Ricordi storici e pittorici d'Italia/Palermo
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Traduzione dal tedesco di Augusto Nomis di Cossilla (1865)
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PALERMO
1855.
I.
Il periodo Arabo.
La Sicilia fu fa prima contrada d’Europa, dove siano comparsi i Saraceni, dopochè la signoria degli Arabi si allargò sulle coste settentrionali dell’Africa. Fin dal secolo VII, cominciarono a far scorrerie nell’isola; venivano dall’Asia, quindi dall’Africa, da Candia, dalle Spagne, a modo di corsari, senza scopo, senza disegno prestabiliti. Nell’anno 827 però, formarono un piano regolare di conquista.
Michele Amari nella sua storia dei Mussulmani in Sicilia ristabilì con sicura critica i fatti relativi all’invasione degli Arabi, ricavandoli dalle fonti originarie. Sono queste presso gli Italiani la cronaca di Giovanni Diacono di Napoli, la quale risale all’anno 850 e quella dettata dall’anonimo Salernitano, verso il fine del secolo X; presso i Bizantini il cronografo Costantino Porfirogenito, ed il suo continuatore; e presso gli Arabi Ibn-el-Athir Nowairi, ed Ibn-Kaldum. Era scoppiata in Sicilia, la quale molto aveva a soffrire dal dominio bizantino, una rivoluzione militare; Eufemio generale si era proposto di strappare l’isola alla dominazione aborrita di Costantinopoli, se non che, le truppe che non erano siciliane si riaccostarono al partito bizantino, costringendo i ribelli a cercare rifugio in Africa, ed a gettarsi nelle braccia degli Aglabiti. Eufemio per odio e per desiderio di vendetta personale, diventò traditore verso la sua religione, e verso la sua patria.
Fece in Kairewan la proposta a Ziadeth-Allah di mandare nell’isola un esercito, il quale coll’appoggio dei Siciliani sollevati, ne avrebbe fatta facilmente la conquista. Personalmente poi Eufemio aspirava al titolo di imperatore. Le voci in Kairewan erano divise, e molti ritenevano l’impresa troppo arrischiata. Però Ased-ben-Forad, il cadì settuagenario della città, tenuto in gran conto per la sua scienza riuscì a persuadere gli opponenti, ed anzi volle assumere il comando della spedizione. Salparono il 13 giugno dell’827 dal porto di Susa in un centinaio circa di barche, tutto al più un dieci mille fanti, e settecento cavalli, composti di Arabi, di Berberi, di Saraceni fuggiti dalle Spagne, di Persiani, e sovratutto di Africani. Quattro giorni dopo sbarcarono presso Mazzara. Sconfissero in un sanguinoso combattimento il generale Palata, e durante la mischia Ased seguendo l’esempio di Alì e di Maometto, stava in preghiere convulso, recitando il capitolo Ia-Sin del Corano, quali un tempo Maometto ed Alì.
Poco dopo si mossero i Saraceni alla volta di Siracusa, dove si accamparono, come dice lo storico arabo, in certe grotte attorno alla città, vale a dire nelle famose latomie. Stettero un anno davanti alla città, dove i Greci incoraggiti pure delle promesse di soccorso loro fatte dal doge di Venezia Giustiniano Partecipazio, opposero gagliarda resistenza. I Saraceni furono decimati dalla peste, come era avvenuto a tutti gli eserciti, i quali in tempi anteriori avevano stretta Siracusa d’assedio, e particolarmente ai Cartaginesi ed agli Ateniesi. Ased-ben-Forad pure, morì per malattia nell’anno 828.
L’esercito Saraceno si elesse a condottiero Mohamed-ibn-el-Gewari, ma ridotto a mal partito quanto quello un tempo di Nicia, prese a battere in ritirata nella stessa direzione tenuta da questi, se non che venne inseguito con minore energia.
Guidati da Eufemio presero gl’infedeli stanza in Minoa, e rafforzati da nuove truppe s’impadronirono d’Agrigento. Panormo cadde nel 831. Chiamato dai Maomettani Bulirma, ottenne più tardi e conservò il nome di Palermo; ed ivi stabili la sua stanza Ibrahim-ibn-Abdallah-ibn-el-Aglab, primo Valì che è quanto dire governatore della Sicilia. Sotto il suo successore anche Castro-Giovanni, l’antica Enna, venne in possesso dei Saraceni. Durarono ancora nella resistenza Siracusa e Taormina, difendendosi, la prima particolarmente, con indicibile valore, e le memorie che rimangono di quell’assedio, ricordano l’eroismo dei Siracusani ai tempi di Nicia, e di Marcello. Tutti i viveri erano consumati; gl’infelici abitanti erano ridotti a pascersi di ossa triturate, e di cadaveri, sperando sempre essere soccorsi dallo imperatore Basilio, il quale aveva spedito il suo ammiraglio Adriano con una flotta in aiuto della città.
A far prova della venerazione che ispirava tuttora a quei tempi l’antica Siracusa, varrà una singolare tradizione, la quale narra che nel mentre Adriano se ne stava inoperoso sulle coste d’Elide nel Peloponeso, venissero alcuni pastori ad annunciargli essere loro apparsi un giorno nelle paludi alcuni demoni, dicendo che all’indomani sarebbe caduta Siracusa. I pastori vollero inoltre condurre l’ammiraglio al luogo designato, e si udirono difatti voci le quali annunciavano la caduta dell’eroica città. E così avvenne difatti. Siracusa fu costretta ad arrendersi il 21 maggio dell’878. I Saraceni entrati nell’infelice città vi si diportarono in modo barbaro, uccidendo gli abitanti, saccheggiando le case, ed appiccandovi il fuoco, e dallo enorme bottino che vi raccolsero, si può argomentare che Siracusa, mercè il commercio, anche ai tempi bizantini era tornata in fiore.
Esiste un documento prezioso di quell’epoca, la lettera del monaco Teodosio all’arcidiacono Leone, nella quale descrive l’assedio e la sua cattività, non che quella dell’arcivescovo. Dopo che fu presa la città, e dopo che venne uccisa la maggior parte degli abitanti, i Saraceni trascinarono a Palermo, davanti il grande Emir l’arcivescovo, e l’autore della lettera. Allorquando gl’infedeli comparvero davanti alla città col bottino raccolto a Siracusa, i loro correligionari loro andarono incontro, cantando inni di vittoria; si sarebbe detto, scrive il monaco, che colà si fosse dato appuntamento tutto il popolo d’Islam, da oriente a ponente, da settentrione a mezzogiorno. I prigionieri furono condotti davanti all’Emir, il quale era seduto in terra, ed aveva aspetto di compiacersi sommamente del suo potere dispotico. Mosse rimprovero all’arcivescovo del disprezzo nudrito dai Cristiani per Maometto, rimprovero a cui il prelato rispose colla risoluzione e coll’energia di un martire. Furono quindi, l’arcivescovo ed il monaco portati in carcere, e si fu in questo che la lettera venne scritta.
Il primo agosto del 901 si arrese pure Taormina, e da quel momento tutta quanta la Sicilia rimase soggetta alla signoria della mezza luna. L’isola ebbe da quel punto leggi maomettane, lingua araba, costumi arabi. La Sicilia, la quale aveva dato a Roma ben quattro Papi (Agatone nel 679, Leone II nel 682, Sergio nel 687, e Stefano III nel 768) correva oramai pericolo di andare perduta per la Cristianità, tanto più che gli Arabi non si comportavano in modo fanatico, ma si sforzavano piuttosto nell’indurre i Siciliani ad abbracciare la religione di Maometto. Albufeda narra, che Achmed governatore dell’isola nel 939 portò seco in Africa trenta giovani nobili siciliani, e li costrinse ad abbracciare l’Islamismo. Parecchie chiese però, e monasteri furono distrutti; molte corporazioni religiose furono soppresse, altre ottennero tolleranza, mediante il pagamento di ragguardevoli tributi, e riuscirono a mantenersi sotto la dominazione eziandio degli Arabi. Allorquando i Normanni vennero in Sicilia, trovarono valido appoggio dai Cristiani in Val Demone, e nel Val di Mazzara, e trovano parimenti in Palermo un vescovo greco, Nicodemo, il quale compiva al suo ufficio nella chiesa dì S. Ciriaco.
La signoria degli Arabi fu del resto, secondo la natura di quel popolo, irrequieta ed agitata, e mentre all’estero la minacciavano la guerra con i Greci delle Calabrie e di Bizanzio, era travagliata all’interno dalle fazioni, e la posero più di una volta in pericolo le ribellioni delle città siciliane, Siracusa, Agrigento, Imera, Lentini, Taormina. Fintantochè durò la dominazione degli Aglabiti di Kairewan, l’isola fu governata dai loro Valì, ma allorquando in principio del secolo X successero a quella dinastia i Fatimidi ed il califato di Tunisi venne riunito a quello di Egitto, la Sicilia pure diventò provincia egiziana, ma ciò non avvenne senza sanguinosa lotta fra i dominatori antichi e novelli della bell’isola.
La signoria dei Fatimidi segna l’epoca più felice della dominazione araba in Sicilia. L’isola venne innalzata alla dignità di emirato proprio, ed indipendente dall’Egitto, di cui Palermo era la capitale. Hassan-ben-Alì fu il primo emiro dei Fatimidi nel 948; e nel 969 diventò ereditario nella sua stirpe l’emirato di Sicilia. La saviezza di Hassan non fu meno apprezzata, della sua energia; desso seppe domare i partiti, assicurare la tranquillità dell’isola, e non solo regnava in quella, ma incuteva timore eziandio alle Calabrie ed all’Italia, non eccettuato Roma. Invano tentò una spedizione contro di lui l’imperatore greco Costantino Porfirogineta; il suo esercito fu sconfitto, la sua flotta venne distrutta. Anche Abul-Kasem-Alì, successore di Hassan, recò molestia all’Italia con continue scorrerie, e poco mancò cadesse nelle sue mani lo stesso imperatore Ottone II. Intanto l’abbondate bottino che gli Arabi portavano di continuo a Palermo, rendeva ricca la città; novelle schiere di Mussulmani venivano di continuo dall’Africa a popolare l’isola, la quale cominciò a fiorire come la Spagna sotto la dominazione dei Mori.
Furono parimente felici i regni di Jussuf dal 990 al 998, quello di Giaffar in principio del secolo XI e quello di Al-Achals suo successore. Durò circa ottant’anni questa condizione regolare di cose, in fino a tanto che i torbidi di Africa si estesero pure alta Sicilia, riducendosi in fine alla divisione del governo in piccole signorie delle varie sette, le quali prepararono la caduta della dominazione araba nell’isola.
Hassan Samsan Eddaula, fu l’ultimo emiro di tutta quanta la Sicilia. Si sollevò contro di lui il proprio fratello Abu Kaab, il quale finì per cacciarlo in Egitto nel 1036. Erano sorti nelle varie città piccoli despoti arabi ed altri emiri dell’Africa, i quali approfittarono dei disordini, per impossessarsi della signoria. Era giunto il momento opportuno per tentare di cacciare gli Arabi, e l’imperatore Michele Paflagonio spedì il prode Giorgio Maniace con un esercito io Sicilia, ma non riuscì a questi di operarne la conquista, bensì vi riuscirono i Normanni nell’anno 1072.
Abbiamo visto del resto, che il carattere della dominazione degli Arabi in Sicilia, fu diverso affatto da quello della signoria dei Mori in Spagna. Entrambe queste regioni, fra le migliori dell’Europa meridionale, furono conquistate dagli Arabi africani, ma in condizioni del tutto diverse. I Mori in Ispagna distrussero un possente impero cristiano, il quale possedeva buoni ordinamenti di governo e di amministrazione, alle quali dovettero provvedere, sostituendone altri. La loro signoria sorta dal Califato degli Ommaiadi, assunse carattere regolare ed ortodosso, di fronte a quello degli Abassidi nell’Asia: si produsse con eroismo cavalleresco, in faccia ed a contatto della Cristianità, costretta da questo contrasto a raddoppiare sempre di energia. Finalmente la Spagna era vasta, e ricca contrada.
Ben diversa si era la condizione degli Arabi in Sicilia. Non ebbero dessi a distrurre ivi una grande potenza indigena, ma solo a cacciare i Greci Bizantini diventati deboli e quasi barbari; la conquista fu loro agevole, e non acquistarono che città decadute dalla antica grandezza; ed inoltre la loro signoria sorta da una setta, da una dinastia provinciale, difettava di quella forza propria di una grande origine. Inoltre il Cristianesimo non venne punto in lotta con essi, ma piuttosto con essi si confuse, perchè non era abbastanza vasta l’estensione dell’isola, ed i monti di questa non offerivano le agevolezze che porgevano in Ispagna i Pirenei.
Mentre pertanto si sollevarono i Mori in Ispagna ad uno splendore che abbagliò l’Europa tutta quanta; mentre pertanto seppero illustrare il loro regno, con monumenti stupendi di architettura, e con una coltura scientitica, la quale regnò un’epoca nella civiltà Europea; mentre poterono dessi in quella mantenersi per ben settecento anni, non riuscirono per contro gli Arabi in Sicilia, durante i duecento anni della loro dominazione, ad uscire da uno stato tumultuario di dominazione passeggera. Ad onta della opinione dei Siciliani d’oggidì, i quali gettano in certo modo uno sguardo di compiacenza romantica sul periodo della dominazione araba nell’isola, si può ritenere che il regno dei grandi emiri di Sicilia, non differisse gran che dagli stati barbareschi d’Africa.
I Saraceni dei resto non erano punto rozzi, nè barbari. Dessi presero parte tutti alla coltura scientifica dell’Oriente, la quale si era sviluppata con una grande rapidità. La poesia, le arti, le scienze dell’Oriente, gettarono pure le loro radici nell’antico suolo dorico della Sicilia. La storia odierna della letteratura dell’isola accolse pure gli Arabi Sicoli nel catalogo dei suoi scrittori, formato dall’Amari. Ma noi daressimo volontieri tutti quei verseggiatori coi loro nomi pomposi, per la sola storia araba di Sicilia, di Ibn Kalta, la quale pur troppo andò perduta, e per queste rinuncieressimo pure al Divano di Ibn Hamdis di Siracusa.
I ricordi più importanti, e gli unici che tuttora sussistono della loro presenza in Sicilia, son quelli della loro architettura Kairewan, d’onde erano venuti, era rinomata per la sua moschea, fondata da Akbah nel secolo VII, e quale sede del califato di quelle contrade, doveva contenere notevoli edifici. Di là portarono gli Arabi il gusto della buona architettura, ma non costrussero però nell’isola edifici ragguardevoli, come fecero i Mori in Ispagna. Non abbiamo memoria di veruna bella moschea in Palermo, e lo stesso Alkassar di quegli emiri, diventato più tardi castello dei Normanni e degli Svevi, non lascia più riconoscere con certezza la parte costrutta dagli Arabi. Palermo era più di tutte le altre città distinta per lusso e per ricchezze, ed era diventata città voluttuosa, tutta orientale; ivi e nelle altre città, avevano gli Arabi edificati i loro mercati, le loro ville circondate da giardini, allettati dallo splendore di quella natura, la quale per limpidezza di cielo, per amenità di mare, per lusso di vegetazione, punto non la cedeva all’Oriente.
