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si deliziavano al sole. Fra le specie nuove, coltivate in vaso, una bella Bourbon ergeva sui rami robusti una ricchezza di bottoni presso a sbocciare. Sulla targhetta di legno, dipinta di giallo, stava scritto «Marchese Alessandro di Beira».
Ah! non le era più concesso di distruggere quella rosa che due giornali avevano già illustrata, che aveva varcato monti e mari ottenendo un premio in una esposizione inglese e un posto d’onore nei registri delle società orticole.
Era destinata, povera rosa, a portar seco, perennemente, nel mondo sereno dei fiori il ricordo d’un triste amore.
Elfrida la contemplò alcun tempo con un disgusto amaro, poi, come se volesse ‘ripudiare il gentile frutto dei suoi studî e delle sue dotte esperienze, ne recise ad uno ad uno i bottoni vermigli, li sfogliò con impeto, sparse i petali al vento, come piccole goccie di sangue.
🞻 🞻 🞻
Alcuni mesi erano trascorsi e su quella fronte giovanile rimaneva un’ombra grave.
Il breve miraggio della felicità aveva consolato la malinconica giovinezza d’Elfrida, ma sul sogno era passata impetuosa la bufera, e ella non vedeva più dinanzi a sè che un vuoto senza fine.
L’improvvisa scomparsa del marchese, le let-