Leila/Capitolo IV
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CAPITOLO QUARTO.
Forbici.
I.
A Lago di Velo la notizia della partenza del curato aveva addolorato il popolo. Ch’egli si fosse preso Carnesecca in casa, era spiaciuto, per dir vero, a parecchi; ma poi ch’egli ebbe spiegato il proprio atto dall’altare, riprovando le dottrine del venditore di Bibbie e ricordando il Vangelo, nessuno osò più di censurarlo. Si seppe a un punto che Carnesecca era partito e che il curato doveva partire.
Il Capo della contrada, come ivi è chiamato colui al quale i suoi compaesani volontariamente deferiscono per tutte le faccende di comune interesse, tenne consiglio con i padri di famiglia, parlò da uomo religioso e sensato. Niente tumulti, niente disordini, niente pressioni sul prete per farlo desistere. Il prete è prete e deve obbedire ai Superiori. Bisogna pregare i Superiori. Questi non erano i sentimenti di tutti, nel paese. Le donne parlavano già di non lasciar partire il curato a nessun patto, di ricorrere anche al Papa, se fosse necessario. Il Capo le persuase a chetarsi, ad attendere in pace l’e esito delle prime pratiche. Si recò dall’arciprete con una Commissione. L’arciprete diede un rabbuffo alla Commissione, trattò quella brava gente da zucche, da ignoranti, da prepotenti. Se ne ritornarono scornati e il fermento crebbe.
Don Aurelio, dopo avere cercato invano di dissuadere privatamente il suo gregge da qualunque pratica, ripetè la stessa esortazione, con parole insieme affettuose e severe, dall’altare. Andarono dall’arciprete, a nome del popolo di Lago, anche alcuni villeggianti, persone ragguardevoli, perchè s’interponesse presso la Curia. A loro l’eccellente don Tita diede parole buone, disse di non essere entrato per nulla nel provvedimento increscioso, lodò don Aurelio, promise di fare, di dire, di scrivere. Il gregge ascoltò don Aurelio rispettosamente, senza la menoma idea di obbedirgli, ascoltò le informazioni della seconda Commissione senza la menoma fede nelle promesse dell’arciprete. Il Capo tenne un’altra riunione, i riuniti decisero di presentarsi tutti insieme al Vescovo per ottenere, intanto, almeno una proroga. Appreso ciò, don Aurelio li pregò a voler prima udire una sua parola. Era un venerdì e mancavano ancora cinque giorni al termine dentro il quale egli avrebbe dovuto lasciare la curazia. I contadini intendevano recarsi a Vicenza, dal Vescovo, la domenica mattina. Accettarono di andare da don Aurelio l’indomani, sabato, a mezzogiorno. Verso la sera del venerdì don Aurelio discese al villino delle Rose. Poi, nel ritorno, entrò alla Montanina. Mancavano pochi minuti alle otto. Udito da Giovanni che i signori erano ancora a pranzo, non volle che fossero avvertiti, si trattenne nel salone a guardare la bibliotechina di fianco al camino. Non v’erano che libri di botanica e di giardinaggio, libri del signor Marcello. Don Aurelio sapeva ben poco delle letture di Lelia e avrebbe voluto saperne di più. A una sua domanda diretta, rivoltale negli ultimi giorni, la ragazza aveva risposto che leggeva di preferenza poeti stranieri. Don Aurelio, poco pratico di poesia straniera, non aveva osato spingersi più oltre colle domande. Gli era poi stato riferito da donna Fedele il frutto di scandagli suoi. Pareva che i poeti stranieri preferiti da Lelia fossero Shelley e Heine. Il primo era interamente sconosciuto a don Aurelio, il nome del secondo gli rendeva un suono di scetticismo funesto. E che nell’anima di Lelia vi fosse un fondo amaro di scetticismo lo sospettava da qualche dì per un discorso spiacente di lei, riferitogli, anche questo, da donna Fedele. Ell’aveva sostenuto contro donna Fedele la tesi che gli atti apparentemente più generosi degli uomini non hanno altro movente che l’egoismo; e qualche sua parola era parsa ferire indirettamente l’atto del signor Marcello che si era portata in casa una memoria viva del figliuolo morto.
Don Aurelio se n’era sdegnato e l’amica, più indulgente, aveva durato fatica a pacificarlo, rappresentandogli l’ambiente nel quale era cresciuta Lelia, le origini dolorose del suo scetticismo. Donna Fedele era meno inquieta di lui circa l’avvenire di Massimo, se questo matrimonio si facesse. Le stranezze della fanciulla non facevano a lei la stessa penosa impressione che a don Aurelio. Ella ricordava l’adolescenza propria, stata fantastica e appassionata la sua parte, comprendeva tante cose incomprensibili a lui. Credeva intravvedere tesori nel cuore di Lelia e provava una simpatia vivissima per quella sua intelligenza tutta penetrata e calda di sentimento.
Finito di esplorare inutilmente i libri della bibliotechina, don Aurelio vide la cameriera affacciarsi alla porta di fondo del salone, movere verso di lui, silenziosa, in punta di piedi. Le andò incontro. Teresina aveva un messaggio segreto per donna Fedele, che, sofferente più del solito dopo l’assalto alla canonica, non si lasciava vedere da due dì, mentre prima non passava quasi giorno senza una sua visita.
«Se la vede» sussurrò la cameriera, «le dica che si va peggio.»
Don Aurelio non capiva. Teresina si spiegò. Dopo il fatto delle finestre chiuse, ella si era incaricata di riferire a donna Fedele tutto della signorina che le paresse degno di nota.
«Adesso» diss’ella «ha potuto avere la chiave del Parco di Velo e da due sere, quando si fa notte, va nel Parco sola soletta, vi passa delle ore. Cosa faccia lì dentro non lo so. Mi costringe a dire bugie al padrone, a rispondergli, se domanda di lei, ch’è a letto col mal di capo. Egli domanda sempre, naturalmente. Io poi devo andare ad aspettarla al cancello del Parco alle undici. E per verità ho anche paura. Ma guai se parlo! Iersera è rientrata a mezzanotte. Domandi, La prego, a donna Fedele, cosa debbo fare! Lo domando anche a Lei, don Aurelio.»
«Prima di tutto L’avverto» rispose don Aurelio «che a donna Fedele non potrò dir niente.»
Teresina, stupefatta, ne chiese il perchè.
«Non importa» rispose ancora don Aurelio. «Lei ha fatto molto male a non parlare. Deve parlare assolutamente. E subito!»
L’uscio della sala da pranzo fu aperto. Comparve il signor Marcello in persona, vociferando proteste per le cerimonie dell’amico che non si era fatto annunciare. Lo prese a braccetto, lo condusse in sala da pranzo.
Lelia salutò appena; tanto che il signor Marcello la richiamò.
«Distratta!» diss’egli. «C’è don Aurelio.»
Da più giorni questi aveva creduto notare che il gelo abituale di lei a suo riguardo fosse ancora disceso di un grado. Ora ne fu convinto. Anche Massimo gli parve rannuvolato. Raccontò la sua visita al villino, descrisse le condizioni della salute di donna Fedele, tutt’altro che buone a giudicarne dall’aspetto e da qualche cenno fugace di lei. Lelia, riconquistata dal fascino e dalle dimostrazioni affettuose della Vayla, si fece attentissima. E don Aurelio parlava veramente in modo da imporre attenzione.
«Quella è una donna» diss’egli «che, se, non si cura come va e subito, si rovina. Voi siete amici suoi, avete il dovere di ottenerlo.»
Il signor Marcello, colpito dal tono di quelle parole più ancora che dalle parole stesse, domandò che si potesse fare, quale fosse veramente il male di cui la Vayla soffriva. Don Aurelio rispose che non lo sapeva ma che lo sospettava per la stessa renitenza della sofferente a prendere un consulto. E un consulto era necessario.
Seguì, nella sala, un silenzio dolente, attonito. Don Aurelio si alzò, dicendo che doveva rincasare. Massimo si alzò pure, per accompagnarlo fino a Sant’Ubaldo. Il curato si avvicinò a Lelia, le disse gravemente:
«Signorina, donna Fedele Le vuole molto bene. La raccomando particolarmente a Lei. Quella è una vita necessaria a molte persone.»
Il signor Marcello si era pure levato in piedi.
«Dunque, don Aurelio» diss’egli, «Lei ha questa riunione domani? Potrà portarvi qualche buona notizia?»
«Senta» rispose don Aurelio col suo bell’accento romano, colla sua voce calda: «io non so se il rimanere sia buono. Intanto Iddio mi dice che buono è l’obbedire.»
Seguì una lotta fra i due perchè il signor Marcello voleva baciar la mano che l’altro ritirò con terrore. Si abbracciarono. Don Aurelio sentì lagrime sul viso del vecchio, uscì mormorando: «poveretto, poveretto!»
Uscendo dal vestibolo disse a Massimo che, s’egli non si fosse offerto di accompagnarlo a Sant’Ubaldo, ne lo avrebbe richiesto. Il giovine non rispose Don Aurelio lo guardò; pareva che non avesse udito. Nessuno dei due parlò più fino al cancello. Imbruniva, altro suono non era nell’aria che il fioco della Riderella e il profondo del Posina. In quel silenzio, come di chiesa, le montagne grandi e i boschi e l’erbe dei prati parevano avere un senso sacro dei mondi ignoti che avanzavano da ogni parte nel cielo, tremandone già qualche fioco lume per le profondità serene. Fuori del cancello don Aurelio si fermò, posò la mano sulla spalla del suo compagno, ve la calcò forte, senza parlare. Aveva negli occhi qualchecosa di nuovo che Massimo non vide. Massimo non aveva sensi che per il suo proprio interno. Forse la poesia della sera gli acuiva una febbre; ma egli sentiva la sola febbre, non la poesia. Era penetrato di un’altra persona, in ogni fibra, e ogni fibra gli era dolore, gli era dolcezza, spasimo di confondersi con quella persona senza fine e per sempre. Dieci giorni di convivenza, momenti divini di contatto in uno sguardo, altre comunicazioni indirette, involontarie, fugaci, di anima e d’istinto, avevano operato questo; nè il gelo e le tenebre di cui si avvolgeva quasi continuamente l’altra persona lo avevano impedito. Oscure parole di donna Fedele, oscure parole dello stesso signor Marcello, parole di favore che gli entravano, ripensandole più e più addentro nella mente come gocce assidue nella neve, gli avevano attutito quel senso di rimorso che, sulle prime, gli si accompagnava ai moti dell’amore nascente. Gli pareva di essere avviluppato da una trama di complici e anche questo gli era inesplicabile. Credeva e discredeva cento volte al giorno, che il signor Marcello, con quel volerlo trattenere alla Montanina nel nome della persona che aveva tanto amato Lelia, con quelle confidenze sulla famiglia di lei, sui timori che lo agitavano pensando all’avvenire della fanciulla, con altre vaghe allusioni, avesse l’intenzione di significargli la speranza che egli volesse prendere il posto del povero Andrea. Ci si perdeva. Per lui non esisteva in quel momento che Lelia, radiante le onde oscure dell’amore, oscura ella stessa e cinta di oscurità, di tormentose dubbiezze. Quando la mano di don Aurelio si posò sulla sua spalla, gli pesava sul cuore che Lelia, durante il pranzo, non gli avesse rivolto nè uno sguardo nè una parola. Intese l’atto del suo amico come un ammonimento.
«Lei ha capito» diss’egli. «Mi tradisco tanto?»
La sorpresa silenziosa di don Aurelio gli rivelò che si era tradito in quel momento.
«Scusi» esclamò turbato, «perchè mi ha posto la mano sulla spalla?»
«Povero Massimo!» rispose sorridendo don Aurelio quando gli parve di aver capito veramente.
«Dunque stavolta è proprio una cosa seria?»
«Dio, Lei ride!» esclamò Alberti.
«Ma sì, ma sì, andiamo, discorreremo.»
Così dicendo, l’uomo cacciato con amara ingiustizia dalla sua casipola d’infimo pastore, prossimo al momento in cui non avrebbe saputo dove posare il capo, prese a braccetto e trasse con sè, per confortarlo, l’amico dimentico di ciò, preso tutto dall’egoismo dell’amore.
«È una cosa, vedi, che fa piacere a me e che farà piacere anche ad altri» gli disse entrando nella buia ombra dei grandi castagni. Massimo si arrestò di colpo.
«Anche al signor Marcello? Proprio? Proprio vero?»
L’ombra era tanto nera che don Aurelio non si fidò di rispondere. O nella strada stessa o, peggio, nel recinto della Montanina, qualcuno poteva, senza esser veduto, ascoltare. Solo dove la stradicciuola esce dai castagni e svolta, girando a sinistra, sul ciglio scoperto della conca di Lago, don Aurelio rivelò all’amico tremante il desiderio segreto del signor Marcello.
