più umili uffici, camminava dritta e fiera come se sulla sua bionda testa dovesse posarsi un giorno una corona.
In grazia della sua energia vigilante e del suo continuo ed efficace lavoro, nel pittoresco castello, in mezzo ai locali abbandonati, ai muri crollanti, alle torrette sfasciate, un appartamento signorile sì manteneva intatto. Non corrispondeva tutto il mobilio alla bellezza dei soffitti del Cinquecento, all’ampiezza delle sale, alla grandiosità delle finestre dai larghi davanzali, alla leggiadria di certi fregi affresco, di certi caminetti in marmo scolpito, ma l’ago della solerte custode rammendava mirabilmente i brandelli delle sete smorte e delle trine antiche.
Coi brani d’arazzo ove lo stemma dei Vallarsa era contessuto le sue provvide mani nascondevano, sui parati stinti, le traccie più scure dei quadri scomparsi per sempre, e ove l’arte non sapeva più lottare contro l’invadente povertà, la natura veniva in aiuto, col fogliame delle piante ornamentali che l’esperta cultrice cresceva rigo. gliose, coi fiori raccolti nei silenzii dei boschi, coi rami del biancospino, del citiso, della vitalba, la cui freschezza metteva un velo di poesia sulla rovina delle passate cose, i cui effluvii alpestri ne ringiovanivano il triste profumo.
Nel vasto parco, degenerato in boscaglia, gli arbusti incolti cancellavano con la loro invadente verdura le tracce degli antichi viali; gli armonici gorgoglii delle fontane tacevano perchè l’acqua non poteva più correre nei tubi sconnessi e muscosi; le aiuole erano invase dalla gramigna, l’erba dei prati cresceva, alta, disuguale e se la generosità dei creditori aveva rispettato la passione della contessa per gli alberi, risparmiando le piante più vicine al castello, nell’abetina secolare, ch’era stata un lusso quasi regale, echeggiava, di quando in quando, il lugubre suono dell’accetta e da lontano si vedevano le cime delle conifere atterrate tentennare e sparire.
A quella vista il cuore d’Elfrida dava lagrime di sangue ma era necessario vendere, vendere sempre.
A mezzogiorno sotto l’ala abitata del castello, una piccola parte del deserto giardino era ridotta ad ortaglia e la fanciulla, assistita da un vecchio guardiano, la coltivava con le sue mani per procurare alla madre le primizie dei legumi.
Intorno agli scompartimenti ell’aveva piantato dei rosai selvatici e come un antico fornitore della famiglia non mancava di spedirle ogni anno dalla Germania, una cassettina di fresche rose, ella staccava le gemme dai gambi, le innestava con rara maestria sui polloni campestri e aveva creato, in tal guisa, un roseto di due o trecento specie scelte che in primavera e in autunno le deliziava la vista.
Quelle piante dopo il materno affetto, una delle poche dolcezze della sua vita, furono anch’esse un precario possesso: il conte di Vallarsa, prima di morire, aveva ceduto il castello e le sue adiacenze, sotto date condizioni, ad un ricco industriale, il più discreto dei suoi creditori, riservandone l’usufrutto alla moglie, finchè sarebbe vissuta. Egli non dubitava certamente che la sna figliuola potesse trovare un valido appoggio nel matrimonio, Ma per Elfrida, la perdita della madre doveva essere non solo uno strazio dell’anima ma anche l’indigenza e la solitudine. La duplice sciagura non tardò a colpirla.
Limata dal lungo e tacito soffrire, una sera, al tramonto, mentre la fanciulla le sedeva dinanzi su uno sgabello, parlando del passato, la povera signora sentì un leggero, fuggevole affanno, poi un’angoscia più grave e prolungata, s’abbandonò, con una stanchezza mortale nella sua poltrona, e reclinando la pallida fronte sul petto anelante d’Elfrida, si tacque per sempre.
Elfrida non aveva nè stretti parenti, nè intimi amici, tuttavia, nei primi momenti della sua sventura, ella trovò se non un efficace sollievo, una partecipazione affettuosa al suo dolore. Un’ lontano cugino materno, cui ripugnava il pensiero che una Vallarsa si trovasse nel bisogno, le offerse un amichevole asilo nella propria famiglia, ma la fanciulla pur riconoscendo la generosità della proposta non accettò: rifuggiva con orrore dal benefizio.
Col ricavo d’una fila di grosse perle che le aveva regalate la sua matrina e che serbava qual. preziosa reliquia della sua lieta fanciullezza, ella pensò a ricomporre in pace la salma della madre diletta, in una borgata vicina, nella tomba dei Vallarsa; unica proprietà che le rimanesse al mondo, trattenendo per sè una piccola somma bastante a vivere tre o quattro mesi.
Sebbene fosse straziata nel fondo dell’anima, Elfrida sentiva una fiera ansietà di lasciare la dimora alla quale non aveva più diritto. S’affrettò quindi a raccogliere le sue poche memorie personali e andò a chiedere un momentaneo asilo sull’Alpe, a tre ore di distanza, nella casetta dell’impiegato forestale il quale aveva sposato una cameriera di sua madre.
In quei giorni, i primi di maggio, il roseto era pieno di bottoni. Elfrida aveva intrecciato un’ultima ghirlanda per il camposanto, aveva dato un’ultimo sguardo al parco ombroso, all’abetina, alle camere popolate di ricordi ed era partita, col cuore lacerato, ma con la fronte alta, mantenendo fermo il passo sulle assi vacillanti dell’antico ponte levatoio.
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La primavera era rigogliosa e la foresta offriva alla derelitta tutti i conforti della natura trionfante. Fioriva, parassita del pino, il mitico vischio, le piccole orchidee ergevano nell’ombra i loro strani e vellutati perigonii in torma d’insetto, le radure erano seminate di mughetti olezzanti, gli scoiattoli saltellavano di ramo in ramo, era da mane a sera un vivace cinguettio d’uccelli innamorati.
Insensibile a tutte quelle gioie alpestri che un giorno aveva tanto apprezzate, Elfrida non si sentiva attratta che dall’armonia vaga del bosco, dalle voci misteriose che sembrano passare colla brezza vespertina fra le glauche cime delle conifere e perdersi in un dolce bisbiglio entro le tre mule foglie dei pioppi. Perciò amava di stare molte ore seduta dinanzi alla casetta dell’impiegato forestale, su una rozza panca di legno ad ascoltare quel mormorio indefinito che la sera, al crepuscolo, quando le capre tornavano dal pascolo scuotendo i loro campanelli argentini, quando da tutti i paeselli circostanti l’Angelus quietamente echeggiava, e gli usignuoli cominciavano a cantare i loro limpidi trilli d’amore pareva assurgere alla bellezza d’un concerto pastorale.
Ella contemplava la larga vallata che si stendeva sotto i suoi occhi tutta verdeggiante di messi immature, tutta seminata di villaggi, di casolari, di castelli; ella si dilettava di seguire sul chiaro orizzonte la linea capricciosa delle Alpi ove la bianchezza delle nevi eterne si fonde nel cielo, e di attendere il lento degradare della luce finchè il firmamento scintillava di stelle o finchè la luna faceva risorgere sotto forma fantastica il nobile paesaggio dall’ombra notturna.
Ma il suo pensiero non era consenziente allo sguardo. Fissa, anzi quasi assopita nel dolore la mente d’Elfrida rimaneva inerte e passiva e del solo dolore sembrava avere esatta coscienza. La solitudine e il silenzio assoluto delle umane cose erano l’unico conforto di quell’’anima chiusa all’effusione e i suoi umili ospiti sapevano comprendere e rispettare nel loro devoto affetto un sì giusto desiderio di raccoglimento.
Sebbene lo spirito della fanciulla apparisse infermo, il suo corpo non ancora sprovvisto d’esuberanza giovanile cominciava a ravvivarsi a poco a poco d’una certa vitalità, il suo passo tornava ad essere leggero come una volta, la sua persona snella e gentile riprendeva la nativa alterezza del portamento.
