Scola della Patienza/Parte prima/Capitolo III
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CAP. III.
Per qual cagione alcuni Discepoli in questa Scuola siano trattati peggio de gl’altri.
Qualunque tu ti sia, di grazia dà, di gratia, un’occhiata intorno al mondo, e vedrai, che da per tutto moiono quelli, dalla vita de’ quali dependea la salute de molti, e che quei solamente restano in vita, che sarebbe stato meglio, che non fussero mai nati. Vedrai alcuni ladroni, e assasini essere sanissimi, e alcuni, che non sanno far male à nessuno, star sempre combattendo con diverse malatie: E che non pochi de i più tristi, e scelerati sono sollevati alla cima delle Dignità, e altri de’ migliori, e più honorati stanno sempre contrastando miseramente con la povertà. Chi sarà, che abbastanza si meravigli di queste cose? E chi non si sdegnarà ancora, che da per tutto il Vitio fiorisca, e la Virtù si lodi, e se ne stia tutta gelata, e fredda? L’istesso S. Agostino dice. Nescimus quo iudicio Dei Bonus ille sit pauper, malus ille sit dives. Non sappiamo ancora per qual giuditio di Dio quell’huomo da bene sia povero, e quel tristo sia ricco. Hora levaremo dal mezo della strada questo intoppo, nel quale hanno inciampato tanti huomini santissimi. Si hà dunque da rispondere à questa dimanda. Per qual cagione nella Scuola della Patienza siano più travagliati, e afflitti, e spesso più dura, e aspramente trattati quei, che sono più docili, e modesti, che gli altri. Cioè per qual cagione i buoni hanno male, e i tristi bene.
Note
§. 1.
manda in esilio, e si muor di fame: se un divoto Daniele è condannato ad esser divorato da leoni: se un paziente Giob, è flagellato dal Demonio: se un Battista innocente è tratto alle prigioni d’Herode: E se vi è qualche Pietro, che arda d’amore, e per forza rapito sotto la spada di Nerone. Rivolta pure tutte le sacre scritture dal primo cap. del Genesi sino all’ultimo dell’Apocalissi, non vedrai quasi mai altro, che le miserie, e le calamità degl’huomini da bene. Andate pure ò mortali, e cercate tutte quante l’historie sacre, e profane di tutti i tempi passati, che non trovarete altro da per tutto, se non le lagrime, e le afflittioni dei più santi huomini, che siano stati. In Athene il savio Socrate, il buon Focione, il giusto Aristide, e ’l vincitor Milziade patiscono cose indegnissime: Aristide ne guadagnò l’esilio, gl’altri la morte. L’istesso occorse à Roma: Marco Catone, che fù esempio degl’huomini savi e un vivo ritratto di tutte le virtù, è tirato, spelato, spinto, sputacchiato, spogliato della Pretura, e della toga; dal Senato cacciato in prigione; e ivi, come un’altro Socrate, è sforzato à morire. Rutilio, e Camillo se ne vissero in bando; e Pompeo, e Cicerone da i loro istessi clienti furono uccisi.1 Il fine de gl’huomini da bene spesse volte è malo, e spessissime volte è pessimo. E chi sarà quello, che voglia attendere alla virtù, se così iniquamente vien premiata? Giovanni Battista geme, e piange nella prigione, e Herode sguazza fra le delitie; il povero Lazaro se ne muore di fame, e quell’avaro riccone, boia di quel povero huomo, se ne stà vestito tutto di porpora, mangiando ogni giorno splendidissimamente. Multae sunt tribualatione iustorum. 2 Molte sono le tribulationi de gl’huomini da bene, molte sono, anzi moltissime. Che cosa fà quà Iddio? Dorme egli forse, ò pur dissimula? quello, che tiene minutissimo conto d’un solo capello della nostra testa, d’ogni minimo uccellino dell’aria, e d’ogni minima foglia d’arbore; e non ne cade una in terra ch’ei no ’l permetta: Può egli forse star à vedere tante, e così grand’ingiurie, e sopportarle? Quomodo scit Deus, et si est scientia in excelsis? 3 Come dunque sa queste cose Iddio, e come si sanno lassù nel Cielo? Questo è l’intoppo, e questo è quello scoglio infame per la diffidenza di tanti, che n’hanno senza ragione temuto.
