Ricordi storici e pittorici d'Italia/Napoli

Napoli

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Avignone Palermo
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NAPOLI

1854.

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I.

Dopo la rivoluzione del 1848, Roma è diventata più silenziosa ancora di quanto fosse in passato; ogni allegria, ogni vivacità nel popolo sono scomparse; le classi agiate si tengono nascoste, non fanno parlare di sè, le classi povere sono più misere, più oppresse di prima. Le feste popolari diventano di giorno in giorno più rare; il carnovale va decadendo; le feste stesse di ottobre, una volta così allegre, e che chiamavano la folla fuori le porte ad alliettarsi col bicchiere e col saltarello, sono quasi scomparse. Roma è una grande rovina della civiltà, dove non si vedono che processioni di preti e di frati, dove non si sente che il suono delle campane o musica di chiesa. Tutta la vita pare essersi concentrata nei curiali, nei cardinali, nei monaci, nei preti. Il popolo si è ridotto alla condizione di semplice spettatore. Desso non lavora, non traffica, sta contemplando; e gli argomenti di contemplazione non mancano, sia che si voglia portare la sua attenzione sulle rovine antiche, o nelle gallerie del Vaticano, o sulle funzioni in S. Pietro, o nella cappella Sistina, dove il Papa ed i cardinali, stanno disposti in gruppi, sempre nello stesso ordine, in guisa che si direbbe quasi trovarsi in presenza di un quadro. Nel corso stesso, dove il Romano passeggia con gravità nel pomeriggio od alla sera, non si direbbe già che si muova per muoversi; vi si porta per ammirare le belle dame, che corrono di su e di giù in carrozza. In certi punti del corso si scorgono gruppi di persone, le quali vi si fermano, per poter vedere le signore a loro bell’agio.

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Tutt’altro è l’aspetto di Napoli. La vivacità febbrile, l’agitazione continua e chiassosa di tutto questo immenso popolo, è per dir vero sorprendente. Si direbbe che la città sia in continua rivoluzione; tutti si muovono, tutti si agitano, gridano, schiamazzano. Il movimento è uguale sul porto, sulle spiaggie, sui mercati nella via Toledo, e quando si crederebbe trovare tranquillità a Capodimonte, al Vomero, a Posilippo, si incontrano sempre nuove persone, nuova agitazione, nuovo chiasso. Non si trova nè tempo, nè spazio per nulla. Non si può guardare nulla; dovunque è d’uopo stare continuamente in guardia, contro gli urti e gli spintoni. La viva luce stessa del mare, e delle riviere, vi mantiene in continua agitazione; dessa offendo la vista, eccita la fantasia; nel cuore della notte stessa non quiete il frastuono delle voci umane, delle carrozze.

Da Castel S. Elmo ero salito al monastero di S. Martino. L’edificio principesco dei Benedettini, il quale non ha l’uguale nè per magnificenza architettonica, nè per bellezza di posizione, domina Napoli dal Vomero, e di là si gode la vista inarrivabile dell’ampio golfo, delle sue isole, e dell’immensa città, la quale si stende da Posilippo, sino alle falde del Vesuvio. Ed anche a quella altezza sale il romore confuso della città; si direbbe che la popolazione al basso sia impegnata in una lotta, che stia facendo una rivoluzione. E se si cercasse perchè tutta quella gente gridi, che cosa offrano tutte quelle voci, si troverebbe non essere altre che godimento, piacere. Un frate benedettino il quale mi sta vicino, mi diceva che in tutto quel romore confuso, distingueva le voci di alcune donne le quali vendevano frutta. E che cosa non si offre qui in vendita ad alta voce? Tutto quello che sorge, che nasce in questo suolo benedetto tutto ciò che l’industria umana produce, ha quì il suo grido particolare; il pesce nell’acqua, il frutto sulla pianta, il Pulcinella sulla strada, perfino le statue in legno dei santi che si vedono schierate nelle botteghe. L’unica cosa che non si offra ad alta voce [p. 157 modifica]sono le belle ragazze; le propone il ruffiano pallido che striscia in Toledo quale serpe e va, sussurrando a mezza voce nel passarvi a fianco; «una ragazza fresca, bella, bellissima, di tredici anni.»

Stetti a lungo sul terrazzo di S. Martino, appoggiato al parapetto, ascoltando al basso la voce di Napoli. Se questo popolo, pensavo, fa un tal chiasso nelle condizioni della vita abituale, quale non è il romore che deve fare allorquando trovasi agitato dalle passioni, allorquando lotta nelle strade, e domanda il saccheggio, come facevano dopo il 15 maggio 1848, i lazzaroni a migliaia, dietro la carrozza del re Ferdinando.

Tutto questo movimento però d’ordinario è pacifico, ha luogo con allegria, ed un certo ordine non cessa di regnare in mezzo a questa apparenza di disordine. Tutta questa gente che brulica come le formiche, si muove in certe direzioni fisse quasi ad uno scopo determinato. La vita circola in questo popolo, come il sangue nel corpo umano, e certe pulsazioni le quali paiono febbrili, sono però regolari e normali.

La rivoluzione, e la sconfitta morale degli ultimi anni non hanno lasciate traccie a Napoli. La vita ordinaria ha ripreso il suo corso, coma se nulla fosse stato, e nessuno si accorgerebbe di quanto avvenne, se le persone prudenti e ben intenzionate non vi avvertissero di andare cauti nel parlare, di stare in guardia contro le spie, che pullulano ad ogni angolo, e se non si scorgessero qua è la, ed a Madina ed a Monte Oliveto particolarmente, case e palazzi danneggiati dalle artiglierie di Castel nuovo. Ora è permesso pure ad un forastiero portare un cappello alla Calabrese, od il pizzo al mento, dopochè l’ambasciatore di Francia ha richiesta ed ottenuta soddisfazione, per lo sfregio fatto ad uno de’ suoi connazionali, il quale era stato arrestato per istrada, e senz’altra formalità portato nella bottega di un barbiere, dove per ragion di stato, gli si erano rase le basette ed il pizzo. Sonvi giovani napoletani, i quali siccome mi narrava un prigioniero di stato [p. 158 modifica]a Pozzuoli, dovettero scontare colla rilegazione in un’isola od in una fortezza, il delitto di avere portato un cappello, od una barba rivoluzionaria.

Non si osserva mai una dissonanza, imperocchè tutto è armonia in questo beato paese; non si vede mai una fisionomia seria, malinconica, perchè tutto sempre sorride, in questa allegra contrada. Barche a migliaia si muovono come per lo passato nel porto; le carrozze corrono a migliaia a Chiaia, e Santa Lucia, si mangiano ad ogni passo maccheroni, frutti di mare; si canta e si suona al Molo, tutti i teatri sono aperti, il sangue di S. Gennaro bolle, e si liquefà come prima; nessuna bomba ha colpito Pulcinella, e la Villa Reale è piena di forastieri, i quali lasciano buoni danari. Questo popolo non vive che alla giornata, per il solo momento. Non ha senso per la politica, per le cose serie, per le passioni virili, senza le quali un popolo non ha storia propria. Da quanto esiste, Napoli ebbe sempre forastieri per padroni, i Bizantini, i Normanni, gli Svevi, gli Agioini, gli Spagnuoli, i Borboni, e Giovacchino Murat. Un popolo senza carattere proprio, senza sentimento nazionale, si spiega a qualunque signoria, e fa senso il vedere oggi ancora le monete coll’effigie di Murat, avere corso tranquillamente con quelle di re Ferdinando.

Gli uomini assennati, i quali ammettono il carattare di questo popolo, e non se ne adontano, mancano di perspicacia, di prudenza. Tornavo una sera a Napoli, da Portici. Salì per istrada meco sulla carrozza un medico, uomo sul fiore dell’età, spiritoso, educato. Esplorò dapprima il mio modo di vedere, quindi parlò liberamente, senza ritegno di sorta delle condizioni presenti di Napoli. Le sue osservazioni erano così severe, che io non avrei imaginato mai si arrischiasse a manifestarle ad uno sconosciuto. Gl’Italiani parlano volontieri di politica con i forastieri, ed allora non fanno punto mistero del loro modo di vedere. Quell’uomo era stato perseguitato, per avere avuto in passato relazioni con Poerio. Interruppi il suo discorso, [p. 159 modifica]chiamando la sua attenzione sulla grande quantità di lumi che si erano accesi, per una festa alla Marinella. «Come è stupenda questa vista, dissi con quella dei lumi che fanno corona al porto!» — «È vero rispose quegli, è propriamente bella. Tale è il nostro popolo! Fa plauso a qualunque disposta gli porga una festa, uno spettacolo, una illuminazione. Come è mai possibile che questa folla ignorante, nutra idee serie?»

I Napoletani sono irritati ma ridono. Non havvi contrada al mondo, in cui l’esercizio del dispotismo sia tanto facile come in questa, imperocchè non è possibile annullare i tesori di questa splendida natura, ridurre a sterilità questo fertile suolo; sotto questo cielo ognuno può sempre muoversi liberamente, tutti quanti i sensi trovano sempre soddisfazione. La natura agguaglia tutto, non havvi sito dove sia più democratico che a Napoli. Chi potrebbe annullare questa magna charta della libertà? Trovai sempre sommamente caratteristico in Napoli lo spettacolo seguente. Nelle ore calde del pomeriggio, sotto il porticato di una fra le principali chiese, quella di S. Francesco di Paola, propriamente in faccia al palazzo reale, si vedono centinaia di lazzaroni sdraiati che dormono, i quali sucidi e senciosi, non servono per certo di decorazione a quell’opera architettonica. Mi facevano pensare a quegli altri lazzaroni dell’antica Roma, i quali facevano dessi pure la siesta sotto il portico di Augusto e di Pompeo, se non che quali tenevano in tasca le tessere per la distribuzione del grano, e questi non l’hanno. In qualunque altra capitale d’Europa, la pulizia caccerebbe via tutti quei dormienti dal portico di una chiesa, alla vista del palazzo reale. Qui dormono a loro bell’agio, e li stanno contemplando, come la cosa più naturale del mondo: le sentinelle che passeggiano sbadatamente su e giù, presso le statue equestri di Carlo III e di Ferdinando I.

Questa piazza reale, vicinissima al mare, di cui non gode però la vista. toltale del palazzo reale che le sorge di fronte; stupendamente selciata da poter servire di sala [p. 160 modifica]da ballo, circondata da eleganti edifici, è punto importante della città. Ivi risiedono il re, la corte, le principali amministrazioni, e questa piazza si potrebbe nomare non già il cuore di Napoli, che questo si è il porto, ma quasi il cervello. Manca però desso totalmente di carattere storico, e rivela tutta quanta la nullità senza significazione di sorta dell’epoca moderna, sia nel palazzo reale, il quale colla sua facciata liscia colle sue mura di tinta rossa, colla sua simetria che stanca, non produce impressione di sorta, sia nei due palazzi uguali che fiancheggiano la piazza stessa, sia finalmente nella chiesa di San Francesco di Paola, imitazione del Panteon di Roma, la quale non ha carattere proprio, e non produce altra impressione, fuori quelle che può derivare dalla vista di una copia, senz’anima. Anche le statue equestri in bronzo di Carlo III, fondatore della dinastia, e di Ferdinando I, opere di Canova e di Antonio Calì, colla loro tinta allegra e chiara, liscia e di forme leggiere, non hanno punto il carattere di monumenti storici; si direbbero piuttosto decorazioni passeggiere. Tale si è qui il carattere di tutto, interamente moderno e di gaiezza uniforme. Il palazzo reale potrebbe, senza che il suo stile punto vi si oppenesse, venire trasportato in mezzo ad un grandioso giardino, ad un parco, e sarebbe allora una villa principesca come Caserta o Capodimonte, ai quali grandemente rassomiglia. Non è poi meno singolare che il famoso teatro di S. Carlo, il più vasto di tutti i teatri, trovasi aderente al palazzo, di cui forma un ala. Le muse per tanto della musica e del ballo, abitano sotto lo stesso tetto che il capo dallo stato, ed in una corte laterale, visibile dalla strada, fanno ogni mattina gli esercizi i soldati svizzeri, vestiti semplicemente di tela di colore fra il bigio ed il turchino, che si armonizza perfettamente colla architettura fredda, e senza carattere del palazzo.

Il re Ferdinando tiene tuttora il broncio contro Napoli. Il palazzo era deserto. la corte si trovava nell’incantevole isola d’Ischia. Un giorno però il re venne in città, per [p. 161 modifica]assistere alla festa della Madonna sul Mercato, la quale gode di riputazione quasi uguale a quella di Piè di Grotta. Ebbi pertanto occasione di vedere la famiglia reale e la corte, sia sul Mercato, sia per istrada quando facevano ritorno a palazzo. Il corteggio, composto di varie carrozze dorate, era splendido e faceva bella mostra sul Largo di Castello, mentre il palazzo reale, che avevo visto sempre muto e silenzioso, riacquistava aspetto di anima, di vita. Non udii un solo grido di viva il re! Le persone si levavano di capo il cappello, come sogliono fare pure, quando le campane suonano l’Ave Maria. L’aspetto delle truppe era bello; bellissimi particolaramente gli usseri con divisa pittorica a vivaci colori, e buonissimi cavalli. Assuefatto a non vedere in Roma che soldati francesi, mi fece piacere trovarmi di nuovo in presenza di truppe italiane. l Napoletani sono bei soldati, stupendamente vestiti, abbastanza istrutti, ma è facile vedere che non hanno di soldati che la sola apparenza, che sono comparse militari, e nulla più.

Si vedono a Roma per le strade, quale tratto caratteristico della città, corporazioni le quali si muovono in lunghe file, due a due, recando un po’ di vita in quelle strade silenziose e deserte. Servono a dare pure un’idea della vita interna del paese, retto e disciplinato tutto dai preti. Voglio far menzione delle principali di quelle comitive; sono lunghe file di monache, di frati, di ragazzi dei vari istituti, dei poveri orfanelli, degli allievi dei vari collegi, vestiti in rosso, in nero, in turchino, in bianco; delle confraternite della morte coi cappucci neri, di altre che lo portano verde, bianco, violaceo, finalmente pure file di militari. Non mancano neppure a Napoli tutto quelle comparse più o meno clericale, ma nell’onda continua di popolo vanno perdute, e sono meno visibili che a Roma. Si distinguono i militari, e più ancora i galeotti che camminano scortati da truppa incatenati due, a due, vestiti di vari colori, secondo la classe a cui appartengono per il delitto che hanno commesso; e non s’incontrano [p. 162 modifica]questi in città soltanto, ma ancora fuori di essa, presso Portici e Torre del Greco. La vista di quei disgraziati, in presenza particolarmente di una natura cotanto splendida, che esilara il cuore e l’anima, che tutta invita al piacere, è vista sommamente dolorosa.

Del resto non havvi in Napoli nessuna di quelle corporazioni sociale, le quali traggano a sè l’attenzione come a Roma; ed anche i preti ed i monaci, i quali sono numerosissimi, siccome avviene dovunque è facile la vita, ed agevole la vegetazione di piante parasite; vanno confusi nella folla, contribuendo a dare a questa aspetto di varietà. Potei osservare tanto in quella festa del Madonna del Mercato quanto in altre occasioni, come questo popolo, tutto volga a divertimento ad allegria. Non si va ad una festa per vedere le funzioni di chiesa, per ammirare le pompe del culto, vi si va per stare all’aria aperta, per godere delle bellezze naturali, a cui tutta quella folla variopinta dà nuovo risalto. Vidi migliaia e migliaia di Napoletani alla festa del centenario della Madonna di Posilippo, e non ho assistito mai ad uno spettacolo più teatrale. La folla variopinta imgombrava la stupenda riviera di Chiaia la Villa Reale, la strada tutta quanta sino a Posilippo; era dovunque bandiere, arazzi, fiori; il golfo splendeva di luce; sei legni da guerra stavano ancorati nello spazio compreso fra Chiaia ed il porto, facendo continuamente fuoco dalle loro artiglierie. Il romore ed il chiasso erano indescrivibili. La processione poi non aveva carattere nè di dignità solenne, nè di vero splendore, per chi arrivava recentemente da Roma.