Massimo lo abbracciò di slancio.
«Cosa fai, cosa fai, cosa fai?» diss’egli svincolandosi a stento.
«Ma la signorina Lelia, la signorina Lelia?» chiese Massimo, palpitante. «Cosa pensa la signorina Lelia?»
«Oh questo poi» rispose don Aurelio, «io non lo so. Non me ne intendo, ma mi pare, scusa, che dovresti saperlo tu.»
Massimo si disperò.
«Ma non capisce che non lo so e non lo so e non lo so?»
Don Aurelio non sapeva, alla sua volta, cosa dire. Credeva che Massimo avesse ragione di sperar bene perchè questa era l’opinione di donna Fedele. Massimo ebbe una vampa di gioia. Non s’indugiò a domandare come e perchè don Aurelio e donna Fedele avessero parlato insieme di ciò, domandò per quali ragioni, per quali segni donna Fedele opinasse così. Ma! Avrebbe potuto dirlo solamente lei.
«Vado da lei!» esclamò il giovine. Don Aurelio si oppose, risoluto.
«No, caro. Adesso ho bisogno che tu venga con me.»
Massimo ne chiese il perchè. Don Aurelio gli rispose che gliel’avrebbe detto a casa. Fatti pochi passi, il giovine si fermò, pregò ancora, scongiurò di essere lasciato andare subito al villino delle Rose. Don Aurelio gli domandò alla sua volta, tristemente, se proprio per lui non esistesse più che la signorina Lelia. Le parole dolenti furono un tocco di fuoco al cuore di Massimo, lo fecero rientrare in sè. Afferrò a due mani un braccio dell’amico, non ebbe pace fino a che don Aurelio non lo baciò in segno di perdono.
Passarono in silenzio fra le casupole tenebrose di Lago. Fuori del villaggio, girando l’alto dorso erboso che porta la chiesa di Sant’Ubaldo, Massimo si aperse tutto all’amico, gli disse l’impressione avuta dalla fotografia della signorina Lelia mentre ancora viveva il povero Andrea, quella riportatane al primo incontro con essa, le vicende strane, tentanti, del contegno di lei, il fascino delle profondità ch’egli intravvedeva in quell’anima, i primordii della passione, il rimorso, l’attitudine inesplicabile del signor Marcello, il crescere dell’ebbrezza, il sogno fisso dei suoi giorni e delle sue notti: uscir del mondo, dimenticarlo, passar la vita con lei, in qualche solitudine di montagna, facendo il medico, servendo gli uomini, praticando la religione colla tacita libertà dell’anima, inespugnabile da qualsiasi dispotismo.
Don Aurelio ascoltò in silenzio. Giunto alla chiesa, ne aperse la porticina laterale, vi entrò a pregare. Massimo lo seguì ma non pregò. Pensò Lelia, malcontento di pensarla in chiesa e tuttavia cedendo al dolce pensiero. La mattina di quello stesso giorno, Lelia, dopo averlo trattato con indifferenza quasi sprezzante, si era improvvisamente seduta al piano, aveva suonato «Aveu» di Schumann. Ferma nel cuore un’acuta dolcezza, egli aveva seguito la deliziosa musica guardando in alto, attraverso la galleria cui salgono le scale del salone, una piccola obliqua punta di dolomia perduta nei vapori azzurrini del cielo, un aereo profilo di sogno. E adesso, nelle tenebre della chiesina, cercava rievocare quel momento inenarrabile, richiamare i tocchi delicati del capriccio musicale dolcissimo, la visione della punta di dolomia perduta nel vaporoso sereno, una punta di passione, lanciata su, fuori del mondo, cinta di abissi e di cielo.
La Lúzia, udendo venire il padrone, aveva preparato un lume nel salottino del piano terreno.
Don Aurelio prese il lume, salì con Massimo la scaletta di legno.
«Prima discorriamo di te» diss’egli, posato ch’ebbe il lume sulla scrivania dello studio. Indicò a Massimo una sedia in faccia alla sua, con certa solennità che sgomentò il giovine. E riprese:
«Devi rispondere a una mia domanda. Pensa bene prima di rispondere».
Scrutò in silenzio gli occhi attoniti, avidi, che lo interrogavano.
«La domanda è questa» diss’egli. «Sai che si sia parlato a Milano di una tua relazione con una signora maritata? Pensa.»
Massimo sorrise, rasserenato, della ingenuità di quel sant’uomo, vissuto fuori del mondo.
«Ma certo» rispose, «e non con una, ma con due, forse con tre. Lei non sa cosa è Milano. Ma Lei vi ha creduto? Ha dubitato? Non sa tutto, di me?»
Don Aurelio si affrettò a dichiarare che non aveva creduto. Pareva tuttavia perplesso. Allora Massimo intuì qualchecosa di funesto, esclamò atterrito:
«Ah capisco! È la signorina Lelia che lo crede!»
No, don Aurelio non sapeva che si fosse parlato di ciò alla Montanina. Se n’era parlato al villino. Neppure donna Fedele credeva; ma era necessario che Massimo la rassicurasse. A Massimo pareva opportuno che questo passo lo facesse don Aurelio.
«Io, caro?»
Don Aurelio pensò un poco e soggiunse sotto voce, gravemente: «Io parto questa notte.» Massimo diede un balzo sulla sedia. «Cosa? Parte? No! Dica!»
Il suo primo pensiero fu: mi abbandona in questo momento! Il secondo fu: perchè parte quando c’è ancora speranza che lo lascino qui? E perchè stanotte? Dove vuole andare? Proruppe in tali domande.
Don Aurelio lo fermò subito, si mise un dito alla bocca. La Lúzia poteva udire! Nessuno sapeva, nessuno doveva sapere. Non c’era speranza che i Superiori lo lasciassero a Lago, e c’era pericolo che il popolo di Lago lo volesse trattenere colla violenza. Il suo dovere preciso, assoluto, era di partire subito, segretamente. Sarebbe partito a piedi, nella notte, per prendere a Schio il treno delle cinque per Vicenza, presentarsi al Vescovo, purgarsi delle accuse che supponeva gli fossero state fatte e poi... affidarsi alle mani della Divina Provvidenza. Egli era persuaso che il Vescovo lo avrebbe aiutato a trovarsi un collocamento in qualche altra diocesi, dove fossero cappellanìe di montagna, ancora più segregate dal mondo che Sant’Ubaldo.
«In ogni modo» diss’egli «il Signore non mi abbandonerà.» E perchè Massimo ebbe uno scatto d’ira contro i suoi presunti persecutori, gl’impose silenzio con impeto. «Credono di far bene. Vedi tu i loro cuori? Vedi le loro coscienze? Bisogna pregare per essi. Prometti!»
Così dicendo, stese al giovine una mano che questi afferrò con ambedue le proprie, impresse delle sue labbra infuocate.
«Adesso aiutami» disse don Aurelio, alzandosi.
Fecero insieme la separazione dei libri da restituire a donna Fedele e al signor Marcello e di quelli di proprietà di don Aurelio, che Massimo gli avrebbe spediti là dove il destino fosse per portarlo. Con sè don Aurelio non poteva tenere che il Breviario, una piccola Bibbia tascabile e l’Imitazione. Nel prendere e mettere da parte i cari libri le mani gli tremavano, povero prete; ma non gli sfuggì una parola di lamento. Solo una volta, porgendo a Massimo una bella edizione delle Confessioni di Sant’Agostino, che gli ricordava molte ore di lettura e di meditazione religiosa nelle ombre segrete del Parco di Velo, presso il mormorar pio di acque correnti, gli mancò la forza di dire «questo al signor Marcello». Massimo, vistogli la faccia, indovinò, non prese il libro, prese e strinse la mano, dolorando. «Al signor Marcello, al signor Marcello!» esclamò subito don Aurelio con uno sforzo, come se la smarrita memoria, e non l’emozione, gli avesse trattenuta la voce. Non ebbe più un solo momento di debolezza, anzi rimproverò Massimo che, a mezzo il lavoro, non potendone più, si era rifiutato, un momento, di continuare, voleva tentare ancora di smuoverlo dal suo proposito. Appena ebbero finito, la Lúzia entrò col pretesto di vedere se le imposte fossero chiuse. Don Aurelio le ordinò di andare a letto.
«Grazie, signor» disse, uscendo, la vecchia, che appunto desiderava quest’ordine.
Don Aurelio stette pensoso. Gli conveniva rimunerare in qualche modo la Lúzia, oltre al salario mensile, già messo da parte. Donna Fedele gli aveva regalato una bella sveglia, troppo elegante per lui.
«Bella, vero?» diss’egli a Massimo, facendogliela vedere. «Fammi il piacere di venderla per conto della Lúzia.»
Ah, Massimo non aveva pensato che il povero prete non aveva forse tanto in tasca da vivere fuori per due giorni! Offerse le cinquanta lire che teneva nel portafogli. Don Aurelio ne possedeva tre e ne accettò, con semplicità francescana, dodici per il viaggio a Vicenza e, occorrendo da Vicenza a Milano, dove, nella peggiore ipotesi, avrebbe chiesta l’ospitalità, offertagli più volte, di un suo amico prete. Non ci fu verso di fargli accettare di più.
«Queste dodici te le avrei domandate» diss’egli. Poi, arrossendo molto, mostrò a Massimo il cassettone dove teneva le biancherie, documento segreto della sua povertà. Avrebbe scritto da Vicenza indicando il luogo dove spedirgli quelle poche robe e le fotografie di Subiaco. Quanto ai libri, pensò che il miglior partito fosse incassarli e affidarne a donna Fedele la custodia. Erano da incassare anche i pochi mobili. Gli tornò in mente che la Lúzia gli aveva detto una volta: «S’el va via, don Aurelio, el me lassarà el leto, vero?». Ecco, valeva meglio lasciarle il letto e non vendere la sveglia. Povera Lúzia, dopo quel primo discorso, insinuava dolcemente, a ogni occasione, che il suo letto era un strazzon, «un covile da bruciare».
«Ma, caro amico» esclamò Alberti per una ispirazione subitanea, «come posso restare io se Lei parte?»
Il natìo fuoco generoso dell’anima sua diede, attraverso e sopra gli egoismi dell’amore, una improvvisa vampa:
«Ah, don Aurelio, perchè non l’ho pensato subito? Parto con Lei! L’accompagno!»
Don Aurelio aperse le braccia, se lo strinse al petto.
«Mi perdona» disse piano il giovine «di non averlo pensato subito?»
Don Aurelio lo strinse più forte e non rispose. Alfine lo scostò da sè dolcemente, lo baciò in fronte.
«Non ti voglio, sai» diss’egli.
«Non mi vuole? Perchè non mi vuole? Vengo anche se non mi vuole!»
Il lumicino a petrolio accennava a venir meno, Don Aurelio lo spense.
«Ci deve servire più tardi» diss’egli «e io non so nè se vi sia dell’altro petrolio in casa, nè, se c’è, dove sia. Sediamo.»
Oscuri volumi di nubi senza luna macchiavano appena, nell’apertura di una finestra, le tenebre. Don Aurelio, invisibile al suo interlocutore, prese a parlargli sotto voce, colla gravità di un padre.
«Sono io, caro, che resto con te. Non te l’ho detto ma ho tanto pregato Iddio che ti donasse quello che ora ti sta donando, un amore forte, grande, pieno e santo. Tu non sei fatto per il celibato, tu sei fatto per una unione idealmente umana, idealmente cristiana, idealmente bella. Tu sei fatto per avere una progenie forte e pura. La tradizione delle grandi famiglie devote eroicamente al Re è spenta. Bisogna fondare famiglie devote eroicamente a Dio, dove la devozione a Dio si perpetui come un titolo di nobiltà, come il sentimento giusto, tradizionale della nobiltà. Tu ne devi fondare una. È il mio sogno. Era il sogno...»
La voce di don Aurelio discese a sussurrare un nome, tacque.
«Davvero?» fece Massimo.
«Sì, era il sogno, per te, del povero Benedetto.»
Il fantasma di un caro viso macilento, dagli occhi grandi, parlanti, balenò a Massimo nell’ombra della camera. Benedetto aveva pensato a una felicità di amore per lui! Il caro viso gli balenò ancora, supino, senza vita, cereo. Un moto di lagrime gli gonfiò il petto, ridiscese compresso.
«Non puoi allontanarti» proseguì don Aurelio. «Domattina per tempo devi vedere donna Fedele, assicurarla di quello che sai. Non dubita di te, ma siccome le è affidato un incarico, desidera questa parola tua. Poi, domani stesso, parlerà alla signorina Lelia, la interrogherà a nome del signor Marcello che ne l’ha fatta pregare da me. Domani sera saprai. Donna Fedele si tiene sicura di una risposta buona. Allora parlerai tu, direttamente.»
