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straniera sembrava essersi dato convegno nella Basilica che un soffio di corruzione invadeva in quel l’ora più delle altre sacra.
L’eleganza frivola delle signore, sebbene uniformata alla gravità del giorno, rendeva ancor più severa la magnificenza del tempio e durante certi a soli lirici, il lieve, quasi impercettibile bisbiglio, più che un mormorio di folla orante, pareva un fremito misterioso di tenerezza e di contenuta passione.
Ma di tratto in tratto un’onda celeste di polifonia scendeva sulle navate e su quella folla, imponendole dei silenzii involontari, una passeggiera ma quasi angosciosa emozione di misticismo.
Inginocchiata presso la Confessione, Elfrida ascoltava, deliziandosi, tutta assorta in un pio raccoglimento, in una muta preghiera nella quale la memoria, sempre presente, dell’uomo amato aveva tanta parte. Poco prima che l’uffizio fosse terminato, mentre cantavano il Miserere, sollevando lo sguardo, le parve discernere da lontano, nella penombra, un diletto profilo, la linea aristocratica e fina, i piccoli baffi castani, i capelli corti e ritti sulla fronte spaziosa: era lui, il marchese di Beira. Ma egli non ascoltava la musica e nemmeno seguiva il rito sacro, egli discorreva con una graziosa signora, una delle spose più belle e più corteggiate di Roma. Elfrida la conosceva benissimo, ma sebbene il colloquio si prolungasse, nel suo cuore generoso non sorse nemmeno l’ombra d’un