A Roma, anche le processioni le più meschine hanno un aspetto di bellezza artistica, ed è facile vedere che le arti hanno esercitato la loro benefica influenza anche nelle minime cose afferenti al culto, quali sono gli emblema, le allegorie, le imagini dei santi. Il senso del bello regna dovunque in ogni cosa; si direbbe che gli Dei della Grecia, i quali stanno al Vaticano, al Campidoglio, non tollerano l’eccesso del brutto, del barocco neanche nei santi. Il museo [p. 163 modifica]borbonico non ha punto esercitata quest’influenza sul popolo di Napoli. L’arte plastica ha pochi aderenti, pochi cultori; la sola pittura ha quivi fatta sentire la sua influenza; quella allegra e brillante degli affreschi di Pompei, dei quali si scorgano imitazioni ad ogni passo, e quanto più sono fantastiche, tanto più piacciono.

Non potrei dire quali brutte imagini di santi io abbia visto portare in processione a Napoli, prodotti di un’arte senza principii, senza gusto, e di una fantasia bizzarra, che per stranezza ha poco da invidiare all’arte indiana. Per avere un’idea di quanto sia disposto questo popolo a tollerare in materia d’arte, basta por mente a quelle statue barocche di santi che si vedono per le strade, a quegli orribili Cristi scolpiti in legno, che sorgono qua e là nelle piazze.

Fa d’uopo entrare a Napoli in una di quelle botteghe dove si vendono statue di santi, per comprendere quale sia il modo con cui questo popolo meridionale senta ed esprima la religione e l’arte. Ero capitato un giorno in una di quelle strade brutte e strette, che dal porto salgono dritto alla collina, quando la vista di alcuni artefici occupati a lavorare assiduamente in una stanza aperta, chiamò la mia attenzione. Gettai lo sguardo in quell’ambiente lungo profondo, che si andava oscurando verso il fondo. Stavano colà disposti lungo le pareti due file di santi già ultimati, ed in mezzo sorgeva una sant’Agnese col suo agnellino. vestita di bianco, colle gote colorite in rosso da far invidia a due ciliegie. Sulla porta d’ingresso lavoravano parecchi giovani, uno dei quali era intento ad ornare una statuetta in legno, con pagliuzze d’oro. Vi saranno stati nella bottega per lo meno un centinaio di statue di santi, di tutte le dimensioni, dall’altezza di un fantoccio alla grandezza naturale, dipinti di colori i più vivaci ed i più dissonanti, fregiate d’oro e d’argento, in tutte le posizioni, in tutte le attitudini. Non vi sarebbe modo di descrivere la penosa impressione prodotta dall’urto di tutti quei colori, dalla stranezza di quelle [p. 164 modifica]attitudini, dalla quantità di amuleti, di simboli di superstizione, di cui erano ricoperte tutte quelle imagini. Si sarebbe detto che quegli scultori, se pure meritano un tal nome, fabbricano divinità per il popolo, come le crearono Esiodo ed Omero. Nel contemplare tutte quelle statue, io credetti farmi un’idea della natura della religione di questo popolo, e stanco, nauseato, mi affrettai a portarmi sul molo per respirare all’aria libera, e ricreami nella vista della natura sempre pura, bella, e santa. Pur troppo l’uomo non corrisponde qui alla natura che lo circonda; diversamente in vista di questo mare, di questi monti di questo cielo, non potrebbe pregare davanti a quegli orribili fantocci.

II.

Basta un breve soggiorno a Napoli per comprendere che la vita non è tutta concentrata nella città, ma si spande largamente nei dintorni. La città per sè è tutt’altro che piacevole; quella grande confusione, quelle case di soverchia altezza, e di architettura barocca; il sucidume e la polvere delle strade; quel chiasso continuo ed assordante, non tardano a stancare: in Napoli si soggiorna unicamente perchè i dintorni sono di una bellezza meravigliosa, e perchè la città è come il centro, di dove in poco tempo si può andare a Pompei, ad Ischia, a Sorrento, a Portici, a Pozzuoli, a Baia, al Vesuvio, a Capri.

La folla si porta di continuo fuori di città, in tre diverse direzioni le quali costituiscono propriamente la topografia della città. L’una per la via Toledo, la grande arteria di Napoli, porta alla bella collina di Capo di Monte, alle vicine alture popolate di ville, ed all’ameno romitaggio di Camaldoli; la seconda e la terza, partendo entrambe dall’estremità di via Toledo portano lungo il mare, l’una girando attorno il porto ed alla Marinella, a Portici, a Pompei, ed al Vesuvio; l’altra per Chiaia, a Posilippo, [p. 165 modifica]ed oltrepassata la grotta presso quest’ultima, a Pozzuoli, ed a Baia. Sono queste le tre grandi strade di Napoli per le quali scorre di continuo quasi un fiume di persone, particolarmente nelle ore del pomeriggio, ed alla sera. Vi si vedono di continuo lunghe file di carrozze, di curricoli, di carri a due ruote tirate da muli; spiegansi in queste strade tutto il lusso, tutte le industrie, tutto quanto occorre ai bisogni della vita; i magazzeni, le botteghe più eleganti sono nel Toledo; nelle altre due strade, si trovano di preferenza gli oggetti di prima necessità, colla particolarità però, che il territorio per così dire elegante di Napoli, il quale è costituito propriamente dalla via Toledo, si stende ancora lungo Chiaia, verso la grotta di Posilippo. Chiaia è una delle più belle strade che si possano vedere; i palazzi moderni che la fiancheggiano sono occupati dai ricchi, dai rappresentanti delle potenze estere, dai primari alberghi della città. Sorge di fronte la Villa Reale, i cui giardini non sono aperti che alle persone vestite civilmente; il popolo vi è escluso; appartengono soltanto alle classi superiori. Sulla spiaggia stessa non si vedono che pochi pescatori, ed i bagni che sorgono colà, costano troppo caro per le classi meno agiate. Dove la strada si diparte per arrivare alla grotta di Posilippo, ed a Mergellina, ricompaiono le botteghe destinate agli oggetti di prima necessità, ai bisogni del popolo, i mercati su piccola scala dei pesci, dei legumi, le bettole.

Tutte queste strade hanno un aspetto ordinato, e relativamente tranquillo; ma la scena cambia quando passato il castello si arriva a S. Lucia. Ivi si spiega in tutta la sua intensità la vita popolare, interrotta solo per breve spazio dal palazzo reale, e dal Castello, per raggiungere la massima intensità al Molo, al Porto, alla Marinella, ed al Mercato, diminuendo di là a misure si progredisce nei sobborghi della città, fino a Portici. il punto di transizione tra la parte aristocratica di Napoli e quella popolare, si è S. Lucia, dove regna un carattere misto, e dove stanno le locande di secondo ordine. Il porto si è il punto centrale [p. 166 modifica]del movimento delle classi inferiori, del commercio; ivi si lavora, si traffica di continuo; ivi si trova tutto quanto può soddisfare ai bisogni del popolo. Ivi regnano moto, e vita continue; le calate sono sempre ingombre di mucchi di carbone, di materiali di ogni natura: ivi si affollano di continuo i pescatori, i barcaiuoli, i lazzaroni, i piccoli merciaiuoli. Ivi si trova tutto quanto occorre a sostentare la vita; ivi si fa il piccolo commercio di tutti quanti gli oggetti, che si vendono a vil prezzo. Ivi gli abitanti delle campagne, i popolani, fanno acquisto dei loro abiti, delle loro scarpe; se ne trovano case piene da cima a fondo. Ivi si trovano tutte le masserizie per uso di casa. Ivi sono caffè, liquoristi, spacci di tabacco frequentati unicamente dal popolo; ivi sono i fruttaiuoli, i quali tengono gli aranci, e le angurie già tagliate a fette, che si vendono per un tornese, e che si mangiano stando in piedi. Ivi stanno quantità incredibile di fighi d’india, cibo delle classi più povere. Ivi sono i punti di riunione, si potrebbe dire le sale di conversazione, del popolo. Nelle ore del pomeriggio si vedono agli angoli di certe strade lettori pubblici, i quali leggono e commettono romanzi di cavalleria, storie di briganti. Ivi tiene il suo tavolo lo scrivano pubblico, il quale compone epistole amorose. Alla Marinella stanno i teatri di Pulcinella, il quale sulla porta invita la gente ad entrare. Trovasi pure in vicinanza al porto il principale teatro popolare, quello di S. Carlino; ed ivi pure si possono prendere, in casuccie e capanne disposte all’uopo, bagni di mare a poco prezzo.

Se non che la folla che si addensa, il movimento che regna sul porto, in vicinanza al mare, sono un nulla paragonati a quanto si può vedere sui due grandi empori di derrate, il porto Nuovo, ed il Mercato, vicini entrambi alla Marinella. È impossibile farsi un’idea della folla particolarmente che ingombra il Porto nuovo. Si direbbe che l’intera Campania abbia mandate le sue frutta, il golfo tutti suoi pesci su questa piazza. Il popolo non vi si reca che per comprare, per mangiare, e questo punto si può [p. 167 modifica]dire propriamente il ventricolo di Napoli. È piacevole spettacolo l’osservare tutta quella folla, tutto quel chiasso, ed uno lo può fare a suo bell’agio, rifugiandosi in una di quelle cucine all’aria aperta, formate con quattro tavole, dove si stanno preparando i pizzi, specie di torte piatte, rotonde, le quali si mangiano condite al cacio, o con pezzi di presciutto. Non si ha che ad ordinarle; in cinque minuti sono preparate; se non che per digerirle, è d’uopo possedere i sughi gastrici di un lazzarone.

I mercati settimanali si tengono pure su quell’immensa piazza di triste ricordanza, per un Tedesco, imperocchè ivi fu decapitato l’ultimo degli Hohenstaufen, e carattestica parimenti, per essere stata il teatro dello episodio storico di Masaniello, che su quella piazza i Lazzari elessero a loro re, ed ivi trucidarono. È pertanto questa, località storica per il popolo napoletano, quasi la piazza della Bastiglia di Napoli, sanguinosa per scene terribili di giustizia popolare che ivi troncò il capo a cittadini nobili, e li espose a ludibrio, e terribile pur anche i ricordi della peste.

Sarebbe cosa interassante, ma difficile ad un tempo, il descrivere tutto questo formicaio di persone, classificandole in appositi gruppi ben ordinati. Si fecero infiniti quadri e disegni della vita popolare di Napoli; si scrissero intorno a questa molte opere dotte e spiritose, ma tutto ciò non vale a darne una idea precisa, a chi non l’ha vista co’ propri occhi.

Voglio provare però a dare un cenno della strada di S. Lucia, la quale meglio di ogni altra si presta ad una descrizione. Osservai di già che questa strada, la quale corre in uno dei punti più belli di Napoli, è quella dove vennero a contatto la classi superiori ed inferiori della popolazione, e dove la vittoria rimase al ceto medio. La strada, di mediocre lunghezza, è circoscritta, a sinistra guardando il mare, dal palazzo reale, a diritta dal pittorico castello dell’Uovo. Collocato quasi al centro del grande arco del golfo, trovasi aperto verso il mare, di cui si gode [p. 168 modifica]liberamente la vista, non essendo questa come nel porto intercettate dalla alberatura dei legni. La bellezza della posizione, invita molti forastieri a prendere alloggio negli alberghi di secondo ordine che sonosi stabiliti in quella strada, per godere alla sera della bellezza inarrivabile di quel mare, e della frescura della brezza marina.

Abitai quaranta giorni a S. Lucia, e quando mi affacciavo alla finestra, mi si presentavano allo sguardo il golfo raggiante di luce; le due cime del Vesuvio colla città biancheggiante alla sua base; le riviere pittoriche di Castellamare e di Sorrento, fino al capo della Minerva; e l’isola di Capri. Ogni mattino mi svegliava la luce rosea del golfo entrando nella mia camera, ed ogni mattina contemplare il magico spettacolo del levare del sole, e le tinte infuocate dei monti e del mare, che parevano avvolgere l’immensa città in un incendio colossale. Più magico ancora si è il colpo d’occhio, allorquando la luna nel suo pieno sorge sul Vesuvio, e spande la sua luce magica sui monti, sul mare, sulla città, illuminando tutto quanto il golfo. La foresta bruna delle antenne delle navi nel porto, si distacca allora sopra un fondo di una bianchezza argentea; la luce dei fanali del porto impallidisce; mille barche scivolano sulle onde, sparendo a momenti per tosto ricomparire; sorge all’orizzonte lo scoglio imponente di Capri, s’illuminano, quasi forme fantastiche, Somma, il Vesuvio, ed i monti di Castellamare e di Sorrento. Chi può dormire in quelle notti? Si prende una barca a S. Lucia, e si va navigando per le onde fosforescenti, oppure si sta seduto alla spiaggia col popolo, mangiando frutta di mare.

Anche nella notte è questa animata, pieno di vita. Sonvi due file di botteghe di venditori di ostrighe. Trovasi concentrato in S. Lucia il commercio dei frutti di mare, i quali stanno, disposti in buon ordine, colle ostriche nelle piccole botteghe, ognuna delle quali è controsegnata da un numero, e porta il nome del proprietario. Sono incessanti le grida per invitare gli accorrenti ad entrare; i [p. 169 modifica]lumi sono accesi; tutti quei prodotti del mare splendono dei colori i più svariati, i ricci, le stelle di mare, i coralli di mare, le aragoste delle loro forme bizzarre, colle loro tinte svariate, non allettano meno la vista che il gusto. Il mistero delle onde è ivi svelato, e questo piccolo mercato presenta ogni sera il lieto aspetto, quasi di una notte di Natale marittima.

Scendendo la gradinata verso il mare, uno si trova tutto ad un tratto quasi in una grandiosa sala illuminata, a cielo scoperto. Il popolo seduto attorno a piccole tavole sta mangiando ostriche e maccheroni, ed uno può procurarsi ivi lo spettacolo dei divoratori di questi ultimi, pagando un paio di grani ad un pescatore, od ad un lazzarone, il quale li fa scivolare nella gola con una agilità ed una prestezza da recare stupore. Dove termina il chiasso di questi divoratori, comincia un’altra scena curiosa dessa pure. Trovasi sotto una specie di volta la fonte di acqua sulfurea. Da mattina a sera donne e ragazze gridano e schiamazzano con bicchieri in mano, invitando a bere l’acqua salutifera. Si prende posto sur una sedia, si beve un bicchiere dell’acqua minerale, e si mangiano alcune piccole ciambelle. Le classi medie trovano ivi spasso con poco danaro, intere famiglie vi accorrono, non meno che persone sole e chi non mangia maccheroni prende almeno acqua sulfurea e ciambelle. il movimento, l’andarivieni della gente da terra, d’in mare, nelle barche, sono incessanti. Ed ivi pure le ninfe notturne tendono le loro reti ai forastieri. Le ragazze di facili costumi vengono accompagnate dalla madre o da una canuta accompagnatrice, custode apparente del loro onore, e più di una tenera relazione comincia a S. Lucia, con un bicchiere di acqua sulfurea.

Non è minore il movimento di giorno, in questa strada, su questa spiaggia. Vi si prendono bagni in pubblico, al cospetto di tutti. Presso il Castello dell’Uovo si vedono tutta quanta la giornata schiere di ragazzi, di giovanotti, i quali saltano in mare, vi guizzano, vi si tuffano, danno [p. 170 modifica]spettacolo delle loro prodezze nelle onde. I Napoletani nuotano al pari dei delfini. Il clima contribuisce a mantenerli nello stato primitivo di natura; la temperatura calda mantiene il nudo in onore, e lo studio di questo si può fare con tutta facilità nelle strade. Singolare contrasto! Corrono sulla strada carrozze di lusso, appartenenti a persone della società la più distinta; ed alla presenza dei principi scintillanti di decorazioni, delle dame della più alta aristocrazia di Parigi e di Londra, schiere d’uomini si tuffano in mare in costume adamitico, come se nulla fosse. I piccoli pescatori corrono nudi sulla strada stessa, salutando i forastieri facendo mille gesti, mille smorfie, per ottenere un grano. Mi procuravo spesso il piacere dalla mia finestra, al quarto piano, di chiamare questi ragazzi nudi sulla strada, facendo loro vedere un grano. In un attimo venivano fuori, si tuffavano di bel nuovo in mare, vi facevano le loro prodezze, quindi tornavano nella strada, grondanti d’acqua, per ricevere la mercede loro promessa. La vista del nudo non cessa in qualunque punto del golfo. Sulle cancellate stesse in ferro del porto, si vedono di continuo arrampicarsi ragazzi nudi, per cacciarsi da quelle, colla testa prima, in mare.