Una sera, quasi inconscia dell’istinto che la guidava, Elfrida abbandonò il suo solido posto per inoltrarsi fra le ombre glauche e profonde della foresta e l’intimo colloquio con la natura selvaggia le riescì di sì grande conforto che la solitaria passeggiata divenne per lei una cara, irresistibile abitudine. In breve, i più difficili sentieri, i più reconditi recessi dell’Alpe le parvero familiari.
Di consueto, non incontrava mai nessuno, tranne i pastori o qualche povera raccoglitrice di fiori e di fanghi, ma un giorno, s’imbattè, con vivo rammarico, in un giovane che conosceva da gran tempo e che le passò dappresso con un deferente saluto: era Enrico Moras, il figlio del ricco industriale, proprietario d’una fabbrica fiorentissima di terre cotte, al quale appartenevano ormai le ultime reliquie dei beni di casa Vallarsa. Quantunque Elfrida si studiasse di cercare sentieri nuovi, l’incontro per lei molto sgradevole si ripetè parecchie volte. Anzi una sera, nell’ora del tramonto, il giovine la raggiunse sulle rive d’un piccolo lago alpino che si nascondeva, come uno zaffiro perduto, fra le rocce a poca distanza dalla casa dell’impiegato forestale.
Egli aveva trovato un guanto nero sul muschio: sicuro di non essere in errore, si faceva lecito di restituirlo... nel tempo stesso domandava informazioni intorno alla salute della signorina.
Elfrida arrossì vivamente e rispose con la dolcezza grave che le era abituale:
— La ringrazio, signore, io sto bene.
Nello smarrimento del suo sguardo, nella fronte un po’ contratta si leggeva una ripugnanza che la volontà tentava indarno di reprimere, ma il giovine infervorato da un’idea predominante, non se ne accorse, anzi ‘le si avvicinò con una certa familiarità rispettosa e dopo una lieve esitazione osò rivolgerle la parola.
— Ella si sarò forse accorta, signorina, che da qualche tempo seguo i suoi passi....
— No, in verità. So semplicemente d’averla incontrata — rispose Elfrida, con freddezza.
— Ebbene, mi consenta di dirle che quegl’incontri non nascevano per caso. Io fui felice oggi che il suo guanto m’offrisse l’occasione di raggiungerla e di parlarle, perchè aspettavo, con la più ardente impazienza questo momento...
Elfrida lo guardò, forse per la prima volta, in faccia con una curiosità alquanto sdegnosa.
Era un giovine di mezza statura, tarchiato e robusto. Vestiva con una semplicità campestre non priva di lindura; le sue mani brune tradivano l’abitudine del lavoro; dal volto abbronzato e adorno da una folta chioma nera e da due baffi nascenti, dagli occhi azzurri, sereni ed onesti spirava una fisica e morale salute. Poteva avere ventiquattro anni.
— Se desidera parlarmi — disse Elfrida — la prego d’affrettarsi perchè io vorrei tornare a casa.
— Il mio pensiero non è facile da esprimersi — balbettò Moras con un forte tremito nella ‘voce e esitando ancora come se sperasse ingenuamente d’essere indovinato — il castello di Vallarsa...
— Non ricordiamo cose che devono rimanere nell’oblio.
— Nell’oblio? perchè?... non sarebbe più giusto che il passato rivivesse?... io vorrei restaurare una parte del castello...
— Esso le appartiene, signore. Sta nella sua volontà di farne ciò che le pare e piace. La mia opinione in proposito è affatto inutile.
— No, signorina, non mi pare inutile. Un suo gentile consiglio mi sarebbe anzi doppiamente prezioso. Il mio desiderio era quello ch’ella non lasciasse mai il tetto paterno. Ell’ha voluto partire e io bramerei che fra quelle care mura si compiacesse di tornare, signora e regina...
— Io? non comprendo! — esclamò Elfrida con un atto d’altera meraviglia.
— Eppure... le sarebbe così facile il comprendere .. io sono un uomo semplice, ho poca rettorica e non conosco che la parola del cuore.. anche il cuore dinanzi a lei ammutolisce, ma io lo sento battere, violentemente...
Enrico Moras s’era fatto pallido; egli schiacciava, con atto convulso, il suo cappello fra le mani.
— Ebbene? — disse Elfrida con un cenno vago di stanchezza e d’impazienza — non riesco ancora a capire....
— Ebbene.... vi sarebbe rimedio a tutto, se ella non sdegnasse, un giorno d’accordarmi la sua mano....
— Io? la mia mano.... a lei?...
Elfrida s’era fatta bianca in volto. Era, nel deserto della sua solitaria vita, la famiglia, il focolare domestico, l’agiatezza che le si offriva, un asilo onorato, tranquillo, sicuro entro le mura dilette e riconquistate della casa paterna. Ma ella non esitò un momento, e solo il volto alterato del giovine, solo i suoi occhi umidi di pianto seppero modificare la formola del rifiuto e alterarne l’istintiva crudezza.
— Le sono riconoscente — mormorò, con voce cupa — ma non posso accettare.
— È un no deciso, assoluto?
— Assoluto. Mi rincresce, signore, ma su questo argomento non ho bisogno di riflettere.
Moras conteneva a mala pena le sue dolorose impressioni ma egli era molto buono e sull’amor proprio ferito prevalse la naturale mitezza dell’animo.
— La sua abnegazione figliale m’aveva commosso — diss’egli con semplicità — e la simpatia ch’ella, da gran tempo m’ispirava, dinanzi alla sua sventura, s’è trasformata in un sentimento. più serio e più tenace.
Gli occhi d’Elfrida lampeggiarono d’una fierezza viva.
— Vedo che la mia presenza stessa le riesce odiosa — esclamò il giovine senza più celare il suo profondo turbamento — si rassicuri, signorina, una parola ancora e poi m’affretto a lasciarla sola. Io le ho parlato senza volerlo, d’un segreto ch’ella doveva soltanto indovinare. È stato un momento di follia.... abbia la generosità di dimenticarlo. Ma se un giorno, ell’avesse bisogno d’un appoggio, di un... amico, se la sorte avversa non dovesse concederle la felicità ch’ella merita, si ricordi di me, in qualunque luogo, vicino o lontano io mi trovi...
Vi fu una breve pausa durante la quale egli forse aspettò la risposta che non venne. Gli parve soltanto che la fanciulla avesse mormorato un tardo e sommesso «grazie» e fatto un lieve inchino, Moras a lento passo s’allontanò.
Elfrida, tutta tremante, riprese la sua via. Ella guardava intensamente al cielo, implorando pace al tumulto del suo cuore.
Lei la sposa d’un industriale? lei, ultima dei Vallarsa, ricondotta al castello degli avi, dalla generosità d’un creditore? Mai, mai! La sua povertà sola poteva aver dato a quel giovine l’ardire di farle una simile proposta.
E l’antico orgoglio le si rinfiammava in petto e l’anima non ignobile ma fuorviata dal pregiudizio fremeva entro la forma delicata e fina come se l’onesto amore di Moras fosse un insulto.
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Quella sera la moglie dell’impiegato forestale posando; con la solita premura, un vaso di fresche rose, sul desco modesto, non potè a meno di osservare:
— Sono le ultime, la stagione passa.
Elfrida, ancor più pallida del consueto, volse uno sguardo distratto ai fiori e domandò con indifferenza
Chi ti manda queste rose, Dora? sei sempre ben fornita, È l’agente dei Moras?
— No, signorina, è il signor Enrico, che me le fa avere, di quando in quando, non per me sa, per lei.... Mi pregò di non nominarlo per non recarle pena.... è tanto buono e gentile....
— Sì Dora, è molto buono, ma, come dicesti, sono le ultime: egli non ne manderà più.
