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dei prati cresceva, alta, disuguale e se la generosità dei creditori aveva rispettato la passione della contessa per gli alberi, risparmiando le piante più vicine al castello, nell’abetina secolare, ch’era stata un lusso quasi regale, echeggiava, di quando in quando, il lugubre suono dell’accetta e da lontano si vedevano le cime delle conifere atterrate tentennare e sparire.

A quella vista il cuore d’Elfrida dava lagrime di sangue ma era necessario vendere, vendere sempre.

A mezzogiorno sotto l’ala abitata del castello, una piccola parte del deserto giardino era ridotta ad ortaglia e la fanciulla, assistita da un vecchio guardiano, la coltivava con le sue mani per procurare alla madre le primizie dei legumi.

Intorno agli scompartimenti ell’aveva piantato dei rosai selvatici e come un antico fornitore della famiglia non mancava di spedirle ogni anno dalla Germania, una cassettina di fresche rose, ella staccava le gemme dai gambi, le innestava con rara maestria sui polloni campestri e aveva creato, in tal guisa, un roseto di due o trecento specie scelte che in primavera e in autunno le deliziava la vista.

Quelle piante dopo il materno affetto, una delle poche dolcezze della sua vita, furono anch’esse un precario possesso: il conte di Vallarsa, prima di morire, aveva ceduto il castello e le sue adiacenze, sotto date condizioni, ad un ricco indu-