Dopo il 18 maggio 1853, venne aperta verso la campagna una nuova strada a sfogo di questa immensa popolazione, la nuova strada di S. Teresa, alla quale volle il re imporre questo nome, in onore della regina sua consorte. Descrive quella superiormente alla città, ed attorno ai castello S. Elmo una parabola sul Vomero, traversando colline e valli, e viene sboccare a Chiaia. Non è ancora ultimata nè selciata; in molti punti fa d’uopo tuttora attraversare fossati sopra tavole; vi s’incontrano però di già cavalli, asini, muli, ed una folla di persone le quali si recano, nelle domeniche particolarmente e nelle feste, a visitare i lavori. Pare non bastassero più quelle tre grandi arterie a sfogo della numerosa popolazione della città, e che sia stato necessario procurarle uno sbocco sul Vomero, ponendo Chiaia in comunicazione con questo. [p. 171 modifica]

La nuova strada deve essere fiancheggiata da case col carattere di ville con giardini, per corrispondere al gusto di coloro i quali cercano aria pura, verzura, quasi campagna in città. Sarà col tempo una delle strade più amene d’Europa. Allo svoltare di ogni collinetta, di ogni piccola valle, varia la vista della città sottoposta, del golfo, dei monti, delle isole, e non si sa dove meglio fissare lo sguardo, nella bellezza inarrivabile di quell’orizzonte, sull’anfiteatro della città, in quegli aranceti odorosi, in quei giardini splendenti di fiori, o su quei gruppi pittorici di pini, di palme, e di cipressi. Chi non si trovasse qui rapito d’incanto per le bellezze naturali, deve propriamente non avere il senzo del bello.

Si sale alla nuova strada dagli Studi, dove si trovano sempre asinelli che si possono prendere a nolo, ma io volli recarmi a piedi, e solo, per poterla percorrere a mio bell’agio, e fermarmi a mio piacere. Si presentarono successivamente al mio sguardo il Castel S. Elmo, le cui bianche mura sorgono sur un nero scoglio, attorniate di cactus, di aloe, di piante rampicanti; al basso; verdi giardini; roccie calcari di fronte ad una osteria quasi perduta nella ricca vegetazione di una vigna; una valletta popolati di limoni, di aranci, di tulipiferi, di mela granate, da cui salivano profumi i quali imbalsamavano l’atmosfera; un sobborgo popolato di fabbriche industriali; amene collinette ridenti, case di campagna; una gola ricca di cactus e di palme; poi tutto ad un tratto, a sinistra, comparvero la città, il golfo, l’isola di Capri, ed una foresta di pini ai piedi del Vesuvio, che si staccava sulla splendido azzurro del cielo, tinto in violaceo. Poi nuove roccie, nuovi giardini, nuove case di campagna. Una vera scena campestre, popolata da pastori i quali portavano le loro capre al pascolo, un convento animato da monaci, alte colline rivestite di pini. Chi potrebbe numerare e descrivere tutte quelle bellezze! Mare, cielo terra, tutto immerso nella splendida luce, ed un’aria purissima, olezzante di profumi, la quale ristora, ricrea! [p. 172 modifica]

Mi posi a sedere ai piedi di un cipresso, gettando lo sguardo nei sottoposti giardini, dove i tralci delle viti, lievamenti agitati dalla brezza marina pendevano a foggia di festoni dagli alberi, come nelle pitture di Pompei le quali rappresentano le baccanti. Avevo letto un libro, in cui non so più qual erudito non sapeva darsi pace come quelle giovani donne ballassero per aria, sostenendo che ciò era contro natura, che dovevano pure posare sul suolo i loro piedi, e che tali affreschi non erano altro che capricci di una imaginazione sbrigliata. Sono pure gran povere cose l’erudizione, e l’archeologia! In questa regione di paradiso le cose si sentono e si comprendono tuttora, come le sentivano e le comprendevano gli antichi. Regna qui tuttora l’idea del culto di Bacco, l’imaginazione si solleva per aria come una baccante col tirso; uno si sente staccare dalla terra, e spaziare sciolto da ogni vincolo, nell’atmosfera.

Perchè avviene però, che le bellezze naturali ed i sentimenti cristiani, in presenza delle più grandi meraviglie della creazione risveglino pur sempre idee tristi! Ero arrivato sur un’altura, dove alcuni militari svizzeri stavano bevendo fuori di una piccola bettola, allogata in una capanna di paglia. Si dominavano di colà il mare, le isole di Nisida, di Procida, d’lschia, immerse nelle più belle tinte del sole che stava per tramontare. Uno di quei militari mi si avvicinò; era un semplice soldato; e gettando uno sguardo su quello spettacolo meraviglioso, mi disse con tuono di mestizia: «Come è bello! troppo bello! rende malinconico!»

III.

Ho viste ora le tre più belle città marittime d’ltalia, Napoli, Palermo, e Genova, le quali gareggiano per bellezza di posizione, e posso paragonarle le une alle altre. Il primato si appartiene fuor di dubbio a Napoli, [p. 173 modifica]imperocchè qual altra città può vantarsi di un anfiteatro naturale così classicamente grandioso, del Vesuvio, di un bel golfo, delle spiaggia di Castellamare, di Sorrento, di isole di tanto magica bellezza! La ricchezza delle tinte, la grandiosità, l’ampiezza di questo tutto, non hanno uguali al mondo, tutto qui ha carattere l’immensità, l’opera dell’uomo al pari di quella della natura, tutto è immerso in un mare ricco della più splendida luce. Non si può afferrare da vicino con uno sguardo solo questo tutto, non si scorgono che particolari. Per potere vedere tutto in una volta, fa d’uopo collocarsi ad un punto di vista che restringe la prospettiva, salire sopra un’altura, ovvero inoltrarsi in mare, dove le forme delle città si perdono, e rimangono visibili soltanto quelle della natura.

Genova per contro, e Palermo si possono abbracciare entrambe con un sol colpo d’occhio, quasi in un quadro; quella disposta ad anfiteatro, cogli splendidi suoi palazzi, colle sue ville sui monti; questa stesa nella fertile valle, colle sue cupole, co’ suoi campanili, circondata da monti di aspetto severo, che si stendono ai due lati, dal monte Pellegrino al capo Zafferano, lasciando breve tratto di mare fra dessi. Formano entrambe come dissi un quadro bellissimo, ma che tutto si può vedere, ed apprezzare, con un solo sguardo. A Napoli per contro tutto è grande, sterminato, immerso poi in tanta luce, che l’occhio vi si perde, e non può contemplare che una cosa alla volta. Sia che si salga per avere un’idea del complesso di Napoli a Castel S. Elmo, ai Camaldoli, o sul Vesuvio, i quali sono i punti più adatti per contemplare quello stupendo panorama, dovunque Napoli si presenta quale ampia città, senza punti che fissino l’attenzione; dovunque prevalgono l’aspetto della campagna, la vista del mare. Quella quantità sterminata di case, le quali sorgono attorno al golfo, non presentano caratteri architettonici, non danno altra idea che di una immensa popolazione, la quale ha presa stanza in quell’amena contrada. Si direbbe che ivi agli uomini bastarono la località e la vista; [p. 174 modifica]che in presenza delle meraviglie di quella splendida creazione, si siano incrocicchiate le braccia, rinunciando a voler gareggiare colla natura. Non havvi un punto eminente che sorga da tutte quelle case; non si vedono che tetti a foggia di terrazzo, fatti a posta per trattenervisi a godere la bellezza della vista; poche cupole di chiese, e queste basse ed a stento visibili; quasi nessun campanile interrompono la monotonia di quella estesa linea orizzontale. Ben più bello e ben più pittorico si è l’aspetto di Costantinopoli, con tutte le sue cupole, co’ suoi minaretti arditi, i quali sorgendo sopra i pini ed i cipressi, danno alla città un carattere speciale, amenissimo. Questa mancanza di carattere architettonico di Napoli, quella sua uniformità monotona, mi hanno sempre colpito. Desse si spiegano per mezzo della sua storia, delle varie sue signorie, tutte passeggiere, della inazione del popolo, della mancanza di attività diretta ad uno scopo determinato, della sua tendenza a vivere alla giornata, sollecito unicamente del presente, senza darsi altro pensiero che quello di vivere allegramente. La storia non ha lasciato qui la sua impronta, e pertanto la città è totalmente insignificante sotto l’aspetto monumentale. Nè le dinastie che si succedettero rapidamente le une alle altre, nè il popolo espressero le loro idee per mezzo di monumenti, i quali sono i ricordi delle varie fasi di civiltà, la rappresentazione visibile della essenza interna delle idee viventi che predominarono per un dato tempo, ovvero tuttora sussistono. È tratto caratteristico di Napoli, che le sue principali celebrità sono celebrità musicali. Scarlatti ed il suo scuolaro Porpora, Leonardo, Leo, Francesco Durante, Pergolese, Paesiello, Cimarosa, e tutti quei maestri i quali fino a Bellini e Mercadante uscirono dal conservatorio di Napoli, sono le principali illustrazioni della città. Non già che non abbia dessa prodotto pure in altri rami uomini illustri, ma non furono che celebrità isolate, non havvi scienza o disciplina la quale sia salita ad alta rinomanza, e vi si sia mantenuta.

Ma io non voglio abbandonarmi a digressioni, e tornare [p. 175 modifica]al carattere della architettura di Napoli, dove la totale mancanza di aspetto monumentale colpisce tanto più chi arriva di Roma, città la più monumentale del mondo, ed anzi monumento dessa stessa della storia universale. E anche indipendentemente da questo carattere monumentale, tutto proprio di Roma, non credo vi sia altra città dove architettura e paesaggio siano cotanto d’accordo, e dove indipendentemente dalle bellezze naturali, i monumenti architettonici bastino di per sè a trarre l’ammirazione. Per afferrare questa perfetta armonia dell’archittettura col paesaggio, fa d’uopo salire sul Monte Testaccio, sul Monte Mario a S. Pietro in Montorio, sulla torre del Campidoglio; e per persuadersi della imponenza dell’aspetto unicamente architettonico di Roma, basta gettare uno sguardo su questa dal monte Pincio, dove la città si presenta sotto forme maestose, in linee grandiose, severe, in moli imponenti, quasi monumento storico colossale. Di là si scorgono i vari periodi di civiltà, le rovine del paganesimo, la cupula trionfante del Cristianesimo; le vicende del Papato si presentano al pensiero, si comprende quale sia il significato di Roma.

A Napoli invece, in questa città della vita lieta, alla giornata, senza pensieri, gli oggetti che dal punto di vista architettonico traggono a sè l’attenzione, non sono nè le rovine, nè le chiese. Le reliquie dell’antichità sono scomparse; qui non si era fabbricato per l’eternità. L’unico, ma stupendo monumento che Napoli possegga dei tempi antichi, sono le sue catacombe, più vaste forse di quelle stesse di Siracusa, alle quali convien pure aggiungere la grotta meravigliosa di Posilippo. In quanto a chiese, Napoli ne possede per dir vero buon numero, ma nessuna veramente pregevele; la noncuranza tutta democratica colla quale le si lasciano quasi nascoste fra le strade e le case, senza campanili, con pessime facciate, provano abbastanza che il popolo napoletano ad onta formicoli di preti e di frati, fu in ogni tempo indifferente in materia di religione. Non vi fu qui mai entusiasmo per la fede Cri[p. 176 modifica]stiana, per la grandezza della chiesa, ed anzi sotto gli Hohenstaufen durò a lungo la lotta fra Napoli ed il Papato. La tendenza al vivere lieto e piacevole, non ha potuto a meno di imprimere un carattere mondano alle cose di religione, e parmi se ne possa dedurre una prova manifesta nella più bella chiesa moderna di Napoli, quella di S. Francesco di Paola, edificata da Ferdinando I dopo la sua ristaurazione, in dipendenza d’un voto. Questa imitazione del Panteon di Roma, serve principalmente di decorazione alla piazza reale, e per persuadersi come poco pretenda alla serietà ed alla dignità di chiesa, basta dare uno sguardo al suo porticato, dove si stabilirono botteghe, e negozi, dove si vendono piani, e si suonano in tutta libertà per provarli.

Anche i palazzi che dopo le chiese sono gli edifici i più ragguardevoli in tutte le città d’Italia, sono a Napoli perduti nella folla delle case, e non sono per lo più che grandi moli di cattivo gusto, e quando potrebbero, se non altro per la loro imponenza, produrre un certo effetto, come l’orgoglioso palazzo Maddaloni, il quale ha aspetto di fortezza, non si possono guari vedere, imperocchè mancano di area libera, di spazio. Nulla poi si trova che ricordi il medio evo, tutto vi è moderno.

Nel considerare Napoli sotto l’aspetto architettonico, si finirà per trovare che le sole case degne di attenzione, di ricordo, sono le amene ville, ed i casini che sorgono sulla collina, l’arsenale, e gli edifici i quali circondano il porto, il palazzo reale, e sovratutto poi i tre grandi castelli. Da ogni parte campeggiano questi nel panorama della città. Domina tutto Napoli il castel S. Elmo, che sorge eminentemente pittorico sul Vomero; è di una bellezza magica, quando trovasi illuminato dalla luce alquanto indecisa dei crepuscoli. Sorgono poi nel golfo il Castello nuovo, e quello dell’Uovo; moli bizzarre di roccia di color bigio, di aspetto severo e minaccioso. Sono le briglie del cavallo focoso di Napoli.

Non mi fu permesso visitare l’interno del castello [p. 177 modifica]dell’Uovo, il quale può ritenersi per uno degli edifici più antichi di Napoli, ripetendo la sua fondazione da Lucullo, ed essendo morto nella sue mura Romolo Augusto, ultimo imperatore Romano. Federico II lo ultimò nel 1221 senza pensare per certo che sarebbe stato quello il carcere degli ultimi suoi discendenti, imperocchè dopo la infelice battaglia di Benevento, dove re Manfredi perdette il regno e la vita, languirono parecchi anni in quelle mura i suoi disgraziati figliuoli; e l’unica sua figliuola, Beatrice, andò debitrice della sua liberazione al Vespro Siciliano. Correva il 5 giugno 1284, quando i Siciliani, sotto il comando del grande ammiraglio Ruggero Loria, sostennero la rinomata battaglia navale in vista di Napoli. La flgliuola di Carlo d’Angiò ne fu spettatrice dai merli del castello, attendendone ansiosamente l’esito; e con non minore ansietà dovette contemplarla dall’inferiata della sua prigione, la figliuola infelice di Manfredi, la principessa vide la flotta napoletana prima piegare, quindi sbaragliata, e posta in fuga; suo fratello Carlo fu preso prigioniero, due galere siciliane vennero a gettare l’àncora davanti al Castello, e Loria richiese gli venisse consegnata tosto la figliuola di Manfredi, minacciando in caso di rifiuto, far decapitare il figliuolo di Carlo d’Angiò, a bordo del suo legno in vista di tutta Napoli. La prigioniera venne tratta dal carcere, e fu consegnata ai Siciliani. Riacquistò la libertà dopo ben diciotto anni di cattività, tutta la sua giovinezza era trascorsa in prigione. Venne condotta in trionfo a Messina dove Costanza, moglie di Pietro d’Aragona, sua sorella l’accolse nelle sue braccia, come una morta che fosse risorta.

In quel castello pure finirono la loro vita, i figliuoli di Manfredo.