Nel periodo migliore della dominazione araba, sotto il governo di Hassan-ben-Alì, e di Kasem, dei quali troviamo scritto che costrussero varie città, e castella, dovette necessariamente estendersi l’architettura moresca. Nessun contrasto poteva essere maggiore di quello dello stile grazioso e fantastico dell’Oriente, col carattere severo e maestoso dei tempi dorici di Sicilia.
L’architettura moresca si mantenne ancora nei periodi posteriori; fu, come la scrittura e la lingua araba, usata talvolta tuttora dai Normanni e dagli Svevi, e dalla fusione dell’architettura saracena con quella bizantina-romana, nacque quello stile misto che prese nome di arabo-normanno. Da questo, dalla durata della influenza del carattere arabo, si può argomentare che i Saraceni la Sicilia dovevano pure avere innalzati belli e splendidi edifici. Se non chè il tempo ha distrutto tutti quei palazzi degli emiri, ia cui magnificenza aveva recato cotanto stupore al principe normanno Ruggero, e dei monumenti dell’architettura araba durante due secoli non sussistono oggidì guari più che la Cuba e la Zisa, due ville o palazzi di campagna presso Palermo, i quali si possono con sicurezza asserire costrutti dai Saraceni, sebbene grandemente alterati per ristauri, ed anche per ampliazioni di tempi posteriori.
Stanno entrambi fuori della Porta Nuova, sulla strada che mette a Monreale. La Cuba (voce che in arabo suona arco, o volta) serve da parecchi anni a caserma di cavalleria, ed andò soggetta a tali rovine ed alterazioni, in guisa che poco si può conoscere più delle sue interne disposizioni. All’esterno è un edificio quadrato, regolare, costrutto con pietre ben lavorate, di buone proporzioni, diviso da archi, e da finestre in parte finte e dirette unicamente a servire di ornamento, secondo la moda araba. Sulla cornice in cima all’edificio, si scorge tuttora una iscrizione araba che però non si può più dicifrare. L’interno fu completamente devastato, ed in parte ridotto a diversa forma in tempi posteriori; soltanto nella sala centrale, che doveva in origine essere sormontata da una cupola, si scorgono alcuni avanzi di pitture, e di bellissimi rabeschi in istucco.
Bocaccio collocò in questo palazzo la scena della quinta novella della sesta giornata del suo Decamerone, e lo storico Fazello ne descrisse la magnificenza. Tolse la descrizione della Cuba da scrittori più antichi, imperocchè già nel secolo XVI era quel castello rovinato. «Unito al palazzo, dice egli, trovasi fuori delle mura della città verso ponente un pomario di due mille passi di circuito, all’incirca, donominato parco, ossia Circo reale. In questi giardini crescono le piante le più preziose, ravvivate da acque perenni. Sorgono qua e là cespugli di alloro, e di mirti odorosi. Si stendeva colà dall’entrata all’uscita un lungo portico, con parecchi padiglioni aperti di forma circolare, destinati a sollazzo del re, uno dei quali esiste tuttora oggidì, in buono stato. Nel mezzo trovasi una grande vasca, formata di antiche pietre regolari, connesse poi con una maestria singolare, ed in quella si mantenevano pesci vivi. La vasca esiste tuttora, ed abbastanza in buono stato, ma vi mancano non solo i pesci, la stessa acqua. Su questo pomario sorgeva, quale si può vedere oggidì tuttora, il palazzo stupendo del re dei Saraceni, in cima al quale si scorge un’iscrizione araba, che nessuno fu capace fin qui di spiegarmi. In un’ala di quello, si mantenebano per sollazzo fiere, ed animali selvaggi di ogni specie. Se non che oggi trovasi tutto rovinato, ed i giardini ridotti a vigne ed orti, appartenenti a privati; e solo si può conoscere l’estensione del pomario, sussistendo tuttora in massima parte i muri di cinta. I Palermitani continuano a dare a quella località l’antico nome saraceno di Cuba».
Il palazzo sussiste tuttora attualmente nelle sue parti principali, quale venne descritto da Fazello, e particolarmente si possono vedere tuttora le mura di cinta del giardino, ed in questo gli avanzi della vasca, ed è ciò quanto rimane tuttora della Cuba.
La Zisa era villa più bella ancora, e più vasta, degli emiri saraceni. La famiglia spagnuola Sandoval, la quale ne tenne la proprietà, la alterò notevolmente con novelle costruzioni, ma con ciò la preservò da una rovina totale, in guisa che è possibile farsi una idea della sua forma primitiva, meglio che della Cuba. Lo stile è lo stesso; il palazzo ha forma di un dado di belle proporzioni; è semplice, costrutto con pietre lavorate regolarmente, e diviso in tre parti, da cornici, archi, e finestre.
Guglielmo il Malo aveva fatto ristaurare la Zisa, e probabilmente l’aveva pure ampliata, imperocchè non può spiegarsi in diversa maniera l’asserzione di Romualdo da Salerno, che quel re avesse fatto costrurre un palazzo denominato la Lisa. «In quel tempo, lasciò scritto Romualdo, il re Gugliemo fece costrurre presso Palermo un palazzo di una architettura meravigliosa; gli diede nome di Lisa, lo circondò di ameni giardini, e per mezzo di appositi acquedotti, arricchì questi di grandi vasche, dove si allevavano pesci». La Zisa rimase però sempre di origine araba, ad onta vi abbia il re Guglielmo introdotte variazioni notevoli.
Il suo interno, interamente ristaurato, contiene parecchie sale ed appartamenti, i quali non hanno più traccia di carattere arabo, e soltanto il porticato d’ingresso, ha serbato un certo aspetto d’antichità. Si vedono ivi nel muro nicchie, ed archi sostentti da colonne, dove sgorga in una vasca di marmo una fonte, tappezzata di muschio e di piante rampicanti. L’arco sopra la fonte di stile arabo, è notevole per ornati e per rabeschi di gusto originale, e fantastico. Le pitture a fresco, ed i mosaici che rappresentano palme, ramoscelli d’olivo, figure di arcieri, e di pavoni, sono d’origine normanna; come parimenti di origine normanna si è l’iscrizione cufica, sulla parete, riprodotta dall’orientalista Morso nel suo Palermo antico, non che dal de Sacy; mentre risale agli Arabi l’iscrizione, diventata illegibile, in cima al palazzo.
La fonte, dal portico sgorgava in una bella vasca, la quale sussisteva tuttora nel 1626 e di cui fa parola il monaco bolognese Leandro Alberti, nella sua descrizione dell’Italia e delle isole adiacenti. Trovavasi in faccia al portico, di forma rettangolare, della lunghezza di cinquanta passi, ed era rivestita tutta di muro lavorato con diligentissima commettitura. Sorgeva in mezzo alla vasca un piccolo edificio grazioso, al quale si aveva accesso per mezzo di un ponticello in pietra, ed in cui esisteva una saletta a volta, lunga dodici passi, larga sei, con due finestre, dalle quali si potevano vedere i pesci guizzare nella vasca; di là, dice Alberti, si entrava in una bella stanza destinata alle donne, con tre finestre ad archi doppi, sostenuti nel mezzo da una collonnetta di marmo.
Parecchie scale portavano al piano superiore del palazzo, dove esistevano varie stanze a volta, con colonne ed archi di stile arabo; e nell’interno trovavasi un cortile a porticati. Tutto quanto l’edificio era coronato di merli. La magnificenza delle sale colle pareti rivestite di mosaici, con pavimenti in marmo ed in porfido a colori svariati, doveva essere notevole. Se non che Alberti trovò di già la Zisa ridotta a tale stato di rovina, che prorompe in queste parole malinconiche «per verità, io non credo possa esistere animo ben fatto, il quale all’aspetto di questo bello edificio già in parte rovinato, in parte minacciante rovina, non provi un sentimento di profonda compassione». Quanto non doveva essere bella questa villa ai tempi degli emiri, dei Normanni, di Federico, sotto questo splendido cielo, durante le notti sereni di questa amenissima regione, la quale fa pompa dal lido del mare ai piedi del monte, de’ suoi aranceti incantevoli con i loro frutti di colore d’oro!
Ho vedute poche viste, incantevoli quanto quella che si scorge dal tetto a foggia di terrazzo di questo castello, dei dintorni di Palermo, della sua spiaggia, de’ suoi monti. La è di una tale bellezza, che difficilmente si potrebbe imaginare, peggio poi descrivere con parole. Si abbraccia di colà d’un solo colpo d’occhio tutta la Conca d’oro, co’ suoi monti bruni, di forme maestose e severe, che si direbbero tagliati da scalpello greco; co’ suoi giardini ricchi d’aranci, popolati di ville; colla città turrita, e ricca di cupole; col mare splendidamente immerso nella luce, colla mole imponente e bizzarra, da una parte del monte Pellegrino, e dall’altra del Capo Zafferano che sporge in mare; co’ suoi monti al lontano orizzonte coronati di neve, i quali si perdono in un’atmosfera pura, serena, tranquilla. Terra, mare, aria, luce, tutto ricorda l’Oriente; e nel guardare dal tetto della Zisa al basso nei giardini, quasi si crederebbe vedere uscire fuori belle odalische al suono del mandolino, ed un emiro con lunga barba in caftano rosso e pantofole gialle, e quasi si proverebbe desiderio di vivere quivi secondo i precetti del Corano.
È probabile, che ai tempi particolarmente della dominazione spagnuola, il fanatismo religioso abbia cercato rovinare l’antica dimora dei Saraceni. Risulta per contro, che i principi normanni, colpiti della bellezza dei palazzi e dei giardini degli Arabi, presero ad imitarli nelle loro costruzioni. Ruggero per il primo si eresse ville su quello stile, Favara Mimnermo, ed altre, come lasciò scritto Ugo Falcando contemporaneo degli ultimi principi normanni. Particolarmente si presero ad imitare le belle fontane, e le vasche alla foggia orientale, e risulta particolarmente che parecchie ne furono costrutte da Federico II, amico dell’Oriente. La grande ricchezza d’acqua di Palermo, provveduta fin dai tempi i più antichi di moltiplici acquedotti rendeva la cosa facile. Ed a far prova della cura che in ciò portavano gli Arabi, basterebbe la descrizione della vasca della Zisa fatta da Leonardo Alberti, se non che parimenti l’ebreo Beniamino di Tudela, nella sua breve descrizione di Palermo, parla più a lungo della vasca Albehira, che di tutte le altre cose notevoli della città. Egli si era portato in Sicilia nell’anno 1172 ai tempi di Guglielmo il Buono, per visitarvi le corporazioni israelitiche. Descrive nel modo seguente l’Albehira. «Nell’interno della città, sgorga la più copiosa di tutte le fontane; è circondata da mura, e forma una vasca alla quale gli Arabi diedero nome Albehira; vi si mantengono pesci di varie specie, ed in essa navigano le barche reali, ornate d’oro, d’argento, od elegantemente dipinte; e spesso vi si reca a prendervi sollazzo il re, colle sue dame. Nei giardini reali trovasi poi un castello, le cui pareti sono rivestite d’oro e di argento, i cui pavimenti sono formati di marmi preziosi d’ogni qualità, e che contiene statue di ogni natura. Non ho visto altrove edifici, i quali si possano paragonare ai palazzi di questa città».
Ignorasi dove si trovasse l’Albehira; Morso ha cercato di provare che Beniamino ha voluto parlare del così detto Mar Dolce, nome che si dà alle rovine di stile arabo del castello di Favara, in vicinanza del pittorico convento di Gesù fuori le porte della città, ed al disotto della grotta, rinomata per i suoi fossili. Si diede a queste rovine il nome di Mar Dolce, perchè si trovano di fronte ad una antica vasca, ma in arabo avevano nome Case Djiafar. Queste rovine rivelano architettura uguale a quella della Cuba, e della Zisa.
Esiste ancora fuori di Palermo una quarta villa, o palazzo saraceno, quello di Ainsenin, denominato dal popolo Torre del diavolo. Le sue rovine giacciono nella pittorica valle Guadagna, attraversata dall’Oreto, e sovra la quale si estolle il monte Grifone.
Sono questi gli unici monumenti di costruzione saracena, i quali tuttora rimangono in Palermo a ricordo della dominazione degli Arabi. Colla dominazione spagnuola, scomparve la graziosa architettura orientale, e cominciatono a venir meno ai tempi di Federico II le tradizioni dell’Islamismo, allorquando nel 1220 gli Arabi che si trovavano tuttora in Sicilia, furono trasportati a Nocera nelle Puglie; imperocchè durante l’assenza di Federico guidati dal loro capo Mirabet, avevano tentato riacquistare la loro indipendenza. D’allora in poi andarono perdendosi in Sicilia la lingua ed i costumi arabi, ed una nuova nazionalità, quella spagnuola, cercò impiantarsi nell’isola. Le traccie dell’Islamismo vennero severamente proscritte.
Si fu nell’ultimo secolo, in cui la scoperta di Pompei riaccese in tutta quanta Italia lo studio dell’antichità, che si cominciarono ad indagare pure con ardore le vicende della dominazione araba in Sicilia. Le iscrizioni esistenti nelle chiese, nei palazzi, portarono allo studio della lingua araba, e venne eretta in Palermo una cattedra per l’insegnamento di questa. Se non che, la cosa non avvenne senza una ridicola soperchieria, la quale valse a provare fino a qual punto ogni tradizione araba fosse scomparsa dall’isola, dove un tempo gli stessi re cristiani avevano parlata quella lingua. Il maltese Giuseppe Vella, capitato a Palermo si era spacciato per profondo orientalista, e vi aveva falsificato un codice contenente parecchie corrispondenze degli Arabi in Sicilia. L’abile falsario seppe ingannare tutta quanta l’Europa erudita, finchè smascherato, venne rimosso dalla cattedra, ed imprigionato.
Intanto si erano pure dedicati allo studio dell’arabo parecchi Siciliani, fra quali Airoldi, Rosario, e Morso, il qual ultimo particolarmente, succeduto nella cattedra al Vella, ed in relazione con i grandi orientalistiti Tichsen, Silvestre, de Sacy, Hammer, e Frahn, molto si adoperò per la interpretazione delle iscrizioni cufiche esistenti in Palermo. Ne risultarono opere utili per la storia degli Arabi in Sicilia, come la Rerum Arabicarum quæ ad istoriam siculam spectant ampla collectio di Gregorio pubblicata a Palermo nel 1790, e le Notizie storiche dei Saraceni siciliani di Martorana, pubblicate pure a Palermo nel 1833; finalmente la storia e la letteratura araba dell’isola, trovarono un distinto illustratore in Michele Amari; del quale comparvero alla luce i due primi volumi della Storia dei Mussulmani in Sicilia.