Il tavolo sul quale Massimo puntava i gomiti, tenendosi le tempie fra le mani, vibrò come un corpo vivo.
«Se tutto sarà andato bene» riprese don Aurelio, «mi manderai un telegramma a Vicenza, fermo in ufficio. - Tu temi?» continuò, perchè il tavolo vibrava vibrava. «Donna Fedele dice ch’è un’anima chiusa, difficile a penetrare, ma non la crede legata a una memoria, crede che senta bisogno di amore, di avvenire. La crede un tesoro di energie morali, un poco infetto di fermenti amari, di esperienze tristi della vita; ecco, questo sì. Crede che certe singolarità spariranno, quando queste energie siano ben ordinate, ben dirette da qualcuno in cui ell’abbia fede.»
Massimo tacque. La credeva egli pure un paradiso chiuso, oscurato dall’ombra, troppo fosca, di un albero della scienza del bene e del male, troppo grande. Richiesto da don Aurelio se proprio non avesse indizi un po’ chiari dell’intimo sentimento di lei a suo riguardo, rispose sospirando:
«Direi che qualche cosa di me l’attragga e qualche cosa la respinga.»
«Cosa la respinge?»
«Benedetto.»
Don Aurelio ne stupì. Che sapeva mai questa ragazza di Benedetto? Massimo si spiegò. Don Aurelio ricordava bene la conversazione del primo giorno, a tavola, le parole della signorina Lelia su Benedetto, che l’avevano offeso? Ella gliene aveva riparlato poco dopo, sempre con un tono ostile. Lo credeva un eretico. Pareva disposta, lì per lì, ad ascoltare le difese ch’egli ne avrebbe fatte, ma poi vi si era sempre sottratta, con intenzione, evidentemente.
«Sì, va bene, va bene» fece don Aurelio «ma poi!»
Non gli riusciva proprio di credere che quella ragazza ci tenesse tanto a questioni di religione da guastarsi la vita per esse. Sentì subito che questo scetticismo, colorito apparentemente di mediocre stima, era dispiaciuto a Massimo. Cercò nell’ombra le mani dell’amico, le strinse, non parlò più di Lelia.
«Dobbiamo appunto parlare di Benedetto» diss’egli. «Oggi mi ha scritto Elia Viterbo. Avrebbe scritto a te ma nessuno, a Roma, sa dove tu sia. Suppongono che ne sia informato io. È corsa persino la voce, a Roma, che tu fossi rifugiato a Praglia, guarda.»
Don Aurelio non potè a meno di commentare con un sobbalzo di riso:
«Grazie, che Praglia!» E continuò. «M’incarica di farti sapere che, per le povere ossa di Benedetto, i tuoi amici hanno deliberato di accettare la tua proposta e ti pregano di farti vivo. Perchè, a quanto pare, confidano in te, che sei vicino a Oria, per aiutare a porla in atto.»
Alcuni discepoli di Benedetto avevano divisato, mesi prima, di erigergli un modesto ricordo in Campo Verano, aprendo una sottoscrizione. Ad altri discepoli la proposta era parsa inopportuna per lo scarso risultato che si ripromettevano dalla sottoscrizione, perchè era tale da spiacere allo spirito del Maestro. N’era venuto un aspro dissidio. Massimo, avverso alla proposta, aveva cercato una via di pace, giovandosi di un certo discorso tenutogli da Benedetto una volta che avevano visitato insieme Campo Verano. Gli aveva detto: «Finirò qui e mi piacerebbe invece esser portato nel Camposanto di Oria; ma è una vanità.» Propose di rinunciare al ricordo e di soddisfare quel desiderio toccante. Un picciol posto, lontano dalle contese del mondo, nel campo dove dormivano i genitori di Piero Maironi, dove aveva desiderato di riposare anche la sua povera moglie: ecco il migliore dei monumenti. Ora dunque era deciso. Si farebbe così.
«Ci sarà anche Lei, quel giorno, a Oria?» domandò Massimo.
Don Aurelio non poteva prometterlo. Non sapeva da qual paese avrebbe dovuto venirvi. A ogni modo non ci sarebbe venuto che se si fosse dato al trasporto un carattere lontano da qualsiasi manifestazione religiosa sconveniente per un sacerdote. Ciò detto, si alzò, riaccese il lume.
«È tardi» diss’egli. «Tu devi ritornare alla Montanina.» Aperse un cassetto della scrivania, ne tolse due lettere, pregò Massimo di farle pervenire l’indomani mattina, dopo averle lette, al loro indirizzo. Una era per l’arciprete, l’altra per il Capo di contrada. Il lume moribondo diede un guizzo e si spense.
«Oh!» esclamò don Aurelio. «E io che pensavo adesso di scrivere due righe!»
Massimo accese un fiammifero:
«Faccia» diss’egli.
Don Aurelio prese un foglietto, vi scrisse alcune parole mentre Massimo accendeva un fiammifero dopo l’altro, gli porse il foglietto dicendo: «Per la signorina Lelia, quando ti avrà detto di sì».
Massimo lesse, tremando per l’emozione:
«Permetta che un povero prete benedica il Suo amore nel nome dell’Amore infinito, al quale attinga vita perpetua.
«Don Aurelio.»
In quel momento fu bussato forte all’uscio di strada. Don Aurelio si strappò da Massimo che gli aveva gittato le braccia intorno alla persona, corse alla finestra. Era Giovanni, della Montanina. Il signor Marcello lo aveva mandato a vedere se fosse accaduto qualche cosa al signor Alberti.
«No no, viene subito!» rispose don Aurelio. Lasciata la finestra, si sentì abbracciare le ginocchia da Massimo, cadutogli ai piedi.
«Va va» diss’egli. «Dio ti benedica!» Non si sarebbero divisi senza uno strappo violento. Massimo scattò in piedi, precipitò fuori dell’uscio e giù per le scale, sparì di corsa nella notte. Don Aurelio si ritirò nella sua camera da letto e, inginocchiato davanti al Crocifisso, pregò con affannoso impeto, quasi lottando contro un intimo nemico, per i due preti di Velo, per tutti quei Superiori che lo volevano avvilito, ramingo, affamato:
«Padre Padre, credono di servir Te, credono di servir Te, perdona, perdona!»
Il signor Marcello, veramente inquieto, andava immaginando possibili cause del ritardo di Massimo che, alle dieci, non era ancora di ritorno, pur sapendo come alla Montanina le dieci fossero l’ora del coprifuoco. S’irritò un poco anche contro Lelia che non ammetteva fosse avvenuto niente.
«È sempre nelle nuvole» diss’ella. «Sarà andato al villino delle Rose, credendo di venir qua.»
Pareva che la simpatia di donna Fedele per Massimo le desse noia. Il signor Marcello se n’era accorto e l’accenno al villino delle Rose gli dispiacque. Le domandò se facesse colpa a Massimo di andar volentieri al villino. Ella protestò vivacemente. Tutt’altro! Non disse di più ma faceva invece colpa a donna Fedele di proteggere tanto Massimo, benchè non avrebbe saputo spiegarne il perchè. Ebbe paura di nuove domande e si ritirò.
Salì nella sua camera col proposito di non rinunciare, benchè fosse tardi, alla passeggiata notturna nel Parco, di aspettarvi anzi l’aurora della luna. La luna doveva nascere, quella sera, a mezzanotte. Ritornato Alberti, il signor Marcello andrebbe a coricarsi ed ella potrebbe scendere. Non accese la luce, si buttò in una poltrona in faccia alla grande trifora che guarda il nero alto culmine del bosco e, sopra quello, le scogliere dentate del Summano. Ripensò le parole del signor Marcello: gli faceva una colpa? Dunque sarebbe dispiaciuto al signor Marcello ch’ella glielo toccasse appena, il suo Alberti, con una punta di censura! Non era la prima volta, dopo il sermone di quel giorno, che il signor Marcello prendeva, contro di lei, le difese di Alberti a proposito d’inezie. E lo tratteneva alla Montanina con tante istanze! Possibile, povero vecchio, ch’egli lo credesse tanto devoto alla memoria di suo figlio da non essere neppur tentato di un tradimento?
A questo punto del suo lavoro mentale, le balenò l’idea di una commedia che si rappresentasse intorno a lei. Se si fosse tutto combinato, l’invito di don Aurelio ad Alberti e l’ospitalità della Montanina! Se anche il voltafaccia di donna Fedele, le sue visite quotidiane avessero lo stesso segreto fine? Se il signor Marcello fosse stato lavorato dal prete di Sant’Ubaldo e dalla signora del villino? Se lo avessero persuaso a rassegnarsi, chi sa con quali argomenti? In un lampo tutto le parve chiarissimo. Il signor Alberti, invitato da persone che avevano disposto di lei, era venuto a conoscere e conquistare la erede del signor Marcello Trento. Strinse con ira i bracciuoli della poltrona, si morse il labbro per non piangere. Non pianse ma il compresso flutto del pianto le urtava e riurtava il petto ansante. Che rabbia se avesse a piangere! Disprezzo, disprezzo, disprezzo!
Accese la luce e suonò per Teresina che l’avvertisse del ritorno di Massimo. Non s’era veduto. Teresina apprese con terrore che la signorina si era messa in testa di scendere nel Parco anche quella sera. Supplicò, scongiurò, minacciò di parlare, si prese un rabbuffo terribile, finì con accontentarsi della speranza che quella sarebbe stata l’ultima volta. Ella doveva recarsi, l’indomani mattina, a Schio. Lelia levò dal cassetto della scrivania una lettera chiusa, che vi stava presso l’altra spiegazzata dalle sue mani la sera dell’arrivo di Massimo.
«Il solito» diss’ella, consegnandola alla cameriera. Era denaro che Lelia mandava a suo padre. Faceva queste spedizioni per mezzo di Teresina, da Schio, temendo che, per indiscrezioni degli ufficiali postali di Velo d’Astico o di Arsiero, il signor Marcello venisse a sapere. Teresina godeva delle confidenze che le permettevano di salire un poco dalla devozione verso l’amicizia. La confidenza di quella sera le servì per avviare piano piano un rivoletto di chiacchiere simile ai rivoletti naturali che piegano e girano fra gl’inciampi e trovano sempre un varco a quell’acqua grossa cui mirano. Incominciò, molto timidamente, a dire del guardaroba assai manchevole della signorina che spendeva troppo poco per il vestire. Anche il padrone se ne accorgeva e rimproverava lei. Ma che ci poteva far lei? Dirlo alla signorina. Ecco, lo aveva detto. Non lusso, no; il lusso sarebbe stato fuori di posto, alla Montanina; ma un po’ di eleganza! Il padrone consigliava di rivolgersi a donna Fedele per la scelta di una buona sarta. Donna Fedele si serviva a Torino, sì, ma, secondo Teresina, da una sartuzza di quart’ordine. Lelia, che si serviva a Vicenza, le domandò se avesse a raccomandare una sarta di Schio. Teresina protestò, piccata. Non c’era Milano? Sì, Milano! E quale preferiva, la dotta Teresina, fra le grandi sarte di Milano? Qui il rivoletto non trovò uscita da nessuna parte e fece uno stagno. Teresina tacque. Salito alquanto lo stagno, il rivoletto ne rise a un orlo.
«Io no, signorina, non le conosco» ardì finalmente dire la cameriera «ma ci sarà bene chi le conosce.»
«Chi?»
Adesso bisognò che il rivoletto traboccasse.
«Suppongo che il signor Alberti avrà delle signore, nella sua famiglia.»
Cascata.
«Lascia un poco stare il signor Alberti!» esclamò Lelia.
Non per confidenze di donna Fedele, ma per un sottinteso indistinto ch’ella sentiva nei discorsi di lei circa la signorina, per certe novità nel fare e nel dire del signor Marcello, l’astuta cameriera aveva fiutato nell’ambiente un oscuro favore al sentimento colto ben presto da lei negli occhi di Massimo. Della signorina non sapeva che pensare. Quando le pareva una cosa, quando un’altra; e ora aveva gittato lo scandaglio. Trovato duro, ritentò la prova.
«Io, signorina,» diss’ella, «che lo lasci stare? Vedo che il signor padrone ci ha posto proprio il cuore in quel giovine! Una cosa grande, sa.»
Lelia troncò bruscamente, la mandò a vedere se Massimo fosse arrivato. Ecco, n’era certa, Teresina non avrebbe parlato così se non gliel’avessero detto. Era nella congiura anche lei. Ah no, signori! No, signor cacciatore di doti, no no no! Afferrò sul tavolo una vecchia fotografia del signor Marcello, la stracciò d’un colpo. Certo egli pure aveva fatto un mercato, come il signor Alberti, aveva venduto un’anima, tradita una religione di memorie perchè la sua Montanina e i suoi quattrini non andassero in mano dei genitori di lei o chi sa in quali altre mani simili. No, signor Marcello, no, signori, ah no! E Teresina non ritornava. Possibile che Alberti fosse già rincasato e che la perfida non venisse a riferirlo per impedire la passeggiata nel Parco?