Il Castello nuovo è ancora più imponente, ed il più grande monumento d’architettura di Napoli. Trovasi in quella il bell’arco di trionfo che Alfonso I di Napoli vi fece costrurre nel 1470 sui disegni di Giuliano da Murano, o secondo quanti altri sostengono, di Pietro di Mar[p. 178 modifica]tino. Sorge sostenuto da colonne di ordine Corinzio, fra due torri, e contiene parecchi bassi rilievi pregievoli, i quali si riferiscono all’ingresso di quel re vittorioso in Napoli. Le porte in bronzo sono opera di Guglielmo Monaco, ed è peccato che quell’arco, uno dei principali monumenti della città, si trovi nascosto per così dire in un castello, e sottratto alla vista del pubblico. Si era parlato di trasportarlo davanti alla cattedrale, ma l’idea non ebbe seguito.

Il castello Nuovo venne edificato da Carlo d’Angiò nel 1283 e per dir vero furono opera degli Angioini, i più cospicui edifici di Napoli, come parimenti risalgono a quel periodo le chiese più importanti della città. Sono questi i veri monumenti storici di Napoli, non solo per le tombe che contengono, ma perchè la maggior parte di esse ripete la loro origine da fatti storici, come risulterà quando ci tratteremo a far parola di esse. La cattedrale fu principiata da Carlo I sulle rovine di un antico tempio di Nettunno, e venne ultimata da Roberto I. Dessa segna il principio dell’epoca degli Angioini; S. Domenico maggiore venne eretto da Carlo di Calabria nel 1289, per sciogliere un voto da esso fatto allorquardo cadde prigioniero nelle mani di Ruggiero Loria. S. Lorenzo maggiore venne fondato, nel 1265 da Carlo I, parimenti per sciogliere un voto da esso fatto dopo la battaglia di Benevento. S. Pietro Martire fu costrutto da Carlo II d’Angiò; S. Chiara dal re Roberto nel 1310; L’Incoronata abbellita da affreschi di Giotto, venne fondata da Giovanna I, a ricordo delle sue nozze con Ludovico di Taranto; S. Giovanni a Carbonara, Monteliveto, S. Antonio abate, furono edificati da Ladislao e da Giovanna. Anche lo stupendo monastero di S. Martino, sopra S. Elmo, ripete la sua origine degli Angioini; e finalmente il Carmine Maggiore ed il Purgatorio sul Mercato, segnano la caduta degli Hohenstaufen, imperocchè trovasi in quella chiesa la tomba di Corradino, e la statua erettain nel 1847 dal re Massimiliano di Baviera, ed in questa cappella sorge la colonna di porfido innalzata [p. 179 modifica]da Carlo I, sul punto dove vennero decapitati Corradino, e Lodovico di Baviera, vi si legge la seguente iscrizione;

     Asturis ungue, Leo pullum rapiens aquitinum
     Hic deplumavit, acephalumque dedit.

Nè i Normanni ne gli Hohenstaufen lasciarono edifici in Napoli, e si cercherebbero inutilmente reliquie di quella architettura moresco-normanna, le quali tanto abbondano in Sicilia. Lo stabilimento della dinastia degli Angioini, la quale, perduta la Sicilia, si ridusse a Napoli; procurò a questa l’unica epoca in cui vi siano state in fiore la scultura e l’architettura, mentre in questa, allo stile romano delle basiliche, sottentrò quello germanico. Questo periodo durò fino verso il fine del secolo XIV ed il suo punto culminante fu il regno del re Roberto fautore ed amante delle arti belle. Napoli produsse allora i due Masuccio, di cui il secondo fu pure scultore distinto. Fece le tombe di Carlo di Durazzo, di Caterina d’Austria, di Roberto di Artois, e di Giovanna di Durazzo, nella grandiosa chiesa di S. Lorenzo, da lui ultimata sugli antichi disegni; costrusse pure la chiesa gotica di S. Chiara, allogando in quella, a tergo dell’altare maggiore, il capolavoro della scultura napoletana, la tomba di re Roberto morto nel 1343. È questa di stile gotico, ed ornata di parecchie statue; e sebbene le forme non siano ancora purissime, il complesso della composizione è artistico, e di una semplicità di buon gusto. S. Chiara è ricca di monumenti sepolcrali, imperocchè riposano ivi parecchi altri Angioini, fra quali Carlo di Calabria figliuolo di Roberto, Giovanna I ed altre principesse.

In generale però, tutte quelle tombe degli Angioini fanno effetto di mancare di serietà, di dignità. Nella stessa guisa che le tombe di questa stirpe, stata senza influenza nella civiltà, e vissuta nel piacere e nella crudeltà, non destano commozione di sorta, non portano menomamente a [p. 180 modifica]riflettere, non riuscì parimenti l’arte ad acquistare una forma espressiva, un carattero deciso. Lo stile gotico vi è ricco, talvolta si accosta allo strano, al bizzarro, talvolta non manca di ingenuità, ma il più sovente e di gusto equivoco. Anche in presenza di questi monumenti, uno si accorge di essere a Napoli. E difatti, non già a seguito della caduta degli Angioini, non per colpa dei tempi, l’arte a Napoli non tardò a cadere nel manierato, nell’esagerato, nel barrocco, come ben si può vedere tanto all’esterno, come nell’interno di parecchie chiese, come quella del Gesù nuovo, la quale è più simile ad una fortezza che ad un tempio cristiano, ed altra, le quali sono propriamente di gusto corrotto e puerile. Gli stessi edifici gotici vennero malamente deturpati dai molti ristauri, resi necessari dai frequenti terremoti, ed eseguiti senza intelligenza, senza sentimento artistico.

Il culmine poi di questo pessimo gusto è segnato dai tre obelischi della Concezione, di S. Gennaro, e di S. Domenico, i quali portano in cima la statua dorata del santo, e sono sopracarichi di statue, di figure, di ornati, che sarebbe difficile potere immaginare peggiori.

È facile riscontrare in questi monumenti l’influenza della Spagna, la quale durante una lunga serie di anni, di cui non rimase una sola memoria pregevole, governò malamente queste belle contrade per mezzo de’ suoi vicerè. Gli Spagnuoli lasciarono alcuni ricordi di quel loro periodo, fra quali la grandiosa Fontana Medina, opera di Domenico Ansia, eseguita d’ordine del vicerè Olivares nel 1593. Venne questa trasportata per ben tre volte qua e là, sotto i vicerè di Carlo Alba e Montery, fino a tanto che D. Anna Caraffa consorte del vicerè Medina, la fece collocare dove si trova attualmente. La è opera grandiosa, ma che produce poco effetto, sopracarica di figure di tritoni, di delfini dai mostri marittimi, fra i quali sorge la statua di Nettuno in una conchiglia sostenuta da tre satiri, e l’acqua, con pensiero abbastanza felice sgorga dalle punte del suo tridente. Se non che il miglior ricordo dei vicerè [p. 181 modifica]spagnuoli, sarà sempre la via Toledo, aperta circa la metà del secolo decimosesto, dal vicerè D. Pietro di Toledo.

Visitai le meravigliose catacombe di Napoli. L‘impressione che producono, è un misto di terrore di ammirazione, e sovratutto di viva curiosità per quei tempi oscuri nei quali non solo furono eseguiti quei lavori sotterranei, ma in cui inoltre colà si viveva, e si prendeva pensiero di abbellire quelle strane dimore.

Le catacombe di Siracusa hanno aspetto meno cupo, imperocchè le loro gallerie, e strade sepolcrali, sono disposte simmetricamente. Per contro le catatombe di Napoli, nella parte che vennero rese praticabili sinora, sono strette, basse; semplici corridoi e stanze di mediocre dimensione, ma non cessano per questo di essere le più meravigliose, imperocchè in esse i Cristiani celebravano i loro misteri notturni, e di là uscì di sotto terra il Cristianesimo, per prendere possesso di Roma dapprima, quindi del mondo.

Le catacombe di Napoli furono scavate nel tufo, nelle colline a settentrione della città, al disotto di Capo di Monte; e si ritiene che quella città dei morti, a tre piani, si stenda fin verso Pozzuoli. Non potevasi rinvenire qualità di pietra più facile ad essere scavata in questa guisa, che questo tufo volcanico, di colore gialliccio; ed uno può farsi agevolmente una idea del mondo in cui vennero aperte quelle caverne e quelle grotte, osservando le pareti di quel tufo stesso, che si lascino in piedi per servire di ponti, nelle case in costruzione; ed anche nelle strade nuove di Posilippo si trovano grotte e caverne scavate nella roccia, le quali non servono soltanto di magazzeni, ma ancora di abitazioni.

Gli immensi spazi scavati per tal guisa sotto terra, che poco a poco vennero a formare un laberinto troglodito, dovevano pure avere uno scopo, e servire ad un qualche uso. Non può a meno di ritenersi per una favola, che i Cimmeri, primi abitatori delle sponde del golfo di Napoli, avessero fissata in quei sotterranei la loro stanza. Non è possibile imaginare una razza di uomini così imbecilli, da volersi andare cacciare nelle tenebre, nelle viscere della [p. 182 modifica]terra, in presenza di natura così splendida, di un cielo così sereno. Le abitazioni di tal natura dei popoli primitivi, che si trovano nella valle Ispica ed in Malta, sono sempre accessibili alla luce del giorno. Dapprima quelle escavazioni poterono servire di ricovero in caso di pericolo contro attacchi di nemici, e quando si andarono ampliando per essere tolti di colà i materiali che servirono alla costruzione della città, è naturale sia sorto il pensiero di farle servire ad uso di sepolture. È cosa certa poi, che non furono i Cristiani i primi a seppellire i loro morti nelle catacombe di Napoli, e basta vederle per persuadersi che già i Greci ed i Romani se ne valsero a tal uso. Trovasi oggidì tuttora, in una stanza abbastanza vasta di quelle, una piccola colonna, sulla quale trovasi scritto il nome di Priapos in caratteri greci.

L’epoca però alla quale abbiano le catacombe cominciato a servire di sepolture, è incerta. Furono ridotto a tal uso perchè vi si prestavano per la natura dei luoghi, ma non vennero aperte a tale scopo. Sappiamo che i Romani i quali abitavano la pianura, collocavano le loro tombe all’aperto, mentre in vece gli abitatori dei paesi montuosi, come gli Etruschi, le aprivano nelle rupi. Se non che fin dai tempi della repubblica si usò scavare camere mortuarie nel tufo vulcanico, dove si collocavano sarcofagi; ed oggidì tuttora, le tombe degli Scipioni possono dare l’idea in piccolo di una catacomba.

In origine queste non dovettero servire di sepoltura che alle classi povere, le quali non potevano sostenere la spesa di sontuosi monumenti a cielo aperto, ed ivi invece era di poco costo scavare nel tufo una tomba, o così detti loculi dove si deponevano le urne cinerarie. Scorgonsi tuttora nelle catacombe di Napoli, avanzi di pitture, le quali risalgono ai tempi dei gentili; la maggior parte però appartengono all’era cristiana. Imperocchè i primi Cristiani, dopo avere cercato in quelle dimore sotterranee rifugio contro le persecuzioni, e località addatte alla celebrazione degli atti del loro culto, presero ad ornare le tombe dei [p. 183 modifica]loro cari in quell’asilo, d’imagini e di simboli, i quali si riferiscono alla fede. Nelle catacombe di Napoli rivestono però queste tuttora un carattere pagano, e si riconosce sulle pareti di queste sepolture cristiane, il carattere gaio degli affreschi di Pompei, ed i simboli stessi sono tuttora in qualche punto pagani, come quelli della vendemmia e del torchio, tolti dal culto di Bacco. Vi si scorgono tralci di viti, grappoli d’uva, dei quali si pascono geni ed uccelli. Il Cristo vi è rappresentato sotto le spoglie di Orfeo. Poco a poco però i simboli cristiani vanno acquistando il predominio; si vedono Cristo, il buon pastore, che pasce le pecore e porta un agnello sulle spalle; il cervo, il pesce, il pavone, la colomba; la croce, gli angioli. Produce una profonda impressione il vedere queste antiche pitture murali cristiane, annerite dal fumo delle fiaccole, ed osservare qui i principi dell’arte cristiana tenere dietro allo stile pompeiano, ed assumere poco a poco il carattere bizantino, succedendo i simboli cristiani alla mitologia pagana, mentre la religione novella confinata in queste regioni sotterranee si preparava ad uscire alla luce del giorno ed a popolare le chiese de’ suoi simboli.

Scorgonsi ivi propriamente le origini del culto cristiano, e non havvi da far le meraviglie, se nato queste nelle catacombe ha serbato, uscendo all’aria libera, un carattere severo, quale si rivela nelle rappresentazioni della morte, nella maestà terribile dei santi bizantini, de’ suoi Cristi, i quali paiono usciti di sotto terra per giudicare i morti. Si può domandare se il modo cristiano di considerare la morte, l’abnegazione ascetica, l’idea del martirio, del disprezzo della vita, del dolore; se finalmente l’intolleranza, il fanatismo, si sarebbero radicati casi profondamente nella religione cristiana, quando questa si fosse sviluppata liberamente sulla terra, alla luce del sole, in presenza delle bellezze della natura, a vece di essere costretta a cercar ricovero in quelle regioni sotterranee, alla luce delle fiaccole, costretta ad abitare di continuo presso le tombe dei martiri, col timore di nuove persecuzioni? [p. 184 modifica]

Nessuna cosa mi ha prodotto in Napoli tanto viva impressione, quanto la vista di queste catacombe, e quella di Pompei. Entrambi sono preziosi ricordi della storia dell’uman genere, entrambi giacciono sotto terra, e le catacombe si possono a buon diritto dire la Pompei del Cristianesimo. Ambedue segnano una grande epoca dell’umanità, ma il contrasto fra esse non potrebbe essere più pronunciato. Tutto è severo, malinconico nelle dimore abbandonate degli antichi Cristiani; per contro tutto è sorridente, i tempii, le abitazioni, le pitture nella città pagana, tutto accenna ad una popolazione inclinata al vivere lieto; che si compiaceva della bellezza delle forme, e che aveva tolti i suoi Iddii dalle regioni della poesia. E qui troviamo ora le delizie di altre generazioni d’uomini appartenenti però tuttora alla stessa razza. Sono tuttora Greci e Romani come quelli di Pompei, appartenenti ad uno stesso periodo, ma quanto diversi da quelli! Paiono non avere dimenticato lo spirito pompeiano, allegro, vivace. Coi ricordi di Pompei hanno trasportato pure su quelle cupi pareti gli affreschi, i graziosi rabeschi, il torchio di Bacco; se non che quivi servono ad ornamento di tombe. Ed i novelli abitatori, seduti presso le tombe, celebrano coi loro cari defunti le loro agapi, e fanno risuonare quegli specchi del canto monotono delle loro preghiere. Se non che verrà il giorno in cui usciranno dessi alla luce, portando fuori la loro religione devota alla morte, non che le reliquie dei loro martiri, che diffonderanno per tutto l’orbe, proponendole all’adorazione dei fedeli sugli altari infranti, dove sorgevano le statue degli Dei bellissimi dell’antica Grecia, Pompei fu sepolto dalle ceneri del Vesuvio; dalle catacombe usciranno le ceneri, che copriranno il mondo di mestizia.