Collo studio delle antichità arabe, si risvegliò pure l’amore per lo stile architettonico Saraceno-Normanno, ed a far prova del come siasi mantenuto pure nel popolo il gusto di quello, basta gettare uno sguardo su molte botteghe della via Toledo di Palermo, le quali sono disposte ed ornate propriamente alla foggia araba; come pure lo provano varie case di campagna dei ricchi. Il gusto corrotto dei palazzi e delle ville siciliane, è noto a tutti per la smodata sua bizzarria. Mentre si avevano sott’occhio i modelli dei più elenganti edifici mentre stavano alle porte di Palermo la Cuba e la Zisa, mentre esistevano nella città stessa edifici dell’epoca normanna, o posteriori, come a cagion d’esempio il palazzo dei tribunali, i quali avrebbero insegnato agli architetti, come anche nelle fabbriche grandiose si possano unire la semplicità all’armonia delle proporzioni, ed alla sobrietà degli ornati, si preferì innalzare costruzioni del gusto il più barocco, come la villa del principe di Palagonia, od aver ricorso allo stesso gusto chinese, come nella villa reale della Favorita.
In questi ultimi tempi si fece ritorno allo stile Arabo-Normanno, e farà epoca fra le moderne costruzioni, particolarmente la villa Serra di Falco, innalzata a poca distanza della Zisa da quel duca, altamente benemerito per lo studio delle antichità siciliane. I magnifici giardini di quella palazzina vi trasportano propriamente ai tempi di Hal-Hassan.
Nella città stessa poi, il marchese Forcella innalzò un bel palazzo di stile Arabo-Normanno, il quale non va però esente di qualche puerilità, come tutte le imitazioni di forme architettoniche venute fuori di uso, e di cui puossi avere un esempio nella villa Willhelm, presso Stuttgart. Il palazzo Forcella sorge sulla piazza Teresa, presso la porta dei Greci che si apre anzi in quello; il proprietario vi spese somme ragguardevoli, e l’opera non è ancora pienamente ultimata. All’esterno le finestre sono a doppio arco di sesto acuto, divise da una colonnetta torsa, e trovansi guernite di vetri colorati; le sale all’interno sono varie e ricche, particolarmente quelle centrali di gusto affatto arabo, le cui pareti sono rivestite di marmi, e di pietre dure, preziose queste e quelli, di vari colori, formanti disegni graziosissimi. La volta è arricchita di ornamenti fantastici, ed il pavimento in marmi di diversi colori a disegni, vale ad un tempo a dare una idea della ricchezza geologica dell’isola, imperocchè vi furono impiegati unicamente marmi siciliani. Non manca neppure il mormorio di una fontana, per dare la vera idea di un Alhambra. Altre stanze furono dal ricco marchese adatte nel gusto romano, e pompeiano, e rendono testimonianza dell’abilità dei Siciliani nella pittura a fresco, imperocchè tutte quelle imitazioni di pitture antiche, furono eseguite unicamente da artisti nati e vissuti nell’isola.
II.
Il periodo Normanno.
Due isole molto distanti l’una dall’altra, l’Inghilterra e la Sicilia furono ad un tempo stesso conquistate dalla razza ardita ed avventuriera dei Normanni, la quale dopo avervi brillato per poco, vi si spense. Tanto nell’una quanto nell’altr’isola venne introdotto il reggimento feudale, con baronie e maggioraschi, i quali durano oggidì tuttora; in entrambe le isole venne introdotta una costituzione aristocratica, la quale si sviluppò possente in Inghilterra, e di cui rimangono tuttora vestigia in Sicilia, dove andò perduta.
Questa similitudine di destini fra le due isole è fatto singolare, e potrebbe servire a spiegare altri fatti storici che si predussero dopo la rivoluzione di Francia, fra quali voglio ricordare unicamente, la costituzione procurata dall’Inglesi ai Siciliani nel 1812.
La signoria dei Normanni in Sicilia fu di breve durata, e brillò per poco tempo. Non si mantenne guari più di un secolo. Intelligenza, costanza, arditezza, ferocia quasi, politica vasta ed intraprendente, vastità di disegni, e d’intraprese, furono i caratteri distintivi di quella dinastia, fintantochè soggiacque al contatto della vita voluttosa dei Saraceni, al clima, alla libidine sfrenata del parteggiare. Diamo ora un rapido sguardo su questo periodo di storia.
Nel 1038 Giorgio Maniace era stato mandato in Sicilia dall’imperatore greco, per cacciarvi i Saraceni. Desso pregò Guaimaro di concedergli la piccola schiera di Normanni che questi teneva al suo servizio, ed il duca gli mandò quasi trecento uomini, sotto il comando di Guglielmo dal braccio di ferro, di Drogone, e di Umfrido. Si precipitarono i Greci ed i Normanni nell’isola, dove posero in fuga gli Arabi disuniti fra di loro, togliendo loro Messina, Siracusa, e parecchie altre città; se non chè l’avidità del bottino portò la discordia fra gli aggressori; i Greci rapaci volevano tutte per sè, e nulla lasciare ai Normanni. Questi offesi se ne partirono; tornarono in Italia, dove cercarono in qualche modo a trovare compenso. Sorpresero Melfi ed altre città delle Puglie, cominciando per questa via a stabilire la propria indipendenza, ma non appena erano questi casi avvenuti, che i Greci abbandonarono la Sicilia, per attendere a cacciare i Normanni dalle Puglie, ma non vi riuscirono; e intanto le città che avevano conquistate nell’isola tornarono in possesso degli Arabi.
Trascorsero alcuni anni senza avvenimenti degni di particolare menzione, durante i quali i Normanni raffermarono la loro dominazione nelle Puglie. Guglielmo vi era diventato conte, Drogone aveva più tardi ereditato i suoi possessi, ed Umfrido, dopo la morte di quest’ultimo, aveva costretto Papa Leone IX a concedergli l’investitura delle Puglie. Novelle schiere di combattenti erano arrivate di Normandia, sotto il comando di Ruggero Guiscardo, il quale dopo la morte di Umfrido, avvenuta nel 1056, si fece proclamare duca delle Puglie e delle Calabrie. Più tardi venne a raggiungerlo per dividere le sue sorti, suo fratello minore, Roberto.
I due valorosi fratelli avevano fin dal 1060 occupata Reggio, e di là avevano costantemente davanti agli occhi le coste dell’isola bellissima. In una notte, Ruggero accompagnato soltanto da sessanta soldati, mosse alla volta di Messina, per prendere cognizione dello stato del paese; attaccò temerariamente i Saraceni sulla spiaggia, quindi si rimbarcò e fece ritorno a Reggio. Poco dopo la fortuna lo volle favorire, e desso si dispose seriamente a tentare l’arrischiata impresa. Si presentò a lui Bencumen, emir di Siracusa, il quale era stato cacciato via da suo fratello Belcamend; lo informò delle gravi dissensioni che travagliavano la Sicilia, e lo richiese di togliere agli Arabi il possesso dell’isola.
L’impresa non fu punto facile; i Saraceni opposero virile resistenza; nuove truppe vennero d’Africa per opporsi a Ruggero, dopochè, a seguito di una sanguinosa battaglia, erasi desso impadronito di Messina. Venne allora a raggiungerlo suo fratello Roberto presso Castrogiovanni; posero in fuga il nerbo principale delle forze Saracene, e senza allargarsi maggiormente nell’isola, tornarono in Calabria per radunare nuove forze, e prepararsi a più seria lotta. Intanto Almocz califfo d’Egitto, aveva spedita una flotta in Sicilia, ma fu dispersa dal cattivo tempo e distrutta presso l’isola di Pantelleria. La fortuna aveva arriso agli arditi avventurieri, ma la discordia minacciò di rovinarli. Roberto Guiscardo cominciò ad avere invidia dei successi di suo fratello Ruggero, pretendeva al possesso di metà delle Calabrie, e di tutta quanta la Sicilia; l’altro non volle aderirvi; i due eroi pieni d’orgoglio diedero di pugno alle armi, e senza badare nè alla presenza dei Greci e dei Saraceni, nè alla incertezza delle loro recenti conquiste, presero a straziarsi a vicenda in selvaggia guerra. Roberto cadde nelle mani di suo fratello, ma questi cedette all’influenza di quell’uomo straordinario, e Ruggero lo lasciò libero. I due fratelli riconciliati, si rivolsero più che mai contro la Sicilia.
Ripetute volte si spinsero i Normanni fin sotto Palermo, ma costretti sempre a far ritorno in Calabria per provvedere ai casi di quella parte dei recenti loro dominii, non poterono prima del 1071 pensare a stingere di regolare assedio la capitale dell’Isola. Era forse Palermo a quell’epoca la città più popolosa d’Italia, e fuori di dubbio poi la più fiorente, sede della splendida vita orientale, e straordinariamente ricca. Gli Arabi fecero ostinata difesa, e contrastarono a lungo agli sforzi degli assalitori. Narra la tradizione come per dimostrare la loro fiducia nell’esito della difesa, non chiudessero punto le porte della città, e che un ardito cavaliere, normanno, l’attraversasse un giorno di galoppo colla lancia in resta. Finalmente Roberto penetrò per la porta a mezzogiorno, mentre Ruggero entrava per quella a ponente. I Saraceni si erano ritirati nell’interno della città, ed ivi capitolarono, cedendo Palermo al felice vincitore, a condizione fossero loro guarentite salve le vite, e libero l’esercizio del loro culto.
Venti anni dopo entrarono i Cristiani in Gerusalemme, presa pure a forza, diportandosi quali orde selvaggie; ma i Normanni, valorosi crociati dessi pure, risparmiarono Palermo maomettana, Presero possesso della splendida città senza versare sangue, senza commettervi devastazioni, quali vincitori soddisfatti, i quali non avessero altro scopo che quello di cacciare il nemico dalle sue voluttuose dimore, per pigliarvi stanza a loro vece. Nessun sintomo comparve dell’odio fanatico di cui fecero prova più tardi i Cristiani contro i Maomettani. I Saraceni furono lasciati liberi di vivere a modo loro, secondo la loro religione. Il Cristianesimo, il quale era pressochè venuto meno, riscorse poco a poco, e si sostituì all’Islamismo. Era quello quasi scomparso nelle città, ma nell’interno dell’isola, ritirandosi nei monti, erasi mantenulo vivo, contrastando per quasi centocinquanta anni il terreno agl’infedeli.
I Normanni, per considerazioni politiche, furono tolleranti verso i Saraceni, ed in nessun’altra contrada mai Cristiani e Maomettani vissero tanto d’accordo. I conquistatori, pochi per numero, scomparvero quasi nella popolazione saracena, che seppero guadagnare a sè, trattandola con dolcezza. Accettarono le arti e le scienze degli Arabi; nei loro edifici unirono lo stile arabo, e la stessa corte cristiana prese una tinta araba, circondandosi di guardie saracene, di eunuchi, e vestendo dessa pure alla turca. Allorquando Mohamed-Ibn-Djobair di Valenza visitò la Sicilia sullo scorcio del secolo XII lodò il re Guglielmo per il suo amore per l’Islamismo. Il re, dice egli, legge e scrive l’arabo, ed il suo Harem è composto di donne mussulmane. Suoi paggi e suoi eunuchi sono mussulmani. Il viaggiatore trovò le donne di Palermo belle, voluttuose, vestite completamente alla turca, e nel vederle i giorni festivi nelle chiese, in abiti di seta gialla, con eleganti mantiglie, con veli di colori vivaci, con cantenelle d’oro e con grandi orecchini, dipinte e profumate nè più nè meno che le donne d’Oriente, ricordò i versi del poeta «Per verità, quando si entra in un giorno di festa nella moschea, vi si trovano le gazzelle e le antilope.»
La lingua araba continuò ad essere non solo insegnata ma adoperata pur anche nei diplomi; e nelle chiese stesse dei Cristiani, dove si leggono ancora oggidì nei mosaici. sulle colonne, iscrizioni arabe le quali non vennero punto dettate dai Saraceni, ma dai re e dai vescovi cristiani, i quali innalzarono que’ tempii. I Normanni trovarono in Sicilia le lingue seguenti, la greca degli antichi Elleni, e dei Bizantini; la latina degli antichi Romani; e nella bocca del popolo la lingua volgare, la quale non tardò a diventare la lingua italiana; finalmente le lingue araba ed ebraica. Tutte erano contemporaneamente in uso; tutte si trovano adoperate contemporaneamente nei diplomi, i quali nei primi tempi dei Normanni sono per lo più in lingua greca, colla traduzione araba.
Caduta Palermo, si procedette alla divisione dell’isola. Roberto Guiscardo prese per sè la capitale, e la metà dell’isola; Ruggero ebbe l’altra metà; il prode loro nipote Serlo ottenne grandi baronie, e Tancredi, altro nipote, fu fatto conte di Siracusa. Roberto prese il titolo di duca di Sicilia, Ruggero quello di conte, e vennero eretti ricchi vescovati, e signorie feudali. Se non che l’isola non era tutta soggiogata. Siracusa non si arrese che nel 1088, Agrigento nel 1094, più tardi Castro Giovanni, e per ultimo, Noto e Butera.
Rimasero in tali condizioni di governo i ducati delle Puglie, e di Sicilia, fino al 1127 in cui si estinse il ramo di Roberto Guiscardo, ed il figliuolo di Ruggero ereditò pure gli stati al di là del Faro. Fu questi Ruggero II, il principe più illustre della stirpe normanna. Il valoroso suo padre che aveva conquistata la Sicilia era morto nel 1011 e dopo che suo figliuolo maggiore, Simone, gli succedette per cinque anni, salì al trono Ruggero in età tuttora minorenne, sotto la tutela di sua madre Adelasia, e dell’ammiraglio Giorgio Antiocheno. Ruggero, nel quale trovavansi riunite in sommo grado tutte le doti pregevoli che si richieggono in un fondatore di dinastia, sollevò il regno normanno a grande splendore. Nel 1127 ereditò il ducato delle Puglie, la quale cosa spaventò il Papa, l’imperatore tedesco e quello bizantino, ma Ruggero combattè con fortuna contro tutti e tre, ed inoltre contro i principi di Salerno, di Capua, di Napoli, di Avellino, ed altri; costrinse il Papa a concedergli l’investitura delle Puglie, e per ultimo si cinse il capo della corona reale. Non potè però ciò fare senza l’assenso del parlamento, dei baroni e dell’alto clero, imperocchè seguendo l’uso dei conquistatori normanni, nel creare una nobiltà novella aveva stabilita una certa forma di costituzione aristocratica. Il parlamento, convocato a Salerno, decretò al principe la corona reale la quale gli venne posta solennemente in capo nella cattedrale di Palermo il giorno di Natale del 1130, e tale si fu l’origine del regno delle due Sicilie.
