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Insensibile a tutte quelle gioie alpestri che un giorno aveva tanto apprezzate, Elfrida non si sentiva attratta che dall’armonia vaga del bosco, dalle voci misteriose che sembrano passare colla brezza vespertina fra le glauche cime delle conifere e perdersi in un dolce bisbiglio entro le tre mule foglie dei pioppi. Perciò amava di stare molte ore seduta dinanzi alla casetta dell’impiegato forestale, su una rozza panca di legno ad ascoltare quel mormorio indefinito che la sera, al crepuscolo, quando le capre tornavano dal pascolo scuotendo i loro campanelli argentini, quando da tutti i paeselli circostanti l’Angelus quietamente echeggiava, e gli usignuoli cominciavano a cantare i loro limpidi trilli d’amore pareva assurgere alla bellezza d’un concerto pastorale.

Ella contemplava la larga vallata che si stendeva sotto i suoi occhi tutta verdeggiante di messi immature, tutta seminata di villaggi, di casolari, di castelli; ella si dilettava di seguire sul chiaro orizzonte la linea capricciosa delle Alpi ove la bianchezza delle nevi eterne si fonde nel cielo, e di attendere il lento degradare della luce finchè il firmamento scintillava di stelle o finchè la luna faceva risorgere sotto forma fantastica il nobile paesaggio dall’ombra notturna.

Ma il suo pensiero non era consenziente allo sguardo. Fissa, anzi quasi assopita nel dolore la mente d’Elfrida rimaneva inerte e passiva e del solo dolore sembrava avere esatta coscienza. La