Saranno queste mie idee considerate quali sogni fantastici di catacombe? Deciderallo ognuno a sua posta. Certo però si è, che non si potrebbe trovare località più adatta alla teologia speculativa, di quelle regioni sotterranee. Vi regnano cupe tenebre, aria pesante, un odore nauseabondo. [p. 185 modifica]In quel laberinto di stanze, di gallerie, di corridoi, che prendono tanta estensione; fra mezzo a quelle pareti fiancheggiate di continuo da tombe, da ossami, da nicchie, da loculi, non si cammina, si passa, si scivola, come altrettante ombre. Le fiaccole stentano ad ardere, ed a quella luce le figure dipinte sulle pareti, colle mani sollevate in alto, quasi mirassero a sortire da quegli abissi, ed a volare alla luce del giorno, assumono l’aspetto di spettri. Iscrizioni greche, latine, ed anche ebraiche, in parte cancellate, le une che ai possono tuttora decifrare, le altre no, fanno comprendere essere quello un mondo dove tutto è simbolo, mistero, allegoria. Due vecchi ricoverati dello spedale di S. Giovanni dei poveri, i quali sono mantenuti nel convento alla porta delle catacombe, per accompagnare in quelle i forestieri, tengono le fiaccole, e guidano i vostri passi. Non si sarebbero potuto trovare Ciceroni più adatti. Non camminano, strisciano colla loro lunga tonaca di colore turchina, colla loro fiaccola in mano, quasi spettri; incurvati per gli anni, canuti, hanno il viso pallido, di pallore di morte; nel considerare quei due poveri vecchi, mi parevano morti dessi pure al pari degli scheletri sui quali proiettavauo la luce equivoca delle loro fiaccole, ed avrei detto che da ben mille anni si aggirassero fra le catacombe. In una stanza di questo, lessi sotto due figure, in una nicchia, al chiarore delle fiaccole sollevate contemporaneamente da quei due vecchi; Votum solvimus, nos quorum nomina Deus scit, e mi parve che quelle parole misteriose, di cui rimane ascoso il significato, si potessero porre in bocca alle mie due vecchie guide, quasi non figurassero più tra vivi. Li guardai in faccia, ed al vederli così pallidi, con quell’aspetto di spettri mi colse una specie di ribrezzo, di terrore; non volli saperne più oltre di catacombe. Ne ebbi abbastanza di tutti quei misteri, di quelle regioni sotterranee, di quella notte cupa, oscura, profonda, di tutto quelle scene di morte, provai un desiderio irresistibile di tornare alla luce del sole, tra vivi. Pregai i due vecchi di tornare addietro, di condurmi fuori [p. 186 modifica]di quelle caverne. Dessi sorrisero, e rifacemmo la strada percorsa; nell’uscire però ebbi campo a persuadermi che i miei due Ciceroni erano tuttora vivi, perchè mi ringraziarono di cuore della moneta che loro diedi, perchè potessero andare a bere alla mia salute.

Non havvi modo migliore per riconciliarsi colla idea della morte, uscendo dalle Catacombe di Napoli, che recarsi a visitare il nuovo Camposanto di quella città. Dicono sia il più bello di Europa, ed io non ho difficoltà a crederlo, imperocchè la sua posizione è stupenda, ed i monumenti che vi sorgono, quasi in un ameno giardino, ricreano davvero la vista. Trovasi collocato al di sotto di Poggio reale, sopra una piccola collina, la quale domina la strada di Nola, e dalla quale si gode il panorama magnifico della città, del golfo, della riviera di Sorrento, del Vesuvio e della ricca vegetazione che si stende ai piedi di questo. Tutta quasi la collinetta è ricoperta di monumenti, i quali hanno per la maggior parte la forma di tempietti, sostenuti da colonne. Sonvene in certi punti in tale quantità, che formano quasi strade, e nel camminare per esse si può avere un’idea in piccolo, di quello che fosse la via Appia ai tempi antichi. Altri monumenti sorgono isolati, altri in gruppi, che formano tante piccole necropoli. In cima alla collina sorgono un porticato a colonne, ed una chiesa di discreta dimensione, dove si celebrano le messe per i morti. Per la maggior parte quei tempietti appartengono alle confraternite della città, e queste istituzioni benefiche, che senza distinzione di classi sociali, hanno scopo non solo di dar sepoltura ai morti, ma eziandio di soccorrere i poveri, e di prestare assistenza agli ammalati, sono in numero di ben cento settanta quattro, ed i nomi di esse si leggono sui frontispizi di alcuni monumenti. Altri di questi sono tombe di famiglie, e nei piccoli tempi havvi spazio per una cappella, chiusa da una inferriata, e si vedono in questa od un piccolo altare, od una statua della Madonna, od una lampada eterna e talora pure le imagini, od i busti dei morti. [p. 187 modifica]Ognuno può ivi recarsi a pregare per i suoi morti, i quali per tal guisa non diventano totalmente estranei alla pia associazione alla quale appartennero in vita. Questi monumenti sono quasi tutti di stile antico, di gusto puro, semplici, di forme graziose, taluni ornati di pitture di stile pompeiano, e producono in complesso grata e soave impressione. Sonvi fiori dapertutto, cespugli di leandri, di amaranti, di tulipiferi, di ortensie, di mirti; l’aspetto della desolazione vi è totalmente bandito, e stando fra tutti quei fiori, gettando lo sguardo sulla Campania felice, sul mare illuminato dai raggi del sole cadente, non si può a meno di riconoscere, che bene e lodevolmente si è qui provveduto per i morti. Questo bel Camposanto venne aperto nell’anno 1845.

IV.

Sono pochi coloro che partano da Napoli senza avere fatta l’ascensione del Vesuvio, ma pochi fanno quella pure del fratello gemello di questo, il bellissimo monte Somma. Il vulcano che fuma tuttora, trae a sè tutta l’attenzione, e non si onora di una visita l’altra punta di già spenta, ed è però bello il Somma colle ripidi sue pareti di lava, bruna, e colle sue pendici riccamente vestite di foreste, verso le pianure della Campania.

Mi decisi pertanto ad eseguirne l’ascensione, anche perchè il cratere del Vesuvio, considerato colà dall’alto ed in vicinanza, doveva presentarsi sotto nuovo aspetto, tale da compensare la fatica della salita. Eravamo una allegra brigata di sette persone, fra i quali due naturalisti, un zoologo francese, ed un medico russo. Uscimmo di città alle sei del mattino, e dopo aver oltrepassato S. Giovanni piegammo a sinistra per gli ameni campi di S. Anastasia, ai piedi del Somma. Cercammo ivi guide pratiche della località. Una donna robusta, portava la cesta contenente i nostri viveri, e ci precedevano due uomini di bellissima [p. 188 modifica]presenza, uno dei quali portava uno schioppo in ispalla, ed al fianco un lungo pugnale nella sua guaina. La piccola carovana si pose in moto di buonissimo umore, rallegrata da uno splendido sole di luglio, e dall’ampia vista delle fertili pianure della Campania, le quali si stendono ai piedi del monte. Cominciammo salire traverso alle vigne, dove si raccoglie il rinomato vino di Somma; quindi entrammo nella regione ombrosa dei castagni, diventando a misura ci innalzavamo, più erte le pendici, più malagevole la salita. Gli spigoli del monte, fin verso la sommità, continuavano ad essere popolati di castagni, e rallegrati da una flora splendissima. I fiori stupendi, particolarmente i gigli purpurei, i garofani, il licno, il trifoglio purpureo, l’antirrino, la valeriana medicinale, traevano a sè tutta quanta l’attenzione del botanico, mentre il zoologo dava la caccia alle farfalle variopinte.

A misura che salivamo venivano scomparendo le strade; finimmo per non trovare nemmeno più sentieri di pastori, appena traccie di passi a traverso cespugli, entro gole, sull’orlo di precipizi; trovammo rivi che scendevano quasi a picco, letti dissecati di torrenti, le cui pareti di carattere pienamente volcanico, erano formate ora di ceneri, ora di lapilli ora di lava impietrita.

Tre della nostra società scesero in una di quelle gole volcaniche, provvisti di martelli e di scalpelli, per farvi raccolta di cristallizzazioni. Ne trovarono una quantità discreta nelle grotte formate dalla lava basaltica, e dalle ceneri indurite. Varie qualità di cristalli, e la stupenda pietra volcanica trovansi parte a fior di terra, parte sepolte nel suolo, e chi non si lasciasse spaventare dalla fatica, ed anche dal pericolo delle frane di quelle pareti di lava, in parte tuttora mobili, potrebbe formare una bella collezione mineralogica.

I tre, carichi più o meno di sassi, si riunirono agli altri i quali erano stati attendendoli all’ombra, in un bosco. Proseguimmo la nostra ascensione, resa faticosa dalla mancanza di strade e dall’ardore del sole, fino ad una fonte [p. 189 modifica]che trovammo ad un terzo circa di salita. Le sorgenti sono scarse sul monte Somma, le nostre guide davano il nome a quella dove ci fermammo, le cui acque non erano abbondanti, però fresche e di buona qualità; di fontana di Mennone. Decidemmo dare tanto alla fontana, quanto al castagneto dove sgorga il nome classico di Memmnone. Tutti i sassi di quella regione sono sonori, perchè stati soggetti all’azione del fuoco; percuotendoli con un ferro, o semplicemente con un bastone, mandano un suono metallico, come le colonne del foro di Pompei, le quali si trovano nello stesso caso.

A misura che si sale, il monte diventa sempre più arido; crescono le ceneri, i lapilli, la salita diventa sempre più faticosa, ma più bella la vista. Non scorgevamo punto ancora il Vesuvio, perchè ce lo nascondeva la vetta del Somma; per contro si allargava sempre più l’orizzonte, stendendosi da Baia all’isola d’Ischia, scorgendosi Napoli, il golfo, la pianura di Caserta, e tutta quanta la fertile regione della Campania centrale, fin verso i monti di Sarno. Tutta questa stupenda pianura si stende dalle colline che circondano il golfo, e sulle quali sorge in parte Napoli, fino agli Appennini, ai monti del Matese; si direbbe un immenso parco cosparso di castelli, di ville, di chiese, di monasteri, di città, che si staccano biancheggiando sulla verzura della campagna, frastagliate dalle vie di comunicazione. Ci fermammo quasi estatici sull’ultimo contrafforte al di sotto della vetta del Somma, perchè di là potevamo abbracciare di un solo colpo d’occhio, da una parte Napoli ed il mare, dall’altra la pianura della Campania.

Potemmo contare le seguenti città, S. Anastasia e Somma; più in là Poncigliano d’Arco, Acerra, Afragola, S. Maria, Capua; a dritta di questa Caserta ed il suo palazzo, Maddaloni ai piedi dei monti, tinti in azzurro; propriamente in faccia a noi scorgevasi Marigliano, più in là Nola, Ottaiano, Palma e Sarno, dove, a dritta di Nocera, i monti chiudono la pianura. Era il giorno della festa della [p. 190 modifica]Madonna delle Grazie. Udivamo il rombo dei cannoni della sottoposta città, e quando fummo giunti presso al cratere ora spento del Somma, si sarebbe potuto credere che il volcano tuonasse tuttora all’interno.

Quando si contempla da quell’altura quella stupenda regione, quello splendido mare, si comprende che chi ne fu una volta padrone, preferisca la morte alla perdita della signoria. Così avvenne alle stirpe Sveva, a quella di Aragona, a Giovacchino Murat. Si può allora comprendere l’esclamazione, per dir vero, non guari ortodossa, di Federigo II imperatore, il quale diceva «che se il Dio d’Israello avesse veduta Napoli, non avrebbe vantata cotanto a Mosè la terra promessa.» Ci attendeva però un nuovo spettacolo più grandioso; non avevamo avuta ancora la vista del Vesuvio. Ci avvicinammo alla vetta del Somma, la quale è segnata al suo punto culminante da una croce in legno, e fatti ancora pochi passi sulla cresta sottile su cui camminavamo, ci trovammo tutto ad un tratto di fronte, e vicinissimi al volcano, che pareva balzare fuori allo improvviso; e non può esprimersi quale fosse il contrasto tra la vista delle pianure ridenti e fertili della Campania, e quella di quella regione arida, morta, sepolta tutta, sotto un denso strato di ceneri, di una cupa tinta grigia. Non è possibile esprimere con parole la profonda impressione prodotta dalla opposizione subitanea di quella molle imponente che fuma; si sarebbe detto un demonio uscito tutto ad un tratto dagli abissi dell’inferno.

Non havvi punto da cui possa il Vesuvio produrre un effetto uguale, come dal vertice del Somma, che quasi lo uguaglia in altezza. Quando si sale sopra quello per la strada di Resina, lo si vede dal basso in alto; qui invece lo si contempla dall’alto in basso, si può quasi guardare nel suo cratere, e lo si vede campeggiare in tutta la sua imponenza, sul tondo del cielo e del mare; inoltre si ha davanti agli occhi il cratere del Somma, colle sue pareti scoscese di lava, che scendono quasi perpendicolari. [p. 191 modifica]Coloro invece che salgono dai piedi del Vesuvio alla sua sommità, non ne scorgono mai la forma, non ne vedono che i campi coperti di lava e di cenere.

Ci portammo tre di noi sulla cresta affilata del Somma, fino alla punta più esteriore, dove si vede il monte a tre punte, inclinate verso il Vesuvio. A dritta ed a sinistra stanno gli antichi crateri spenti, nere cavità, frastagliate in ogni senso, e tutto all’interno trovasi il terreno cosparso di sassi rossi, e grigi, di massi di lava, eruttati dal volcano. Stando a metà del margine del Somma, lo si vede inclinato in forma piramidale, ed a semicircolo verso il Vesuvio, dal quale lo disgiunge un nero precipizio. Si ha davanti agli occhi il cono imponente del Vesuvio, coperto tutto di ceneri, dalla base alla estremità, di un colore tra il grigio ed il giallo, con strisce di tinta nera dove colò la lava; i margini del cratere sono di colore giallo cupo, circondati da una striscia bianca, e dallo interno si sprigionano leggieri vortici di fumo. Poco a poco lo spettatore si va rimettendo dalla prima impressione prodotta da quella vista imponente, ed allora non può a meno di osservare le linee armoniche, le belle forme di quel cono, e la varietà armoniosa pure delle sue tinte. Non ho visto spettacolo nessuno di natura, dove il severo ed il grazioso siano cotanto uniti, e dopo essere salito pure sull’Etna, posso dire essere questa connessione di aspetti tanto diversi, tutta particolare del Vesuvio. Desso è propriamente di una maestà tranquilla, quieta, malinconica; la tinta bruna od azzurra delle ceneri, si armonizza in modo stupendo colle belle forme del cono, e se si aggiunge a questo l’aspetto del mare, della pianura, dei monti circostanti, il tutto irradiato da uno splendido sole, sarà agevole imaginare quale deva essere la bellezza di quel colpo d’occhio, dal quale uno non sa staccarsi. Vedevamo le barche nel golfo, ed all’orizzonte le forme strane dell’isola di Capri. A sinistra scorgevamo la spiaggia di Castellamare, e la regione vitifera di Boschi Tre case, Boschi Reali, Scafati, e Lettera. [p. 192 modifica]

Ci fermammo buona pezza sulla vetta del Somma, godendo di tutte quelle bellezze di cielo, di terra, di mare. Il Vesuvio era tranquillo; non usciva dal suo cratere che una leggiera colonna di fumo, quasi ad additare che in mezzo a tutte quelle delizie, albergava il demone della distruzione. Le due strisce nere a traverso le ceneri erano formate dai torrenti di lava delle due ultime eruzioni, e quella a sinistra datava solo dal 1850. Si erano allora aperti sul picco del monte, quasi dove cominciano le ceneri del cono, cinque piccoli crateri, i quali erano tuttora visibilissimi. Ci additarono il punto dove durante la eruzione del 1847 un Tedesco ed un Americano perdettero miseramente la vita. Inoltratisi imprudentemente furono colpiti dai sassi erruttati dal monte; il Tedesco, il quale aveva avuto lo due gambe rotte, spirò ai piedi del Vesuvio stesso, l’Americano, il quale era stato colpito in un braccio, morì nello spedale a Napoli.

