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Da lontano veniva un odore salubre, aromatico d’encalyptus. Sembrò ad Elfrida che la natura le parlasse, in quell’ora, con un linguaggio nuovo e ella si raccolse nel diletto di quella ricordanza con un senso d’ignota, arcana e quasi paurosa gioia.

La mattina, per tempo, ella rivolse i primi passi verso il riparto delle rose nuove, un piccolo recinto chiuso da una siepe di sweetbriar, il fiore dei poeti inglesi.

V’erano poche piante verdeggianti, robuste, ignote ancora al mondo della fioricultura.

Quasi tutte fiorivano, sfoggiando la preziosa novità dei colori e delle forme. La fanciulla si chinò con amoroso trasporto sovra le leggiadre creazioni che la sua fantasia, assistita da uno studio indefesso aveva ottenuto, mediante i delicati connubii del polline, ne fiutò la fragranza, pose le labbra su certi bocciuoli come per un furtivo bacio d’affetto; poi, fermatasi a lungo dinanzi una Bourbon d’un fulgido colore scarlatto quale mai non s’era visto, si chinò in ginocchio per prendere in mano la piccola targa gialla ch’era fissata sul gambo, e vi scrisse chiaramente colla matita un nome: «Marchese Alessandro di Beira».

Era battezzata ora la rosa, la rosa che doveva andarsene trionfante per il mondo, in tutte le migliori case orticole, nelle primarie esposizioni, riprodotta dai giornali, ammirata nei salotti aristocratici, ricercata dagli amatori, la rosa che portava seco in segreto il tenero ricordo d’una simpatia innocente e gentile.