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solitudine e il silenzio assoluto delle umane cose erano l’unico conforto di quell’’anima chiusa all’effusione e i suoi umili ospiti sapevano comprendere e rispettare nel loro devoto affetto un sì giusto desiderio di raccoglimento.
Sebbene lo spirito della fanciulla apparisse infermo, il suo corpo non ancora sprovvisto d’esuberanza giovanile cominciava a ravvivarsi a poco a poco d’una certa vitalità, il suo passo tornava ad essere leggero come una volta, la sua persona snella e gentile riprendeva la nativa alterezza del portamento.
Una sera, quasi inconscia dell’istinto che la guidava, Elfrida abbandonò il suo solido posto per inoltrarsi fra le ombre glauche e profonde della foresta e l’intimo colloquio con la natura selvaggia le riescì di sì grande conforto che la solitaria passeggiata divenne per lei una cara, irresistibile abitudine. In breve, i più difficili sentieri, i più reconditi recessi dell’Alpe le parvero familiari.
Di consueto, non incontrava mai nessuno, tranne i pastori o qualche povera raccoglitrice di fiori e di fanghi, ma un giorno, s’imbattè, con vivo rammarico, in un giovane che conosceva da gran tempo e che le passò dappresso con un deferente saluto: era Enrico Moras, il figlio del ricco industriale, proprietario d’una fabbrica fiorentissima di terre cotte, al quale appartenevano ormai le ultime reliquie dei beni di casa Vallarsa. Quantunque Elfrida si studiasse di cercare sentieri