Toccò un caso strano nel 1822 ad un calzolaio di Sorrento, il quale erasi portato a visitare il Vesuvio senza guida. Il cratere della eruzione del 1820, era libero, e l’imprudente calzolaio volle scendervi, quasi avesse avuto in animo, titano oscuro, non solo di sorprendere gli spiriti infernali nei loro specchi, ma quasi di prenderli a dileggio. Colto da una vertigine in questa sua temeraria impresa, precipitò nel cratere; se non che fu trattenuto nella caduta, da una sporgenza di lava. Aveva riportata la rottura di un braccio e di una gamba, e stette per ben due giorni in quella posizione, sospeso sull’abisso, quando i suoi lamenti giunsero all’orecchio delle guide, che avevano accompagnati forastieri sul monte. Tratto fuori l’infelice per mezzo di corde, convien dire ritraesse dalla natura immortale di Aasvero, imperocchè portato alle spedale di Napoli finì per guarire, e per tornare a Sorrento non solo vivo, ma sano come nulla fosse stato. Narravaci quest’avventura terribile e lieta ad un tempo, D. Michele cappellano del romitaggio sul Vesuvio, dove eravamo scesi dopo esserci trattenuti più di un’ora sulla vetta del Somma. [p. 193 modifica]

Qui tutto ad un tratto cangiò la scena. Il Vesuvio si velò di nebbia, ed un forte vento balestrava di qua, di là le nuvole sollevando vortici di ceneri, stupenda lotta di elementi, che dava novella vita, e nuovo carattere a questa contrada selvaggia. La nebbia non tardò però a diradarsi, e ricomparvero sotto i nostri piedi Napoli, lo splendido golfo, Capri, Ischia, Miseno, ed a destra i piani della Campania.

«Voilà la Cléopatre!» Questa strana ed inaspettata esclamazione ci fece voltare gli occhi a tutti. Era il nostro naturalista francese, uomo di sessanta sette anni, il quale a furia di correre e di saltare, era riuscito, benchè vecchio, quasi novello Antonio, a fare la conquista di Cleopatra. Quel vecchietto allegro, pieno di vivacità, di brio, di una forza sorprendente per la sua età, non degnava di uno sguardo nè il Vesuvio, nè quella stupenda vista; non aveva pensiero che per le sue farfalle.

La ripida discesa dalla sommità del monte, non era stata senza qualche pericolo, e dopo avere camminato a stento sulle ceneri, e sulle lave dell’eruzione del 1850, le quali si sarebbero potute paragonare ad una cascata nera pietrificata, arrivammo stanchi assai, al romitaggio. Sorge questo in vicinanza dell’osservatorio, edificio abbastanza elegante, collocato in amenissima posizione, e di dove si scopre vista estesa. Sorgono tutto attorno tigli, i quali avranno almeno duecento anni, e la cui vegetazione rigogliosa a tanta prossimità del volcano, dimostra che la località è molto sicura. Difatti i sassi e le scorie eruttate dal cratere, descrivendo una parabola, passano disopra il romitaggio, e la collina su cui sorge la chiesetta, trovandosi separata da una profonda gola dal Vesuvio, e protetta contro i torrenti di lava. Inoltre, una lastra nera, con caratteri gialli d’ottone ci fece conoscere che l’edificio era assicurato contro l’incendio, da una compagnia di Magdeburgo; e per certo non ci aspettavamo a trovare questo ricordo della patria lontana, alle falde del Vesuvio.

Negli ultimi anni vi abitava un romito, presso la [p. 194 modifica]chiesetta di S. Salvatore; ma il parroco di Resina lo allontanò da quel posto che dava un certo reddito, ed ora sale desso stesso di quando in quando a celebrarvi la santa messa, ed a trattare gli ospiti che gli capitano, con eccellente lacrima Cristi. Il piccolo villaggio si compone di alcuni coloni, i quali si sono stabiliti ai piedi del monte; degli impiegati dell’osservatorio, e di una stazione di gendarmi. Nel giorno della Pentecoste si celebra qui una festa, ed allora vengono dalle città vicine forse un dodici mille persone, le quali si recano processionalmente dalla chiesa di S. Salvatore fino alla Croce ai piedi del Vesuvio, per scongiurare colle loro preghiere il terribile flagello. Ora il volcano quieta dal 1850, ed anche allora non produsse gravi danni; il torrente di lava, di discreta ampiezza, prese la direzione di Ottaiano, devasto i giardini del principe di quel nome, e rovinò il convento di S. Teresa con alcune case.

Dopo una buona refezione presso il parroco D. Michele; il quale ci fece stupenda accoglienza per essere desso in relazione con uno della nostra comitiva; salimmo a Resina sul fiume di lava, che nero di aspetto, produce impressione malinconica. Se non che, ivi pure si può ammirare di quanto sia capace l’industria umana, imperocchè non appena la lava è raffreddata, si cerca a trarne partito. Avevo veduto già nell’osservatorio certe grotte bizzarre, e chiusure di giardino lavorate artisticamente in lava, e nel romitaggio avevamo preso il caffè sopra un tavolo stupendamente lavorato, pure in lava. Si formano pure busti di questa ed a Catania ebbi campo a riconoscere il bello aspetto che porge, dopo la politura, rimanendo sorpreso nel vedere la varietà e la bellezza di tinte delle lave dell’Etna.

Scendemmo da Resina; ivi il torrente disseccato delle lave era fiancheggiato da vigne stupende, ed a contatto della lava stessa, quasi nelle ceneri, crescono belle piante di melagrani, coi loro fiori purpurei, che si direbbero di fuoco. [p. 195 modifica]

Fummo per tal modo soddisfatti della nostra bella gita, che ci decidemmo farne presto un’altra, e dopo pochi giorni muovevano in carrozza per il ponte della Maddalena, verso il Vesuvio. Era nostro divisamento contemplarlo questa volta dal lato opposto, e pertanto prendemmo la direzione del fiume di lava del 1850, il quale si stende sopra Boschi Tre Case, e Boschi Reali. Vidi allora per la prima volta questi strani villaggi, collocati nel punto il più pericoloso del Vesuvio. La loro posizione, in mezzo alla ricca vegetazione di quel suolo composto tutto di detriti volcanici, è amenissima quanto quella dei villaggi che sorgono alle falde dell’Etna, se non che, hanno più ancora di questi, carattere tutto orientale. Le case piccole, ed a volta come quelle dell’isola di Capri, sono costrutte di lava bruna, e gli stessi campanili delle chiese sono di questo materiale. La popolazione è rozza, timida, povera; non ho visto una bella fisonomia. Eravamo scesi in una bettola a Boschi Reali, per proseguire di là il nostro cammino sui campi di lava. Domandammo inutilmente ci recassero delle frutta, ed il nostro desiderio di averne fu accresciuto dall’impossibililà allegataci di trovarne, quando tutto ad un tratto vedemmo presso la nostra tavola un cavallo, che si stava mangiando tranquillamente carrubbe, di cui aveva pieno un secchio. Successo allora una scena piacevole, imperocchè ci precipitammo tutti quanti sul secchio, per disputare al cavallo la saporita sua provenda, e fu colà che imparai per la prima volta, che a Napoli si nutrivano i cavalli di carrubbe.

Visitammo il fiume della lava, al quale le vigne sono cotanto vicine, che quasi a contatto di quelle, sorgono piante annose di olmi, da cui pendono le ghirlande dei tralci, porgendo vivo contrasto quell’allegro aspetto di vita, presso quello spettacolo di desolazione. Vidi pure gli avanzi del palazzo del duca Miranda, le traccie di altre abitazioni distrutte dalla lava. Ed anche da questa parte, faceva bellissima vista il cono del monte.

Mi trovavo pertanto ben addentrato nei misteri del [p. 196 modifica]volcano, per visitare il suo cratere. Avevo udito ripetere le molte volte, che l’ascensione del Vesuvio fosse molto più faticosa di quella dell’Etna, ma dopo avere fatto di poi anche quest’ultima, sono in grado di accertare che lo arrampicarsi sul Vesuvio non è che una semplice passeggiata, paragonata agli sforzi che costa l’ascensione dell’Etna, sovratutto per la grande rarefazione dell’aria, e per le continue emanazioni di gaz, in quel suolo caldo e vacillante; ed anzi, dopo avere camminato a lungo in quei neri campi flegrei dell’Etna, i quali non hanno mai fine; questo Vesuvio che pure ha consumato popoli e città, non pare più che un fuoco d’artificio, destinato al divertimento dei Napoletani. Non si può negare però, che nella sua piccolezza il suo cratere dà una idea più viva, più animata delle regioni infernali, che non il cratere dell’Etna.

Faceva una bellissima notte quando scendemmo dal Vesuvio; il sole era scomparso in mare dietro l’isola di Ponza; a misura che crescevano le tenebre si andavano illuminando Napoli, e le città dei piani della Campania, e l’azzurra volta del cielo era rischiarata dalla cometa nunzia di guerra, spettacolo grandioso, che profondamente commuoveva l’animo già colpito dallo aspetto del volcano.

V.

Mi si era parlato a Napoli della festa di S. Paolino a Nola, quale meritevole di essere vista. Mi si assicurava che accorrevano a quella tutte le popolazioni della Campania, porgendo uno spettacolo che non ha l’uguale. Mi portai pertanto colà il 26 giugno, bramoso pure, d’altra parte, di conoscere Nola, la quale ha più di un ricordo storico. Marcello aveva fatto toccare la prima sconfitta ad Annibale alle porte di quella città; ivi era morto l’imperatore Augusto; ivi Tiberio era salito all’impero. È noto [p. 197 modifica]pure quale sorgente inesauribile di vasi preziosissimi sia stato Nola; i più belli di quanti stanno nel museo borbonico furono scoperti, ivi in Ruvo, ed in S. Agata dei Goti; e chiunque li abbia visti, non può per certo aver dimenticato quel vaso grandioso di Nola che rappresenta in una composizione ricca di figure la distruzione di Troia. Convien pure ricordare l’invenzione delle campane di cui mena vanto questa città, e non convien neppure dimenticare S. Paolino suo primo vescovo, buon poeta e dotto padre della Chiesa, il quale fa molto onore a Nola.

Saverio de Rinaldis, lo cantò in un poema epico latino, ad imitazione di Virgilio, il quale ha per titolo la Paolineide. Lo acquistai un giorno nel porto di Napoli, dove lo vidi sur un muricciuolo; ma sebbene m’ispirasse curiosità quanto avevo udito intorno alla stupenda festa del santo, non mi bastò però il coraggio di leggere tutto quanto quel lungo poema. Non sarà però fuori di proposito accennare qui, che il santo nacque nell’anno 351 nella attuale Guascogna, dove suo padre, prefetto delle Gallie, era tuttora gentile, ed aveva educato suo figliuolo al Paganesimo. Se non che, convertitosi Paolino al Cristianesimo in Bordeaux non tardò a diventare zelantissimo della sua novella religione. Ottenuto il consolato, venne mandato ad amministrare la provincia della Campania, ed ivi trasferì la sua stanza dal capoluogo di Capua a Nola, per l’unica ragione che trovavasi in questa sepolto il santo vescovo Felice, e che i molti miracoli da esso operati, traevano gran folla alla sua tomba. Paolino rinunciò al mondo; le proprie convinzioni, e le triste esperienze fatte della vita, lo portarono a dedicarsi al sacerdozio, imperocchè accusato nientemeno che della uccisione di un suo fratello, non aveva potuto provare la sua innocenza, che grazie all’intercessione del santo suo protettore Felice. Diventato prete, Paolino non tardò ad acquistare grande rinomanza per il suo ingegno, e per la sua dottrina nelle scienze ecclesiastiche, mentre la santità della sua vita gli procurò la venerazione universale. Venne chiamato a [p. 198 modifica]succedere a Felice nella cattedra vescovile di Nola. Allorquando venne a morte nel 431, fu sepolto in quella cattedrale, di dove il suo corpo venne trasportato, prima a Benevento, poscia a Roma, nella chiesa di S. Bartolomeo.

Non sono però nè il suo genio, nè i suoi miracoli che contribuirono maggiormente a mantenere viva nel popolo la memoria di S, Paolino, ma bensì una sua buona azione, un suo atto generoso. Mentre era vescovo, il figliuolo unico di una vedova di Nola, fu preso dai Vandali, e portato schiavo in Africa. Paolino mosso da sentimento di carità cristiana, si portò colà per riscattare il giovane, sottoponendosi a vece di lui al giogo della schiavitù. Compiuta la sua santa opera, tornò dalla Libia, ed i Nolani si portarono ad incontrarlo fuori della città, riconducendolo al suo vescovato, con musica, balli, con ogni più solenne manifestazione di gioia. Ciò ebbe luogo il 26 giugno, di non si sa quale anno, ed ogni anno si celebra la memoria di quel giorno, con incredibile concorso di persone, le quali accorrono da tutte le contrade della Campania, per prendere parte alle feste curiose ed originali.

Mi recai di buon mattino a Nola colla strada ferrata. I prezzi erano stati ridotti, e grande era la ressa alla stazione, mentre in ogni direzione, tutte le strade che portano a Nola erano coperte di carrozze di ogni natura, le quali movevano a quella volta. Il mio viaggio durò poco più di una mezz’ora, a traverso contrade fertilissime, tutte coltivate a viti, e del più ameno aspetto. Giunto a Nola, vidi; per così dire, un fiume di gente, che per la porta si introduceva nella città. Tenevasi in vicinanza a quella una fiera; le antiche mura della città, ed una torre aderente a quelle, erano tappezzate di cartelloni giganteschi, bizzarramente dipinti; nella torre stessa si faceva vedere la gran foca marina, e sulla porta un uomo con una tromba faceva un gran fracasso. ora dando fiato allo stromento, ed era vantando i pregi dell’animale curioso. In una casa di fronte, regnava pure una musica infernale, interrotta di quando in quando dalle voci stentoree di una [p. 199 modifica]compagnia di giuocolieri, i quali invitavano il pubblico ad esaminare le loro prodezze. Non è possibile descrivere la varietà delle merci che venivano offerte con grandi grida nelle botteghe, nè il chiasso assordante della folla, la quale si precipitava in città, nè la varietà dei colori dei panni degli abiti, di numerose piccole bandiere, che quasi tutti portavano in mano.

Ero appena entrato in città, che mi colpì vista strana di cosa della quale non avevo ombra d’idea, e che mi fece dubitare di trovarmi piuttosto nelle Indie, od al Giappone, che in Italia, nella Campania. Vidi una specie di torre, alla sottile, tutta ornata di colore rosso, di dorature, di fregi d’argento, portato sulle spalle d’uomini. Era divisa in cinque ordini, a piani, a colonne, ornata di frontispizi, di archi, di cornici, di nicchie, di figure, coperta ai due lati di numerose bandiere. Le colonne erano rosse, lucide, le nicchie dorate all’interno, e guernite di stravaganti rabeschi; le figure rappresentavano genii, angeli, santi, guerreri, vestiti questi nelle foggia le più strane; erano collocate le une sopra le altre, e tenevano in mano corni, mazzi di fiori, ghirlande, e bandiere. Tutto si moveva, tremava, o svolazzava; e la torre stessa, portata da forse un trenta uomini robusti, oscillava dessa pure. Nel piano inferiore stavano sedute alcune ragazze, incoronate di fiori, in mezzo a musicanti i quali facevano un chiasso indescrivibile, con trombe, tamburri, triangoli.

La torre si avanzava lentamente nella strada, superando l’altezza delle case, sormontate in cima dalla statua di un santo, ed intanto da altre parti si udivano altre musiche, e si vedevano comparire qua e là più elevate dei tetti delle case, altre ed altre torri.

«Dio mio! dissi ad un uomo il quale mi stava vicino, che cosa significa tutto questo?» Mi risposse alcune parole in un dialetto inintelligibile, delle quali non potei afferrare altre, che quelle di guglie di S. Paolino. «Dovete sapere, disse allora un napoletano volgendosi a me, che queste torri, ed obelischi, sono dedicati al santo, [p. 200 modifica]imperocchè quando tornò dall’Africa, gli abitanti di Nola gli andarono incontro facendogli grandi feste, e portando fra le altre cosa di tali obelischi. Li potrete di qui vedere passare tutti, mentre si avviano alla cattedrale.

Preferii portarmi senza indugio sulla piazza stessa, davanti al duomo, dove dovevano prendere posto tutti gli obelischi. Ne arrivarono nove da varie parti, ed erano tutti ad un dipresso di una stessa altezza, ad eccezione di una torre più elevata delle altre, dell’altezza di cento due palmi, la quale apparteneva alla corporazione degli agricoltori. Ogni corporazione od arte di una certa importanza, prepara una di quelle torri per la festa del santo. Le spese sono sostenute dall’arte, e salgono per ogni torre a novantasei ducati napolitani, all’incirca.