O mortali, sa benissimo Iddio tutte queste cose, è non è altrimente ingiusto. Con grandissima sapienza, e giustizia si trova nel mondo questa mutatione, e vicissitudine di cose, che i primi siano gl’ultimi, e gl’ultimi i primi, e che siano puniti gl’innocenti, e i colpevole assoluti. Per adesso in questo modo si vive: i tristi vanno inanzi, e fioriscono; e gl’huomini da bene sono spregiati, gemono, e si dogliono: i Padroni servono, e i schiavi commandano. Mà questo quanto poco tempo hà da durare? Altro determinarà l’Eternità. Adesso ci proviamo per quella vita migliore: Ne ci maravigliamo, che in questa prova ogni cosa vada sottosopra, e alla riversa;, che la Virtù sia da continui travagli oppressa, e, che il Vitio si goda di una tranquilla, e delicata pace; perche come dice Giob: Nihil in terra sine causa fit4 Non si fà cosa alcuna in terra senza ragione, e causa, delle quali hora noi n’esplichiamo alcune.
Note
§. 2.
L’altra causa è perchè la Calamità, e l’afflittione è uno stimolo alla nostra dapocaggine. Tutti noi altri per il più fuggendo la fatica siamo inclinatissimi alle feste, e all’otio. Di qui è, che quando non vi sono stimoli ci mettiamo vergognosamente à dormire non senza gran danno della nostra salute. Una veste, che stia sempre otiosa se la mangiano le tignole. Un campo che non si lavora mai, si riempie di spine: E nell’acqua, che sta sempre ferma, vi stanno li rospi, e le ranocchie. E l’huomo, che non è travagliato, è snervato dalle delizie, e si riempie de’ vitij. E questo è, che Dum dormiunt homines, venit inimicus homo, et superseminat zizania. 6 Mentre gli huomini se ne stanno dormendo, vien il nemico, e semina zizanie. Mentre Sansone se ne stà dormendo, e col capo in seno à Dalida, perde coi capelli ancor tutta la forza. È vero, che lo svegliarono i Filistei, ma già lo trovarono mal concio, e tutto dalle forze abbandonato. Scipione Nasica, quel gran savio, perche fù di parere, che non si distruggesse Cartagine, accioche sempre vi fusse chi tenesse svegliati i Romani; e non li lassasse dormire. L’istesso Iddio pose nel mezo del suo popolo d’Israele gl’Hetei, i Gergezei, gl’Amorrei, i Cananei, i Ferezei, gli Hevei, e gli Iebusei lor fortissimi nemici, accioche il popolo d’Israele non si addormentasse nei vitij, e havesse sempre una perpetua materia di combattere, e di vincere.
Nel tempo, che David non era ancora proclamato per Re, e se ne stava nascosto nelle caverne, e spelonche delle fiere, non essendo in alcun luogo sicuro, si fece gran scrupolo di toccare etiandio Saul suo capitalissimo nemico: mà poi acquistata la pace, e la tranquillità, e standosene già frà le delitie ozioso, non hebbe paura d’uccidere con lettere il fedelissimo Uria.
La Chiesa non fù mai più fiorita, se non quando fù più afflitta, e fra le croci, e le spade mirò le pugne, e le vittorie de’ suoi martiri. Il medesimo avviene à ciascun’huomo, perche quando non è travagliato si addormenta, e pensa ai vizi. E veramente se non siamo tribulati, molestati, e punti diventiamo dapochi, e se non c’interviene qualche cosa, che ci avverta della nostra fiacchezza, stiamo quasi sempre oppressi da una continua ebrietà. Ma osserviamo di grazia in questo luogo ciò, che talvolta fa il maestro nelle scuole. Vede egli qualche volta due de’ suoi scolari, che in diversi banchi stanno dormendo, all’hora egli grida, e dice ad uno. E là sveglia un poco colui, che dorme, pungilo un poco, e fagli passare il sonno: A quell’altro non dice niente, mà s’infinge di non veder che dorme. Mà perche non fà svegliare l’un, e l’altro? La causa è in pronto. Perche à quello, essendo un giovanetto docile, e capace di disciplina, di lingua, e d’ingegno pronto; e perciò caro al maestro, li farà fra poco ripetere la lettione; mà quell’altro Endimione, ch’è un’apone della scuola, e grosso di legname, non stà mai cheto, ne fà mai bene, se non quando dorme; Questo il maestro lo lassa stare, ne se ne cura, e si contenta, che dorma più tosto; che stia ciarlando, e sturbi gl’altri. Così Dio preme, sveglia ed esercita quelli, che sono più docili degli altri, e gli sono più cari, e flagella molto bene quelli, che si piglia per figlio.
Note
§. 3.