Dopo aver bevuta la scodella di latte appena munto che formava la solita sua cena, Elfrida si ritirò nella sua cameretta, si coricò nel suo candido lettuccio, ma non potè dormire. L’incontro con Moras sembrava aver destato nella sua mente assopita la facoltà di riflettere, il bisogno di agire. Il desiderio d’abbandonare quei luoghi che da qualche tempo s’era confusamente affacciato al suo incerto pensiero si faceva imperioso come una sùbita necessità. Il suo piccolo peculio, tra qualche settimana sarebbe esaurito, ella dovrebbe dunque provvedere seriamente ad una onorata indipendenza.
Ma come?... cercare un posto d’istitutrice? conosceva le lingue, era colta, l’insegnamento non le faceva paura, ma quanta contrarietà sentiva invece, per quella vita di sacrifizio, tra fanciulli viziati e genitori parziali!.... farsi monaca?... la cieca ubbidienza ripugnava al suo spirito indomito, la reclusione del chiostro al suo amore per la natura...; dama di compagnia?... nemmeno, nemmeno !...
Eppure in qualche maniera il pane bisognava trovarlo, e una Vallarsa, non poteva mettersi alle poste o ai telegrafi!...
Sull’umile tavolino d’abete, accanto al letto, in un bicchiere, sbocciava una bella rosa rossa, esalando un delicato olezzo. Elfrida contemplò a lungo quel fiore cresciuto nel suo roseto, una vaga speranza le balenò alla mente, le parve che tutt’a un tratto s’acquetasse il tumulto della sua anima e, vinta dall’emozione e dalla stanchezza, finì coll’assopirsi sul piccolo guanciale, mormorando una fervida preghiera. Ella sognò di trovarsi in un vasto altipiano tutto gremito di rose. Era un ondeggiamento di colori, dal paglierino all’arancio, dal rosaceo al carminio e al violetto; sul dolce pendio d’una collina fioriva come una nevicata, una macchia di rose bianche, dalla bianchezza fredda, quasi azzurina del ghiaccio alla bianchezza molle e calda della perla; un profumo acuto, inebbriante si diffondeva nell’aria; tutto intorno era silenzio e il largo orizzonte verde si perdeva nella linea cerulea del cielo. Vestita anch’ella d’un colore di fiamma, come certe specie mirabili, con una ghirlanda sui capelli biondi a guisa di diadema, Elfrida s’aggirava fra le rose, parlava dolcemente con le rose che si chinavano per salutarla al suo passaggio come una regina.
La luce dell’alba penetrava blanda dalle finestre aperte, col balsamico odore della resina, quando la fanciulla si destò, ristorata da un placido sonno, e, sollevando dalle pallide tempia i lunghissimi capelli sciolti, si rimise a meditare. La poetica visione del sogno non era ancora interamente svanita dal suo pensiero, la rosa, entro il bicchiere s’apriva, vivida, la speranza vaga s’era tramutata in desiderio, una somma di energia latente le sorgeva dal fondo dell’anima pronta a lottare eroicamente contro il destino. Elfrida rammentava d’aver letto in un periodico inglese che l’orticoltura può fornire alla donna un nobile, proficuo e salubre mezzo di guadagno; difatti, fra tutte le professioni meditate una sola le sembrava meno ripugnante, più conforme alle proprie tendenze: il giardinaggio.
Ella fu come sempre, rapida nel risolvere, s’alzò più tranquilla e si affrettò da sola, con ardore al compimento del suo piano; scrisse varie lettere, ciò che non faceva da gran tempo, una delle quali al giardiniere Roccaoliva di M... antico protetto di suo padre, che stava fondando una casa a Roma, nei pressi di San Giovanni in Laterano.
Poi, dopo alcuni minuti d’intensa meditazione disse fra sè:
— Eccolo finalmente: Annie Revel!...
Annie era il suo secondo nome di battesimo, ereditato dalla nonna scozzese, Revel il predicato di famiglia, Annie Revel il pseudonimo, sotto il quale, Elfrida di Vallarsa rifuggendo dall’avventurare la propria personalità nella nuova e sì diversa vita, scomparirebbe per riaffrontare, come fioricultrice la sorte e le sue battaglie.
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— Ibride o thee? domandò la fanciulla al giovine signore che desiderava fare acquisto di rose.
— Thee, signorina
— Vuole che gliele faccia portare qui?
— Grazie, preferirei vedere i giardini...
— Merighi, vorrebbe venire con noi? — ella disse dolcemente a ‘un vecchio giardiniere che stava innaffiando alcuni vasi — Passi, signore.
Ma, all’uscire dal loggiato che circondava, a terreno, due ale del grande stabilimento orticolo, il giovine, istintivamente, si fece da parte, perchè ella lo precedesse.
Era una ragazza di statura piuttosto alta che media, pallida, bionda, d’apparenza fredda e fina. Vestiva semplicemente, con colletto e polsini da uomo, portava i capelli raccolti sulla nuca in un grosso nodo trafitto da uno spillone di tartaruga, nascondeva le mani piccole sotto lunghi guanti usati di pelle di daino.
— La signorina è forse la figlia del proprietario Roccaoliva? — domandò il giovine osservandola, con una certa curiosità, mentr’ella s’inoltrava con un portamento leggiadro insieme e altero, tra le fiorite aiuole.
— No, signore.
Quel giardino perduto nella campagna, sembrava un’oasi di fiori. Biancheggiavano i gigli accanto alle pompose peonie, i rossi papaveri macchiati di nero, rifulgevano di luce sotto i candidi cespugli delle spiree, le strane iris giapponesi formavano delle macchie gialle e lilacee sugli orli delle fontane; ovunque si volgesse per i tortuosi sentieri cosparsi di rena bianca il giovane non scorgeva che fiori, sempre fiori. E tutt’a un tratto una vista abbagliante e più delle altre meravigliosa gli si affacciò allo sguardo: il campo delle rose tutto vivido di colori.
Il roseto era tagliato da un largo viale e occupava un vasto terreno diviso a riparti secondo le famiglie e le gradazioni delle tinte. V’erano tutte le rose, dalle specie primitive alle ultime creazioni tedesche, francesi, americane, dalle bianche di Damasco, dalle odorose centifoglie, dalle dorate cappuccine alle splendide ibride, alle graziose poliante, alle fragrantissime thee di Dickson, di Pernet·Ducher, di Soupert e Notting.
Il viale era fiancheggiato da due file d’alberelli coronati da un ciuffo di fiori e legati fra loro da eleganti festoni di Setina e dentro, nel campo, le rose a mazzi, a cespugli, a cascatelle sembravano abbandonarsi ad una pazza gioia primaverile, diffondendo i loro svariati profumi nell’aria molle di maggio, offrendo al sole la purezza delle loro corolle candide o giallognole, l’ardore delle loro tinte ranciate, vermiglie o sanguigne, tutta la gloria della loro poetica bellezza.
— Ecco le rose thee, seicento specie .. — disse la fanciulla, entrando in una sezione a parte e cominciando a recidere ella stessa i fiori più belli. Prima di disporli nel canestro dal lungo manico che il giardiniere aveva preso seco, ella si volgeva, di quando in quando, verso il giovine signore, li porgeva con qualche commento alla sua ammirazione.
— The Puritan.... sente questo strano odore di magnolia?.... l’antica e sempre pregiata Niphetos dal lungo bottone di neve.... la Duchesse d’Auerstädt, una delle più simpatiche rose
monocrome.... Stefania e Rodolfo, triste ricordo d’infausti sponsali... prendiamo anche Grace Darling, l’eroica fanciulla che salvò dei naufraghi in una notte di tempesta....
Benchè le sue parole tradissero una viva passione per quei fiori, ella parlava con voce sommessa e con una calma profonda, solo qualche volta un amabile sorriso le irradiava il volto, dando un fa. scino strano ai suoi grandi occhi fra il glauco e l’azzurro spiranti un dolce mistero.