Uscì nel corridoio, irritata. Erano quasi le undici e mezzo! Tese l’orecchio. Ecco il passo di Teresina nel corridoio di sotto.
«Dunque?» fremè Lelia, dall’alto.
«Adesso, signorina» risponde l’altra, mogia. «In questo momento.»
Un quarto d’ora dopo, quando potè credere che il signor Marcello e Alberti si fossero ritirati nelle loro camere, Lelia uscì della villa e del giardino, si avviò al cancello di legno che mette nel Parco dalla via pubblica, poco sotto la chiesina di Santa Maria ad Montes. Ferma la mente in un giudizio fiero dell’uomo venuto da Milano col suo bel progetto di matrimonio ricco in tasca, pensò che se suo padre e sua madre non fossero stati gente disonesta, si sarebbe rifugiata presso l’uno o presso l’altra. Ma non poteva andar a convivere colla ganza del primo nè farsi mantenere dalla seconda coi denari del vecchio austriaco. E le soccorse un altro pensiero, un vecchio pensiero, salitole nel cuore a quattordici anni, blandito, accarezzato come un amico dolcissimo, perdutosi nel fondo dell’anima durante l’amore di Andrea, risalitone quindi e ridiscesovi più volte: uscire dal mondo. Il sinistro pensiero non aveva preso mai la intensità di un proposito. Anche la sera in cui Lelia chiuse le finestre della sua camera piena di gigli e di tuberose, non credette che ne sarebbe morta. Le era piaciuto di affrontare alla spensierata un pericolo, una possibilità. Infatti, svegliatasi con un gran peso in tutte le membra, colla fronte stretta in un cerchio di ferro col naso, la bocca, la gola satura del profumo acre, che le parve sentire persino negli orecchi, si era slanciata ad aprire la finestra. Neppure adesso, movendo verso il Parco che nelle sue grandi ombre chiude un laghetto profondo, in parte, oltre a due metri, alcun triste proposito era in lei. Le bastava la certezza di avere un rifugio pronto, le bastava dirsi in cuore: quando voglio, posso. Però, nell’aprire e spingere il cancelletto, le tremò un poco la mano. S’inoltrò nella radura dove, fra giganti guardie di alberi, si apre l’ingresso al regno del Silenzio. Scendendo sulla ghiaia del giardino e della via pubblica, aveva tremato che il suo passo, pur tanto leggero, si udisse. Ora ogni suono n’era spento. Ell’andava sull’erba falciata di fresco, silenziosamente, come uno spirito. Ogni senso di sgomento l’abbandonò. Perdersi fra quelle tacite ombre, per le molli erbe senza via, sotto il cielo buio, le fu come un uscir del mondo in seno a tenebre materne. Seguì sussurri di rivi per grembi ascosi, per grembi scoperti del monte, affondò spesso il piede nell’erba pregna di acque segrete. L’aria era immobile, fresca e odorata di umidore nelle cavità ombrose, calda sui pendii scoperti e viva di fragranze selvagge, di amorose voci mute dell’erbe. Si gittò supina sopra uno di questi pendii, come vinta dalla tepida dolcezza. Materna materna era la notte alle cose! Le dolci loro anime vi si effondevano libere e Lelia stessa era una piccola creatura della notte, una sorella delle cose amorose. Giacque nella dolcezza di desideri indistinti, senza pensare, come talvolta nel suo letto, piovendole sui capelli e sul guanciale petali di fiori. Lo spirito voluttuoso che le ascendeva nella persona dalla terra tepida, fragrante, tacendole il cielo chiuso sulla faccia supina, le ammolliva le resistenze dell’orgoglio all’amore. Ella svelse un pugno d’erba e lo morse.
Si alzò allora, riluttante a rimanere, riluttante a lasciare il giaciglio profumato. Salì, poco più su, nel tubo nero di una lunga carpinata. Alla sua destra un piccolo chiarore fioco segnava la bocca lontana del tubo. Alla sinistra le tenebre non avevano fine e suonavano di acqua cadente. Prese a sinistra. Sapeva di certo sentiero uscente dal viale a un folto di acacie dove corre il rivoletto che poi salta e suona. Lo trovò, si fermò fra le acacie, sul margine del rivoletto che udiva senza vederlo. All’invito della voce blanda cominciò, come per istinto, a spogliarsi. Accortasi di quel che faceva, sostò. Saggiò l’acqua colla mano. Era fredda. Meglio; le farebbe bene, così fredda. E continuò a spogliarsi, senza nemmanco vedere dove posasse le sue robe, fino all’ultimo vestimento, che non lasciò. Pose il piede nella corrente, rabbrividì. Ne tentò il fondo: ghiaia e due palmi d’acqua. Vi pose anche l’altro piede e, stretta il cuore dal gelo, chiusi gli occhi, semiaperte le labbra, calò piano piano, con piccoli gemiti, si adagiò, si distese. L’acqua le corse via intorno alla persona, tutta carezze gelide, le fluì tutta piccole voci soavi intorno al collo e sul petto ansante. Le si faceva meno e meno gelida. Altre voci soavi sussurrarono per l’aria. Lelia aperse gli occhi, si drizzò a sedere stupefatta. Vide se stessa bianca, vide un chiaror diffuso su l’acqua tremula, i margini, le sue vesti, nella selva che moveva le vette argentee, mormorando, al vento. Era l’aurora della luna, era un misterioso destarsi delle cose nel cuore della notte. Dalle acacie piovevano fiori sul ruscello, sui margini. La fanciulla si compresse il petto colle braccia incrociate, gemendo, nel crescente chiarore lunare, nella fragranza del bosco, nella pioggia fiorita, di uno spasimo dolce, senza nome, che le gonfiò il petto di lagrime. Lagrime e lagrime le caddero silenziose nell’acqua tremula, lagrime ardenti dell’anima rapita nel divino incanto. Risalì sul margine del ruscello, si vestì alla meglio e, battendole a furia il cuore, discese in fuga la via percorsa nel salire, non diede uno sguardo alla luna splendente, fra nuvola e nuvola, sul ciglio del Monte Paù, uscì del cancello di legno col senso di un naufrago che si salva. Teresina, che l’aspettava nel portichetto dell’ingresso al giardino rabbrividendo di mille paure, l’accolse col medesimo senso di conforto.
«Ha preso paura anche Lei, però, signorina» diss’ella, vedendole dare un tremito e non sapendo della camicia inzuppata che aveva addosso.
«No no» rispose Lelia «ma non ci ritorno più.»
II.
Alle sette e mezzo della mattina seguente Massimo era già al villino delle Rose. Sapeva che donna Fedele si alzava sempre alle sei. Quella mattina la trovò a letto. La cameriera gli disse sospirando che la sua signora doveva essere molto sofferente se mancava così alle sue abitudini mattiniere. Tollerantissima del dolore fisico, donna Fedele non parlava quasi mai delle proprie sofferenze, tali da impensierire chi avesse guardata la morte con minore indifferenza; ma qualche volta non era in grado di condurre la vita solita, mirabilmente attiva, tutta presa dalla cura della sua casa e delle sue rose, da visite a malati e a poveri, dalla corrispondenza, da letture e persino da lezioni. Esercitava nel comporre e nell’aritmetica una ragazza dei suoi portinai, insegnava il francese a un’altra fanciullina, figlia del medico di Arsiero, non sapeva rifiutare a nessuno, così malata, la carità dell’opera propria.
Ella udì Massimo discorrere in giardino colla cameriera, suonò per questa, gli fece dire di aspettare, se aveva pazienza, un quarto d’ora. Massimo sentì benissimo la malizia di quella frase: se aveva pazienza. Ella discese infatti nel salotto sorridendo di un sorriso nel quale continuava la dolce malizia. Era pallida, aveva cerchiati di nero i grandi occhi, e tuttavia pareva gaia, niente in lei dava segno di sofferenze. Massimo cominciò a scusarsi di essere venuto a quell’ora. Ella lo interruppe subito con un «lasci lasci!». Il sorriso disparve dal suo volto.
«Dunque è partito?» soggiunse. Massimo rispose che lo credeva.
«Ah, Lei non era con lui quando è partito?»
«Non mi è stato possibile.»
Donna Fedele tacque. Il suo silenzio, il suo viso parvero dire: doveva esserle possibile!
«Volevo partire con lui» diss’egli. «Si è opposto. Stamattina sono qui per volontà sua.»
«Questo lo capisco» disse donna Fedele, un po’ fredda. Avrebbe desiderato che Massimo restasse a ogni modo con don Aurelio fino all’ultimo. Ma, non conoscendo le circostanze, non giudicò. Chiese di quel che avesse detto, di quel che avesse fatto il fuggitivo nelle ultime ore. Durante il racconto di Massimo, andava ripetendo: povero don Aurelio! Povero don Aurelio! Massimo raccontò quello che poteva raccontare.
«Adesso saranno contenti» diss’ella amaramente, alzandosi. Si assicurò che gli usci del salotto fossero chiusi e ritornò a Massimo, dicendo: «Non mi fido di nessuno, siamo nel regno dello spionaggio, a onore e gloria della onestà e della carità cristiana». Ed entrò subito nell’argomento delicato, scusandosi di entrarvi. Più diplomatica di don Aurelio, cominciò con domandare al giovine se si fosse ingannata attribuendogli una inclinazione seria per la signorina Lelia; e, avuta la risposta, soggiunse che per l’amicizia corsa fra lei e sua madre, posto quanto le aveva detto di lui don Aurelio, gli offriva volentieri il proprio aiuto.
«Credo» diss’ella «che col signor Marcello appena ve ne sia bisogno. Il signor Marcello comprende che non può e non deve esigere dalla ragazza il sacrificio della sua vita intera. E per Lei, poi, ha un grande affetto. Ma la ragazza stessa? Io credo che abbia un sentimento per Lei e che lotti contro sè stessa, forse per esser fedele a una memoria, forse per non offendere il signor Marcello, forse...»
Donna Fedele abbassò la voce e sorrise, continuando: «....per qualche fantasia. Perchè è un po’ strana, sa, la Sua Lelia»
Sorrise anche Massimo.
«Le pare?» diss’egli.
«Oh sì sì!» esclamò donna Fedele, ridendo addirittura. «Lei già se n’è innamorato anche per questo! Anch’io, guardi. Perchè ne sono innamorata anch’io, essendo un poco della stessa famiglia, a quello che tanti dicono. I preti di Velo, per esempio; e anche un orefice qui di Arsiero, al quale il mio custode portò iersera a mostrare un pezzo da venti lire ch’egli temeva falso e ch’era solamente fesso. Sa cosa gli ha detto? - El xe come la to parona, ciò. El xe bon e el sona da mato. - Mi credono senza testa, sopra tutto perchè mi vedono sempre andare attorno senza cappello, ma poi anche perchè tengo un pluviometro e perchè la notte non chiudo le mie finestre. Anche Carnesecca, che se n’è andato finalmente dal covo, mi ha detto di confortarmi se il mondo mi chiama pazza, perchè lo chiama pazzo anche lui. E adesso mi chiamerà pazza anche Lei, caro Alberti, se Le farò certa domanda molto ardita?»
«Riderò» rispose il giovine «e i miei conoscenti mondani di Milano riderebbero anche più di me!»
Donna Fedele lo guardò un poco, affettuosa, parlandogli cogli occhi.
«Allora» diss’ella «oggi vedrò Lelia, cercherò di capire qualche cosa. Va bene?»
Massimo si profuse in ringraziamenti. Poi certa sua irrequietudine le significò ch’egli sperava di vederla partire subito per la Montanina.
«Ho ordinato la carrozza per le nove» diss’ella, sorridendo. «Non Le basta? E vede che fiducia nella Sua risposta di poco fa! Che fiducia in Lei, per dir meglio!»
Massimo le prese e baciò le mani. Ella, ridente, lasciò fare. Poi si alzò. Aspettava una scolaretta. Massimo poteva ritornare, per saper qualchecosa, verso le due. Troppo tardi? Allora poteva venire a colazione. S’incaricava lei di avvertire, alla Montanina, che lo aveva invitato. Intanto egli poteva restare, andare, fare come gli piacesse. Se voleva leggere, c’era la piccola biblioteca del villino. Se non voleva restare, aveva quattr’ore per una passeggiata.
«Faccia una bella passeggiata lunga, di quelle che rinfrescano l’anima.»