Nell’esaminare più da vicino quelle strane apparizioni che tanto mi avevano colpito a primo aspetto, rilevai che riproducevano quella architettura bizzarra e barocca, di quegli obelischi che sorgono sopra alcune piazze di Napoli, e che sopracarichi di sculture e di ornati, non danno idea guari favorevole del gusto artistico dei Napolitani.

Ogni obelisco è fabbricato in istrada, presso la casa di un qualche maestro distinto dell’arte, sotto una grande ed alta tenda, destinata a proteggere contro le intemperie tanto l’opera stessa, quanto gli artisti che la stanno compiendo. Lo scheletro di quelle torri è formato di antenne, e di travicelli; si sovrapone un piano all’altro, e si ricoprono di carta la parte anteriore, ed i due lati, mentre la parte posteriore è formata tutta da fronde, di rami di mirto, e da una quantità di piccole bandiere. Sulle pareti di carta dei due lati sono dipinti genii, i quali portano ghirlande. La parte anteriore è la più ricca di ornamenti; a questa lavorano pittori, ed architetti. Ogni piano è formato di colonne d’ordine corinzio, sormontate da una cornice con una nicchia, ed in queste sono allogate figure, e statue; le persone vive stanno al piano inferiore, ragazze o giovanetti che vestono gonella corta e portano in testa elmi di carta dorata. Nella nicchia a metà della torre, sta la [p. 201 modifica]figura principale; in quella degli agricoltori, o mietitori, si vedeva una Giuditta collossale stupendamente vestita, la quale teneva in mano la testa di Oloferne; in altre torri vi erano santi, o pretettori e patroni delle varie arti. A fianco di queste figure principali, stanno ad ogni piano emblemi di varia natura, angeli che tengono in mano bandiere od arpe, genii con corone di fiori, o con trombe. Nella nicchia del piano superiore havvi un angelo con un incensorio, e sulla cupola dorata, o sull’ornamento a foggia di giglio, che forma l’estremità della torre, sorge un santo. Sulla torre degli agricoltori vedevasi S. Giorgio, vestito da cavaliere dell’ordine di Malta, con una bandiera bianca in mano.

Un attributo posto sulla cornice che sormonta la nicchia a metà della torre, indica la corporazione od arte a cui quella appartiene; su quella degli agricoltori vedevasi una falce; su quella dei pristinai due grossi pani; su quella dei macellai un pezzo di carne; su quella dei sarti una bianca veste; su quella dei calzolai una scarpa; su quella dei pizzicaroli una forma di caccio; su quella dei negozianti di vino un fiasco. Ogni torre inoltre è preceduta da un giovanetto, il quale porta un emblema; quello dei giardinieri portava un corno di abbondanza, gli albergatori ed i bettolieri erano preceduti da un barile di vino, sostenuto da due giovani, vestiti in guisa da raffigurare S. Pietro e S. Paolo.

Tutte le torri si avviarono al suono delle loro bande musicali verso la cattedrale. Tutto quel chiasso, tutta quell’onda di gente, con i costumi i più svariati, tutta quella selva di bandiere, i balconi nelle case gremiti di fiori, e di belle ragazze, tutte quelle torri bizzarre, le quali oscillavano; il sole splendissimo del mezzogiorno, formavano uno spettacolo così vivace, così singolare, che mi assordava, mi allibiva, mi faceva dubitare di essere tornato ai tempi del Paganesimo. Aprivano la marcia delle torri due di queste molto piccole, dove trovansi al piano inferiore ragazzi coronati di fiori; poi veniva una barca [p. 202 modifica]nella quale stava un giovanetto vestito alla turca, il quale teneva in mano un fiore di granata. Dietro la barca era portato un grandioso legno da guerra, benissimo rappresentato, in mare, con un giovane a prova vestito da moro, il quale se ne stava fumando un sigaro, mentre sul ponte eravi la statua di S. Paolino, inginocchiata in atto di preghiera, davanti ad un altare.

Giunta poi ogni torre davanti alla cattedrale, cominciava uno strano spettacolo, imperocchè a suon di musica ognuna di quelle moli grandiose, cominciava a ballare. Precedeva i portatori, un uomo con un bastone, il quale batteva la misura, e le torri si ponevano in moto, seguendo quella. Il colosso oscillava, parendo ad ogni istante volere perdere l’equilibrio e cadere; tutte le ligure si muovevano, le bandiere sventolavano, ed era un colpo d’occhio singolare. Ogni torre cominciava ballare davanti al duomo, e poi ballavano tutte assieme, per ben cinque minuti. Tosto che ogni torre si era fermata davanti alla cattedrale, ed aveva preso il suo posto, una ventina di giovani e di uomini si disponevano in circolo intorno ad essa, tenendosi le mani in ispalla gli uni sopra gli altri, e cominciavano a ballare; intanto due ballerini facevano in mezzo a questi una danza particolare, finchè sopraggiunto un terzo lo sollevavano per aria, dove questi si dimenava con tutte le membra come un indemoniato; poco a poco prendeva a diventare pallido, e quasi colpito da vertigine cadeva a terra come morto, e gli altri continuavano a ballargli intorno in circolo; intanto il morto si rialzava sorridendo, ed a suon di nacchere, si metteva a ballare desso pure. Quelle danze strane ed originali, mi ricordarono il culto di Adone, ma non trovai nessuno che fosse in grado di darmi una spiegazione di quel ballo mistico. Vidi pure che davanti ad una torre a vece di ballare si facevano giuochi di forza, ed un uomo il quale salito in testa ad un altro vi faceva le sue prodezze, e perfino il grosso legno da guerra ballò desso pure. In alcuni momenti suonavano contemporaneamente le musiche di quattro di [p. 203 modifica]quelle torri, locchè, congiunto agli urli, agli schiamazzi alle grida di migliaia e migliaia di persone, faceva propriamente un baccano d’inferno.

Tutto ciò succedeva sulla piazza, davanti alla cattedrale mentre nell’interno della chiesa il vescovo cantava tranquillamente messa solenne, che i fedeli inginocchiati, stavano ascoltando divotamente.

Termina la messa ed ultimato il ballo delle torri, si chiudeva la funzione religiosa con una processione, a cui prendevano parte tutto il clero secolare, non che tutte le corporazioni di frati. Non vidi mai in Italia frati di un aspetto così imponente, e così floridi come questi locchè vuolsi ripetere dall’eccellenza dell’aria, dalla ricchezza e fertilità del paese, e dalla libertà con cui vivono i frati nel regno di Napoli. La processione fece il giro di tutta la città, tenendo dietro a questa pure le torri, accompagnata per ogni strada dallo scoppio incessante di razzi, e di mortaretti.

Era intanto oltrepassato il mezzogiorno; le funzioni religiose erano ultimate, e la popolazione se n’andava per i fatti suoi. Sbalordito da tutto quel baccano, stanco di tutta quella folla, cercai rifugio in una trattoria, che trovai però già ripiena di persone. In questi paesi si vuole tutto allegro e chiaro, ed anche le pareti di quella bettola erano dipinte a colori vivaci. Vidi recare e scomparire in un battere d’occhio, piatti enormi di maccheroni, di carne di agnello arrosto. Il vino rosso, denso, era servito in brocche di terra cotta a doppio manico, imperocchè non si beve come nell’Italia superiore e centrale il vino in bicchieri di vetro, o di cristallo, ma lo si attinge, come nei tempi antichi, dalla brocca stessa; e quel vino mi pareva tanto migliore, bevendolo in una brocca la quale per la forma mi ricordava i vasi antichi, e quelle brocche scoperte a Pompei, che si vedono a Napoli nel museo borbonico, le quali hanno del pari doppio manico, e la bocca a foggia di foggia di trifoglio. Tutte queste brocche sono al dì d’oggi nella Campania verniciate in bianco con [p. 204 modifica]alcuni ornati, che nulla però più conservano dello stile greco.

Nel pomeriggio il calore diventato insopportabile spingeva tutte le persone entro le botteghe di caffè, alle quali si dà quivi il nome di Caffè nobile, non appena presentano un certa apparenza. Cercai il migliore di tutti, ma era già pieno zeppo di persone, vi si soffocava; vi erano contadini che cantavano ritornelli, improvvisatori, signori e dame elegantemente vestiti, gli uni seduti, gli altri in piedi, gli altri che giravano attorno ai tavoli. Si prendevano gelati in abbondanza, e di stupendo gusto. Non ho mai provata come colà la voluttà di sorbire un buon gelato, tanto era soffocante il calore, e non tardai in mezzo a tutta quella folla di trovarmi quasi addormentato, sognando di Marcello, di Annibale, di Augusto morente, di Livia, di Tiberio, delle baccanti, degli affreschi di Pompei, dei vasi di Nola, di S. Paolino, delle torri che ballavano. Al di fuori la folla continuava a gridare, a fare chiasso, ma siccome il romore era continuato, si poteva benissimo dormire, come si dorme sulla spiaggia del mare, al muggito delle onde.

La città, che visitai tutta quanta, non ha cosa di rimarchevole, ma è abbastanza pulita, e rallegrata dall’aspetto di molti e belli giardini. Nei tempi antichi non era punto inferiore a Pompei, colla quale manteneva Nola grandi relazioni commerciali, imperocchè le tre città più fiorenti della Campania Nola, Aceria, e Noceria avevano il loro porto a Pompei sulla foce del Sarno, ricoprendo in allora il mare, che di poi si ritirò da Pompei, buona parte di quella fertile pianura.

Ero uscito di città per salire al convento di S. Angelo appartenente ai monaci di S. Francesco, il quale sorge con un porticato aperto in una bella posizione, attorniato da splendida vegetazione. Incontrai per istrada una famiglia che tornava di già dalla festa, composta di una matrona di forse ottant’anni, colle sue figliuole e nipoti. Non ho veduta mai vecchia di bellezza più classica, alta della [p. 205 modifica]persona, di imponenza tragica. Vestiva un abito di seta color chermisino, con ampio bordo di brocato d’oro, stretto alla vita alla foggia greca, e sopra questo un farsetto di colore rosso, ricamato in oro. Suoi capelli canuti erano trattenuti sulla fronte da un nastro alla foggia di Pompei. Procedeva con un’imponenza, colla dignità di una principezza, di una regina dei tempi antichi, ed avrebbe potuto rappresentare davvero nei Persiani di Eschilo la parte di Atossa, la consorte sublime di Dario, madre di Serse. Mi ero unito a quella piccola brigata, e sebbene una delle nipotine della vecchia fosse di non comune bellezza, io non potevo staccare gli occhi da quella imponente matrona. Le giovani non erano vestite riccamente come quella; portavano abiti a larghe maniche, di colori chiari, ed avevano in capo alla moda del paese il mucador, specie di velo fissato poco sopra la nuca, in guisa che lascin visibili i cappelli sulle tempia, usanza che già si può osservare negli affreschi di Pompei. Duravo molta fatica a capire qualcosa del dialetto che parlavano tutte quelle donne. Compresi però che m’invitarono ad accompagnarle a casa loro, la quale mi dissero essere a poca distanza. Per curiosità vi sarei andato volontieri, ma il giorno era già inoltrato, mi premeva vedere S. Angelo, godere della vista che di là si scopre, e ringraziando declinai il cortese invito.

È propriamente bella la vista che si gode dal convento. Si scoprono, a sinistra, il monte Somma ed il Vesuvio, a destra i monti di Maddaloni, e sopra il monastero, in cima ad una collina le rovine pittoriche del castello di Cicala. In mezzo a quei monti si stende la campagna di Nola, riccamente popolata di pioppi, di olmi, di alberi da frutta, da cui pendono a festoni le viti, ed in mezzo alle piante crescono rigogliosi il frumento ed il grano turco, e dovunque brillano gli aranci ed i melagrani, e la città irradiata da un sole splendissimo, trovasi come immersa in un mare di verzura, di vigneti e di fiori. La è propriamente questa contrada adatta a continue feste; la natura eminentemente voluttuosa, invita di continuo al piacere. [p. 206 modifica]

Partii di Nola verso sera, quando stavano per cominciare le corse di cavalli, e più tardi doveva ancor aver luogo una illuminazione generale. Allorquando a sera inoltrata mi trovai a Napoli, alla finestra della mia abitazione a S. Lucia vidi la folla che tornava dalla festa, e si avviava verso Chiaia; i cavalli erano guerniti di nastri e di fiori; la gente faceva sventolare le piccole bandiere che quasi ognuno riportava seco; carrozze, cavalli, uomini, tutti erano coperti di polvere, e gridando, scherzando, si portavano a Chiaia, per prendere ancora parte al corso.

VI.

Chiunque siasi portato da Salerno ad Amalfi, seguendo la strada lungo al mare deve ricordarla con vera soddisfazione.

Non havvene altra bella ugualmente in tutto il regno di Napoli, e di tante escursioni che ho fatto in tutta quanta l’Italia, si è questa la quale mi ha lasciata più grata impressione.

La strada segue sempre la sponda del mare, mantenendosi ad una certa altezza, e piegandosi a tutte le sinuosità del suolo. Si hanno pertanto a sinistra i monti, le fresche valli, popolate di villaggi, le quali scendono al mare, e sotto di sè questo, mentre lo sguardo si stende fino a Pesto, ai monti delle Calabrie, al capo Licosa, al golfo di Policastro.

Il primo abitato che s’incontra, ed in vicinanza di Salerno si è Vietri, e la posizione di questa piccola città mi ricordò Tivoli. Giace in una gola ampia e grandiosa, entro la quale scorre un torrente, il quale dà moto a parecchi molini, e sulla riva di quello sorge Vietri, bruno d’aspetto e bizzarro, con parecchie chiese e cappelle. Sulla spiaggia del mare possiede il suo piccolo porto, popolato di barche. Quasi tutti quei paesi, collocati in alto, hanno un piccolo borgo alla marina, dove si possono vedere le scene della vita dei pescatori, con ben maggiore evidenza che nei [p. 207 modifica]quadri; e quando dall’alto di quelle rupi si contemplano le barchette, che ora compaiono sulle onde, ora spariscono, si direbbe siano sospese per aria.

Tutte quelle torri sulla sponda del mare, tutte que’ castelli sulle alture, fanno pensare ai tempi in cui i Normanni fondarono in queste contrade quel loro meraviglioso regno, che segnò un’epoca nella storia della civiltà, ed esercitò una grande influenza nell’Occidente del pari, che nell’Oriente.

Erano per dir vero in allora strane le condizioni dell’Italia meridionale; aspre signore di Greci e di Longobardi, scorrerie continue degli Arabi, e repubbliche fiorenti come quelli di Amalfi, di Gaeta, di Napoli. In questa bella Salerno, che ora riposa tranquilla in riva al suo mare, regnava in allora il principe longobardo Guaimaro, quando comparve davanti alla città una flotta saracena, e gl’infedeli diedero l’assalto alle mura. I Salernitani erano infiacchiti al pari dei Sibariti e dei Bizantini; la città male guardata stava in pericolo di cadere. Se non che, trovavansi per caso in quel momento a Salerno quaranta pellegrini Normanni, i quali tornavano di terra santa, a bordo di un legno Amalfitano. Domandarono armi; si precipitarono fuori della porta, ed attaccarono con impeto i Mussulmanni; i Salernitani, animati dall’esempio, loro tennero dietro, e dopo un sanguinoso combattimento i Saraceni furono sbaragliati, e costretti a levare l’assedio. Guaimaro ricompensò generosamente i pellegrini, e questi ritornati in Normandia, riscaldarono la fantasia dei loro compaesani colle narrazioni delle bellezze della spiaggia di Salerno, della primavera perpetua che vi regnava, della eccellenza dei prodotti di quel suolo fertilissimo, dei tesori che colà avrebbero potuto acquistare uomini arditi e coraggiosi. E gli avventurosi Normanni s’imbarcarono per il mezzodì d’Italia, guidati da Dragut. Ciò avvenne in principio del secolo XI e la stirpe dei Normanni fu più fortunata di quella dei Napoleonidi e di Murat.