— Le rose hanno dunque una storia? — disse il giovine, sorridendo anch’egli e guardando con crescente curiosità la sua interlocutrice.
— Oh sì, molte hanno una storia e tutte una grande poesia. Una rosa nuova potrebbe fare la fortuna d’una piccola famiglia, come questo Francis Bennett che fruttò venticinquemila lire al suo inventore. Ecco un’altra bella e invidiabile creazione: la Gloire lyonnaise, la prima ibrida gialla, rifiorente. .. com’è dritta e forte! qual verde rigoglioso hanno le sue foglie! Guillot può andarne superbo! — e cogliendo un bel bocciuolo semiaperto l’offerse al giovine, che fissò, un secondo, la donatrice.
I loro sguardi s’incontrarono fuggevolmente. Sul volto di lei il pallore s’era fatto ancor più intenso.
Quando il canestro fu ricolmo, ella disse:
— Se le basta così, legheremo le rose in un fascio artistico con qualche nastro giallo, aggiungendo un po’ di capelvenere, la felce gentile che cresce sulle rovine di Roma. Tutto sarà pronto per questa sera. L’indirizzo?
— Alessandro marchese di Beira, villino Gabriella fuori Porta Pia.... A chi posso sodisfare l’importo?
— Alla cassa, signore, all’entrata dello stabili mento, a destra. Merighi le indicherà.
E, impiegati pochi secondi nel breve calcolo, la fanciulla trasse un libriccino da tasca, ne strappò un foglietto, vi scrisse il conto colla matita, glielo porse.
— Grazie, signorina, buona sera — disse il giovine, non senz’averle rivolto un ultimo lungo sguardo.
— Buona sera, signore.
Nel tornare verso l’uscita, il marchese diede un’occhiata a quel foglietto. Vi era stampato in corsivo il nome: Annie Revel, cultrice di rose.
Alla cassa egli si trattenne alcuni minuti col ragioniere e trovò il destro di domandargli chi fosse quella ragazza.
— La signorina Revel? una distinta fioricultrice che ha creato delle specie nuove, premiate, bellissime.
— È forestiera?
— Non sappiamo donde venga. È amica dei padroni che la stimano assai.
— Da quanto tempo si trova qui?
— Da cinque anni. I primi mesi non ebbe alcuna rimunerazione, ora, il signor Roccaoliva le ha assegnato un personale di tremila e cinque. cento lire. Questo stabilimento non fu una facile impresa e se fiorisce lo sì deve in parte a lei, alla sua bravura e alla sua energia. È lei che dirige gli innesti, che sorveglia sull’identità delle specie, sul l’esattezza dei nomi, è lei che compila i cataloghi e che dipinge le rose nuove all’acquerello.... Ci deve essere un mistero nella sua vita, una qualche avventura forse.... — soggiunse il loquace ragioniere con un enigmatico sorriso, felice, dopo tanti elogi, di poter proiettare un’ombra su quella singolare creatura, la cui nobile alterezza aveva deluso certe sue ardite e ricorrenti speranze.
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La signorina di Vallarsa occupava nella casa Roccaoliva due modeste ‘camerette arredate con elegante semplicità. Il salottino, ch’ella. andava abbellendo coi suoi risparmi, era sempre adorno di freschi fiori raccolti in piccoli vasi di forma squisita. Dal giardino sottoposto salivano i rami sarmentosi d’uno splendido Crimson Rambler a inghirlandare la ringhiera del balcone; in maggio il bel rosaio si copriva di fitte ciocche, ravvivando il verde gentile d’uno sprazzo di carminio
Elfrida non era felice ma era tranquilla. Natura forte, energica ed onesta ella s’era proposto d’esercitare in piena coscienza la professione scelta, dimenticando sè stessa e soffocando tutti quegli istinti ribelli che insorgevano spesso dal fondo della sua anima contro l’avversità del destino. Per farsi amare dai superiori e dai dipendenti el- l'aveva studiato la sommessione e la dolcezza; per appagare le signore alle quali doveva fornire non di rado spiegazioni e schiarimenti s'era abituata a vincere la sua tempra indocile e ad imporsi la più cortese sollecitudine. Ma non sempre tutti le usavano i dovuti riguardi e non v'era per lei più aspra ferita che il disdegno di certe clienti ricche e sgarbate.
Molte carrozze padronali, in quei cinque anni, ell’aveva veduto fermarsi dinanzi ai cancelli dello stabilimento, molte forestiere, molte dame dell'a- ristocrazia romana ell’aveva introdotte nei giar- dini, nelle serre e regalate di fiori. Un giorno vera stata perfino la Regina Margherita e la casa s'era messa in festa per accoglierla degnamente.
Tutti quei nomi illustri le erano noti, qualcuno stava scritto sull'albero genealogico dei Vallarsa. Ma ella aveva vissuto troppo lontana dal mondo per conoscere nessuno di persona e nessuno la co- nosceva.
Concentrata ancora nel rimpianto della madre perduta e nell’amarezza della propria sorte, ella non pensava che all'adempimento del dovere e al desiderio di corrispondere con un intelligente la- voro, e con tutte le sue forze, al sicuro e bene- volo appoggio che le aveva dato la famiglia Roc- caoliva. Per tutte le altre cose della vita si sentiva fredda, indifferente; le pareva che ogni personale aspirazione fosse morta nel suo cuore.
Quando qualche uomo spensierato 0 volgare le rivolgeva, non solo un complimento un poco au dace, ma anche una parola più espressiva 0 più gentile del necessario ella si turbava, ella impallidiva nella sofferenza acuta del rinnovato orgoglio.
E in tutto quel tempo, nessun uomo le aveva mai lasciato nell’animo la più lieve impressione.
Quando, trascorsa la faticosa giornata, Elfrida tornava nelle sue stanzette adorne di libri e di preziosi ricordi, il suo studio era quello di dimenticare Annie Revel e tutta la vita presente, e di non pensare ai paurosi fantasmi del deserto e solitario avvenire. Solo il passato, per sempre perduto, la dominava coll’impero delle sue memorie.
Quella sera ella stette a lungo seduta sul balconcino del suo salotto, come spesso soleva, ma le sembrò che la sua abituale mestizia si fosse mutata, all’improvviso, in un turbamento non privo di dolcezza. L’immagine del marchese di Beira si affacciava con una certa insistenza alla sua mente e ella non cercava di scacciarla. Era bello e gentile; nei modi, nella favella, nel vestire, in tutto il giovane le pareva rivelare una squisita raffinatezza. I suoi occhi grigi, dallo sguardo or vago or penetrante, esercitavano sopra di lei un’attrazione indefinibile, la sua voce quieta, armoniosa le risuonava ancora, come una musica, all’orecchio.
La notte di primavera era calda, placida, stellata.
Da lontano veniva un odore salubre, aromatico d’encalyptus. Sembrò ad Elfrida che la natura le parlasse, in quell’ora, con un linguaggio nuovo e ella si raccolse nel diletto di quella ricordanza con un senso d’ignota, arcana e quasi paurosa gioia.
La mattina, per tempo, ella rivolse i primi passi verso il riparto delle rose nuove, un piccolo recinto chiuso da una siepe di sweetbriar, il fiore dei poeti inglesi.
V’erano poche piante verdeggianti, robuste, ignote ancora al mondo della fioricultura.
Quasi tutte fiorivano, sfoggiando la preziosa novità dei colori e delle forme. La fanciulla si chinò con amoroso trasporto sovra le leggiadre creazioni che la sua fantasia, assistita da uno studio indefesso aveva ottenuto, mediante i delicati connubii del polline, ne fiutò la fragranza, pose le labbra su certi bocciuoli come per un furtivo bacio d’affetto; poi, fermatasi a lungo dinanzi una Bourbon d’un fulgido colore scarlatto quale mai non s’era visto, si chinò in ginocchio per prendere in mano la piccola targa gialla ch’era fissata sul gambo, e vi scrisse chiaramente colla matita un nome: «Marchese Alessandro di Beira».