Detto così colla sua dolcezza lievemente canzonatoria, donna Fedele stese la mano al suo giovine amico. Questi la pregò di ascoltarlo ancora un momento. Credeva ella che la voce di una sua relazione a Milano fosse giunta all’orecchio della signorina? Donna Fedele non sapeva che le fosse giunta. Ma chi l’aveva sparsa? Donna Fedele tacque, con uno sforzo virtuoso, dei preti di Velo, accennò alla madre di Lelia senza spiegarsi di più, nè Massimo osò domandare di più. Solo, prima di congedarsi, desiderò che donna Fedele sapesse dell’antipatia di Lelia per il suo Maestro. Ella non gli lasciò finire il discorso. Che importava mai ciò? Ignara di modernismo e di antimodernismo, contenta di credere e vivere secondo la tradizione antica della sua pia famiglia, donna Fedele vedeva Massimo praticare, Lelia praticare, non intendeva un dissidio religioso fra l’uno e l’altra. Per verità, certe parole di Lelia le avevano data l’idea di una religiosità inserta in lei meccanicamente e nutrita di abitudine assai più che di Vangelo. Appunto per questo le sarebbe piaciuto ch’ella sposasse un uomo ricco di sentimento religioso come Alberti.
«Che importa ciò?» diss’ella. «L’amore accomoderà queste cose molto facilmente. Del resto, anche da me, che pure Le voglio bene, Ella non pretenderà mica del fanatismo per il Suo Maestro. Mi pare che un Maestro lo abbiamo già da mille e novecent’anni e che quello basti.»
Massimo avrebbe voluto replicare ma donna Fedele lo licenziò con un «vada vada» accompagnato del suo solito sorriso ironico e dolce.
Massimo prese la via dell’alta Val d’Astico, che più lo allontanava dalla Montanina. Oltrepassò il villaggio di Barcarola, si lasciò a destra il ponte di Pedescala, discese, attraverso i prati, sulla riva dell’Astico, stette lungamente a vedere passar veloce l’acqua verde, ad ascoltarne il murmure eguale, a sentirsi battere il cuore. Il cielo era velato di grigio, le montagne imminenti al fiume da destra e da sinistra, chiuse nei loro grandi mantelli scuri, parevano visitatori muti in un’ora di lutto.
Poco dopo le nove la carrozzella democratica di donna Fedele saliva lentamente dal ponte del Posina verso la Montanina. Nello svoltare verso il castagno candelabro ella udì con sorpresa la campanella querula di Santa Maria ad Montes. Chi vi celebrava di tempo in tempo nei giorni feriali era sempre don Aurelio. Possibile che non fosse partito? Scese di carrozza presso il castagno, salì a piedi fino alla chiesina, vi entrò. Era vuota, ma qualcuno si moveva in sagrestia. Andò a vedere, si trovò faccia a faccia con don Emanuele. Non potè trattenere un oh! di meraviglia e si ritirò in fretta mentre il cappellano, dal canto suo, piombava sull’inginocchiatoio per la preparazione. Il chierichetto la informò poi che la messa si diceva per l’anima della signora Trento, ricorrendo l’anniversario della sua morte. La preparazione fu lunga, la campanella querula suonò altre due volte. Donna Fedele, seduta presso la piletta di pietra che ha un fregio di stelle alpine, pensò, con certa commiserazione, quanto dovesse penare il povero cappellano a rimettersi della sorpresa spiacevole. Ricordando l’arrabbiatura ch’egli le aveva fatto prendere, ebbe un moto di pentimento e di umiltà. Fra il fogliame della vigna mistica dipinta nell’abside è visibile la parola di Cristo: ego sum vitis, vos palmites. Il diavolino sarcastico del suo cervello prese una rivincita, le suggerì che don Emanuele era forse un pampano infecondo; ma ella si sdegnò delle idee che le venivano proprio in chiesa e guardando la vigna del Signore. Almeno, pensò, il cappellano sarebbe un pampano verde mentre io sono un pampano secco. Entrò il signor Marcello che non si aspettava di vederla e la ringraziò collo sguardo, credendo fosse venuta per l’anniversario. Dopo di lui entrò Lelia. Don Emanuele celebrò con gravità di asceta e di prelato. Il più raccolto degli ascoltatori fu il signor Marcello che, inforcati gli occhiali, lesse l’Imitazione dal principio alla fine della Messa, senza sedere mai. Lelia non pregava, guardava spesso, per la porticina di fianco, la verde scena del Parco di Velo, la chiara lama di prato, fra i castagni, dove era passata nella notte. Donna Fedele guardava spesso, con pena, il signor Marcello che le pareva dimagrato e, peggio che pallido, giallastro. Guardava pure Lelia, svogliata e scura. Non potè a meno di pensare, pure rimproverandosi della distrazione, al prossimo colloquio con lei, al dolore del povero Alberti se, per caso, la risposta fosse negativa, alla impressione mista di compiacenza e di tristezza che ne avrebbe il signor Marcello. Perchè don Aurelio le aveva detto che il signor Marcello si sarebbe certamente compiaciuto della fedeltà di Lelia, se rifiutasse; ma che, se consentisse, gli sarebbe parso di ricuperare in Massimo Alberti qualchecosa di suo figlio, di evitare il pericolo che Lelia ricadesse in balia dei suoi, che facesse, tardi, chi sa quale disgraziato matrimonio. Ella si acquietò mestamente nella continua sommessa parola della fonte che diceva dietro a lei, nel piccolo vestibolo: passeranno queste incertezze, passerà il colloquio, passerà quel che verrà dopo, e di triste e di lieto, forse presto passerai tu stessa. E non pose più mente che alle parole eterne del sacerdote. Un quarto d’ora di carrozza era bastato ad acuire le sue sofferenze. Alla Comunione fu costretta di sedere. Sentiva di parere un cadavere. Il chierichetto che serviva la messa la guardò mentre attendeva, colle ampolle nelle mani, che il sacerdote gli porgesse il calice; ed ella, vedendo il suo sgomento, ebbe un sorriso interno. Finita la messa, si alzò con indomita volontà, uscì per la porticina laterale, seguita da Lelia. Il signor Marcello si fece aspettare un poco. I suoi ringraziamenti umiliarono donna Fedele, che, però, credette opportuno di accettarli.
«Sono anche venuta per una passeggiatina con Lelia» diss’ella. «E poichè son qui, vorrei prima pregar Lei di un consiglio.»
Egli parve un po’ sorpreso.
«Si figuri!» rispose. «Come posso.»
Era nella voce dell’uno e dell’altra, quando si parlavano, un tono di affetto contenuto, riverente; da parte di lei quasi timido. Mentre salivano alla villa, sopraggiunse il chierichetto a dire che don Emanuele non sarebbe venuto a prendere il caffè, causa un impegno.
«L’impegno sono io» pensò donna Fedele.
«E che Le pare di don Aurelio?» diss’ella.
Il signor Marcello ebbe un fremito muto, le rughe si addensarono sulla sua fronte, le chiare iridi gli arsero di corruccio.
Donna Fedele credeva ch’egli avesse appresa la notizia da Massimo. No, Alberti non aveva parlato, al suo ritorno da Lago, ed era uscito, la mattina, per tempo. La notizia l’aveva portata don Emanuele. E in che modo l’aveva portata! Era venuto senza dir niente, il signor Marcello l’aveva trovato, con sua grande sorpresa, in sagrestia, credendo di trovarvi don Aurelio. Il cappellano gli aveva detto allora di essere venuto a celebrare in sostituzione di don Aurelio, per ordine dell’arciprete. E c’era voluto il cavatappi a strappargli che il signor arciprete era stato pregato da don Aurelio di sostituirlo, che don Aurelio non era ammalato, che si era allontanato dal paese, che vi era una sua lettera, nella quale riconosceva il proprio dovere di partire. Anche la bella fronte di donna Fedele si oscurò e un lampo di sdegno passò nei grandi occhi bruni. Lelia sapeva il fatto perchè il signor Marcello era risalito subito alla villa e gliel’aveva raccontato. Ora si contentò di osservare freddamente che don Aurelio aveva fatto bene. Una fugace fiamma salì al volto pallido di donna Fedele. Ella si contenne e, preso il braccio della fanciulla, le disse che, dopo una breve conferenza col signor Marcello, l’avrebbe pregata di mostrarle certo vicino angolo romito del Parco di Velo, di cui le aveva parlato con lode. Lelia, freddamente ancora, consentì.
Il signor Marcello chiese all’amica se preferisse il suo studio, per questo consiglio, o i sedili all’aperto. Ella accettò lo studio, sorridendo, come per significare che si trattava di un consiglio delicato, di carattere intimo. Nello studio il suo viso prese la gravità dolce che lo rendeva così nobile così bello di quella bellezza dignitosa che niente ha di giovanile e tanto d’immortale, che viene illuminando i lineamenti e gli occhi per la virtù lungamente attiva di una vita interna pura e profonda.
«Caro amico mio» diss’ella, usando questi termini la prima volta nella sua vita «se uno cui ella fosse legato di affetto e di rispetto le affidasse un incarico per mezzo d’altri, facendole anche dire di non parlarne direttamente a lui, e Lei, eseguito l’incarico, non potesse più servirsi dell’intermediario per informarne il suo amico, gli parlerebbe direttamente malgrado il divieto, o cosa farebbe?»
Mentr’ella parlava lenta lenta, negli occhi del signor Marcello conscio di aver dato appunto quelle istruzioni a don Aurelio, spuntava un sorriso triste.
«Ho avuto torto» diss’egli. «Suppongo che questa passeggiata...»
A un cenno di assenso dell’amica, riprese:
«Ella verrà qua e parleremo, mi perdoni!»
Donna Fedele protestò impetuosamente. Era tanto naturale quel desiderio di silenzio! Ma il signor Marcello insistette più impetuosamente ancora:
«No no, mi perdoni, mi perdoni!»
Ella non ebbe lagrime negli occhi, solo battè un poco le palpebre. Era il primo ritorno, dopo lunghissimi anni, di una intimità contenuta sempre dentro i confini del dovere, ma conscia del dolce segreto chiuso nelle due anime. Il dolce segreto n’era evaporato col volger del tempo. Non ne restava che un’aura diffusa, appena sensibile nell’anima di lui, più viva in quella di lei. Ma ora tornava lenta e irrefrenabile l’onda del ricordare, molto dolce al cuore di donna Fedele, molto triste al cuore del signor Marcello, cui pareva essere in colpa di quella gioventù sfiorita senza nozze, senza maternità. E, per un momento eterno, nessuno dei due potè proferir parola.
La prima a rompere il silenzio fu donna Fedele.
«Capisco tanto il Suo sentimento» diss’ella «in questa cosa.»
E perchè allora il signor Marcello le prese e strinse una mano, soggiunse sottovoce:
«Povero amico!»
Egli tacque ancora, stringendo sempre quella mano. Quindi parlò, sufficientemente pacato. Disse come gli fosse venuta l’idea di questo matrimonio. Aveva istituita erede Lelia. La sera stessa dell’arrivo di Alberti, discorrendo con essa, le aveva dato qualche segno di ciò a proposito della Montanina; perchè lo avrebbe particolarmente contristato l’idea che la Montanina, tanto cara ai suoi cari, capitasse in mani sconosciute. Ella si era ribellata. Per fierezza, probabilmente, posto il suo carattere; per non volere un premio della sua fedeltà di cuore; o forse anche, per essere più libera di sè, un giorno. Ciò lo aveva molto afflitto. E ripensando discorsi antichi, fatti colla sua povera moglie, si era persuaso che la ragazza, molto appassionata di natura, finirebbe certo con prender marito, che a lui convenisse perciò di affrettare questo avvenimento, per poter influire sulla scelta ch’essa farebbe. Il caso che gli aveva portato alla Montanina l’amico migliore e più caro del suo povero figliuolo, gli era parso provvidenziale. Subito subito, la mattina dopo, egli aveva fatto a don Aurelio quella confidenza.
«La mia prima idea» conchiuse «è stata ch’Ella scandagliasse i sentimenti di Lelia. Ora, non so perchè, mi ha preso una vera impazienza. Voglia dirle addirittura che se Alberti le proponesse di diventare sua moglie ed ella consentisse, morirei in pace.»
«Non parli di morire, caro amico.»
A queste parole di donna Fedele il vecchio rispose asciutto:
«Lasciamo.»
Ell’aveva desiderato chiedergli della sua salute e non l’osò più. Si attentò invece a osservargli che se Lelia non intendeva accettare la sua eredità, la Montanina sarebbe pur sempre andata, malgrado il matrimonio, in altre mani. Egli rispose che, appena Lelia e Alberti si fossero fidanzati, avrebbe mutato il testamento e legata la villa ad Alberti.
«Speriamo» disse donna Fedele alzandosi e ritornando al suo abituale sorriso «che tutto vada bene. Dopo che avrò parlato con Lelia, La trovo qui?»
«Sì, mi trova qui. Scommetto ch’Ella pensa: Come mai è tanto attaccato, questo vecchio, alla sua casa? Come mai pretende di possederla ancora, in qualche modo, quando....»