Ruggero provvide allora all’ordinamento della sua monarchia, ed in presenza dei baroni dovette pensare ad ordinarla splendida, solenne, sicura. Creò sette grandi ufficiali della corona, un contestabile, un grande ammiraglio, un gran cancelliere, un gran giudice, un gran ciambellano, un protonotario, un gran maresciallo, e questi composero il suo consiglio. Si circondò di un cerimoniale orientale, affidando la custodia del sua palazzo ad eunuchi ed a guardie saracene, sulle quali poteva riposare. Il suo regno trascorse in continue lotte, in continua guerra. Seppe tenere in freno tutti i suoi nemici, interni ed esterni; ispirò terrore in Costantinopoli stesso all’imperatore greco, il quale non voleva rinunciare a’ suoi diritti sulla Sicilia; s’impadronì di Corinto, di Alene e di Tebe. Portò di Grecia a Palermo molti operai abili nella filatura e nella tessitura della seta, contribuendo per tal guisa a propagarla nell’Occidente. Venne tessuto nelle fabbriche di Ruggero, il pallio famoso che vestirono più tardi gl’imperatori germanici nell’atto della loro incoronazione, Ruggero conquistò Malta, spedì centocinquanta legni in Africa, e punì quello stesso regno di Kairewan, il quale aveva conquistata la Sicilia. Durante il suo regno la potenza normanna si era sviluppata con una prontezza meravigliosa. Desso morì il 26 febbraio 1154 in età di cinquantanove anni. Fu principe distinto per prudenza, valore, giustizia, e per potenza d’ingegno. Fu bello di persona, di modi disinvolti e distintissimi. Verso gli Arabi fu tollerante, tenendo in conto le loro scienze e le loro arti. Accolse fra gli altri onorevolmente la sua corte Edris Edscheriff, il quale era stato esiliato dall’Africa, e questo dotto arabo gli fabbricò una sfera terrestre in argento, sulla quale erano disegnate tutte le contrade in allora conosciute, colla loro denominazione in lingua araba, e quel lavoro era del peso di ottocento marchi. Scrisse parimenti Edris una geografia, conosciuta generalmente sotto il nome di libro del re Ruggero, un estratto della quale sotto il titolo di Geographia Nubiense, venne stampato ripetutamente a Roma, a Parigi, e per ultimo a Palermo nel 1790,
La divisa che Ruggero portava scritta sulla lama della sua spada, era caratteristica della sua indole. Apulus et Calaber, Siculus mihi, servit et Afer.
Fu successore a Ruggero Guglielmo I, per le sue pessime qualità denominato il Malo; era l’unico figliuolo sopravvivente a Ruggero, imperocchè gli altri quattro Ruggero, Anfuso, Tancredi, ed Enrico, avevano tutti preceduto il padre nella tomba. Fu sorprendente la rapida decadenza di una stirpe cotanto virile e cotanto numerosa. In pochi anni sì ridusse ad un unico discendente collatterale, ed anche il regno di Sicilia decadde rapidamente dalla grande altezza a cui aveva saputo Ruggero sollevarlo. Morto che fu desso, si dovette riconoscere che tutta la forza del regno novello, riposava unicamente sulla sua persona. Sotto il governo di Guglielmo il Mato, non tardò la Sicilia a ricadere in tali condizioni da ricordare gli emirati dei Saraceni, sotto l’influenza di un favorito del re, avventuriere straniero al paese, il grande ammiraglio del regno Majone di Bari, il quale attentò alla corona; non vi furono che congiure, rivoluzioni di palazzo, ribellione dei nobili, disordine, confusione in ogni cosa. L’odioso re Guglielmo dopo una vila travagliata, e non senza qualche successo in guerra, morì nel 1166 in età di quarantacinque anni.
Nella persona di suo figliuolo Guglielmo II detto il Buono, salito al trono in età di soli undici anni, si estinse la linea diretta della stirpe normanna. I primi anni di regno dei giovane re furono agitatissimi, quanto era stato il regno tutto di suo padre, a motivo delle contestazioni per la tutela, delle ribellioni dei baroni, e degl’intrighi di corte. I Normanni avevano saputo conquistare il regno bellissimo, ma non vi si seppero mantenere. Decaddero, non sì tosto il clima ed il lusso orientale vennero ad indebolire la loro forza originaria nordica, ed infine si ruppero contro il feudalismo, e contro la prepotenza indomabile dei nobili. Nessuna dinastia del resto potea mantenersi a lungo su quel suolo volcanico di Napoli e della Sicilia; tutte furono d’origine forastiera; tutte vennero in possesso del paese in modo avventuroso, tutte finirono miseramente, ed il più soventi per tradimento. Guglielmo II del resto fu totalmente dissimile dal padre, e la posterità gli confermò il nome di Buono, che il clero che gli aveva assegnato per gratitudine. Mentre Guglielmo il Malo viveva come un maomettano, e si fabbricava voluttuosi palazzi e giardini, Guglielmo il Buono fondava chiese e monasteri. Sono dovuti a lui parecchi monumenti dell’architettura religiosa ai tempi dei Normanni, e particolarmente il rinomato duomo di Monreale, e la cattedrale di Palermo. Morì il 1.° novembre 1189 in età di soli trentasei anni.
Della stirpe di Ruggero I non rimaneva più che un bastardo, Tancredi conte di Lecce, figliuolo naturale di Ruggero primogenito del re Ruggero, premorto al padre; ed inoltre Costanza, figliuola pure di re Ruggero, la quale aveva sposato l’imperatore Arrigo VI. Erede legittimo pertanto delle due Sicilie sarebbe stato questo imperatore; se non che il partito nazionale fra i Siciliani si rivolse a Tancredi, e lo chiamò sul trono. Il conte di Lecce venne dalle Calabrie, e si fece incoronare a Palermo nel 1190; questo prode bastardo ebbe molti punti di rassomiglianza col re Manfredi, vissuto dopo di lui; come questi fu colto d’ingegno, poeta, musico, versato nelle scienze matematiche, ed astronomiche, che gli Arabi avevano diffuse in que’ tempi; al pari di Manfredo fu generoso, ed infelice. Riuscì vittorioso nei primordi della guerra che ebbe a combattere contro i Tedeschi di Arrigo, per assicurarsi il possesso del suo regno, ed anzi Costanza stessa, consorte dell’imperatore, cadde nelle sue mani, ma desso la trattò con cortesia cavalleresca, rimettendola generosamente in libertà.
Pareva che la nobile schiatta dei Normanni volesse rifiorire in Tancredi, imperocchè desso aveva pure due figliuoli Ruggero e Guglielmo. Aveva Tancredi dato in isposa al suo primogenito, bello, anzi stupendo giovane, Irene figliuola dell’imperatore greco Isacco Angelo, ed avevalo di già fatto incoronare re, quando il giovane principe venne repentinamente a morire nel 1193. Tancredi ne ebbe a provare tanto dolore, che teneva dietro al figliuolo nella tomba il 20 febbraio 1194. Rimase unico suo erede l’altro suo figliuolo, Guglielmo, tuttora minorenne, il quale venne incoronato a Palermo, e tre figliuole Albina, Costanza e Mandonia. La reggenza venne assunta dalla vedova di Tancredi, Sibilla.
In tali condizioni di cose, fu agevole all’imperatore Arrigo conquistare la Sicilia. Le truppe di Sibilla furono sconfitte; Messina, Catania, e Siracusa caddero nelle mani dell’imperatore, ed i baroni si accostarono al partito di questi. L’infelice regina si era ritirata con i suoi figliuoli nella rocca di Caltabellotta, ed attendeva ivi ansiosa il corso degli avvenimenti. Il 30 novembre 1194 Arrigo era entrato in Palermo, il quale gli aveva fatta festosa accoglienza, salutando con concerti musicali e con inni di gioia, la novella signoria sveva. Sibilla vedendosi indegnamente abbandonata da tutti, si piegò a trattare. Il giovane principe Guglielmo, a cui l’imperatore aveva fatta promessa solenne della contea di Lecce e del principato di Taranto, comparve davanti ad Arrigo, e depose a’ suoi piedi la corona. Gl’infelici erano caduti in un tranello, imperocchè Arrigo, non appena fu incoronato, sotto il pretesto sparso ad arte di una congiura, dimentico de’ suoi giuramenti, prese a sfogare la barbara sua brama di vendetta contro i partigiani della stirpe normanna, e contro la disgraziata famiglia reale. Molti baroni e sacerdoti furono tormentati e condannati a morte. Sibilla ed i suoi figli furono posti in carcere, e Guglielmo, l’ultimo della stirpe normanna, venne accecato; dopo di ciò la regina colle sue figliuole venne trasportata nel monastero di Hohenburg in Alsazia, dove vissero a lungo prigioniere. Ignorasi la fine fatta da Guglielmo; una vaga tradizione vuole sia riuscito a fuggire di prigione, ed abbia vissuto a lungo qual eremita, a S. Giacomo presso Chiavenna.
Tale si fu il tragico fine della stirpe normanna, a cui la fortuna aveva fatto dono di una fra le più belle contrade del mondo, e la sua rovina fu tanto più notevole che non tardò guari a tenergli dietro quella della stirpe pure degli Hohenstaufen. La Nemesi colpì questa pure. Nella stessa guisa che erasi procurata la dominazione della Sicilia col sangue e colla crudeltà, ebbe a soffrire tratta mento uguale, ed in fin del conto, non raccolse se non quanto aveva seminato. Se dobbiamo prestar fede alla tradizione, Federico II nasceva nello stesso giorno in cui Arrigo suo padre macchiava la sua mano di sangne, il 26 dicembre 1194. Arrigo stesso moriva tre anni dopo in Messina, in età di soli trentadue anni, ed ora ci è mestieri soffermarci alquanto sulla tragica fine degli Hohenstaufen, per vedere quanto le sorti di questi siano state simili a quella dei Normanni. Manfredo, bastardo al pari di Tancredi, al pari di Tancredi prode e generoso, fu tradito e cadde nella battaglia di Benevento; Elena sua consorte si era ricoverata nella rocca di Trani, come un dì Sibilla co’ suoi figliuoli in quella di Caltabellotta; al pari di questa, si vide Elena a sua volta abbandonata da tutti, e rinchiusa in carcere co’ suoi figliuoli. Dessa morì di dolore nella sua prigione; Beatrice sua figliuola visse per ben diciotto anni nel Castello dell’Uovo in Napoli; i suoi tre figliuoli minori Enrico, Federico ed Anselmo, vissero più di trent’anni in carcere, e Corradino finalmente, morì sul patibolo.
E tutto questo sangue sparso, svegliò novella sete di vendetta la quale si sfogò contro gli Angioini, nei vespri siciliani. Fu propriamente un avvicendarsi caratteristico di sorti tragiche.
Gli Hohenstaufen trovarono del resto l’isola in floride condizioni; contrada per sè prediletta dalla natura, era diventata durante la signoria dei Normanni ricca, mercè l’industria ed il commercio. Nessun nemico esterno durante quel periodo era entrato nella città, e dalle coste d’Oriente e d’Africa, vi erano state introdotte quantità stragrandi di oggetti preziosi. Allorquando Arrigo VI entrò in Palermo, fu colpito dalla splendidezza e dalla magnificenza di quella città, e trovò nel palazzo dei re normanni vari tesori in oro, gemme, drappi serici, che fece imbarcare. Arnoldo abate di Lubecca dice: «Entrato Arrigo nell’aula del morto Tancredi, vi trovò letti, sedili, tavole in argento; vasellami in oro finissimo. Trovò pure tesori nascosti, pietre preziose, gioielli stupendi, in guisa che caricò centocinquanta bastie da soma d’ori, d’argenti, di gemme, di drappi serici, facendo ritorno in patria ricco e glorioso.»
Fu in questa occasione, che venne portato in Germania il manto preziossimo tessuto in seta con caratteri arabi, che aveva servito all’incoronazione di Ruggero I, il quale nel 1424, per ordine di Sigismondo imperatore, fu riunito in Norimberga agli altri gioielli dell’impero, e che fu ritenuto comunemente per il palladio di Carlo Magno.
Reynaud ha dato di recente la traduzione seguente del iscrizione araba che si legge sul manto di re Ruggero: «Tessuto nella fabbrica reale, nella sede della felicità, della illustrazione, della gloria, del compimento della durata del ben essere, della buona accoglienza, della fortuna, dello splendore, della riputazione, della bellezza, del compimento di ogni desiderio, di ogni speranza; del piacere, del giorno e della notte, senza interruzione, senza variazione, col sentimento dell’onore, della devozione, della conservazione, della simpatia, della felicità, della salute, dell’aiuto, della soddisfazione, nella città di Sicilia nell’anno 528 (1133 dell’era volgare).» Questa tronfia, pomposa e ridicola iscrizione, di stile tutto orientale, sul manto solenne d’un re normanno, basta a provare quanto si compiacessero i Normanni in Sicilia conformarsi agli usi, ed ai costumi degli Arabi.
Ci rimane di quei tempi singolari una delle più antiche descrizioni di Palermo, quella del normanno Ugo Falcando, il quale visse vari anni a Palermo durante il regno di Guglielmo il Malo, quindi fece ritorno in Normandia. Mentre la dinastia di Ruggero stava per spegnersi, desso scrisse una lettera a Pietro, tesoriere della chiesa di Palermo, nella quale lamenta i mali che stanno per piombare sulla Sicilia, e contemporaneamente dà un’idea della bellezza di Palermo. La sua lettera rivela un odio fanatico contro i Tedeschi. Dopo avere dirette ardenti apostrofi ai Normanni, che in Messina ed in Catania stavano lottando contro i barbari si rivolse a Siracusa sclamando: «Dovranno dunque essere ridotti a servire ai barbari quegli antichi nobili di Corinto, i quali abbandonata la loro patria, venuti in Sicilia cercando località adatta ad edificarvi una città finirono per fissarsi sulla costa più amena dell’isola, innalzando al sicuro le sue mura, fra porti che non hanno gli uguali! A che ti vale ora l’antico splendore de’ tuoi filosofi, dei poeti, che si aspirarono alla tua fonte profetica! A che ti vale avere scosso il giogo di Dionigi tiranno, e de’ suoi pari! Sarebbe stato per te minor danno, il sopportare la rabbia di desposti siciliani, che la tirannia di un popolo barbaro e crudele. Guaia a te, guaia a te Aretusa, sorgente cantata da nomi illustri, la quale dopo avere ispirato i vati, sei ridotta a temperare l’ebbrezza degli Alemanni, ed a sopportare le loro sporcizie!» La lettera di Falcando è documento importante per le condizioni di Palermo ai tempi dei Normanni; l’autore sclama in essa: «Chi potrà vantare abbastanza la bellezza degli edificii di questa città illustre! Chi l’abbondanza delle fontane che sgorgano dovunque? Chi la bellezza seducente degli alberi sempre verdi? Chi gli acquedotti, i quali provvedono in abbondanza a tutta quanta la città, l’elemento salutare?»