Era battezzata ora la rosa, la rosa che doveva andarsene trionfante per il mondo, in tutte le migliori case orticole, nelle primarie esposizioni, riprodotta dai giornali, ammirata nei salotti aristocratici, ricercata dagli amatori, la rosa che portava seco in segreto il tenero ricordo d’una simpatia innocente e gentile.
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Dopo quel primo fuggevole incontro, il giovine signore non aveva mancato di tornare al giardino Roccaoliva. Egli passava anche spesso in carrozza o a cavallo, si tratteneva un momento per prendere un fiore o delle sementi, per ordinare un mazzo, un canestro, una ghirlanda, cercava ogni pretesto per rivedere Annie Revel.
Sul finire di maggio, una sera, Alessandro di Beira. si trovò solo, per caso, con la fanciulla sotto il loggiato dello stabilimento. Una fragranza acuta. di gigli, di gelsomini sì diffondeva nell’aria già molle d’un tepore estivo.
Dopo ch’ebbero parlato alcun tempo d’un roseto che il giovine aveva intenzione di piantare nella sua villa, vi fa un lungo silenzio, poi egli la chiamò dolcemente per nome.
Elfrida arrossì e volse lo sguardo altrove. La sua commozione era turbata da quell’insolita familiarità.
— Annie! — egli ripetò — vi rincresce che vi chiami col vostro nome così soave nel suo esotico suono?....
— L’ho ereditato dalla mia nonna — disse Elfrida, involontariamente.
— Era dunque inglese, la vostra nonna?
— Era nata in Scozia.
— Voi dovete avere una storia, come le rose... quando mi narrerete la vostra storia, Annie?
— Non so, non so, marchese — ella rispose, impallidendo.
— Dev’essere malinconica la vostra storia, perchè siete sempre triste ancorchè viviate in mezzo ai fiori...
— I fiori mi rammentano ogni giorno le miserie umane... — disse Elfrida deviando il discorso — Noi facciamo molti mazzi nuziali, ma il numero delle ghirlande funebri è assai maggiore. Quante povere rose vanno a morire nei silenzii dei sepolcri...
— Pensate, Annie, che qualche volta appassiscono anche sul seno d’una donna amata, che sentono il palpito del suo cuore, il fremito delle sue labbra... Quanta, quanta parte hanno i fiori nell’intimità e nei misteri dell’amore... non vi pensate mai?
— Anche l’amore è tristezza — ella rispose con una voce lieve come un sospiro.
— Perchè?... perchè dev’essere tristezza una legge che governa l’universo?...
— Non so... così mi pare... — ella mormorò.
Commossa e agitata ad un tempo, la fanciulla avrebbe voluto troncare il colloquio e ritirarsi, ma la sua posizione dipendente non glielo permetteva, ella non poteva imporre a un cliente della casa di partire. E il giovane rimaneva fisso sulla sua seggiola di giunchi, anzi le aveva chiesto il permesso di fumare e aveva tirato fuori l’astuccio dello sigarette.
E a poco a poco con voce carezzevole, insinuante, poi tenerissima, egli le venne dicendo tante dolci cose, egli le narrò della prima impressione avuta da lei, del suo bisogno irresistibile di rivederla, della felicità che provava nell’esserle vicino, finì col simulare i turbamenti repressi della passione che non osa manifestarsi in tutto il suo ardore.
Elfrida ch’era rimasta impassibile per le umili parole d’Enrico Moras, Elfrida che non aveva mai guardato con speciale interesse alcun uomo, serbandosi ferma nella sua amara alterezza, sentì crollare tutt’a un tratto, dinanzi a quella seducente parvenza, il fragile edifizio della sua individualità superba, sentì l’anima, soggiogata da un arcano potere, piegarsi deliziosamente sotto il nuovo dominio.
Era sempre stato il suo segreto, il suo inconsapevole sogno quello d’immolare lo spirito esacerbato e ribelle a uno solo, all’unico, e quell’unico stava lì dinanzi a lei, bello, tenero, seducente come nel sogno.
Le sofferenze d’una giovinezza dolorosa non erano riescite a soffocare in Elfrida l’imperioso istinto della felicità: sotto il suo apparente scetticismo d’ogni terrena fede, si celava, come spesso avviene alle creature superiori, un ardentissimo bisogno di credere e d’amare.
Se il marchese di Beira si permetteva di chiamarla col suo nome e di darle del voi, mentre ella anche nelle forme esterne si manteneva sempre ligia alla più scrupolosa riserbatezza, il lieve disgusto di quella indelicata confidenza era confortato da certe testimonianze di rispetto che le sembravano sincere. Ella credette ad Alessandro di Beira, ell’accolse con trasporto, nel suo cuore avvezzo a patire, la dolce novità della speranza, ella l’amò perdutamente, come forse una volta sola s’ama, nella vita.
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Se non perverso, molto corrotto, Alessandro a ventott’anni aveva già sfruttato la sua gioconda giovinezza nel piacere. Sentimentale, audace, appassionato, secondo i casi, egli era esperto nell’arte di farsi amare e come quella graziosa avventura, quale variazione del solito tema non gli dispiaceva, constatò con una certa compiacenza che la fanciulla era lungi dal rimanere insensibile alla malia del sicuro suo metodo. L’innata distinzione d’Elfrida non poteva sfuggirgli, ma il posto ch’ella occupava lo aveva reso diffidente, il mistero geloso del suo passato gli destava nell’animo dei dubbi, dei sospetti quasi ingiuriosi. Egli interpretava il suo severo contegno come una posa di persona romantica, la sua finezza come un sottile artifizio di civetteria che vuol comandare il rispetto per indurre nel tranello del matrimonio, ma subiva, senza volerlo, il fascino di quella dolce superiorità; dinanzi all’insolito riserbo sentiva quell’eccitamento che infiamma gli uomini colla sferza della contradizione. Il suo capriccio per qualche tempo si trasformò in amore.
Una vita nuova cominciava’ per Elfrida, una vita d’illusione e di follia.
La signora Roccaoliva ch’era una donna semplice e retta e alla quale, per un sentimento di delicatezza, la fanciulla aveva confidato con grave sforzo il proprio segreto, aggrottò le ciglia, scosse il capo ma non ebbe il coraggio di esprimere una chiara opinione e si limitò a dare un consiglio. Secondo lei era necessario che la contessina. di Vallarsa rivelasse subito il suo nome al marchese di Beira, si giudicherebbe poi, dalle impressioni di quel signore.
Ma Elfrida indugiava istintivamente dinanzi alla delicata confidenza, la rimetteva da un giorno all’altro. Mai le era balenato alla mente il timore che Alessandro potesse avere dei sospetti sul suo passato. Ell’amava la dolcezza indeterminata di quello spirituale suo sogno, ell’avrebbe bramato che non finisse mai... Paga delle più pure gioie dell’affetto, d’una stretta di mano, d’un saluto scambiato da lontano, ella sfuggiva i lunghi colloqui, le visite frequenti, l’intimità pericolosa, sapeva imporre al giovane un contegno corretto è difendere in faccia agli impiegati dello stabilimento quella dignità che forse l’invidia sarebbe stata tentata più volte d’intaccare,
Quando il marchese dovette allontanarsi da Roma per accompagnare sua madre a Montecatini e per andare in villa presso Perugia, con tutta la famiglia, ell’acconsenti a ricevere le sue lettere, non così a rispondere. Trascinato dall’insodisfatta passione, Alessandro, in quel tempo, non seppe trattenersi dal fare qualche corsa alla capitale per rivedere la fanciulla, poi cercò d’affrettare il suo stabile ritorno. Ma il persistente riserbo d’Elfrida cominciava ad irritarlo, e l’amore, deluso nelle sue aspettazioni, ricorreva di quando in quando, ma sempre indarno, al pericoloso rimprovero di freddezza, dinanzi al quale la donna facilmente s’intenerisce e s’arrende.
