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entrambe traspariva dal volto la dolce dignità che contiene gli sguardi per natura imperiosi, la tristezza amara delle rimembranze e del cadente destino.
Soltanto la vecchia signora pareva rassegnata alla sorte e vinta, ma nè il tempo, nè la sventura erano riesciti ad alterare il nobile disegno della sua bella e pacata fisonomia gravemente raccolta entro due falde di bianchissimi capelli.
La giovane era bionda, d’un biondo grigio e fino e la sua faccia delicata il cui pallore nativo la continua familiarità col sole non aveva profanato, non offriva forse alcuna attrattiva allo sguardo d’un freddo osservatore, ma chi la studiava, non visto, poteva sorprendere in quelle grandi iridi schive, fra il glauco e l’azzurro, illuminate da una larga, strana pupilla, in quella bocca destinata più che alla parola a un doloroso silenzio, dei commovimenti mal contenuti, dei fremiti improvvisi, dei lampi di volontà, il riflesso della continua battaglia interna, in cui s’agitavano forse gli ultimi desiderii, le ultime acerbe e impotenti ribellioni d’una stirpe ormai presso ad estinguersi. Ella portava un nome tradizionale, nella sua casa: Elfrida; e sebbene le mutate condizioni della famiglia ferissero crudelmente il suo nativo orgoglio, sebbene per sorreggere sua madre ella avesse dovuto discendere ai più umili uffici, camminava dritta e fiera come se sulla sua bionda testa dovesse posarsi un giorno una corona.