Già prima di Falcando Ibn-Hankal di Bagdad aveva data, circa la metà del secolo X, una descrizione di Palermo in un’opera geografica, descrizione che venne pubblicata tradotta in francese, da Michele Amari a Parigi nel 1845. Quello scritto non è di gran mole, ma però di un certo pregio. L’autore divide Palermo arabo in cinque quartieri. Nell’Al-Kassar (la Paleopoli di Polibio) fa menzione della grande Moschea solenne, antica cattedrale dei Cristiani, nella quale gli si fece vedere una cappella, in cui la tomba di Aristotele stava sospesa per aria, o soggiunge che ivi nei tempi anteriori, accorrevano a pregare i Cristiani, per implorare la pioggia.
Nel Khalessah, trovavasi la residenza dell’emiro. Nel Sakalibah (quartiere degli Schiavoni secondo l’Amari) trovavasi il porto. Il quarto quartiere era quello della moschea Ibn-Saktab. A mezzodi della città, stendevasi il quartiere El-Jadid, l’attuale Albergaria.
Fa parola dei molti mercanti, e delle loro botteghe, in particolare di quelle dei macellai. Fa menzione pure della preparazione del papiro, ma si trattiene particolarmente a descrivere le fontane, e sovratutto quelle di Favara.
Ho ricordato di già il viaggio di Mohamed-Ibn-Djobair, il quale contiene pure una descrizione pregevole della città ai tempi dei Normanni. Desso paragona Palermo, ed in particolare la città antica, l’Al-Kassar, per i suoi bei palazzi e per le sue torri a Cordova. «La città, dice egli, è fabbricata in modo meraviglioso nello stile di Cordova, tutta in pietre lavorate, di quella specie che ha nome El-Kiddan. I palazzi del re giacciono tutti all’intorno, e la circondano quasi collanna, posta attorno al bel collo di una giovane ragazza.»
Le notizie di questi due Arabi, e quelle dell’Ebreo Beniamino di Tudela, completano la breve descrizione del Normanno Falcando. Questi fa menzione espressa degli edifici principali di Palermo, ed apprendiamo da lui che si era mantenuta tuttora la ripartizione della città in quartieri, come al tempo della dominazione degli Arabi, e che parecchie piazze, strade, porte, avevano conservati i loro antichi nomi arabi. Dal complesso di quanto narra degli edifici di Palermo, si può argomentare che a quell’epoca la città si trovava nel suo massimo splendore. Quanto meno, per la ricchezza e per la bellezza dell’architettura, il periodo normanno fu l’epoca la più brillante della Sicilia, ed i monumenti più raguardevoli i quali esistono oggidì tuttora, sono tutti di origine normanna, imperocchè gli Svevi, non eccettuato l’imperatore Federico, non hanno lasciato verun ricordo architettonico. Per varie cause furono quasi sempre assenti, mentre i principi normanni avevano stabilita colà la loro stanza fissa, e cercato di dare alla città lo splendore della capitale di una nuova e possente monarchia.
Sarà ora pregio dell’opera far parola dei principali monumenti che rimangono a Palermo dell’epoca normanna, e primo di tutti merita di essere ricordato il palazzo reale. Questo castello, il quale offre una singolare attrattiva ai Tedeschi, per avere passato nelle sue mura la sua poetica gioventù uno dei più grandi imperatori di Germania, e che gl’Italiani considerano a buon diritto qual culla della poesia nazionale, sorge alla estremità della strada detta il Cassero, sulla piazza reale, di dove domina tutta quanta la città. Si ritiene sia l’edificio il più antico di questa, imperocchè non risale soltanto ai Saraceni, ma vuolsi, che colà avessero stabilita già la loro sede principale i Cartaginesi, i Romani ed i Goti. Non havvi poi dubbio veruno, che colà trovavasi il palazzo degli emiri, d’onde vuolsi ripetere il nome di Cassero, il quale fu quindi esteso a tutta quanta la città, e finì per rimanere alla strada principale. Vuolsi che il palazzo sia stato costrutto dal Saraceno Adelkam. Ruggero I, ed il suo successore lo ampliarono; ivi visse Federico, ivi ebbero la loro stanza Manfredo, ed i suoi successori, i quali andarono di mano in mano ampliando il palazzo, riducendolo alla attuale sua forma irregolare, la quale porge aspetto ad un tempo di palazzo e di fortezza.
Falcando ci ha lasciata la descrizione di quel castello; ce lo possiamo quindi figurare quale si presentava ai tempi di Guglielmo il Malo. «Lo stupendo edificio, dice desso, è formato in pietre lavorate con somma cura e con arte squisitissima; trovavasi circondato da forti mura, ed il palazzo all’interno brilla per oro e per argento. Alle sue estremità sorgono due torri, la Pisana destinata a custodire i tesori reali, e la Greca, la quale signoreggia la parte della città denominata Khemonia. A metà sorge un ala distinta per la molteplicità, e per la varietà dei suoi ornamenti, la quale ha nome Joaria, ed ivi suole trattenersi il re, nelle ore di riposo, e di ricreazione. Nel resto del palazzo abitano in separati quartieri le donne, le ragazze, e gli eunuchi. Sorgono pure qua e là separate alcune belle e piccole palazzine, dove si reca il re, o per trattenersi in segreto di affari di stato con i suoi confidenti, o dove dà udienza ai baroni, per consigliarsi seco loro intorno agli affari più rilevanti del regno.»
Ogni traccia quasi di quelle antiche costruzioni è scomparsa, ad eccezione della torre di S. Ninfa, la quale deve essere la parte più antica del castello, e della rinomata cappella palatina. Sorge in cima alla torre l’osservatorio, dal quale il padre Piazzi scopriva il 1 giugno 1801 la Cerere, a cui dava a buon diritto il nome della Dea protettrice dell’isola.
Il cortile ha tre ordini di logge, o portici, che interamente lo circondano, ed al primo piano trovasi la famosa Cappella palatina, il più bel monumento forse dell’epoca dei Normanni. La fece costrurre il re Ruggero nel 1132 dedicandola a S. Pietro, e trovandosi per così dire conglobata nel palazzo, non ha propriamente facciata. Vi si ha accesso per mezzo di un portico, sostenuto da otto colonne di granito egiziaco, dove si vedono nella parte superiore delle pareti mosaici moderni, i quali rappresentano fatti dell’antico testamento, e particolari della incoronazione del re Ruggero. Trovasi all’ingresso una iscrizione in lingua greca, araba, e latina, la quale indica come il re Ruggero avesse fatto delineare con somma cura nel palazzo un orologio solare. L’iscrizione in lingua araba, suona tradotta, come segue «Fu dato ordine dalla maestà reale, il magnifico ed illustre re Ruggero; che Iddio protegga ed eterni; di costrurre questo stromento per segnare le ore. Nella metropoli della Sicilia, protetta da Dio l’anno 536 (dell’Egira).»
Singolare, fantastica e misteriosa, tale da non potersi paragonare a quanto si vede in Italia in questo genere, si è questa basilica, scarsamente illuminata dal sole, dove le pareti, rivestite di marmo o di mosaici a figure su fondo d’oro, a momenti si perdono in una luce dubbia, ora a momenti balzano fuori colpite da un raggio improvviso e passeggero di sole. Allorquando entrai in quella chiesa, vi si stava celebrando una messa solenne da morto, per l’ultimo re defunto. Sorgeva nella navata centrale un alto catafalco, coperto di velluto nero, su cui posava una corona reale in oro; ardevano cerei, tutto all’intorno risuonano sotto alle volte i canti dei sacerdoti, e tutta la cappella era piena di nugoli d’incenso. Quello spettacolo, in mezzo allo splendora misterioso dei mosaici, ed alla stranezza degli ornati arabi, riportava propriamente ai tempi del re Ruggero.
La cappella ha la forma di basilica, con una tribuna ed una cupola sopra il coro. Dieci colone d’ordine corinzio, sulle quali posano gli archi, la dividono in tre navate. Il pavimento è formato di marmi a diversi colori. Le pareti all’intorno, fino all’altezza di dodici palmi, sono parimenti rivestiti di varie qualità di marmo, e superiormente dovunque cade lo sguardo, si scorgono mosaici, ì quali rappresentano fatti dell’antico e del nuovo testamento, sendo riservate le pareti della navata centrale, alle rappresentazioni dell’antico testamento, e quelle della tribuna e delle navate laterali alla vita di Cristo, e degli Apostoli. Sull’arco della tribuna, trovasi rappresentata l’Annunciazione, e sulla tribuna stessa si vede la mezza figura colossale di Cristo, colla mano sollevata in atto di dare la benedizione. Sotto le figure stanno iscrizioni greche, o latine. Questi mosaici non risalgono a Ruggero I, ma bensì a Guglielmo I, se si deve prestar fede a Romualdo di Salerno il quale dice «Guglielmo fece ornare di pitture preziose la cappella di S. Pietro nel palazzo, e ne fece rivestire le pareti di marmi finissimi.» È possibile del resto, che questi lavori fossero stati cominciati già da Ruggero.
Sembra che si fosse mantenuta in Sicilia e nell’Italia meridionale una scuola di mosaicisti greci, i quali abbiano dato allo stile bizantino una espressione più viva. I mosaici siciliani porgono una dolcezza tutta particolare di tinte, e non presentano nè nel disegno, nè nell’espressione, quella durezza, quella magrezza, le quali sono caratteristiche della scuola bisantina; e del resto appartengono ad un’epoca posteriore. Mentre i Veneziani chiamarono mosaicisti da Costantinopoli per la decorazione della chiesa di S. Marco, i Normanni, allorquando costrussero le loro chiese in Sicilia, vi trovarono di già una scuola di quelli. E possibile risalire quella scuola ai tempi dei Greci, presso i quali l’arte dei mosaici fu in fiore durante il periodo bizantino, come ne fa prova il grandioso tempio di Jerone in Siracusa, nel quale si era rappresentato in mosaico, tutta quanta l’Iliade. E pare che la pratica di quest’arte non sia mai venuta meno in Sicilia. Sul finire del secolo IV dell’era cristiana, i lavoranti in mosaico siciliani erano superiori a quelli di Roma, sapendosi che il Papa Simmaso scrisse ad un tale Antioco in Sicilia, per aver modelii per i mosaicisti romani. «L’eleganza del tuo ingegno, gli diceva, e la squisitezza delle tue invenzioni, meritano essere tenute in gran conto, imperocchè tu hai trovata una specie novella di lavorare, nell’arte tua, la quale non era dapprima conosciuta, e ci piacerebe valercene per ornare i nostri appartamenti quando tu volessi spedirci sopra una tavola, o sur una lastra di marmo un modello dei metodi nuovi da te immaginati.»
L’arte del mosaico non andò perduta in Sicilia, neppure durante la dominazione degli Arabi; prima si era mantenuta per le relazioni continue con Costantinopoli; dopo se ne valsero gli Arabi dessi pure, i quali usavano ornare le loro case, se non con figure, quanto meno con disegni capricciosi, con rabeschi. Ed è possibile che i lavori in mosaico del duomo di Salerno, di quello di Palermo, di quello di Monreale, siano opere di scuola indigena dell’Italia meridionale. E si sa che il re Ruggero stesso, fece eseguire notevoli lavori in mosaico, nel suo palazzo.
Anche la volta della cappella palatina, è riccamente ornata di dorature, di pitture, di rabeschi, i quali accrescono l’impressione misteriosa prodotta da quel tempio. Nel 1798 fu scoperta nella volta di questa cappella, una lunga iscrizione araba, tracciata e con caratteri cufici, in venti grandi compartimenti, o cassettoni, la quale, per quanto fu possibile dicifrarla, si riferiva al fondatore della cappella, ed al tempio stesso, con espressioni esagerate di encomio, e di desideri di durata. E siccome questa iscrizione, al pari di tutte le altre arabe che si leggono nelle chiese di Palermo sono di origine cristiana, fa senso trovare adoperate con tanta ingenuità nei tempi cristiani la lingua e le parole del Corano, e ciò tanto più nell’epoca precisa, in cui il fanatismo religioso dei Crociati, era pervenuto al suo apogeo. Come ben si può comprendere, nessuna di queste iscrizioni è tolta testualmente dal Corano, ma nello adoperare le parole ed i caratteri arabi, anche le espressioni serbarono una cerla impronta mussulmana. La lingua araba a quell’epoca non era punto ritenuta meno nobile della greca, e l’Oriente per intelligenza, per civiltà, era superiore di gran lunga all’Occidente. Buona parte della cognizione della letteratura greca era stata rivelata all’Occidente per mezzo della lingua araba. Il pensiero orgoglioso di avere soggiogato una parte della razza araba, come parimenti la predilezione del popolo per le usanze, per i costumi stranieri, non che la prudenza politica, possono avere contribuito all’uso ufficiale della lingua araba. I caratteri orientali hanno un non so che di enigmatico, di misterioso, ed essendo già per sè belle figure geometriche, si prestano mirabilmente all’ornamento delle pareti e delle colonne di queste basiliche Siciliane, le quali formano un nesso tra il Cristianesimo, e l’Oriente, nella stessa guisa che quelle di Roma lo formano, tra il Cristianesimo ed il Paganesimo.
Negli archivi della cappella palatina si conservano numerosi diplomi greci, latini, ed arabi, del periodo normanno, non che una preziosa cassetta circondata di iscrizioni in caratteri cufici.
Usciti dell’antica cappella salimmo al piano superiore del palazzo, dove vi sono belli e ricchi appartamenti i quali si riferiscono dessi pure alla storia della Sicilia, vedendovisi la sala del parlamento, quella del trono, quella di udienza. Scorgesi in quest’ultima uno tuttora dei due famosi arieti di bronzo che stavano ad ornamento di una fra le porte di Siracusa; l’altro perì miseramente in un incendio. La sala dei vice-re, conliene i ritratti di tutti questi, nel 1488 ai giorni nostri.
Ben più però che tutte queste sale moderne, trae a sè l’attenzione la stanza del re Ruggero, ricca di bellissimi mosaici. Vi si vedono rappresentate in stile antico assai, una lotta di Centauri, una caccia, e varie figure d’uccelli. Non si comprende, per dir vero, il motivo per cui quella stanza portò il nome di re Ruggero; i mosaici sono fuor di dubbio lavoro dei secolo XII, dei resto tutti quegli appertamenti andarono soggetti a continue variazioni. Si cercano invano gli appartamenti di Federico II, o quanto meno una stanza la quale abbia serbato il suo nome. Qual nome però avrebbe potuto dar lustro al palazzo, quanto quello di Federico? Molti principi dei paesi i più lontani gli uni dagli altri, Saraceni, Normanni, Svevi, Spagnoli, Angioni, Borboni, abitarono questo palazzo nella prospera come nella avversa fortuna; le memorie però di tutti questi scompaiono, quando si pensa che quel grande imperatore passò la sua giovinezza in queste mura.
III.
Il Duomo di Monreale.