Elfrida usciva pochissimo: la libertà che l’era concessa dalla sua posizione l’offendeva quasi nei suoi istinti di fanciulla patrizia, gelosamente custodita. Soltanto una o due volte al mese ella concedeva un eletto conforto al suo spirito e fornita d’una buona guida, errava fra le rovine, nelle chiese, nei musei. Sebbene si fosse sempre guardata dal comunicare ad Alessandro di Beira i suoi piani, ella lo incontrò un giorno di marzo, nella Villa Borghese. I due giovani visitarono insieme la mirabile galleria, poi scesero a passeggiare nei larghi viali, sotto gli elci secolari, nei prati seminati di viole. Quell’inatteso ritrovo, quel prolungato colloquio in cui le anime s’erano effuse nella contemplazione delle cose belle, avevano dato a Elfrida una gioia violenta, poi un’ineffabile dolcezza, ma quando Alessandro aveva espresso il desiderio d’accompagnarla a casa, la fanciulla s’era recisamente
opposta. Il marchese allettato da quel primo passo e stanco d’una severità che gli sembrava ormai un troppo lungo giuoco, tentò indurla a concedergli qualche appuntamento nelle altre ville o sul Palatino e trovandola sempre ferma nel rifiuto, tornò ai lamenti, anzi l’afflisse coi più acerbi rimproveri.
Allora, nella sua grande e tenera cecità, la fanciulla risolse di compensarlo con lo spirituale abbandono di sè stessa, nella rivelazione del proprio segreto, e invocando soltanto un momento propizio per l’affettuosa confidenza dinanzi alla quale il suo orgoglio aveva sempre esitato si propose di dirgli:
— Ella ha creduto d’amare una modesta fioricultrice, ma io non sono Annie Revel, io sono Elfrida di Vallarsa e il mio casato è degno del casato di Beira...
Alessandro, in vero, non s’era mai mostrato molto curioso di conoscere la sua vita passata, ma ella attribuiva quell’apparente indifferenza a un delicato riguardo e nella sua assoluta persuasione d’appartenere ad una casta superiore, godeva, per la dolce meraviglia che proverebbe il giovine ravvisando in lei una gentildonna sua pari.
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Nel pomeriggio del giovedì santo Elfrida era andata a San Giovanni in Laterano per ascoltarvi la musica.
Il fiore dell’alta società romana e della colonia straniera sembrava essersi dato convegno nella Basilica che un soffio di corruzione invadeva in quel l’ora più delle altre sacra.
L’eleganza frivola delle signore, sebbene uniformata alla gravità del giorno, rendeva ancor più severa la magnificenza del tempio e durante certi a soli lirici, il lieve, quasi impercettibile bisbiglio, più che un mormorio di folla orante, pareva un fremito misterioso di tenerezza e di contenuta passione.
Ma di tratto in tratto un’onda celeste di polifonia scendeva sulle navate e su quella folla, imponendole dei silenzii involontari, una passeggiera ma quasi angosciosa emozione di misticismo.
Inginocchiata presso la Confessione, Elfrida ascoltava, deliziandosi, tutta assorta in un pio raccoglimento, in una muta preghiera nella quale la memoria, sempre presente, dell’uomo amato aveva tanta parte. Poco prima che l’uffizio fosse terminato, mentre cantavano il Miserere, sollevando lo sguardo, le parve discernere da lontano, nella penombra, un diletto profilo, la linea aristocratica e fina, i piccoli baffi castani, i capelli corti e ritti sulla fronte spaziosa: era lui, il marchese di Beira. Ma egli non ascoltava la musica e nemmeno seguiva il rito sacro, egli discorreva con una graziosa signora, una delle spose più belle e più corteggiate di Roma. Elfrida la conosceva benissimo, ma sebbene il colloquio si prolungasse, nel suo cuore generoso non sorse nemmeno l’ombra d’un sospetto. Piuttosto il timore che il giovane potesse scorgerla e avvicinarsele in quell’ora inopportuna la spinse ad uscire in fretta dalla chiesa. Ma non era ancora discesa dai gradini quando Alessandro la raggiunse.
— Annie, Annie, v’ho veduta appena adesso, perchè fuggite?...
— M’aspettano allo stabilimento. Ho detto a Merighi di venirmi incontro.
— V’accompagnerò io colla mia carrozza.
— Grazie, fa troppo tardi... e poi preferisco andare a piedi.
— Dio buono! quante reticenze... non sarebbe bene di finirla una volta con tutti questi scrupoli?
Il linguaggio era affatto nuovo. La fanciulla rivolse al giovine uno sguardo di dolorosa meraviglia.
— Andiamo, Annie! sii buona! — egli mormorò, prendendole una mano e coprendola di baci.
Ella ritrasse la mano vivacemente, sempre più sgomenta di quella familiarità improvvisa.
— E tu dici d’amarmi, d’amarmi tanto! — lamentò Alessandro con una certa tenerezza.
— Non sono queste le prove dell’amore — rispose la fanciulla, molto turbata — buonasera, marchese, io devo andare.
— Pochi passi ancora, Annie! lascia che venga con te un solo minuto ancora! — egli implorò con un accento pieno di passione.
Elfrida, sicura di trovare il giardiniere, acconsentì per non disgustarlo e insieme uscirono dalla porta San Giovanni, volgendo verso la campagna.
Nel cielo sereno e color di viola una grande luna gialla si levava; la via d’Albano era deserta.
Un senso strano d’apprensione aveva assalito l’animo della fanciulla. Egli le andava mormorando cocenti parole, ella rispondeva piano, a monosillabi, agitata nel suo invincibile amore da una tormentosa angoscia.
— Come sei bella, Annie — egli le disse, fermandosi tutt’a un tratto a contemplare la leggiadra figura vestita di nero, che si disegnava elegantemente nel chiarore lunare — in verità non so perchè tu voglia tornare alla casa Roccaoliva, non so perchè... — egli soggiunse piano.
La voce d’Alessandro era un po’ sorda e. nel suo volto, di solito così calmo, appariva una certa alterazione.
— Dove dovrei andare, dunque? — domandò ingenuamente Elfrida, con un pallido sorriso, non potendo comprendere.
— Dove? con me... la carrozza aspetta, là... nella piazza, quando la folla si sarà dileguata...
— Con lei?!... — ella esclamò, presa da uno stupore profondo.
— Si, Annie... laggiù lontano, in una via remota di Roma che tu non conosci... in una casetta circondata da un giardino, a vivere per me... tutta per me...
Le ultime parole si spensero in un soffio pieno di seducente dolcezza. Elfrida sentì un braccio sfiorarle la persona e stringerla con una certa violenza.
Afferrando finalmente il vero, ella indietreggiò con impeto, ella sbarrò gli occhi con orrore; il giovine udì il grido di ribrezzo che l’era sfuggito dal petto anelante; al lume della luna la vide farsi bianca in volto e vacillare come se cadesse. Ma fu una debolezza fuggevole. Elfrida si drizzò fieramente e le sue labbra non potendo articolare il comando, gli ordinò di retrocedere con un atto imperioso della mano.
Alessandro di Beira aveva tentato di sorridere, ma il sorriso gli morì sulle labbra dinanzi a quell’altera figura in cui tutto il sangue dei Vallarsa all’improvviso ribolliva.
Inconsciamente egli s’arretrò balbettando vaghe parole di scusa.
Merighi veniva da lontano a passi affrettati. Elfrida raccolse le sue forze e mosse ansiosa verso di lui.
Per buona sorte lo stabilimento non era lontano. Ella camminava come un’allucinata, con un pallore di morte in volto, con dei lampi di follia nello sguardo.