Donna Fedele lo interruppe: «no no, zitto zitto!»
E uscì dello studio. Il signor Marcello prese una Bibbia che aveva sempre sul tavolo, vi rilesse il capitolo decimottavo del Libro Primo dei Re, il Capitolo delle anime compenetrate di David e di Jonathan. Fanciullo ancora, egli aveva pianto sul fato del nobile principe Jonathan, il suo eroe prediletto. Rilesse le pagine mirabilmente vive, pensò che Jonathan, cadendo a Gelboe, si sarebbe rallegrato di vedere nel futuro l’amico suo possedere il trono cui era nato egli.
Donna Fedele trovò nel salone Lelia che l’aspettava sprofondata in una poltrona, coll’ombrellino fra le mani.
«Andiamo proprio?» diss’ella. Parve a donna Fedele di sentire nella domanda l’ironia di chi ha compreso ciò che gli si vuole nascondere e lo fa capire. Come il tono della voce così gli occhi di Lelia dicevano: «Il passeggio è un pretesto, tu sei venuta per farmi un discorso, adesso hai avuto una conferenza, a questo proposito, con papà, forse non è più il caso del discorso.
«Ma sì! Perchè mi domandi?»
«Perchè» disse Lelia, alzandosi, ma senza allontanarsi dalla poltrona «mi pare che Lei non debba aver voglia di passeggiare. Se vedesse com’è pallida! Si guardi nello specchio. Se mi deve dire qualche cosa, può dirmelo anche qui.»
Il discorso no ma l’accento di Lelia fu impertinente.
«Sì, cara» rispose donna Fedele con fredda imperiosità, «desidero parlarti, ma non qui; dove ti ho detto.»
Lelia si mosse in silenzio.
«In questo momento ho l’autorità del signor Marcello» soggiunse donna Fedele, molto dolcemente, temperando la pressione del suo impero. Ora Lelia non dubitò più di una trama cui l’amica avesse parte. L’assenza di Massimo, l’ostinazione di donna Fedele a volerle parlare in un luogo tanto appartato, le misero il sospetto che ella tenesse un incarico da lui col consenso del signor Marcello; consenso strappatogli, forse, in quello stesso momento. E l’offese lo zelo per Massimo, l’offese la violenza morale esercitata sul signor Marcello. Scendeva muta e scura il viottolo del giardino, precedendo la compagna che non potè seguirne il passo e la pregò di rallentare. Lelia le additò il sedile fra i noci, presso la Riderella. Non si potevano fermare lì? All’asciutta domanda donna Fedele rispose egualmente asciutta:
«No, cara.»
Lelia non replicò. Le due signore entrarono, per il cancello di legno, nel Parco.
«Bellissimo!» disse donna Fedele.
Lelia fece una boccuccia sprezzante. Come si poteva dire - bellissimo - appena passato il cancello? Si aveva la stessa veduta che dalla strada pubblica. Già, donna Fedele era molto intelligente ma sentiva poco la natura. Non disse niente. Si avviò e, seguendo una traccia appena segnata nell’erba, svoltò a destra fra una verruca del monte, coronata di grandi noci e castagni, e la opposta riva di un’acquicella che sbuca lì presso da folte macchie di faggi e di frassini, gira nella stretta, fugge a saltar di burrone in burrone. Oltre la stretta quella traccia moriva in un bel cavo di prato fiorito, dagli alti orli boscosi. Donna Fedele sedette, all’ombra dei noci, dove la traccia muore, stette un poco a guardar pensierosa nell’acqua scura e poi domandò, piano, a Lelia, che stava in piedi e scriveva nell’erba colla punta dell’ombrellino:
«Sai di cosa mi ha parlato papà?»
«Forse sì» rispose Lelia continuando a scrivere.
«Brava. Sentiamo.»
«No, non lo dico.»
«Lo capisco» fece donna Fedele, remissiva. «È una cosa molto intima, molto delicata. Ma è meglio parlarne. Tanto, la tua volontà tu l’hai espressa e non ti si può mica costringere.»
«La mia volontà?» esclamò Lelia, di soprassalto. «La mia volontà?»
«Eh, non lo hai detto, a papà, che non accetti di essere sua erede?»
«È di questo che hanno parlato?»
Lelia smise la sua attitudine ostilmente svogliata. Non scrisse più colla punta dell’ombrellino.
«Di questo e di altro. Ma è di questo che desidero parlarti, adesso. Siedi, non farmi torcere il collo.»
«Discorsi inutili» diss’ella vivacemente.
«Saranno inutili, ma bisogna che tu mi ascolti. Perchè vuoi dare un tal dolore a quel povero vecchio?»
«Perchè posso abbandonargli tutto, ma non la mia dignità.»
Donna Fedele alzò un poco la voce, ebbe un sorriso diverso dal solito, il sorriso che si ha quando si ribatte una parola offensiva e non si vuole aver l’aria di pigliarla in tragico. «Credi che ti possa consigliare una cosa contro la tua dignità?»
Anche Lelia rispose vibrata, cogli occhi bassi:
«Lei sentirà in un modo e io sento in un altro.»
E alzò gli occhi a donna Fedele, come per dire: «a te! Cosa puoi replicare?»
Donna Fedele non replicò niente. Aspettò un poco e fece il secondo passo della sua via meditata.
«E quando non ci sarà più il signor Marcello, cosa farà la fidanzata di suo figlio?»
«Forse non ci sarà più neppure lei» rispose Lelia, pronta.
Donna Fedele non si scompose.
«Forse» diss’ella. «Ma se ci fosse?»
Lelia giuocò un po’ colla punta dell’ombrellino nell’erba e rispose:
«Ci penserò allora.»
«Bambina bambina!»
«No, donna!» esclamò Lelia. «E mi figuravo che Lei m’intendesse meglio!»
Così dicendo, le s’inumidirono gli occhi. Donna Fedele avrebbe voluto dirle che la intendeva, ma si trattenne per non guastarsi il piano strategico.
«Pensa anche al tuo avvenire, cara» diss’ella con dolcezza.
«Sarà quel che sarà» fece Lelia, tranquilla.
Donna Fedele mosse il terzo passo.
«E vuoi che questo non sia un cruccio per il signor Marcello?»
Silenzio.
«È un cruccio tanto grande» proseguì donna Fedele «che se potesse collocarti bene, anche subito, ne sarebbe felice.»
La parola «collocarti» fu sbagliata. Lelia gelò e arse nel tempo stesso.
«Ah!» esclamò. «Collocarmi! Benissimo. E il collocamento, per un caso strano, è pronto.»
La punta dell’ombrellino frugò nell’erba, con impeto.
Anche donna Fedele ebbe un palpito di collera, alzò le sopracciglia, guardò, severa, la sua vicina che guardava sempre la punta inquieta dell’ombrellino, ne scrutò il viso ostile, la interrogò.
«Cosa vuoi dire?»
Lelia le gittò alla sua volta un rapido sguardo, rificcò gli occhi nel proprio giuoco nervoso.
«Oh, Lei lo sa bene» diss’ella. «Per un caso strano l'occasione di collocarmi è pronta. Per un caso strano qualcuno che doveva andare a Lago è venuto alla Montanina. Per un caso strano questo tale è giovine, è celibe, vorrebbe collocarsi anche lui, non è uno speculatore troppo cattivo e sa recitare la commedia. Tutti casi strani.»
Le sopracciglia di donna Fedele si alzarono più di prima, e la voce, che in quella interrogazione aveva vibrato, suonò mortalmente gelida.
«Ti accorgi che insulti anche me?»
La punta dell’ombrellino quietò.
«No, Lei non la insulto. Insulto lui, quel signore ch’è venuto per caso. Lei lo crede, forse, che sia venuto per caso.»
«Povera Lelia!» sospirò donna Fedele, senza collera, con pietà profonda.
«Oh no no, sa!» fece Lelia, piano. «Niente povera Lelia!»
Tacquero a lungo l’una e l’altra, guardando l’acqua fuggire con accorato lamento. Finalmente donna Fedele ripetè:
«Proprio povera Lelia! E tu non sai» soggiunse «perchè lo dico. Lo dico perchè vedo nel tuo cuore.»
«Lei non vede niente nel mio cuore.»
In questo negare donna Fedele sentì una confessione implicita. Attese ancora un poco e poi domandò alla fanciulla, con piglio risoluto, se le si fosse riferito qualchecosa contro Alberti.
«Cosa vuole che mi abbiano riferito?» esclamò Lelia, sdegnosa. «E cosa vuole che me ne importi?»
Questa volta donna Fedele scattò.
«Oh sì che te ne importa! Come puoi negarlo se ti irriti a quel modo contro di lui per questa calunnia stupida ch’egli sia venuto a caccia di una dote!» Così dicendo, la povera malata si sforzò di alzarsi.
«Lì c’entro io!» esclamò Lelia. E non pensò che tardi ad aiutare l’amica. Se ne scusò, le propose di far scendere la sua carrozzella ch’era salita alla scuderia della villa. Donna Fedele voleva rifiutare ma, fatti pochi passi, confessò, col suo stoico sorriso, che l’impresa era troppo dura per lei. E di vedere il signor Marcello non poteva a meno. Lelia fece scendere la carrozzella per lei.
Il signor Marcello le venne ansioso incontro sulla soglia dello studio. Ella entrò serena, disse che le parole erano state non buone ma che, secondo lei, con un poco di arte si poteva riuscire. Il signor Marcello domandò subito, con un’aspettazione dolcemente commossa, se fosse ancora troppo vivo, in quel cuore, l’affetto antico. Donna Fedele gli stese in silenzio la mano ch’egli prese ma non strinse, presago di una risposta penosa. Il silenzio parlò.
«E allora?» diss’egli.
L’amica gli riferì come, appena veduta Lelia nel salone, avesse indovinate le sue disposizioni di persona adombrata da sospetti e ostile; come avesse allora cambiato i suoi piani per non arrischiare di guastar tutto per sempre; come fosse venuta poi a parlare di Alberti e l’avesse trovata fiera contro di lui, tanto fiera da non potersi spiegare la sua violenza che con un conflitto di sentimenti. La ragazza era persuasa ch’egli fosse venuto a Velo col proposito di tentare un matrimonio ricco. Se si riuscisse a persuaderla del contrario, si vincerebbe la partita. Ma ci voleva una prudenza grande. Il signor Marcello domandò consiglio. Il solo consiglio fu di non trattenere più oltre Alberti alla Montanina, di non tentarlo neppure; perchè non c’era dubbio che Alberti partirebbe subito. Qui donna Fedele credette opportuno di comunicare il colloquio avuto da lei col giovine, che ora stava in attesa di notizie. Poi si offerse quasi timidamente, col suo sorriso dolcissimo, per il compito delicato e difficile che verrebbe in seguito.
«È molto naturale, caro amico; no?» diss’ella vedendo la sua gratitudine turbata. Si divisero senz’altre parole, con una lunga stretta di mano.
Ritornata poscia al villino, donna Fedele non vi trovò Massimo. Non comparve che verso mezzogiorno. Incontrò la cameriera al cancello e seppe da lei che la signora era rientrata in casa alle undici e mezzo, che aveva dimenticato di avvertire, alla Montanina, com’egli non vi sarebbe andato a colazione e mandava lei per questo. Nei brevi passi dal cancello al villino Massimo pensò, con alterni palpiti di angoscia e di speranza, che gl’indizi erano cattivi perchè se le cose si fossero avviate bene, donna Fedele, invece di avvertire, lo avrebbe subito spedito alla Montanina; ch’erano buoni, perchè, se le cose si fossero avviate male, ella non avrebbe probabilmente dimenticato di annunciare l’assenza di lui. La cameriera gli aveva sorriso; questo andava bene. Donna Fedele non gli veniva incontro; questo andava male.
In fatto ella gli venne incontro ma solo nella veranda che sporge dalla fronte del villino a guardare i fianchi del Summano e della Priaforà da un lato, quelli del Barco dall’altro, lo sfondo, in faccia, del cielo curvo sulle umili alture che fra le aperte braccia della valle ne partono l’estremo dal piano infinito. Lo aveva visto venire dal cancello e lo incontrò lì, nè proprio in casa nè proprio fuori, nè sorridente nè triste. Egli le lesse subito in viso la sua sentenza, mormorò:
«Sapevo.»
Ella non disse subito le parole di conforto che pensava, gli porse le mani. Lo vide allora talmente impallidire sotto il colpo, benchè si sforzasse di parere impassibile, che non potè a meno di rincorarlo.
«Le cose» disse «hanno una faccia brutta, questo non lo posso negare, ma, forse, un’anima buona. Adesso Le dirò tutto, venga, venga.» E s’illuminò del sorriso abituale. Gli raccontò minutamente, nel piccolo studio del pian terreno, il suo colloquio con Lelia, nulla omettendo, nulla velando. Furono frustate che Massimo toccò senza batter ciglio.
