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E a poco a poco con voce carezzevole, insinuante, poi tenerissima, egli le venne dicendo tante dolci cose, egli le narrò della prima impressione avuta da lei, del suo bisogno irresistibile di rivederla, della felicità che provava nell’esserle vicino, finì col simulare i turbamenti repressi della passione che non osa manifestarsi in tutto il suo ardore.
Elfrida ch’era rimasta impassibile per le umili parole d’Enrico Moras, Elfrida che non aveva mai guardato con speciale interesse alcun uomo, serbandosi ferma nella sua amara alterezza, sentì crollare tutt’a un tratto, dinanzi a quella seducente parvenza, il fragile edifizio della sua individualità superba, sentì l’anima, soggiogata da un arcano potere, piegarsi deliziosamente sotto il nuovo dominio.
Era sempre stato il suo segreto, il suo inconsapevole sogno quello d’immolare lo spirito esacerbato e ribelle a uno solo, all’unico, e quell’unico stava lì dinanzi a lei, bello, tenero, seducente come nel sogno.
Le sofferenze d’una giovinezza dolorosa non erano riescite a soffocare in Elfrida l’imperioso istinto della felicità: sotto il suo apparente scetticismo d’ogni terrena fede, si celava, come spesso avviene alle creature superiori, un ardentissimo bisogno di credere e d’amare.
Se il marchese di Beira si permetteva di chiamarla col suo nome e di darle del voi, mentre ella anche nelle forme esterne si manteneva sempre