Arrivò ansante, si chiuse nella sua cameretta e la signora Roccaoliva, guidata da un triste presentimento, accorse per assisterla e la trovò in preda ad una violentissima febbre.
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Quando s’alzò dal letto dopo tre settimane di grave malattia e discese nei giardini per riprendere le solite occupazioni, parve ad Elfrida che la faccia della natura si fosse per sempre oscurata al suo sguardo.
Fra tanti dolori ell’aveva provato il più grande, il più terribile, quel dolore che viene direttamente dalla creatura umana e che per sè stesso non può contrapporre all’infinita amarezza dell’umana miseria alcuna superiore ed efficace fonte di conforto.
Ell’era uscita dalla chiesa colla preghiera sulle labbra, con una mistica tenerezza nel cuore e pochi minuti dopo, un uomo volgare le aveva rivolto indimenticabili parole, le aveva fatto una mortale ingiuria, trattandola, lei Elfrida di Vallarsa, come una fanciulla disonesta!
E quell’uomo era l’amato, l’unico, l’idolo collocato ciecamente sull’altare!
Indarno ella cercava in fondo alla sua anima la consueta energia, indarno ella si sforzava di reagire e di superarsi, l’antico orgoglio era sopraffatto da invincibili turbamenti.
Ella s’inoltrò nei giardini con un senso di ripugnanza viva. La primavera cominciava a sorridere, il verde gaio e fino d’aprile dava alla campagna un aspetto d’ingenua allegrezza, i castelli romani biancheggiavano in lontananza sullo sfondo vaporoso dei colli cerulei.
Ella entrò nelle serre ove centinaia di rosai si deliziavano al sole. Fra le specie nuove, coltivate in vaso, una bella Bourbon ergeva sui rami robusti una ricchezza di bottoni presso a sbocciare. Sulla targhetta di legno, dipinta di giallo, stava scritto «Marchese Alessandro di Beira».
Ah! non le era più concesso di distruggere quella rosa che due giornali avevano già illustrata, che aveva varcato monti e mari ottenendo un premio in una esposizione inglese e un posto d’onore nei registri delle società orticole.
Era destinata, povera rosa, a portar seco, perennemente, nel mondo sereno dei fiori il ricordo d’un triste amore.
Elfrida la contemplò alcun tempo con un disgusto amaro, poi, come se volesse ‘ripudiare il gentile frutto dei suoi studî e delle sue dotte esperienze, ne recise ad uno ad uno i bottoni vermigli, li sfogliò con impeto, sparse i petali al vento, come piccole goccie di sangue.
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Alcuni mesi erano trascorsi e su quella fronte giovanile rimaneva un’ombra grave.
Il breve miraggio della felicità aveva consolato la malinconica giovinezza d’Elfrida, ma sul sogno era passata impetuosa la bufera, e ella non vedeva più dinanzi a sè che un vuoto senza fine.
L’improvvisa scomparsa del marchese, le
lettere restituite intatte al postino, la malinconia costante della fanciulla avevano messo la signora Roccaoliva sulle tracce del triste segreto, ma sentendo, nel suo accorgimento di donna saggia e retta, che qualunque tentativo di conforto sarebbe rimasto inefficace, ella seppe rispettarlo e si studiò soltanto di circondare Elfrida delle più gentili e pietose attenzioni e di sollevarla da tutte quelle incombenze che potessero esacerbare lo stato del suo animo.
La fanciulla cercava avidamente, ma indarno, l’oblio nella concentrazione del lavoro, cercava la solitudine per sottrarsi col suo amaro tormento agli sguardi indiscreti e curiosi, ma non sempre le riesciva d’evitare il penoso contatto con la gente,
anzi nell’autunno, essendosi ammalato il padrone dello stabilimento, ella fu costretta per obbligo di cortesia, a farne le veci durante parecchie settimane.
Una sera ella stava riscontrando una spedizione di bulbi dell’Africa, quando le venne annunziato un forestiero che desiderava fare acquisto di rosai. Elfrida s’accostò alla porta della serra, fece due passi, vide un signore da lontano e benchè fosse alquanto mutato, lo riconobbe subito, si fermò e attese, con coraggio. Era Enrico Moras.
Egli veniva innanzi tranquillo, volgendosi a destra e a sinistra, sostando anche per ammirare certe macchie meravigliose di crisantemi in fiore che adornavano il giardino. Quando fu giunto a poca distanza levò lo sguardo verso la fanciulla, impallidì, non ebbe più la forza di procedere.
Elfrida impassibile, lo prevenne, muovendogli incontro con un freddo sorriso.
— Ella desidera? — domandò quietamente.
— Io?... non so.... volevo vedere le rose... — balbettò il giovane.
— Potrò mostrargliele io stessa, sono Annie Revel e mi occupo particolarmente di questo fiore... — ella proseguì con accento sicuro, fermandosi su quel nome, imponendogli il silenzio con gli occhi.
Enrico Moras le rivolse uno sguardo smarrito, ma chinò il capo senza rispondere e la seguì macchinalmente nella serra ov’ella sedette, dopo avergli additato una poltroncina di giunchi.
— Ecco il catalogo — proseguì la fanciulla, porgendogli un libriccino, il cui semplice frontispizio bianco era adorno da un ramo di rose disegnato da lei, Osservi la sezione delle Noisettes, signore, ne abbiamo di bellissime.
Moras prese il catalogo con le mani tremanti e si mise a sfogliarlo senza capir nulla, mentre ella nominava volubilmente le specie, spiegandone l’abito, le qualità, il profumo, mal celando lo stato del suo animo.
— Lassù, fra le Alpi ov’io dimoro.... le rose riescono assai bene..... — balbettò alfine il giovine.
— Vi sarà la neve, lassù? — ella domandò quasi involontariamente, come trasognata.
— Non ancora, signorina... sulle alte cime soltanto...
Il volto estenuato della fanciulla si velò d’una fiamma lieve, ma l’arcana dolcezza dell’improvviso ricordo già si tramutava in affanno e sentendosi soffocare e non volendo mostrarlo, ella s’alzò e propose, con un filo di voce:
— Forse il signore potrà scegliere meglio vedendo il roseto... v’è ancora qualche pianta in fiore...
Ma il continuo e grave sforzo l’aveva esausta. Enrico Moras, ch’era sempre rimasto in piedi, dinanzi a lei, la vide impallidire e stendere le braccia con ambascia.
Ella tentò indarno di resistere e ricadde spossata sulla seggiola. Se l’anima forte reagiva ancora, il corpo doveva piegarsi sotto la violenza delle emozioni.
— Desidera che chiami qualcuno?.... domandò Moras.
— No, oh no!
— Vuole che m’allontani io? — egli insistette tristamente.
— No, abbia pazienza, passerà... sono stata ammalata e mi sento ancora molto debole.
Egli allora lo sedette accanto, con una timida pietà e rimasero alcuni minuti così, in silenzio.
Non s’udiva che il mite gorgoglio d’una fontanina, il cui zampillo andava a frangersi sopra un contorno di felci rare. All’ombra delle palme rare s’ergevano a centinaia, fra le robuste foglie, dei grandi ciclami bianchi, e tutto intorno era una precoce fioritura di clivie e di amarilli. Pareva al giovine di fare un poetico e doloroso sogno. Ma Elfrida non tardò a ricomporsi e raccogliendo tutte le proprie forze, mormorò, con un mesto sorriso:
— Perdoni, signore... ella dunque desidera...
— Non si stanchi... potrò venire un’altra volta se me lo permette.
— Annie Revel non ha nulla da permettere, è qui per fare il proprio dovere coi clienti della casa Roccaoliva.... — disse Elfrida ritornando all’antica alterezza.
— Annie Revel meglio d’ogni altra donna per me... — esclamò il giovine con un impeto irrefrenabile — non è la vana questione di un nome. To onoro sovrattutto chi lavora, io rispetto la contessa di Vallarsa, ma per Annie Revel sento una specie di venerazione ...