«Va bene» diss’egli, quando l’amica ebbe finito di parlare. «Questa ragazza è sciocca, in fondo.» Nel dir così gli s’infuocò il viso di tutto lo sdegno che aveva represso.
«Non è sciocca» ribattè donna Fedele. «Ho paura, invece, che non sia stata sincera. Ho paura che le abbiano parlato realmente di questa relazione che Lei avrebbe a Milano. E penso un’altra cosa.»
Massimo non le domandò cosa pensasse. In quel momento gli pareva di non amare più. Non sentiva che desiderio acuto di partire per sempre. Gli rimorse di avere pensato, anche per pochi giorni, a lasciare il campo dell’azione per il Bene e per il Vero, a seppellirsi in un amore. Ringraziò mentalmente l’orgoglio meschino, sciocco della signorina, che lo affrancava. Si alzò in piedi, gli parve essere cresciuto di un palmo.
«Lei non mi domanda» insistette donna Fedele «cosa penso?»
«Dovevo telegrafare a don Aurelio» diss’egli. «Invece vado.»
«Non mi domanda cosa penso?» ripetè l’amica, alzando la voce e strascicando le parole. Egli le domandò «cosa pensa?» per farle piacere e non per curiosità che lo pungesse. Allora ella mise fuori, un po’ esitante, la propria opinione sui sentimenti reconditi di Lelia. Massimo si mostrò amaramente incredulo. A colazione non parlò, quasi, nè toccò cibo. Avendo l’amica ricordato don Aurelio, le disse che lo avrebbe veduto la sera stessa. Presero il caffè nella veranda.
«Credo che le convenga di partire subito a ogni modo» mormorò donna Fedele quando la cameriera li ebbe lasciati soli. «Ma Lei non deve giudicare Lelia così a precipizio. Lasci ch’io vada un poco al fondo. Poi La informerò.»
Massimo rispose che gli rincresceva di avere chiamato sciocca la signorina ma ch’era inutile di pensarci più. Gli era bastato una volta, per guarire dall’amore di una signorina, ch’ella dicesse pollìne invece di polline. Fra la signorina Lelia e lui vi erano disarmonie di pensiero ben più gravi che qualsiasi disarmonia di cultura.
«Potrei partire subito?» diss’egli a un tratto, dopo avere guardato l’orologio. Vi era un treno alle quattordici e trentasette. Se mandasse un rigo al signor Marcello scusandosi con un richiamo improvviso, pregando di fargli spedire la sua roba a Milano?
Donna Fedele protestò. Doveva invece recarsi subito alla Montanina, dire che quando don Aurelio gli aveva confidato il proposito di fuggire, la sua prima idea era stata di non lasciarlo partire solo, ma che l’amico gli aveva dato degli incarichi. Massimo la interruppe. Certo! questo non era un pretesto, era vero. E lo aveva dimenticato! Doveva recarsi a Sant’Ubaldo, per forza. Impossibile partire prima delle sei.
«Vada a Sant’Ubaldo e parli colla Lúzia» disse donna Fedele. «I libri penserò io a farli portare qui. E anche i mobili. Vedrà che un giorno o l’altro ritornerà da queste parti. E allora certe convenienze non permetteranno ch’Ella alloggi alla Montanina. Alloggerà al villino delle Rose.»
Sorrise, così dicendo; e il giovine intese l’allusione al costume locale che interdice ai fidanzati di dormire sotto lo stesso tetto.
«No no!» diss’egli. La signora rise di un riso aperto.
«Come? Non vuole venire da me? Ha paura di compromettermi?»
«Lei mi ha capito!» esclamò il giovine. «Lei mi ha capito!» E prese frettolosamente congedo senza ricordarsi del cappello che gli fu portato in giardino dalla cameriera, suonandole dietro l’argentino riso di donna Fedele.
Dopo il colloquio amaro, Lelia si rifugiò nella galleria cui mettono capo le scale del salone, vi stette in agguato, a spiare l’uscita di donna Fedele dallo studio del signor Marcello, volendo sapere quanto vi si trattenesse e non desiderando incontrarsi con lei. La udì, più presto che non avrebbe creduto, aprire l’uscio che dalla stanza del biliardo mette nel salone, la vide entrare, guardarsi attorno come cercando qualcuno. Si ritirò per non esserne scoperta, stette immobile, in attesa di una chiamata, fino a che la sonagliera dell’uscio l’avvertì che donna Fedele partiva senza domandare di lei. Era finito, dunque. Non l’avrebbero molestata più.
Non si sentiva contenta, però. Alla irritazione di prima era sottentrato un senso di tedio e di fastidio. Sentiva fastidio di stare, di muoversi, di leggere, di suonare. Le era piaciuto, fino a un’ora prima, di contemplarsi in uno specchio della mente, di vedersi nell’atto di respingere l’amore per orgoglio, come, per orgoglio, aveva respinto la ricchezza. Adesso la mordeva un dubbio crudele. Se non vi fossero state trame, se Alberti fosse venuto alla Montanina veramente per caso! Volle disprezzarlo a ogni modo perchè non si era spiegato direttamente con lei. Gli diede, in cuor suo, dello sciocco; e nel pensare il silenzioso insulto le parve avere schiaffeggiato e spinto via la passione di cui vergognava. Le venne in mente di andare a Lago per distrarsi, per sentire cosa vi si dicesse dalla fuga di don Aurelio. E quell’altro, pensò, come giustificherà la sua dimora qui, adesso che don Aurelio è partito? Pensò così e le corse nel sangue un doloroso brivido; la passione cacciata ritornava come ritorna l’onda. Prima di arrivare al cancello le nacque il dubbio d’incontrare Alberti, cambiò idea, prese il sentiero dei castagni, sedette sul primo sedile che trovò, cercò di non pensare, di addormentare le proprie inquietudini tormentose ascoltando i sussurri del vento, guardando le inquietudini dell’erba fiorita. Tacque infatti nel suo interno il pensiero ed entrò il sogno. Egli la sorprendeva, di notte, nel Parco di Velo, al sussurro del vento, al chiarore incerto della luna, nella piova odorosa dei fiori di acacia. Le cingeva la vita di un braccio, l’attirava a sè, le premeva le labbra sulle labbra e il Parco, la luna, il vento, la piova di fiori, tutto cessava di esistere. Ella piegò sul sedile, chiusi gli occhi, semiaperte le labbra, attirata da un fantasma, cedendo; e anche il tempo cessò per lei di esistere.
La campanella della colazione la richiamò alla realtà incresciosa. Incontrò all’entrata della villa la cameriera venuta col messaggio di donna Fedele. Il messaggio, in quel momento di reazione contro i tradimenti del sognare, le fu gradito. Trovò il signor Marcello già seduto a tavola con una faccia che non prometteva niente di buono. La salutò appena. A lei questi modi facevano bollire il sangue. Li attribuì al suo persistente rifiuto dell’eredità anzi che all’altro. Perchè pretendere d’imporle quello che a lui pareva un beneficio e a lei no? Ella si chiuse alla sua volta in un ostinato silenzio. Primo si mansuefece alquanto il signor Marcello, benchè gli pesasse sul cuore che la fanciulla avesse detto a donna Fedele di non voler accettare le sue sostanze per un sentimento di dignità. Molto orgoglio, aveva pensato il vecchio, e poco affetto. Si mansuefece alquanto, le osservò, abbastanza dolcemente, che non aveva preso nulla. Quasi più che dei suoi cipigli Lelia soffriva della susseguente mansuetudine colla quale egli pretendeva saldare le partite. Si alzò appena preso il caffè e uscì silenziosamente, anche per nascondere lagrime prossime a cadere; lagrime ond’ella stessa non avrebbe saputo dire se venissero dal dispetto, o dall’angoscia del suo conflitto interno, o da un’acre pietà di se stessa; perchè in fatto bruciavano di tutti questi bruciori.
Il signor Marcello si alzò un minuto dopo di lei, andò curvo, colle braccia inarcate e le mani sui fianchi, nel salone, sperando trovarvela. Stette un poco piantato lì ad ascoltare se ne udisse una voce, un passo. Nulla. Allora sedette malinconicamente al piano, si mise a suonare. Lelia, che stava nella galleria superiore affisandosi nella ripida costa verde coronata di castagni, leggendovi i proprii pensieri, riconobbe il tema del Pergolese sul quale egli aveva fantasticato la notte susseguente al deliquio. Anche adesso le mani frementi di spirito toccavano il piano in un modo inimitabile, vi trasfondevano le amarezze interne del suonatore. Il pianto dell’antico poeta, il pianto dell’antico musicista le suonò pianto del vecchio solitario che tutto aveva perduto sulla terra, che sentiva intorno a sè un gelo di opposizioni. Ella gli perdonò i cipigli, discese lenta lenta in salone, studiandosi di non far rumore, sedette poco discosto dal piano, dove il signor Marcello potesse vederla facilmente. La vide infatti e cessò di suonare. Ella desiderò dirgli «continui» e non seppe, la parola le si ruppe sulle labbra, malgrado lei stessa, contro un suggello di orgoglio. Il signor Marcello non avrebbe potuto a ogni modo continuare. Quella presenza, in quel momento, gli legava la vena dell’ispirazione. Stese la mano a un portamusica, prese il pezzo che aveva toccato a caso, lo aperse sul leggio e stette a contemplarlo senza suonare, aspettando, non di proposito ma per istinto, una parola. Lelia non potè a meno, stavolta, di mormorare: «cos’è?». L’uno e l’altra sentirono subito un principio di pace. Il pezzo era un’aria manoscritta della vecchia opera buffa «Le prigioni di Edimburgo». Il signor Marcello andò a rimetterla nel portamusica ma Lelia credette fargli piacere insistendo perchè la suonasse. Infatti egli si arrese subito, cominciò, contento, a suonare, e Lelia ascoltò contenta il pezzo indifferente a ciascuno dei due. Ma presto il suonatore provò fastidio di quella musica. «Aspetta aspetta» diss’egli. «Senti questo.» Buttò via il manoscritto, pose sul leggio un grosso volume di Clementi, vi cercò certa pagina tutta segnata di annotazioni a matita. Lelia conosceva il volume, non ricordava quella pagina. Il signor Marcello, chino il busto in avanti, aggrappate ai tasti le grandi mani adunche come artigli di falco, fissi gli occhi accesi sulla musica, corrugata la fronte in uno sforzo di lettura e d’ interpretazione che gli fremeva nelle mascelle inquiete e persino nei capelli irti, superò sè stesso. Com’ebbe finito, Lelia espresse la sua simpatia per Clementi, prese in mano il volume.
«Povero Clementi!» disse il signor Marcello. «Chi sa dove andrà a finire!»
Ella non capì subito.
«Dove vuole» disse «che vada a finire?»
«Eh, in una bottega di libri vecchi!»
Le mancò il coraggio di protestare, di dire che se non accettava la ricchezza, avrebbe però accettato il libro. Tacque.
«Ah Signore!» sospirò il vecchio, sfiduciato, squadernandosi e premendosi le mani sul viso, traendole giù lentamente fino a scoprirsi il bianco degli occhi. Lelia, intenerita, cercò ancora una parola buona, una parola del suo rifiuto che ne levasse l’acerbità. Non seppe trovarla. Sentivano ambedue, ella e il signor Marcello, che ciascuno avrebbe volontieri parlato se l’altro cominciasse e tacevano, ella in piedi guardando nel volume di Clementi, egli seduto, cogli occhi al leggio vuoto e le mani abbandonate sulle ginocchia. Finalmente il signor Marcello si alzò, disse con dolcezza triste «addio, cara» e si avviò verso la stanza del biliardo per passare di là nel suo studio. Lelia, assorta nel confuso agitarsi de’ proprii sentimenti, non aveva risposto al saluto inaspettatamente dolce. Si riscosse, trasalì, seguì pian piano il vecchio fino all’uscio, mormorò «papà» e quando egli si voltò, sorpreso, gli porse il viso, per un bacio.
Egli la baciò in fronte, lievemente, con una espressione di beatitudine. Le prese quindi una mano, dicendo: «Vieni, cara», la trasse con sè. Ella intese ch’egli avesse interpretato il suo atto come un principio di consenso ai proprii desideri, ebbe un momento di esitazione, lo seguì, battendole il cuore.
Lo seguì nella camera del biliardo. Egli chiuse dietro a lei l’uscio del salone, ritornò a lei, le pose le due mani sul capo, le disse, sorridendo negli occhi umidi:
«Hai pensato ad Andrea?»
Ella non comprese, lì per lì, la ragione della domanda, rispose a caso:
«Sì, papà.»
E tremava per il timore di un equivoco provocato da lei stessa, tremava per la commozione di avergli udito nominare Andrea.
«Sii benedetta, cara» disse il vecchio.