Parecchie cause contribuirono a far sorgere in Sicilia una stupenda architettura ecclesiastica, ed a darle un’impronta tutta particolare, e più di tutto lo spirito di un secolo, in cui il Cristianesimo, a contatto diretto coll’Islamismo, entrò con questo in una viva lotta, particolarmente nelle condizioni in cui la novella dominazione dei Normanni si trovò di fronte alla religione di Maometto. La religione cristiana risorse allora trionfante in Sicilia, riacquistando tutto il terreno perduto. Stupende chiese, capi d’opera di un’arte la quale continuava ad obbedire alle ispirazioni dell’Oriente, sorsero in parecchi punti, monumenti della recente vittoria riportata dalla religione di Cristo, su quella di Maometto.
Già una volta, in condizioni poco meno che identiche, era sorto il primo periodo della architettura in Sicilia. Gli Elleni avevano sconfitto appieno nella battaglia d’Imera i Cartaginesi che avevano invasa tutta la Sicilia; e nella ebbrezza della vittoria avevano disseminata in tutta quanta l’isola affrancata, le loro stupende costruzioni. Gli Dei della Grecia, Giove, Apollo, Cerere e Venere, avevano atterrato il Moloch Africano, ed anzi il contrasto della civiltà, e della religione fino dei Greci, colla barbarie africana erasi pronunciato in modo meraviglioso, avendo fra le altre condizioni di pace imposto Gelone di Siracusa ai Cartaginesi, quella, di dovere cessare per sempre, dai sacrifici umani.
Dopo più di quindici secoli si ripetè un fatto identico, nel secondo grande periodo architettonico della Sicilia, fatto storico, degno di osservazione, che nessun altro paese può porgere, e che prova ad un tempo, come la civiltà umana si svolga secondo le leggi eterne immutabili nella sostanza, varie nella forma, per piegarsi ad esprimere ogni mutata indole di tempi. Nella stessa guisa che i Greci nel primo periodo costrussero i tempi famosi di Segesta, di Selinunte, di Agrigento e di Siracusa, i Normanni, dopo aver liberata la Sicilia dai novelli Cartaginesi, innalzarono le splendide cattedrali di Monreale, di Palermo, di Cefalù e di Messina. Nel primo periodo la civiltà aveva presa la sua direzione verso il mezzodì, e non si era guari estesa nel settentrione dell’isola; nel secondo periodo per contro, si sviluppò nel settentrione, mentre le contrade a mezzodì, e verso levante, rimasero in decadenza.
A fianco del tempio greco a colonne, sorse la cattedrale cristiana; a fianco del tempio marmoreo, maestosamente severo di Giunone ad Agrigento, sorse il duomo scintillante d’oro, dedicato alla Vergine Maria di Monreale, monumento della novella memoranda fase di civiltà. Ambedue segnano un’epoca di florido rinnovamento, nella storia dello spirito umano. Ambedue hanno un carattere originale, necessario, diverso, e diversa quindi è pure l’impressione che producono. Chi può esprimere l’impressione che si prova nel contemplare, seduto sur un masso annerito dal tempo, in mezzo alla solitudine della campagna siciliana, uno di quei maestosi tempii di Agrigento? Si direbbe essere impossibile trovare cosa più perfetta, più bella di quella, forme più armoniche; se non chè nell’entrare in una basilica normanna, in quella mezza oscurità, nel contemplare in quelle navate, sotto quegli archi, su quelle pareti quei mosaici splendenti, è forza ammettere, dimenticando l’antichità, che si è penetrato in una sfera novella di bellezza, di armonia.
Il senso religioso prodotto da questa architettura normanna, alla quale derei volontieri il nome di architettura delle Crociate, per la sua origine orientale, fu così profondo, perchè i Normanni importarono nel mezzodì l’indole nordica. Da ciò nacquero pure altre conseguenze. La chiesa romana di fronte a Bisanzio, la quale sosteneva essere la Sicilia sua proprietà, dovette dare alla conquista dei Normanni in certo modo un diritto sacro, un’alta consacrazione. Il Papa aveva nominato i conti normanni suoi legati apostolici; aveva concesse al re Ruggero le sacre insegne, quasi a testimonianza della conferma data dalla Chiesa alla sua signoria. I re poi, non ripetevano la loro corona dal favore del Papa ma dalla grazia stessa di Dio; nei mosaici di parecchie chiese si vedono rappresentati Ruggero e Guglielmo, nell’atto che Cristo stesso loro pone in capo la corona. Questi avventurieri Normanni, s’intitolavano addirittura re per la grazia di Dio. Era necessario quindi fossero zelanti nel promuovere il risorgimento del Cristianesimo, nel loro novello regno. Malaterra, storico dei due Ruggeri, così si esprime parlando del conquistatore della Sicilia. «Allorquando il conte Ruggero vidde, che per le grazia di Dio, tutta quanta la Sicilia facevano omaggio alla sua signoria, non volle dimostrarsi ingrato ad un tanto beneficio; cominciò dedicarsi a Dio; rendere buona giustizia, ricercare la verità, visitare frequentemente le chiese, prendere divotamente parte ai divini uffizii, concedere alle chiese il decimo di tutti i suoi redditi, soccorrere le vedove, gli orfani, i dereliti. Ed in moltiplici punti della Sicilia innalzò chiese.»
Ed inoltre in quei tempi delle crociate, considerazioni politiche si unirono allo spirito di religione, per spingere a favorire gl’interessi della Chiesa; quella stirpe principesca, salita di recente e soltanto in forza di conquista, sur uno de’ più bei troni d’Europa, aveva d’uopo dell’appoggio del Papa e del clero, per mantenervisi. Senza questo appoggio i Normanni sarebbero stati perduti, siccome avvenne dopo di essi agli Hohenstaufen, i quali venuti in lotta colla Chiesa, cominciarono per perdere Napoli e la Sicilia, quindi furono rovinati del tutto. Aggiungasi a queste influenze il desiderio naturale in una dinastia recente, di affermare per mezzo di splendidi monumenti la novella sua dominazione, e sarà facile comprendere come l’architettura ecclesiastica in Sicilia abbia dovuto necessariamente prendere pronto, e rapido sviluppo. Si voleva superare tutto quanto si era fatto sulla terra ferma; rivestire per intiero d’oro le chiesa, superare la stessa S. Sofia e quella Bisanzio, al cui imperatore ortodosso si era tolto il bel regno. Ruggero innalzò in un tempo, di una brevità incredibile; sì assicura in un anno; il duomo di Cefalù, e contemporaneamente la cattedrale di Messina, non che la cappella palatina di Palermo. Lo sviluppo dell’arte fu altrettanto rapido, quanto quello della dominazione stessa dei Normanni.
Tutte quelle costruzioni però, furono superate da Guglielmo II, ultimo principe legittimo della stirpe normanna; desso eresse nel duomo di Monreale il più bel monumento alla sua famiglia, e contemporaneamente uno dei più bei monumenti dell’architettura del medio evo. L’opera venne compiuta in sei anni dal 1170 al 1176 e la fama della sua bellezza non tardò ad allargarsi alle più lontane regioni. Fin dal 1182 il Papa Lucio II innalzò Monreale alla dignità di Arcivescovado, e parlando nella sua bolla di re Guglielmo, così si esprime: «In brevissimo spazio di tempo, seppe innalzare al Signore Iddio un tempio meraviglioso, dotandolo di castella, di rendite, di libri, di arredi sacri, riccamente ornati d’oro e di argento, finalmente chiamò colà buon numero di monaci dalla Cava, fornendoli di abitazione e di ogni cosa occorrente, in guisa che non fuvvi dai tempi i più remoti altro re, il quale abbia compiuta cotanto grande opera, di cui la sola descrizione genera meraviglia.»
La chiesa di Monreale ha qualcosa di veramente singolare. Si direbbe che, ivi, in vicinanza dell’Africa, fra quelle belle piante aromatiche e bizzarre, fra le palme, gli agavi, gli aloe, sotto quello splendido cielo meridionale, il Cristianesimo abbia ricevuta un impronto particolare, fantastica.
L’architettura del duomo è capo d’opera dello stile ecclestico normanno siculo, il quale riunisce in sè i tre tipi greco-bizantino, latino, ed arabo. I Normanni, i quali venivano dall’Occidente dove predominavano le forme della basilica romana, trovarono in Sicilia, sia le tradizioni bizantine, siano quelle saracene. L’isola era stata posseduta vari secoli dai Bizantini, la lingua dei Siciliani era greca, greco il loro culto, greca pure pertanto la forma delle loro chiese. Erano caratteristici di questa la pianta quadrata, l’abbondanza delle cupole; il santuario elevato in forma di triplico ovale, simbolo della Santissima Trinità, imperocchè a fianco del coro stavano due cappelle meno elevate, di forma emisferica, a sinistra la protesi per la preparazione al sacrificio, a destra il diaconico, destinato ai diaconi ed alle loro letture. Anche i Bizantini solevano ornare di mosaici le volte, gli archi, le pareti delle loro chiese.
I Normanni accettarono queste forme, e dai Saraceni tolsero l’arco a sesto acuto, e l’uso dei rabeschi per le pitture murali. Finalmente, conservarono pure il tipo della basilica romana in uso nel resto d’Italia, vale a dire una navata lunga, divisa da due file di colonne, le quali sostengono il tetto a solaio. Dessi collocarono questa navata latina davanti al santuario, ed a vece di destinare, come nelle antiche basiliche le colonne a sopportare un architrave, portarono sopra quelle gli archi a sesto acuto. riunendo in una le tre forme di architettura, e dando origine a quell’architettura speciale, la quale fu in uso in tutta quanta la Sicilia, e che poco a poco si venne accostando all’architettura gotica, e finì per confondersi con questa.
Si possono consultare utilmente a questo riguardo l’opera di Serra di Falco intorno a Monreale ed altre chiese Sicule-normanne; quelle di Hittorf, e di Zanth sulla architettura moderna della Sicilia, non che le descrizioni di Monreale, di Lelli, e di del Giudice.
Il duomo, il quale riunisce i tre caratteri di cui abbiamo fatto parola più sopra, è della lunghezza di trecento settantadue palmi, della larghezza nella facciata di cento settanta quattro, e l’altezza del campanile o torre, si è di cento cinquanta quattro palmi. Nell’entrare nella chiesa, chiamano a se l’attenzione le porte gittate in bronzo. Parecchi archi poco spezzati, ed ornati di ricchi arabeschi, sostenuti da pilastri con mosaici, e sculture in marmo nel vano, sorgono sopra quelle porte, ed una iscrizione latina del 1186 indica quale fonditore di esse Bonanno da Pisa, quello stesso il quale gittò le porte, in bronzo del duomo di quest’ultima città. I rilievi divisi in quaranta due campi rappresentano fatti dell’antico o del nuovo testamento; e per pregio artistico si possono dire a livello dei mosaici bizantini. Le figure sono dure, magre, ma colpiscono però per il loro carattere d’ingenuità, che si potrebbe dire puerile. Sono poi curiosissime le iscrizioni in lingua volgare dell’epoca, che accompagnano le figure, le quali corrispondono pienamente alla lingua adoperata dai poeti siciliani contemporanei. Sur un fianco della chiesa scorgesi un’altra porta pure in bronzo, opera di Barisano da Trani.
L’interno del duomo è nobile, grandioso stupendo; non però di quei carattere sublime delle ampie cattedrali gotiche, dove l’animo si perde quasi nella idea dell’infinito, neppure di quella imponenza maestosa di S. Pietro, dove la magnificenza trionfante del Papato si impone ai sensi, neppure di quella maestà severa delle basiliche bizantine; qui la grandezza non è che moderata, e lo spazio abbastanza ampio ha carattere serio, temperato dalla grazia dell’arte. Gli archi graziosi a sesto acuto, i quali posano sopra nove colonne di granito orientale, danno belle proporzioni alla navata centrale, e lasciano penetrare e spaziare lo sguardo in quelle laterali. Il pavimento in marmi finissimi di vari colori, ed a disegni, lo splendore delle travi dorate, le pitture dei compartimenti del solaio, i mosaici, ed i rabeschi che coprono tutti gli archi e le pareti delle tre navate, tutto questo lusso di figure e d’oro, formano pure una vista bella, ed originale. Per il Dio dei paesi nordici, un tempio così brillante, e così gaio, non sarebbe forse troppo conveniente; ma per il Dio del mezzogiorno, pare molto adatto. È d’uopo entrare in questo tempio dalla splendida campagna di Monreale, ed anzi talvolta l’idea di chiesa scompare, e si riterebbe piuttosto trovarsi in un grande e magnifico palazzo.
Nella navata centrale, i mosaici cominciano propriamente sopra il piccolo architrave che posa sui capitelli delle colonne. La parete sopra queste è divisa in due parti da una cornice. Sulla parte inferiore vi sono rabeschi che seguono la forma degli archi, o nei campi fra l’uno e l’altro di questi, scene bibliche, rappresentate sopra fondo in oro. Nella parte superiore trovansi le finestre aperte nel centro degli archi, e gl’intervalli sono tutti quanti riempiti, dessi, pure da mosaici. Sotto al solaio precisamente, corre una larga fascia, ricoperta di rabeschi, con spazi circolari di quando in quando, nei quali stanno mezze figure d’angioli. Dovunque cada lo sguardo, nelle cappelle, nelle navate, nelle pareti del santuario, dovunque si vedono mosaici rappresentanti, ora fatti della storia sacra, ora figure isolate di Dio padre, di Angeli, di santi greci o latini; tutto l’antico e novello testamento furono posti a contribuzione per l’ornamento di questa chiesa meravigliosa. Tutto il ciclo della religione mosaica e di quella cristiana, venne rappresentato sulle pareti di questo duomo; e concorsero ad ornarlo perfino le due comunioni cristiane le quali si trovano in disaccordo, avendo trovata quivi ospitalità i santi greci, a fianco di quelli latini.
Fa propriamente senso, lo scorgere come quivi abbia potuto l’arte concentrare, radunare, rappresentare tutto quanto il sistema, l’ordinamento della religione cristiana. L’arte odierna non è più capace di riprodurre in tal guisa le varie fasi dello svolgimento dello spirito umano, e tutti i tentativi che se ne fecero di recente, per mezzo della pittura a fresco, non riuscirono che a fredde allegorie, le quali non producono la menoma impressione. Questi mosaici, le sculture di Giotto sul campanile di Firenze le quali rappresentano la storia della umana civillà, ed il poema di Dante, possono essere considerati quali monumenti di quel periodo, nel quale l’idea cristiana s’impossessò dell’arte, e la spinse a riprodurla sotto tutte le sue forme. Non si deve però dimenticare, che questo ciclo di mosaici di Monreale è anteriore di un secolo circa a Dante ed a Giotto; e quando si ponga mente che fino ai tempi di Michel Angelo non si può dire che la Divina Commedia abbia esercitata una vera e positiva influenza sull’arte, nè spinto i pittori a rappresentare il ciclo epico di quella nei loro affreschi, comparirà allora tanto più sorprendente, che già fin da quell’epoca remota siasi saputo nei mosaici di Monreale, rappresentare con tanto grandiosa unità, l’intero sistema del Cristianesimo.