Sismondi osserva che da quell’epoca si mantenne nella [p. 208 modifica]lingua dell’Irlanda, l’antico dialetto scandinavo la voce figiakasta, vale a dire desiderio di fichi, locuzione figurata, per esprimere un desiderio intenso.

Intanto siamo arrivati a Cetara, luogo deliziosissimo sulla spiaggia del mare, una vera e fertile oasi in mezzo a questi monti, ed ivi mi colpì l’architettura tutta moresca. Le case sono piccole, ad un sol piano, con loggie e verande circondate di viti; i tetti sono convessi, e tinti in nero. La chiesa piccola e di architettura bizzarra, sorge in un boschetto di aranci. Tutto quel paese aveva un aspetto così forastiero, che non si sarebbe mai pensato essere nel centro dell’Europa. Allo splendore di quel magnifico sole, parevano sorridere le piante ed i fiori; le piccole case colle loro verande, parevano sepolte nella verzura. Tutto era pulito, bello come le piante di aranci, di carubbe, i gelsi; stupendi cactus in fiore, magnifiche piante di aloe contribuivano a dare un carattere esotico al paesaggio.

Cetara fu il primo punto occupato dai Saraceni su questa riviera; ivi presero ferma stanza, e di là si allargarono fondando colonie ad Amalfi, Minori, Majori, Scala e Ravello, imperocchè i Mussulmanni facevano scorrerie su queste spiaggia, prima ancora di conquistare la Sicilia, indottovi dalle continue lotte dei Greci colle città, e da queste con i Longobardi. La città stessa di Napoli ne diede l’esempio in principio dell’anno 836, rivolgendosi per mezzo di Andrea suo console, agli Arabi, onde averne soccorso per liberarsi dalla signoria di Sicardo principe di Benevento, e quella republica, in allora fiorente, strinse una lega con i Saraceni, senza tener conto nè degli anatèmi del sommo pontefice, nè delle minaccie degl’imperatori greco e romano. Durò tal lega per ben un mezzo secolo, ed i cronisti narrano che a quei tempi il porto di Napoli porgeva l’aspetto addirittura di un porto saraceno. Allorquando dopo la morte di Sicardo, avvenuta nell’839, la signoria longobarda venne meno a Salerno ed a Benevento, e che contendevano per questa fra di loro Radelchi e Siconulfo, questi chiamò una banda di Saraceni, prendendo [p. 209 modifica]ai suoi servigi il mussulmanno Apolofar, con un certo numero di Cretesi; questi Arabi presero liberamente stanza in Salerno, fabbricarono case nei dintorni, e vi si stabilirono.

Allorquando nell’anno 871 Radelchi e Siconulfo fecero la pace, dividendosi gli stati di Salerno e di Benevento, stabilirono per espressa condizione che non si dovesse permettere più agli Arabi il soggiorno sulla costa fra Amalfi e Salerno, ma ad onta di ciò, molti continuarono a rimanervi, facendovisi battezzare; dessi avevano dato a quelle località un’impronta tutta moresca, la quale non si è più cancellata. Altri poi ne vennero dalla Sicilia, in guisa che nel corso del secolo IX tutte quante le Calabrie trovavansi in pericolo di diventare mussulmane, che in Bari regnava un sultano, che Taranto cadde nelle loro mani, e che minacciavano Roma stessa, dove i Saraceni sorpresero e saccheggiarono le chiese di S. Pietro e di S. Paolo, mentre Napoli durò costantemente seco loro in buone relazioni, ad onta degli sforzi dell’imperatore Ludovico II.

Si stabilirono di bel nuovo in Cetara nell’anno 880; la republica di Napoli loro assegnò alcune terre sulle sponde del Sebeto; presero stanza pure alle falde del Vesuvio, nei dintorni classici di Pompei, non che sul Garigliano, di dove muovevano a fare scorrerie in tutta quanta la Campania. Fondarono parimenti la loro colonia di Agropoli, nelle vicinanze di Pesto.

Si ritirarono più di una volta da queste contrade, ai tempi della signoria dei Normanni. Parecchi abbracciarono il Cristianesimo, altri rimasero al servizio di Ruggero, portando nella bella provincia di Salerno le costumanze e la civiltà orientale. Il nome stesso sonoro di Cetara, sembra essere di origine orientale.

Il sole intanto si era fatto ardentissimo, sulle nude roccie dove camminavamo spediti; ed eravamo tuttora a buona distanza da Amalfi. L’aspetto della riviera si faceva sempre più bello. Sorgevano al nostro fianco monti altissimi, le cui cime si perdevano nelle nubi; la loro tinta oscura sotto [p. 210 modifica]la sferza del sole che rendeva sempre più azzurre le onde del mare, faceva un grande contrasto collo splendore di questo, e colla limpidezza del cielo. Sorgevano qua e là sul pendio dei monti rovine di antichi castelli dei tempi normanni, indicando le località dove in passato esistettero vilaggi. Stupenda poi è la posizione di Maiori, e di Minori, nei due punti più belli della riviera, e queste due piccole città, sono, al pari di Cetara, appoggiate al monte, e circondate di giardini amenissimi.

Le spiaggie di Minori e di Maiori sono quanto vi sia di più ridente in questo golfo, da Salerno ad Amalfi e Sorrento, ed a costo anche di essere tacciato di eresia, non esiterei a dichiarare che superano in bellezza la stessa spiaggia di Sorrento. Sono punti di una tranquillità magica, amenissimi, ristretti in breve spazio, freschi, ombreggiati, ridenti, e che si direbbero appartati da tutto il resto del mondo. Non ho mai visto luoghi più grazioni. S’incontra per il primo Maiori, fondato da Sicardo di Benevento nel secolo IX, quasi in riva al mare. Il monte a tergo dell’abitato, ridotto a foggia di terrazzi è coltivato a giardini ne’ quali sorgono casette pulite, bianche, le quali hanno aspetto di altrettante ville. Più in alto torreggia pittoricamente un antico castello. Le strade ed i sentieri solitari e tranquilli, si addentrano nei monti, dai quali scaturiscono acque limpide e fresche. Quella solitudine romantica ricrea l’animo e fa nascere il desiderio di vivere colà tranquillo, o quanto meno di passarvi una state; ed ivi l’abitante dei paesi settentrionali, comprende che cosa volesse significare la Figiakasta.

Trovammo colà, in riva al mare, una locanda graziosa. dipinta a colori vivaci, dove ci fornirono vino, ottimi fichi neri, ed aranci stupendi. Il sole splendeva al di fuori; quella tranquillità profonda, il frangersi delle onde sulla spiaggia, l’atmosfera pregna di profumi conciliavano il sonno.

Parimenti ci trovammo mezzo addormentati poco dopo in un caffè, del vicino abitato di Minori. Ivi le case sono [p. 211 modifica]piccole e basse quanto quelle di Pompei; le stanze vi sono così anguste, che a mala pena possono comprendere quattro persone. Alla tavola della locanda, il padrone di questa ci girava attorno con un ventaglio in mano, facendoci aria, cacciando le mosche, e narrando nel suo dialetto una quantità di storie, parlando sovratutto della fabbricazione dei maccheroni, industria generale della riviera di Amalfi, la quale ne provvede tutto il regno di Napoli.

Partimmo da Minori ancora nelle ore calde del pomeriggio, e girato che avemmo un promontorio, ci trovammo di fronte ad Atrani, il quale è separato da una rupe gigantesca da Amalfi. La posizione di Atrani è imponente. Sorge a foggia di piramide sulla riva del mare, che in quel punto è altissima, scendendo il monte a picco in quello. L’architettura delle case, fornite quasi tutte di logge, produce aspetto piacevolissimo, ed il bianco delle mura si stacca sul tondo nero della rupe. Si apre questa vicino al paese, dando adito ad una valletta verde, ed alla sommità di questa si presenta il paesello di Pontone. Le falde di quei monti sono rivestite tutte di pini marittimi, e sulle loro sommità, sorgono qua e là antiche torri e castelli. Si scorgono tutt’intorno villaggi, dove sarebbe faticoso il doversi arrampicare, i quali giacciono, anche i più alti, fra le vigne ed i castagneti. Oltre Pontone, trovansi, superiormente ad Atrani, Minuto, Scala e Ravello.

Quest’ultimo è particolarmente notevole per i ricordi dei Saraceni. Vi si sale da Atrani per una strada ripida, faticosa, ma romantica, attraversando gallerie coperte, e camminando fra vigneti, castagneti e boschi di carubbe. A misura che si sale, la vista del mare si fa più bella. Dalla cima di rupi nere, coronate da torri, si getta lo sguardo sull’azzurro delle onde che si direbbero sgorgare dalla gola di Pontone. Si hanno al disotto verdeggianti pendici, seminate di case, dove per buona sorte gli abitanti non hanno ora a temere più le scorrerie dei Saraceni.

Arrivammo al monastero abbandonato delle Clarisse, e trovammo ivi le prime traccie dell’architettura moresca. [p. 212 modifica]Salimmo quindi alla villa Cembrano, casa di campagna di un ricco signore napoletano, la quale sorge tra le rose ed i leandri, sur un altipiano, di dove lo sguardo scende in mare. Questa villa è propriamente bella; e sovra tutto fissò la mia attenzione il pergolato, il quale forma un rettangolo attorno al magnifico giardino. Desso è sostenuto da pilastri bianchi, sui quali corre un tetto di verdi tralci, da cui pendono i grappoli in abbondanza; nel giardino poi, tenuto con molta cura, crescono i più bei fiori, e tutte le piante meridionali, nella vegetazione rigogliosa del mese di luglio. Sul margine poi dell’altipiano sorge un belvedere, circondato di statue, per dir vero orribili, le quali però in distanza producono buon effetto. Si gode di là la vista dell’ampiezza del mare, delle coste delle Calabrie colle cime de’ suoi monti coperti di neve, della imponente punta di Conca, e del bel capo d’Orso presso Maggiori, tutti di forme belle e severe. La è vista propriamente che compenserebbe fatica maggiore di quella che costa per goderla, ed è meglio ammirarla e tacere, che provarsi a farne la descrizione. Nel contemplare da quegli orti di Armida, tra le rose e le ortensie quel mare magico, nel quale si riflette l’azzurra tinta di un cielo limpidissimo, nasce il desiderio di poter volare. Io credo che a Dedalo ed Icaro venne vaghezza di potere spaziare per aria, in una bella sera d’estate sedendo sur un promontorio dell’isola di Creta, e che allora decisero provvedersi delle ali.

Salimmo più alto al convento di S. Antonio, ed anche questo collocato in amenissima posizione, è di stile interamente moresco, con archi spezzati e colonnette graziose. Arrivammo quindi all’antico Ravello, e ci trovammo tutto ad un tratto in una città moresca, con torri e case di stile affatto arabo. Dessa è fabbricata di tufo nero, e giace solitaria, tranquilla, abbandonata, quasi morta, sopra una verde pendice del monte. Si direbbe essere segregata da tutto il resto del mondo, non si vedono che alberi e roccìe, ed in qualche punto, il mare in lontananza. Nei giardini si scorgono alte torri nere, case di stile moresco, con [p. 213 modifica]arabeschi in parte rovinati, finestre ad arco, con piccole colonne.

Sulla piazza del mercato, presso alla chiesa sorge un antico edificio di architettura araba, con ornati di gusto fantastico, con colonne meravigliosamente lavorate agli angoli. Il tetto riposa sopra una graziosissima cornice. Questo edificio è designato col nome di teatro moresco, e non havvi dubbio, che era palazzo degli antichi signori di Ravvello, imperocchè questa città ora deserta e derelitta, fu un tempio colonia fiorente di Amalfi, e contava ben trenta sei mille abitanti. Ricche famiglie vi avevano introdotto il lusso a cui davano origine le loro relazioni coll’Oriente, ed il continuo commercio con i Saraceni stabiliti in Sicilia. Contavasi fra le più illustri gli Afflitti, i Rogadei, i Castaldi, e sovratutto i Ruffoli. Tutte queste famiglie si erano fabbricati palazzi di stile moresco, con vasche, con getti d’acqua di pretto gusto arabo, e sui disegni e sotto la direzione di artisti arabi. È noto che Ravello si mantenne in relazione continua con i Saraceni, che molti di essi vi avevano presa stanza, e che gli Arabi vi tennero presidio sino ai tempi di Manfredo. Avvenne per tal guisa, che questa piccola città fu una delle prime che abbia accolta nell’Italia meridionale l’architettura araba, e sia oggidì tuttora una delle poche, le quali ne conservino gli avanzi.

Trovai in Ravello maggiori avanzi di architettura moresca che in Palermo stesso, dove i castelli di Cuba e della Zisa, sono per la massima parte distrutti. Ora il palazzo Ruffoli in Ravello è una vera miniera di architettura moresca di que’ tempi, e di queste contrade. Desso trovasi in un giardino, ed appartiene da tre anni ad un inglese Sir Nevil Reed, il quale lo ha fatto per il primo sgombrare dalle macerie. Desso è un piccolo Alhambra, uno stupendo edificio a tre piani, il quale conta più di trecento stanze, sostenute tutte da colonne moresche. Le sale sono ornate di rabeschi nel pretto stile arabo siculo, e devono un tempo essere state magnifiche. Sussistono tuttora nei giardini una rotonda di stile moresco, alcuni avanzi di mura, fra’ quali [p. 214 modifica]una torre quadrata di gusto bizzarro, rovine di porticati, di bagni, di archi, di cortili, i quali devono aver fatto parte di una specie di castello cinto di mura, e da questo è agevole farsi un’idea delle grandi ricchezze, che dovevano avere accumulato un tempo le famiglie distinte di Ravello.

Se non chè, in tutte le città impoverite del regno di Napoli, quelle reliquie di tempi migliori fanno prova della triste decadenza di quelle contrade. Due volte furono in fiore questo regioni, predilette dalla natura; la prima nell’antichità grega, come ne fanno fede le rovine di Pesto, la seconda durante le republiche del medio evo, allorquando Napoli, Gaeta, Amalfi, Sorrento, coprivano i mari delle loro flotte, ben molti anni prima che lo spirito republicano, avanzo degli ordinamenti politici greci e romani, risorgesse nell’Italia settentrionale, e desse origine alle republiche di Pisa, di Genova e di Venezia. Nella prima epoca furono i Romani quelli che spensero il fiore della civiltà nell’Italia meridionale; nella seconda epoca, cominciò a venir meno sotto la signoria dei Normanni, e quindi poco a poco si vennero quelle contrade riducendo alla misera condizione in cui si trovano attualmente. Manca tuttora una buona storia di quelle republiche dell’Italia meridionale dal secolo VII, ai tempi di re Ruggero di Sicilia, e gli archivi di Napoli potrebbero fornirne tutti gli elementi, ma dessi sono chiusi, ed impenetrabili, più della sfinge egiziaca.

Vidi intanto, mentre mi trovavo nei giardini del palazzo Ruffoli, un meraviglioso fenomeno di luce in mare. Il sole stava per tramontare, ed i monti di Pesto e di Salerno, cominciavano ad oscurarsi, assumendo una tinta dolce di verde cupo, mentre sopra Pesto stava un’ampia nuvola bianca, la quale non tardò a tingersi in rosso ardente. Si sarebbe detto divampasse in cielo un immenso incendio, la cui luce si proietasse in mare, sembrando fosse in fiamme tutto quanto il golfo di Salerno; poco a poco il mare assunse prima color d’oro, quindi verde [p. 215 modifica]pallido, violaceo, giallicio, finalmente grigio, finchè vennero le tenebre. Colpito da quegli scherzi indescrivibili di luce, non mi potei muovere finchè fu notte.

Potrei ancora narrare molte cose di Ravello, particolarmente dell’antico duomo edificato da Niccolò Ruffoli nel secolo XI, il quale possiede un pulpito raro in mosaico, ed antiche porte di bronzo, e dove si conserva in un ampolla il sangue di S. Pantaleo, che bolle al pari di quello di S. Gennaro; ma non conviene vedere troppe cose, nè sovratutto poi descriverle troppo a lungo.