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Quando s’alzò dal letto dopo tre settimane di grave malattia e discese nei giardini per riprendere le solite occupazioni, parve ad Elfrida che la faccia della natura si fosse per sempre oscurata al suo sguardo.

Fra tanti dolori ell’aveva provato il più grande, il più terribile, quel dolore che viene direttamente dalla creatura umana e che per sè stesso non può contrapporre all’infinita amarezza dell’umana miseria alcuna superiore ed efficace fonte di conforto.

Ell’era uscita dalla chiesa colla preghiera sulle labbra, con una mistica tenerezza nel cuore e pochi minuti dopo, un uomo volgare le aveva rivolto indimenticabili parole, le aveva fatto una mortale ingiuria, trattandola, lei Elfrida di Vallarsa, come una fanciulla disonesta!

E quell’uomo era l’amato, l’unico, l’idolo collocato ciecamente sull’altare!

Indarno ella cercava in fondo alla sua anima la consueta energia, indarno ella si sforzava di reagire e di superarsi, l’antico orgoglio era sopraffatto da invincibili turbamenti.

Ella s’inoltrò nei giardini con un senso di ripugnanza viva. La primavera cominciava a sorridere, il verde gaio e fino d’aprile dava alla campagna un aspetto d’ingenua allegrezza, i castelli romani biancheggiavano in lontananza sullo sfondo vaporoso dei colli cerulei.

Ella entrò nelle serre ove centinaia di rosai