La quarta causa è, perche con l’Afflittione s’illumina l’intelletto. Hà da durar molta fatica il povero maestro nelle scuole, accioche gli scolari imparino à poco à poco ad essere savij, e lassar le bagatelle, e comincino ad imparare, che non sanno niente. Questo stesso fa Iddio nella Scuola della Patienza: Ut vexatio det intellectum. 2 ci manda la tribulatione per illuminarci l’intelletto.
E veramente, che noi non potiamo intendere à bastanza, quanto siamo miseri, fragili, e caduchi, finchè le miserie istesse non ce ’l persuadono. E siamo tanto pieni d’amor proprio, che teniamo per cosa certissima di non haver forze bastanti à sopportar tante cose; Ma l’esperienza, che contra di noi è un buonissimo testimonio, ci fa vedere à nostro dispetto, quante cose possiamo sopportare per Christo, se noi vogliamo. Molti infermi vi sono, che patiscono cose, ch’essendo sani non s’haveriano mai creduto di poterle sopportare. Mà sopportando impariamo ancor questo, ch’è di conoscere quanto poca, e picciola sia la nostra patienza. E’ facile cosa il far del paziente quando non ci è niente da patire. Il Rè David riprendendo se stesso dice: Ego dixi in abundantia mea, non movebor in aeternum. Avertisti faciem tuam à me, et factus sum conturbatus. 3 Signore, quando io stavo quieto, e non ero travagliato da cosa alcuna, e abbondavo di consolationi, mi vantai, e dissi, che non mi sarei scomposto per cosa, che mi fosse occorsa; ma voi, per farmi vedere quale io fussi, e per illuminarmi l’intelletto, rivoltaste da me la vostra faccia, e subito mi conturbai. S. Pietro non si haverebbe mai creduto d’essere così timido, e codardo, se non havesse fatto così miserabile caduta. Havea egli sparso queste parole magnifiche nel cenacolo: Etsi oportuit me mori tecum, non te negabo: Et si omnes scandalizentur, non ego. 4 Ancorche fosse di bisogno morire insieme con Voi, Signore, io non vi negarò mai. E benche gl’altri si scandalezino, questo però non farò io. Mà non passò troppo, ch’egli imparò à conoscersi. Per questo l’Ecclesiastico ci esorta con queste parole: Fili in vita tua tenta animam tuam, et si fuerit nequam, non des illi potestatem. QUi non est tentatus, quid scit? 5 Figliuolo mentre sei vivo fai prova dell’anima tua, e se la troverai cattiva, non la lassar fare à modo suo. E che cosa sà quegli, che non è tentato? Per conoscersi bene è necessaria l’esperienza. Nessuno saperà mai quello, che tu ti possa, ne anche tu stesso, se non te ne darà occasione qualche cosa più difficile, che per sorte ti occorresse. Non si può sapere fin dove arrivi il suono d’una tromba, se quella non si gonfia. Il Pepe initero all’hora si sente, quanto sia odorifero, quando si pesta. All’hora si conosce se un leuto, ò una viola è sia ben accordata, quando dalla mano, ò dall’archetto vien toccata. Quanta fusse la patienza della Beatissima Vergine, si vide benissimo nella stalla di Betlemme, nella fuga d’Egitto, e sotto la croce nel monte Calvario. Quanto grande ancora fusse la patienza di due santissimi Anachoreti Beniamino, e Stefano, ne fan testimonio le lor gravissime infermità: E quanto à Stefano s’appartiene,6 mentre il Chirurgo gli tagliava le sue putride membra, egli fra tanto, per non perder niente di tempo, faceva treccie di foglie di palma, e sopportò con tanta patienza tutti i tagli, che quello gli diede, che non altrimenti, che gli havesse dato à tagliare un altro corpo, che non fusse stato il suo. E mentre gl’altri ch’erano presenti, e guardandolo sentivano i suoi dolori, Stefano disse loro: figli miei tutto quello, che fà Dio, lo fà per bene. Paziamo pure, e combattiamo mentre siamo alla guerra. Perche è meglio à patire un brevissimo dolore, che andar à provare gli eterni supplicij.7 Beniamino poi,, che per lo spazio di ottant’anni era sempre vissuto virtuosamente, e havea potuto col solo tatto guarire qualsivoglia infermità, egli alla fine divenne miserabilmente hidropico. E venendolo à vedere il Vescovo Dioscoro con Evagrio, e con Palladio: Venite di grazia à vedere, diceva, un nuovo Giob, che non solamente con incredibile patienza ricuopre i suoi dolori, mà ringratia ancora Iddio, che gli sia permesso d’essere infermo. A cui l’istesso Beniamino rispose in questa forma: Figliuoli pregate Iddio, che non sia hidropico l’huomo interiore. Il corpo non mi fù egli di giovamento, quando stette bene? nè hor, che si marcisce mi fà danno.
