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Vallarsa; unica proprietà che le rimanesse al mondo, trattenendo per sè una piccola somma bastante a vivere tre o quattro mesi.
Sebbene fosse straziata nel fondo dell’anima, Elfrida sentiva una fiera ansietà di lasciare la dimora alla quale non aveva più diritto. S’affrettò quindi a raccogliere le sue poche memorie personali e andò a chiedere un momentaneo asilo sull’Alpe, a tre ore di distanza, nella casetta dell’impiegato forestale il quale aveva sposato una cameriera di sua madre.
In quei giorni, i primi di maggio, il roseto era pieno di bottoni. Elfrida aveva intrecciato un’ultima ghirlanda per il camposanto, aveva dato un’ultimo sguardo al parco ombroso, all’abetina, alle camere popolate di ricordi ed era partita, col cuore lacerato, ma con la fronte alta, mantenendo fermo il passo sulle assi vacillanti dell’antico ponte levatoio.
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La primavera era rigogliosa e la foresta offriva alla derelitta tutti i conforti della natura trionfante. Fioriva, parassita del pino, il mitico vischio, le piccole orchidee ergevano nell’ombra i loro strani e vellutati perigonii in torma d’insetto, le radure erano seminate di mughetti olezzanti, gli scoiattoli saltellavano di ramo in ramo, era da mane a sera un vivace cinguettio d’uccelli innamorati.