Ignorasi a chi si debba attribuire questo pensiero, se non che scorgendosi in altre antiche chiese di Palermo dei tempi dei Normanni la stessa idea, sebbene svolta in minori proporzioni nella loro decorazione; pare si possa ripetere da tradizioni bizantine. Ignorasi del pari chi abbia diretto quei lavori; sapendosi però che furono spesi tre anni nella formazione di quei mosaici, il duca di Serra di Falco ha calcolato che vi dovettero essere impiegati costantemente non meno di cento cinquanta artisti, e sarebbe difficile trovare esempio di altro lavoro di tanta mole.
L’idea della ripartizione è la seguente. Mentre ogni quadro, ogni soggetto si riferisce a Cristo, la cui figura gigantesca è rappresentata nella tribuna, quale scopo, fine, e centro del mondo, comincia il ciclo colla creazione, e si estende fino alla lotta di Giacobbe coll’angelo. La navata centrale è riservata all’antico testamento. Nel santuario, nelle cappelle, e nelle navate laterali si spiega la vita di Cristo; ed ivi hanno posto pure i profeti, ed i patriarchi, i quali hanno annunciata la sua venuta; e finalmente si stende la mitologia, anche soverchia, dei martiri, e dei santi. S. Pietro e S. Paolo, quali principi della Chiesa, hanno posto nella cappella a fianco di Cristo, S. Pietro a diritta, seduto sulla cattedra colla mano diritta appoggiata ad un libro, e colla destra sollevata in atto di dare la benedizione. Sopra di lui, ed a fianco di lui, sono rappresentati fatti della sua vita. S. Paolo trovasi a sinistra, rappresentato desso pure seduto, e sopra di lui trovasi raffigurata la sua decapitazione. In mezzo alla tribuna campeggia il busto colossale del Salvatore. Una croce greca splende sul suo capo, dal quale scendono lunghe ciocche di cappelli fin sulle spalle. La sua barba è del pari lunga; e folta. Desso solleva la mano destra quasi in atto d’insegnare, e tiene un libro nella sinistra. Un’inscrizione in lingua greca gli dà il nome di Gesù Cristo pantocrate. L’impressione di questa fisionomia colossale è quella di una potenza sopranaturale, e di una sublimità cupa, nello stile bizantino. Tutte le imagini di Cristo, di origine bizantina, hanno una espressione tutt’altro che divina; come le imagini degli Dei dell’antico Egitto, rivelano nel modo bizantino di comprendere la divinità, tradizioni tuttora pagane. Questo tipo ci porta in un ordine di idee, il quale ci riesce più estraneo che la stessa antichità pagana. Rappresenta una astrazione terribile, la quale esclude ogni idea di umanità, di imaginazione, di vita. Tali fisionomie del Cristo producono in certo modo l’impressione del capo di Medusa. Io non le posso contemplare, senza vedervi rappresentata, quasi in uno specchio, la storia della Chiesa; vi scorgo l’ascetismo fanatico, il monachismo, l’odio contro gli Ebrei, la persecuzione degli eretici, le lotte dogmatiche, la supremazia dei Papi. Nessun’altra cosa rappresenta meglio, sotto forma simbolica, la potenza positiva e negativa della religione cristiana. Nessuna cosa può meglio spiegare lo sviluppo dell’arte cristiana nel progresso dei tempi, che il confronto di un Cristo bizantino, colle teste del Salvatore di Raffaello, o di Tiziano; esprimono i limiti estremi del modo di comprendere, e di rappresentare il tipo religioso.
Non farò parola di altri mosaici, come della Vergine col Bambino, in mezzo alla cappella centrale, e di fatti della vita di Cristo. In generale si deve osservare che nel santuario predomina il carattere patetico, sopranaturale, religioso, astratto, in sublime grado. Nella riproduzione per contro dei fatti dell’antico testamento, l’arte si fa più umana, assume un carattere meno severo, talvolta quasi ridente; scende a rappresentare pure piante, animali. Si entra nella sfera della natura, della storia della umanità. Parecchi di questi quadri, sono di una ingenuità primitiva. Citerò, a cagion d’esempio, il sacrificio d’Isacco rappresentato con una semplicità caratteristica. Isacco trovasi steso sopra una catasta di legno; Abramo lo ha afferrato per il capo, e solleva un coltellaccio lungo quanto la metà del corpo del ragazzo; dietro a lui stanno due uomini con bastoni nodosi, al di sotto si vede un cavallo sellato, ed in alto, si scorge un angelo in atto di volare. Il disegno è spesso difettoso, e negli animali particolarmente, rivela una grande imperizia; i dromedari a cui Rebecca porge da bere, sono addirittura ridicoli. In generale però tutti quei mosaici producono buona impressione, ma le loro tinte sono grandemente annerite dal fumo, imperocchè l’11 novembre del 1811, lo stupendo tempio di Monreale corse grave pericolo di rimanere preda tutto quando dalle fiamme. Un chierichetto aveva collocata una candela accesa in un armadio, dando fuoco ad alcune stoffe che vi si trovavamo; aveva tentato soffocarlo chiudendo l’armadio; e stando zitto, per timore di essere sgridato, se n’era fuggito. Nel pomeriggio si vide uscire denso fumo dalle porte e dalle finestre della chiesa; il popolo vi si precipitò, e trovò che già nel coro si erano sviluppate le fiamme. Dopo quattro ore di assiduo lavoro si riuscì a spegnere il fuoco; ma il danno era stato grave; i due organi erano stati fusi, il solaio in gran parte rovinato, le travi nella caduta avevano infranto le tombe di Guglielmo I e di Guglielmo II, ed i mosaici erano stati in parte interamente distrutti. Fin dal 1816 si diede principio a ristaurare i guasti, e per buona sorte le tribune, e le navate erano andate illese dalle fiamme.
Le tombe dei due Guglielmi e della loro famiglia, le quali furono a quell’epoca danneggiate, si trovano nell’ala destra del coro. Guglielmo il Malo riposa in un sarcofago di porfido, e sono ivi pure sepolti i suoi tre figliuoli, Ruggero duca delle Puglie morto nel 1164. Enrico principe di Capua, morto nel 1179. Guglielmo il Buono, e Marcherita loro madre, in guisa che di tutta la stirpe normanna di Sicilia, non mancano che Ruggero I, Simone, e Tancredi. Guglielmo il Buono, che costrusse la bella chiesa, e che vedesi rappresentato due volte nei mosaici, l’una seduto in trono, dove Cristo gli pone sul capo la corona, e l’altra seduto sulla cattedra vescovile, che presenta alla Vergine il disegno del tempio; riposa in un sarcofago di marmo bianco, di bella forma ornato di graziosi rabeschi, su fondo in oro. Questo monumento gli venne innalzato soltanto nel 1378 dall’arcivescovo Ludovico de Torres; imperocchè il pio re aveva prescritto che la sua salma fosse deposta in una semplice fossa murata, a fianco dello stupendo sarcofago di suo padre. Così fu fatto e per vari secoli Guglielmo II non ebbe altra tomba.
Non si era contentato quel re, di costrurre il duomo; vi aveva eretto a fianco un monastero stupendo, dove aveva chiamati dalla Cava i padri Benedettini, e si compiateva desso trattenersi soventi seco loro, rallegrandosi nel contemplare i lavori degli edifici grandiosi, che in quell’epoca andavano sorgendo in Monreale. Il monastero edificato da re Guglielmo, cadde da gran tempo in rovina, ma ne venne innalzato sull’area stesso uno nuovo, splendido assai, come sono in Italia i conventi tutti dell’ordine illustre e dotto di S. Benedetto, i quali hanno l’aspetto di abitazioni principesche, anzichè di monasteri.
L’antico convento doveva essere bellissimo, e migliore di quello di S. Martino. Sorgeva a fianco del duomo; signoreggiava la pianura di Palermo, e dai giardini di quello si gode tuttora la magnifica vista di quella amenissima contrada. Guglielmo aveva circondato il convento di mura e di torri, delle quali sussistono alcuni avanzi; poche rovine del resto rimangono del convento primitivo, ad eccessione del chiostro tuttora abbastanza conservato, e di cui è difficile trovare l’uguale. Consiste in un ampio quadrato circondato da portici; duecento sedici colonnette fantastiche, accoppiate due a due, sopportano gli archi a sesto acuto, ricchi di ornati bizzarri; negli angoli trovansi riunite quattro di queste colonnette, ed i loro capitelli sono lavorati con maggiore cura e perfezione. Non si può abbastanza esprimere quanto bell’aspetto produce quella selva di colonnette graziose, fine, i cui fusti, sono tutti lavorati in diversa foggia, ondati, striati, lisci, a spirale, in ogni maniera la più capricciosa. L’arte ha presa quivi la varietà per legge, e si abbandonò interamente al capriccio; tutto vi è ingenuo, grazioso, puerile, fantastico. La picciolezza delle forme si prestò a quello slancio ardito d’imaginazione. Il porticato di questo chiostro si può dire il contrasto il più saliente dei colonnati greci, e sarebbe difficile trovare negli ordini architettonici due cose più dissimili. Ivi si comprende, come infinite siano le forme del bello, come la poesia possa rivestire tutti i caratteri che si stendono fra la sublimità della tragedia, e l’ingenuità della favola.
Meritano poi la più grande attenzione i capitelli di tutte quelle colonnette. Anche in questi, fu presa per legge unica la varietà, imperocchè non solo non havvi uno di quei capitelli, che sia simile ad un altro, ma si direbbe che gli scultori abbiano voluto gareggiare colla natura, nel riprodurre la varietà delle sue forme. Dalle foglie di acanto, le quali disposte in varie guise formano la base dei capitelli, sorgono imagini fantastiche, ora di un fiore, ora di un animale, ora di una pianta, ora di una figura umana, le quali presentano per modo di dire un piccolo poema. In qualche punto scorgonsi vere figure, che a modo di cariatidi sostengono l’abaco; in altri punti si vedono imagini bizzarre di leoni, di cavalli, di delfini, di geni alati, di arpie, di dragoni, di grifoni, di esseri fantastici, le quali balzano fuori dai fiori, e sostengono la tavola che forma l’estremità superiore del capitello. Perecchi di questi rappresentano fatti dell’antico e del nuovo testamento, in modo se non pregevole per disegno, meritevole però di attenzione, per il loro carattere di semplicità, e di ingenuità. Sopra uno dei capitelli si scorge, come già in un mosaico del quale abbiamo fatta parola, il re Guglielmo il quale presenta alla Vergine il disegno del duomo; in un altro si vedono i re Magi, gli uni a cavallo, gli altri a piedi, i quali offrono doni a Gesù Bambino. Vi sono lotte di guerreri, i quali muovono gli uni contro gli altri armati; vi sono pure scene del tiro all’arco, cotanto accetto ai Normanni, come a tutti i popoli del settentrione, per cui si può argomentare che non vi avessero rinunciato, nei paesi meridionali. Trovansi per tal guisa riuniti argomenti sacri, e profani; la bibbia accanto alla storia naturale, ed il complesso del chiostro forma un ciclo di scolture, il quale corrisponde meravigliosamente a quello dei mosaici dell’interno del duomo.
Nella stessa guisa che nelle umana natura il serio ed il giocoso trovansi di frequente a contatto l’uno dell’altro scorgesi in Monreale ad ogni passo il contrasto del sublime e dell’umile, la qual cosa è caratteristica dell’architettura gotica, infinitamente più ricca di quella dei Greci nella espressione delle idee che le diedero vita, perchè maggiormente si applica a riprodurre sotto i suoi vari aspetti la natura.
Il chiostro di Monreale è uno dei migliori monumenti di quei primi tempi del medio evo, in cui lo spirito umano nell’architettura, nella scultura, come nella poesia cominciava a prodursi sotto infinita varietà di forme; e siccome tutti i rami di civiltà, sono gli uni agli altri connessi, può dirsi che nella poesia i sonetti, le canzoni, le terzine, i madrigali, le stanze di vario metro, corrispondessero appieno ai mosaici, ai rabeschi, agli ornati architettonici, alle sculture di quell’epoca di risorgiinento delle arti, e delle lettere. Nella stessa guisa che meglio si comprendono il carattere, il senso intimo delle tragedie di Eschilo, dopo avere contemplato i tempii greci di Pesto, e della Sicilia, si può dire che meglio si comprendono, si apprezzano i poemi di Dante; e di Wolfram di Eschenbach, dopo avere visitato le cattedrali d’Italia, ed i monasteri della Germania.
IV.
La Cattedrale, e le altre chiese di Palermo.
Il duomo di Palermo era di già, prima dei Saraceni, la chiesa principale della città, e della arcidiocesi, ed era dedicato a Maria Assunta in cielo. Gli Arabi lo avevano ridotto a moschea, i Normanni lo restituirono al culto cristiano, togliendovi tutto quanto sapeva di Saraceno. Soltanto sopra una colonna del portico, a mezzogiorno, si legge tuttora una iscrizione araba tolta del Corano, la quale suona in questo senso. «Il vostro Iddio ha creato il giorno, al quale segue la notte; e la luna e le stelle si muovono secondo i suoi cenni. Non è sua propria la creatura, non è sua la signoria? Sia lodato Iddio, il Signore dei secoli!»
L’antica chiesa fu eretta dall’arcivescovo Gualterio di Offamil, congiunto di Ruggero, negli anni dal 1170 al 1194 seguendo lo stile gotico, che quel duomo ha tuttora serbato in complesso, ad onta delie molteplici ed infelici modificazioni a cui andò soggetto. Della chiesa precedente non lasciò sussistere che la cappella di S. Maria Incoronata, nelle quale furono incoronati Ruggero e tutti i suoi successori, come accenna l’iscrizioni, hic Regi Corona datur. Nel 1781 il duomo fu ristaurato, o per parlare più esattamente deturpato, per opera dell’architetto napoletano Ferdinando Fuga, il quale v’innalzò una cupola barocca, e vi praticò parecchi altri lavori i quali ne alterarono totalmente lo stile antico. Ad onta di questi malaugurati ristauri, il duomo di Palermo produce tuttora una impressione soddisfacente, desso riunisce la semplicità dell’architettura gotica, alla grazia degli archi, e dei rabeschi saraceni, e non havvi altro edificio a Palermo, il quale porga con tanta evidenza i contrasti di cui è ricca la storia dell’isola.
Il duomo sorge libero, sur una piazza di discreta ampiezza, circondata di una balaustra, con statue di gusto barocco. In mezzo a quella si scorge sur un piedistallo triangolare S Rosalia, protettrice della città, particolarmente contro la peste. Questa santa è per i Palermitani, quello che è per i Napoletani S. Gennaro, il quale li protegge contro il demone del Vesuvio.