— Moras! — ella interruppe, fieramente — non so come osi...
— Mi compatisca, signorina. Il suo segreto m’è sacro e nessuno ci sente. Io sono un amico, disprezzato è vero, ma sempre immutabile — egli proseguì dolcemente.
— Immutabile... — ripetè Elfrida con un sospiro soffocato.
— Non consente nemmeno che le dica questo?.. non vuole nemmeno che nel fondo del mio cuore la sua memoria viva con lo stesso ardore, con lo stesso desiderio?
— A me non resta che il morire — ella disse come fra sè, senza rispondere.
Il giovane la guardò con angoscia, non osando interrogarla, ben comprendendo che un nuovo e acerbo dolore aveva dilaniato la sua solitaria vita.
Vi fu un lungo, un penoso silenzio, ma in Moras la nobiltà istintiva dell’anima semplice e retta prevalse, e fattosi ancor più grave egli disse con la voce rotta dall’interno turbamento:
— Mi pare ch’ella abbia bisogno più che mai di un appoggio morale, d’un’anima fidata che l’aiuti a sopportare l’avversità del destino.... Forse non indarno, il caso, dopo tante vane ricerche, m’ha ricondotto in questo momento sul suo cammino. Sicuro di non umiliarmi, io oso rinnovarle oggi la mia preghiera e la mia domanda. Il castello di Vallarsa è deserto.... ella sola può rianimarlo.... Fra tante meste memorie ella vi troverebbe dei dolci e cari ricordi e una devota e discreta affezione, che sa attendere, sperando...
Nell’effondere la sua invincibile passione il giovine aveva perduto la nativa timidezza: una onesta virilità, un leale coraggio gli rifulgeva dallo sguardo.
— Ella è buono, infinitamente buono — disse alfine Elfrida, stendendogli la manina sottile e tremante che Moras osò appena sfiorare colla sua, ma io non posso nè debbo accettare quest’offerta generosa. Ella merita d’essere felice e io non porto meco la felicità.
— Io le dissi, una volta, signorina, che nel tempo della tristezza ella si rammentasse di me, e torse quel giorno è giunto... Siamo giovani entrambi, siamo arbitri della nostra volontà, per noi la vita può rinnovarsi ancora.
Moras parlava con calma, reprimendo eroicamente la sua agitazione.
— Non lo credo, Moras... la prego di desistere.... parliamo d’altro... — ella mormorò.
— Vuole ch’io parta con questo strazio, con quest’incertezza nell’anima?
— M’ama proprio così?.... — domandò Elfrida, con un senso di smarrimento.
— Senza trovar pace. Ho cercato la distrazione, ho cercato anche l’oblio, lo confesso... — egli disse, con semplicità — vi sono sentimenti più forti del tempo e dell’orgoglio...
— Oh Dio! — esclamò la fanciulla nella sua crudele franchezza — e io sono così fredda!... come la neve lassù, sulle nostre montagne, così gelido mi sembra il mio cuore...
Il giovane tacque un minuto, pallidissimo.
— Mai, mai non potrò sperare d’essere amato — egli chiese, con voce tremante — nemmeno quando avessi vissuto tutto per lei, quando l’avessi adorata senza nulla domandarle?..
— Non lo so, in coscienza non lo so. È un fatto che non deve accadere, Moras, ella non può persistere...
— Io persisto egualmente, anche se dovessi morirne! — disse il giovane senza la più lieve esitazione.
Elfrida commossa, sollevò un istante gli occhi e tutt’a un tratto Moras non le parve più quello d’una volta. Raffinato nella forma da un lungo soggiorno all’estero e nell’anima dallo segrete sofferenze della sua invincibile passione, egli aveva assunto quella nobile schiettezza di modi ch’è quasi sempre il riflesso d’un carattere integro e sicuro. La sua figura s’era fatta più elegante e più snella e non mancava d’una certa grazia giovanile, dal volto aperto e intelligente traspariva l’energia d’una tempra già addestrata alle lotte della vita
Un impeto di gratitudine aveva sopraffatto il cuore della fanciulla, senza attenuarne l’angoscia, senza suscitarvi alcuna rispondenza. Combattuta da impressioni affatto opposte, ella disse, fievolmente:
— Mi lasci pensare.. ritorni domani... no domani! fra otto giorni!
— Farò come le piace — rispose Moras con grave sforzo, e non potendo più reggere al travaglio dell’animo, nè dissimularlo, prese rapidamente commiato e s’affrettò a lasciarla.
Elfrida lo seguì con lo sguardo confuso, spirante una tristezza infinita.
Forse ora ell’avrebbe desiderato di poter amare Enrico Moras, ma il suo cuore era chiuso e muto.
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In quella settimana dolorosa la fanciulla s0stenne con sè stessa la più aspra battaglia.
Il suo intelletto oppresso e stanco non era quasi in grado d’afferrare la nuova idea: ella non sentiva più che un malinconico desiderio di quiete e di silenzio; il bisogno di costringere la sua volontà a quell’ultimo e grave conflitto le faceva paura.
E se di quando in quando le appariva dinanzi una cara visione, un diletto paesaggio, un noto orizzonte, se la speranza di poter contemplare ancora le forme maestose delle sue Alpi, riposando all’ombra degli abeti secolari, le dava un senso di pace, il pensiero di cedere all’insistente generosità di Moras e d’accettare l’offerta una volta rifiutata, suscitava nel profondo del suo essere un fremito di ribellione e di ripugnanza mortale.
Eppure Elfrida sentiva che nella casa Roccaoliva non avrebbe più potuto vivere se non a patto d’una benevola, umiliante indulgenza: la sua salute era molto scossa e ogni giorno le venivano scemando le forze per il lavoro. Il suo destino si compiva dinanzi alla sua impotente alterezza, una forza superiore la costringeva a stendere le braccia verso quel porto dal quale una volta aveva distolto con orrore lo sguardo.
La lotta fu acerba, ma nella disfatta, nell’ultima transazione dell’orgoglio più abbattuto che domato, ella si confortò, pensando che avrebbe dato sè stessa, la sua vita, la sua fede, l’anima intera mai.
Il giorno fissato Elfrida attese Moras nella serra maggiore dello stabilimento, in quella specie di giardino d’inverno ove s’erano incontrati la prima volta fra una profusione meravigliosa di piante e di fiori.
Quando il giovine le comparve dinanzi all’ora convenuta, ella rimase colpita dalla sofferenza che gli traspariva dal volto. Moras non osava nemmeno interrogarla, soltanto i suoi occhi onesti tradivano l’ansiosa, intollerabile incertezza dell’animo.
La fanciulla gli stese una mano, dolcemente, e dopo un minuto di titubanza gli disse:
— Nella mia vita v’è una pagina... triste che nessuno ha letta mai. Io non ho nulla a rimproverarmi, le do la mia parola di gentildonna, ella ne è sicuro?
— Affatto sicuro — rispose il giovine con un lieto sorriso.
— Grazie, E... non domanderà mai nulla, non m’interrogherà sul mio passato? non esigerà alcuna confidenza?
— Lo prometto.
— Non ho altro da aggiungere — ella proseguì con un certo turbamento — ella persiste ancora nella sua cortese domanda?
— Come non persisterei nel mio più ardente desiderio?
— Ebbene, Moras, se così le piace, accetto.
Ella proferì le fredde parole del consenso con risolutezza, ma la voce era priva di suono e mentre una fiamma di gioia violenta ma contenuta saliva sul volto trepidante del giovine, le sue scarne gote si scolorarono in un pallore di morte. Nondimeno Elfrida, come un fiore delicato che il sole cocente piega sullo stelo, chinò la fronte purissima, compiendo un atto gentile di sommessione verso colui che doveva essere d’allora innanzi non solo il suo appoggio e il suo migliore amico, ma anche il suo signore.