Note
§. 4.
Faraone Rè dell’Egitto fece un’ingiustissima determinatione contro i bambini delli Hebrei, ordinando alle raccoglitrici, che partorendo qualsivoglia donna hebrea un figlio mascio, l’uccidessero: Si masculus fuerit, interficite eum. 4 Origene espone così questa crudel commissione: Si rarum quemque videas, unum ex mille, as dominum converti, et ea quae aeterna sunt quaerere, odisse deilitias, amare continentiam, etc. hunc quasi masculum necarer cupit Pharao Rex Tartari, et mille adversus eum machinis pugnat. 5 Se talvolta vedrai qualcheduno (che sarà raro, e uno frà mille) che si converta da dovero à Dio, che cerchi le cose eterne, che fugga le delitie, ami la continenza etc. Subito Faraone, ch’è il Demonio dell’Inferno, cerca d’ucciderlo come maschio, e lo combatte con mille sorte di machine. E così nessuno deve meravigliarsi, che i corvi si lascino andar liberi, e si tenghino strette le colombe, che i tristi siano felici, e miseri i virtuosi. Soleva dire una volta Demetrio: Nihil mihi videtur infelicius eo, cui nihil unquam evenit adversi. 6 Niuna cosa mi pare più infelice, ne più disgraziata di colui, che non hà mai patito alcuna avversità. In questo medesimo senso diceva Biante, che quegli era infelice, che non poteva sopportare l’infelicità. Queste sentenze de Savij vengono da quel Savio di Roma confermate in questo modo con un chiarissimo testimonio: Brevem (disse egli) tibi formulam dabo qua te metiaris, qua te perfectum esse iam sentias: Bomum tunca habebis tuum, cum ontelleges infelicissimos esse felices. 7 Io, dice, ti darò un breve modo da misurarti, e vedere se tù sei perfetto: ed è che all’hora sarai tale, quando intenderai, che i più infelici sono felici. Qual Christiano sarà quello dunque, che non giudichi di essere misero, solo perche rarissime volte gli sopraggiunghino le miserie? Seicento cause si possono attorno à ciò apportare.
Note
- ↑ [p. 121 modifica]Senec. lib. de Provid. c. 4
- ↑ [p. 121 modifica]Hebr. cap. 12. 7.
- ↑ [p. 121 modifica]Aug. in Psal. 93.
- ↑ [p. 121 modifica]Exod. cap. 1. 16.
- ↑ [p. 121 modifica]Origen.
- ↑ [p. 121 modifica]Senec. lib. de Provid. cap. 3
- ↑ [p. 121 modifica]Id. ep. 124. Et hoc omnium epistol. clausula est.
§. 5.
Per intender meglio questo segreto, eccitando S. Agostino la nostra attenzione, così dice: Videte fratres mei, et advertite: illi Deus irascitur, quem peccantem non flagellat. Nam cui vere propitius est, non solum donat peccata, ne noceant ad futurum saeculum; sed et castigat, ne sempre peccare delectet. 2 Vedete fratelli miei, e attendete bene, che Dio s’adira con quello, che non flagella, quando pecca; perche à chi egli veramente perdona, non solamente gli perdona i peccati, che non facciano lor danno nel futuro secolo, mà li castiga ancora accioche non piaccia lor sempre di peccare. Nel che Iddio si porta come un medico, che sappia benissimo, ciò che sia più espediente, e più convenga à ciascuno infermo. Dimmi un poco, perche causa il medico da più assenzo, e più elleboro ad uno, che ad un altro? Certo non per altro se non perche così richiede la infermità, ò la natura dell’infermo: L’istesso pensa di Dio, il quale per bocca di S.Agostino così parla all’infermo: Ego novi, quem curo, non mihi det, qui aegrotat consilium: tanquam emplastrum mordax urit te, sed sanat te. Rogas medicum ut tollat emplastrum, et non tollit , nisi cum fuerit sanatum, quo posuerat. Virtus in infrimitate perficitur. 3 Io conosco molto bene l’infermo, ch’io curo, nè in questo l’amalato mi dia consiglio. L’impiastro, ch’io adopero per curarti, inquanto ch’è mordace, ti tormenta; ma ti sana: Preghi il medico, che ti levi l’impiastro, e non te lo leva, finche non sia sanato dove te l’havea posto; Poiche la Virtù nell’infermità si perfettiona. Quindi è verissimo quel detto: Unica, et non fallax Virtutis obrussa, et probatio est afflicti. 4 Che l’afflittione, e il travaglio, è unico essame, e vera prova della Virtù.