Sorgono ai quattro angoli del duomo quattro torri di bella forma, e piccole cupole sopra le navate laterali. L’antico campanile quadrato, per buona sorte non alterato di ristauri, sorge alla foggia toscana accanto alla chiesa, e trovasi unito a questa, per mezzo di archi. La tribuna, di forma semicircolare, trovasi dipinta a rabeschi neri. Sulle pareti esteriori, nelle porte, nelle finestre, nelle fasce, nelle cornici, l’occhio è rallegrato dovunque da graziose sculture, dalle forme fantastiche di colonne, di merli. Il maggiore lavoro trovasi nelle porte, e sono principalmente da ammirarsi i ricchi rabeschi della porta maggiore, e lo stile di quella sul fianco meridionale della chiesa. Il portico risale al 1430. Desso è formato di tre archi a sesto acuto, i quali riposano sopra quattro colonne, ed è di affetto molto pittorico. Sulle pareti interne dell’atrio si scorgono due sculture moderne, le quali rappresentarono l’incoronazione di Carlo III e di Vittorio Amedeo di Sardegna, il quale fu per pochi anni re di Sicilia.
Nell’interno la chiesa di semplice e piacevole aspetto, ma interamente rimodernata, è a tre navate a forma di croce latina, con archi a sesto tondo, sostenuti da pilastri. Le cappelle e gli altari sono sopracarichi di ornati del gusto il più barocco. Il marmo ed il porfido vi sono prodigati, ma non vi esistono nè sculture, nè pitture di pregio, ad eccezione dei due acquasantini in marmo, di buon lavoro, uno dei quali è della scuola di Antonio Gaggini, discepolo di Michelangelo, ed uno dei migliori scultori della Sicilia. Sonvi nel duomo parecchie opere di questo artista di merito, particolarmente alcuni monumenti sepolcrali nella cripta sotterranea. Venne questa edificata al tempio dei Normanni, ed ha conservato tutto il suo carattere antico di basilica ad archi a sesto acuto, sostenute da voluminose colonne di granito. Stanno tutto all’intorno, lungo le pareti, le tombe degli arcivescovi di Palermo, consistenti per la maggior parte in sarcofagi di mediocre lavoro romano, sui quali vennero collocate posteriormente le figure distese dei prelati. L’aspetto semplice e severo di quell’edificio, produce in complesso una impressione favorevole.
La cosa però più pregevole del duomo, sono le tombe dei re della stirpe normanna, e di quella di Hohenstaufen, monumenti della storia di Sicilia, e ad un tempo di quella di Germania. Stanno in una cappella della navata a diritta, e consistono in sarcofagi di gusto puro e severo, di porfido di tinta rossa cupa, o di marmo, sormontati alcuni da tempietto sepolcrale, parimenti di porfido. Non ho visto mai tombe dei tempi cristiani, le quali abbiano carattere semplice e severo al pari di queste, e che sembrino, al pari di queste fatte per durare eternamente. Gli stessi due sarcofagi in porfido del tempo di Costantino, che si vedono nel museo Vaticano, non colpiscono ugualmente perchè presentano bassi rilievi, i quali distraggono l’attenzione. Tombe di tanto grandiosa semplicità, di maestà cotanto severa, potrebbero servire pure per i re dei Niebelungen. Si riconosce in esse l’impronta grandiosa del secolo XIII. Dimostrano inoltre quei sarcofagi che in quell’epoca i Siciliani avevano conservata tuttora l’arte di lavorare il porfido, la quale era andata perduta nel resto d’Italia, e che, secondo quanto narra il Vasari, non fu ritrovata se non circa la metà del secolo XVI da Francesco del Tadda.
Sono ivi sepolti il gran re Ruggero, Costanza sua figliuola, il di lei marito Arrigo VI, ed il loro figliuolo Federico II, il principe più geniale che abbia avuta la Germania, e la prima moglie di questi, Costanza di Aragona.
La tomba di Federico si è quella la quale trae maggiormente a sè l’attenzione. Desso morì a Firenzuola presso Luceria nelle Puglie il 13 dicembre 1280 in età di soli cinquantasei anni. La sua salma venne trasportata in Sicilia, scortata da sei squadroni di cavalleria, e dalle guardie saracene, e venne deposta nella chiesa stessa, dove aveva ricevuta tuttora ragazzo la corona, e dove aveva fatto incoronare pure Manfredi suo figliuolo. Questi aveva dato incarico ad Arnolfo di Lapo, discepolo dell’illustre Nicola Pisano, d’innalzare uno stupendo monumento all’imperatore suo padre, il quale però non venne eseguito. Ignorasi chi sia stato l’autore del monumento attuale, se un Toscano od un Siciliano. Il sarcofago, ornato nel coperchio di aquile e di grifoni, posa sopra quattro leoni, i quali tengono nelle loro zane figure di schiavi, ed il tutto posto sopra un basamento di tre gradini, trovasi sormontato da un tempietto sostenuto da colonne.
Nel 1491 il vicerè spagnuolo Ferdinando di Acunha, si arrischiò ad aprire quelle tombe. Alla presenza degli arcivescovi di Palermo e di Messina, e del senato palermitano, fece aprire i due sarcofagi di Arrigo VI, e di Costanza di Aragona, e soltanto per la disapprovazione manifestata da tutti gli astanti, si trattenne dal farne altrettanto colle altre tombe. Allorquando nel 1784 il duomo fu per mala sorte ristaurato, tutte quelle tombe si trovavano tuttora in una cappella a fianco del coro; vennero allora trasportate dove attualmente si vedono, ed in quella occasione vennero tutte aperte. Il principe di Torremuzza, il quale si trovò presente l’11 agosto alla loro apertura solenne, dice nella sua vita. «I cadaveri di Ruggero I, di Arrigo VI e di Costanza consorte di questi, si trovarono pressochè distrutti e consunti, e nulla di notevole si ebbe ad osservare nei loro ornamenti; per contro le salme di Federico II e di Costanza II eccitarono la generale ammirazione per la ricchezza dei loro abbigliamenti, e per la qualità di gemme che erano state sepolte coi due principi. Sulla corona di Arrigo VI o sulla camicia che Federico II portava sotto le altre sue vesti si trovarono parecchi caratteri arabi cufici a ricamo, dei quali fu tolto esatto disegno che a mio suggerimento venne spedito al professore Tichsen in Butzow per averne la spiegazione.»
Le parole del principe non concordano pienamente colla notizia pubblicata dallo storiografo napoletano Daniele, intitolata I sepolcri del duomo di Palermo illustrati. Secondo questa, il cadavere di Federico II si sarebbe trovato rivestito di abiti magnifici e ben conservato, quantunque poco decorosamente si fossero collocati nella stessa tomba due altri cadaveri, uno dei quali fu ritenuto di Pietro II di Aragona morto nel 1342, e l’altro non si potè riconoscere. La corona dell’imperatore, ornata di perle, posava sopra un guanciale di cuoio, ed a sinistra del suo capo stava lo scettro. Portava in dito un anello con uno smeraldo; a suo fianco stava la spada, ed aveva attorno al corpo una cintura in seta con fibbie d’argento; era calzato di stivali in seta, ricamati a colori, ed aveva speroni d’oro.
Disgraziatamente non pervenne a noi un ritratto propriamente autentico di quel gran principe; non abbiamo che quelli delle sue monete, e di un anello che lo storico Daniele fece incidere sulla scorta di una maschera in gesso di Federico. Gli abitanti di Capua avevano eretto sul ponte del Volturno statue all’imperatore Federico, ed a suoi due consiglieri Taddeo di Sessa e Pier delle Vigne; la statua sola dell’imperatore rimane, però malconcia, imperocchè, secondo quanto narra Raumer, soldatesca sfrenata le ruppe le braccie ed i piedi, e ne cacciò perfino a terra il capo. Prima che fosse per tal guisa mutilata, Daniele ne aveva fatta prendere l’impronta della fisonomia, e sulla scorta di quella, incidere l’anello.
Quali possono essere le sensazioni provate oggidì da un Tedesco, davanti alla tomba di quel grande imperatore, in quella terra remota? Quali saranno ivi le sue idee, i suoi pensieri? Questa tomba risveglia grandi memorie; chi può accostarvisi senza sentirsi commuovere ad affetto, a venerazione? Altri principi proiettano ancora dopo vari secoli un’ombra cupa sul mondo; questo getta tuttora sull’Italia e sulla Germania un raggio di luce, il quale ancora non si è spento. Un grande impulso partì da lui, il quale si andò di poi allargando, e che fece sentire ancora per molti secoli la sua influenza, sebbene Federico sia parso soccombere nella lotta. Desso fu il primo a smovere ed indebolire il Papato, col quale contrastò a lungo; perì in questa lotta la stirpe germanica la più generosa, ma non senza frutto. Federico II fu percursore della riforma; prese a propugnare i diritti dell’umanità, della civiltà, della ragione, contrastati dalle barbarie feudale e sacerdotale del medio evo, la quale li aveva quasi soffocati. Desso diede a suoi popoli leggi, quali non avevano posseduto prima di lui, piene di saviezze e di umanità. Fu il primo a far ragione al popolo, nel diritto di essere rappresentato, chiamando il terzo stato a sedere in parlamento. Favorì le scienze, di cui era profondo conoscitore, e per le quali nudriva profondo affetto; amava la poesia, e la fece risorgere in Italia. Federico II fu principe di una grande significazione, fu uno dei più grandi fautori della civiltà, della quale gettò semi, che non cessarono di svolgersi nel corso dei secoli.
Ora voglio ancora far parola a miei lettori di alcune altre chiese di Palermo appartenenti all’epoca normanna; sonvene alcune fra le più antiche propriamente graziose, quella particolarmente della Martorana, detta pure S. Maria dell’Ammiraglio.
Venne costrutta nel 1143 dal grande ammiraglio Giorgio, in uno stile antichissimo e puro. Sorge a fianco della chiesa un campanile di carattere arabo-normanno, ornato di piccole colonne, si entra nella chiesa per un portico, e tosto vi colpisce la magnificenza imponente dei mosaici, affatto simili a quelli della cappella palatina. Il coro possiede otto colonne di granito, con capitelli dorati, i quali sopportano gli archi. Questi, la cupola, le pareti fino a mezza altezza sono rivestiti interamente di mosaici su fondo in oro, e di rabeschi, ed il pavimento è formato di marmi preziosi e di porfido, ed anche in questa chiesa si leggono iscrizioni arabe, sopra alcune colonne.
Fra i quadri a mosaico, due meritano una particolare attenzione. Si vede in una cappella il grande ammiraglio inginocchiato ai piedi della Madonna, e sopra di lui sta scritto in lingua greca Preghiera di tuo servo Giorgio Ammiraglio. La Vergine, modestamente vestita e velata, tiene in mano un rotolo, ed in alto si vede Cristo collo scettro. Sul rotolo si legge la seguente iscrizione: «Proteggi in tutto figliuolo, e libera da ogni male Giorgio, primo fra tutti i principi, il quale mi abbia costrutto questo tempio delle fondazioni e concedi a lui il perdono de’ suoi peccati, che tu solo, come Dio lo puoi.» Un altro mosaico di migliore esecuzione, rappresenta il re Ruggero incoronato da Cristo. Si vede essere ritratto del re, una bella testa con i cappelli lunghi che scendono sulle spalle e colla barba a pizzo. Veste un abito lungo, di colore turchino, con sopra una tunica di colore pure turchino, ricamata in oro, e sulle spalle una fascia turchina ed oro, la quale dopo essersi incrocicchiata sul petto gli cade sotto il braccio sinistro. Tiene in capo la corona o piuttosto un berretto quadrato, ed ha scarpe colore di rosa. Fu trovato pure vestito in quella foggia Federico II quando fu aperta la sua tomba, e così pure vestivano Arrigo VI e Guglielmo I. Morso ritiene con fondamento, che quegli abiti reali fossero insegne della podestà sacerdotale, che Ruggero aveva ottenuta dal Papa Lucio II per dare maggiore consecrazione alla novella sua signoria. Ottenne difatti il scettro, l’anello, la dalmatica, i sandali, secondo quando narra Ottone da Frisinga.
Disgraziatamente i mosaici della tribuna vennero distrutti in occasione di ristauri eseguiti alla chiesa, nel corso del secolo XVI, e la tribuna stessa venne mutata di forma, in istile barocco. Oltre il pregio artistico, la chiesa della Martorana ha pure quello storico, di essere stata, dopo il vespro, sede del parlamento che elesse a re Pietro di Aragona.
Un’altra piccola chiesa, S. Giovanni degli Eremiti, è più antica ancora, essendo stata edificata dal re Ruggero nel 1132. Dessa ha quattro cupole, di gusto prettamente arabo, e di aspetto molto originale. Nell’interno è piccola, ed essendo abbandonata da gran tempo, non offre più che le nude pareti. Stanno vicino alla chiesa le rovine di un piccolo chiostro, in stile arabo-normanno graziosissimo.
La terza chiesa dei primi tempi normanni si è S. Catalda, di carattere greco, con tre cupole emisferiche sostenute da archi a sesto acuto. Dessa è di forma quasi quadrata, e vuolsi sia stata eretta dall’ammiraglio Maione. Suoi mosaici furono distrutti. Di alcune altre chiese normanne come di S. Giacomo, la Magara, e di S. Pietro la Bagnara, non rimangono quasi più traccie; altre furono nei tempi posteriori mutate interamente di forma dagli Spagnuoli. Basta poi la storia degli Hohenstaufen, a’ spiegare come dessi non abbiano pensato a costrurre chiese in Sicilia; per contro pare che l’architettura religiosa abbia tornato a fiorire nei primi tempi degli Aragonesi, e ne fanno prova S. Agostino e S. Francesco, particolarmente quest’ultimo, della cui fondazione non si conosce l’anno preciso. La sua porta maggiore è ornata di colonne torse, le quali devono essere di origine araba, ed avere appartenuto dapprima ad una moschea, imperocchè sovra una di esse si legge tuttora la seguente iscrizione maomettana in caratteri cufici. «Nel nome di Iddio misericordioso, misericordia. Non havvi altro Dio che Dio, e Maometto è il suo profeta.»
Bella pure e pittorica si è la facciata della piccola chiesa di S. Maria della Catena, la quale risale al secolo XVI. Il suo portico a tre archi, sostenuto ognuno da due colonne è molto bello, e sovra di esso corre una fascia con rabeschi graziosissimi. Anche S. Maria Nuova possiede un portico simile. Potrei ancora far parola di parecchie altre chiese meritevoli di essere viste, come di quella bellissima dell’Olivella, ma ciò mi potrebbe in altri tempi nei quali architettura non ebbe neanco più un carattere deciso, imperocchè col secolo XV l’arco normanno andò in disuso, e vi sottentrò l’arco a sesto tondo, sostenuto da pilastri pesanti, nè havvi più piacere a visitare queste chiese ripiene di colori che stuonano. Il mosaico artistico è scomparso; le pareti non sono più che sopracariche di marmi a vari colori, disposti senza gusto. Mancano pure i buoni quadri; l’unico capo d’opera della pittura di cui potesse menar vanto Palermo, lo Spasimo, di Rafaello che si trovava in S. Maria dello Spasimo forma ora il principale ornamento del museo di Madrid.