Ella rabbrividì. Perchè la benediceva? Avrebbe voluto ch’egli si spiegasse e non era possibile domandarlo. Il vecchio non l’aveva benedetta per alcun equivoco, ma solo per l’atto pio, affettuoso di lei. Un atto affettuoso, una parola gentile bastavano sempre a fargli dimenticare ogni ragione di corruccio. Certo in fondo al suo cuore prendeva radice la speranza che, di fronte alla preghiera di un morto, Lelia non avrebbe persistito nel suo rifiuto. «Addio» diss’egli lasciandola per ritirarsi nello studio. La vide incerta se restare o muoversi, parlare o tacere. Allora, per quella sua tenerezza impulsiva che gli faceva talvolta passare il segno delle condiscendenze, le prese le mani, le disse sorridendo:
«Ho visto la Vayla dopo che avete parlato insieme. Devo dire, per la verità, che a quella tal cosa ho pensato io quando quel tale venne qua, per non sacrificarti a un mio egoismo. Mi pareva che anche Andrea ne sarebbe stato contento. Ma poi, se il restare come sei non è un sacrificio per te, io ne sono felice.»
Lelia non rispose, parve non voler comprendere. Di fronte a quel silenzio, il signor Marcello si pentì di essere andato, nell’ultima parte del suo discorso, tant’oltre. Ma non c’era da ritornare indietro.
«Va» diss’egli «prendi un po’ d’aria. Dovresti andar a vedere cosa succede a Lago dopo la partenza di don Aurelio»
Ella non avrebbe voluto uscire. Avrebbe voluto chiudersi nella sua camera, scrutare, in un crogiuolo ideale, le parole del signor Marcello: - a quella tal cosa ho pensato io, quando quel tale venne qua -. Ebbe paura di farlo. Meglio uscire, andare a Lago. Uscì in giardino per la veranda aperta, si sforzò di pensare alla fuga di don Aurelio, a quel che direbbe e farebbe la gente di Lago. Ma gli stessi alberi presso i quali passava, gli abeti davanti alla scuderia, le betulle presso il cancello parevano dirle col loro rigido silenzio: non è questo che ti sta a cuore, è un’altra cosa che noi sappiamo e non diciamo. Ella affrettò il passo per liberarsi dalla ossessione della loro chiaroveggenza. Giunta fra i grandi castagni, sull’erta, dovette rallentarlo. E allora i grandi castagni bonarii, dalle pietose braccia sparse, le mormorarono: povera, tu dicevi no al suo amore quando gli altri dicevano sì. Adesso che il signor Marcello dice no anch’egli, povera, non sai più dirlo tu, non ne hai più la forza, vorresti dire sì e nessuno te lo domanderà più mai, povera povera povera. - Ella respingeva questa voce, orgogliosamente; ma sentì che le si serrava la gola e reagì, riprese a salir veloce. Là dove si spicca dalla via di Lago il sentiero che gira, sul margine della quieta conca, verso una scura corona di carpini, pensò il breve lago immobile dentro quella corona, le battè il cuore, passò. Fra le casupole di Lago non incontrò anima viva. In piazza una vecchierella stava attingendo acqua alla fontana. Lelia la interrogò. Proprio vero che don Aurelio era fuggito? «Gèsu, se xe vero!» E cosa dice, qui, la gente? «La tasa, siora, che i xe tuti a Sant’Ubaldo che i fa un bordèlo, Gèsu! I dise che i vol copar l’anziprete. La vade, siora, La vade. Ghe xe quel sior giovine ch’el ghe dise su, quelo che sta da ela. La vade. La ghe diga su anca ela. La ghe diga.»
Lelia, pallida, trasognata, guardava la vecchia senza parlare, dubbiosa di ritornare sui propri passi.
«La vade, La vade!» insistette colei. Lelia si sdegnò di avere esitato visibilmente. Le pareva di essersi tradita.
«Oh sì sì!» diss’ella. «Vado.»
Prese la via di Sant’Ubaldo. A pochi passi dalla carreggiabile che scende a Velo incontrò due donne e un uomo che discorrevano pacificamente, camminando. «Torto tuti!» diceva l’uomo. «El prete che xe scapà cofà un ladro, l’anziprete che à volesto cazzarlo via parchè l’è stà un bon cristian, e le femene che no vol pì andar in cièsa, dal Santissimo, parchè no le ghe trova el curato giovine.»
«Eccu!» fece una donna, approvando. E salutò Lelia:
«Serva sua.»
L’uomo si toccò il cappello con un secco «oh!» Lelia li trattenne. Cos’era successo? Il prete di Lago era scappato, le «femene» del paese, furenti contro l’arciprete e contro il vescovo, si erano raccolte, presenti anche parecchi uomini, e avevano giurato di non andare più in chiesa nè per domeniche nè per Pasque nè per battesimi nè per matrimonii, se il curato non ritornava. Un signore, un bel signore giovine aveva parlato bene, da buon cristiano, ma non era riuscito a niente. Le femmine avevano scritto qualche cosa col carbone sulle due porte della chiesa. E adesso, cosa facevano? Adesso si erano disperse tutte, ma dicendo di volersi riunire la sera. E il giovine signore? Partito anche lui. «Patrona, patrona, patrona,» la triplice compagnia si rimise in cammino e Lelia proseguì. Presso la chiesa non c’era nessuno. Si fermò a leggere, sulla porticina laterale: «Ciuso fino che torna don Urelio.»
Passi dietro a lei: Alberti e la Lúzia, con un catino e una spugna.
Massimo, quando Lelia lo vide, si era già composto un contegno d’indifferenza serena e cortese. Aveva fatto il possibile per pacificare gli animi, aveva cercato di scolpare l’arciprete, di scolpare il Vescovo, ai quali delle persone maligne avevano certo riferito chi sa cosa. Ripetè su tutti i toni che giurando di non andare più in chiesa non solo avrebbero recato a don Aurelio un dolore mortale, ma gli avrebbero anche nociuto presso i Superiori. Infatti i Superiori avrebbero detto: che razza di religione insegnava questo curato? E poi aveva parlato del Sacramento, al quale si doveva più amore e più rispetto che a un prete qualsiasi. Non era riuscito a persuadere, ma si sentiva pago, nella sua coscienza, di essersi levato sopra risentimenti e rancori, come si sarebbe levato don Aurelio. E da questa elevazione gli veniva una serenità grande a fronte di Lelia. Si sentiva più alto di lei, dei suoi giudizi ingiuriosi, più fermo nel nuovo proposito di considerare il suo periodo di amore come un periodo di debolezza, di soffocare un sentimento che non si accordava colla sua dignità, di serbarsi per un’altra donna, più affine a lui di pensiero e di cuore.
«Buon giorno, signorina» diss’egli, sorridendo. «Non ho ottenuto quel che volevo colle parole, vedrò se la cosa mi riesce meglio colla spugna.»
E si mise a strofinare gagliardamente la scritta. Lelia, pallidissima, gli domandò come se non sapesse nulla di nulla, chi avesse scritto così. Massimo depose la spugna nel catino, raccontò il fatto, tranquillamente. In principio Lelia pensò che donna Fedele non gli avesse riferito il loro colloquio, ma poi quei suo fare sciolto le parve troppo diverso dal solito, poco naturale. Intanto un contadino sopraggiunto dal Maso, visto il catino, la spugna e il lavoro fatto, si fece piuttosto scuro, consigliò Massimo di non continuare perchè altrimenti gli potevano toccare dei dispiaceri.
«Da chi, questi dispiaceri? Da Voi?» fece Massimo, risoluto. Quegli rimase un po’ sconcertato, brontolò «eh, non signor» se n’andò con altri sommessi brontolii.
«Signorina» disse Massimo, nel tono indifferente del primo saluto, «Lei prosegue o scende?»
Lelia lo guardò, attonita.
«Io devo restare ancora un poco» diss’egli, leggendole in viso ch’ella temeva di udirsi offrire la sua compagnia. I nuvoloni che pesavano sulla fronte della turchina Priaforà diedero un tuono. Non c’era da temere di pioggia prossima, il sole splendeva, oltre il piede della Priaforà, sui casali e sul verde, i denti del Summano ardevano dorati nel sereno, ma quel tuono aiutò Lelia nel suo imbarazzo.
«Scenderò» diss’ella.
«Allora, signorina» riprese Massimo «La prego di avvertire il signor Marcello che devo partire alle sei per Vicenza e, probabilmente, per Milano. Ora mi trattengo qui per un incarico di don Aurelio e poi verrò a congedarmi.»
Si levò il cappello.
«Non Le do la mano» diss’egli. «Non lo merita.»
Lelia trasalì.
«Dico la mia mano sudicia!»
Il giovine sorrise mostrando la mano che aveva tenuto la spugna. Lelia salutò con un solo breve chinar del capo e prese la scorciatoia che scende direttamente dalla chiesa. Avrebbe pianto di rabbia, sicura com’era della intenzione insolente di lui, irritata con sè stessa per aver sottolineata l’ingiuria con quel trasalire. A Lago trovò Teresina che, ritornata da Schio, le veniva incontro per ordine del padrone, recando la chiave del Parco di Velo. Il padrone aveva pensato che forse piacerebbe alla signorina di cogliervi fiori per la mensa. Lelia preferì scendere direttamente a casa. Non toccò della partenza di Alberti che doveva annunciare. Ne toccò invece, molto riguardosamente, la cameriera. Espresse il dubbio, lontano e vago, che, partito don Aurelio, il signor Massimo intendesse abbreviare la sua dimora. Udito che partiva la sera stessa, mise un’esclamazione di sollievo. Domandò, adducendo la ragione di doversi regolare per certe biancherie del giovine mandate al bucato, se il signor padrone non gli avrebbe fatto grandi istanze perchè rimanesse. «Oh no no!» esclamò Lelia con tanto sdegnosa sicurezza, che l’altra osò parlar chiaro.
«Allora sono contenta!» diss’ella. Lelia non parlò ma l’esclamazione della cameriera le parve assai strana, perchè Teresina era solita parlarle di Alberti con un vero lirismo di ammirazione. Teresina attese infatti una parola di sorpresa, una domanda. Poichè la signorina non accennava a rompere il silenzio, si decise a spiegarsi. Disse, sorridendo, che ne aveva udito di belle, quella mattina, del signor Alberti. Era discesa alla stazione in compagnia della cuoca che si recava ad Arsiero, per le provviste. La cuoca le aveva riferito un discorso tenutole dalla donna di servizio della signora Bettina Pagan, della cognata dell’arciprete. Lo conoscevano bene, nella canonica di Velo, il signor Alberti. Sapevano che sebbene andasse in chiesa era molto peggiore, quanto a religione, di Carnesecca. Ma poi sapevano pure che faceva una vita cattiva, che aveva relazioni, a Milano, con signore maritate. «Ah sì?» fece Lelia, indifferente. E altro non disse. La cameriera si sgomentò un poco di quel mutismo, domandò scusa di avere parlato di cose che non la riguardavano. Lelia, per tutta risposta, si strinse nelle spalle. Passavano allora il cancello della Montanina. La cameriera non aperse più bocca, se ne andò per le sue faccende. Lelia si fermò al parapetto del ponte sulla Riderella, si curvò a guardar nell’acqua; straziata il cuore da un amaro acre dolore, da un amaro acre piacere che vi si torcevano insieme, dicevano insieme: era dunque indegno, era dunque indegno. Altro non pensò, irrigidita, che le tre parole crude, mentre da diritta e da manca grandi braccia di rosai le slanciavano grappoli di rose rosse e il vento, odorato di fieni, le moveva mollemente perchè ella desse ascolto ai voluttuosi fiori. Vi è amore ancora, dicevano, vi è ancora vita. Non li vide, non li ascoltò; li avrebbe insultati, i bugiardi. Non lo sapeva ella prima ancora di questa rivelazione? Per lei non vi era più amore, non vi era più vita.
Il signor Marcello accolse la notizia della prossima partenza di Massimo con apparente soddisfazione. Lelia pensò che sarebbe stato anche più soddisfatto se avesse saputo quello che sapevano i preti di Velo. Le parve che, raccontandolo, ne avrebbe fatto anche sè stessa più certa. Nel momento di parlare, una voce contraria le vibrò nel profondo. Ella parlò tuttavia, sentì, parlando, che faceva male male male, che avrebbe dovuto interrompersi e parlò sino al fondo, col viso in fiamme. Il signor Marcello ascoltò accigliato, osservò che i preti di Velo avrebbero fatto assai meglio a non divulgare queste cose, che non ne credeva niente, cosa potevano saperne loro? ma che del resto, giunte le cose a quel punto, era inutile occuparsene. Uscita dallo studio, Lelia passò nel salone. Nel vedere la poltrona dove si era seduta qualche ora prima coll’ombrellino in mano, aspettando, le venne in mente donna Fedele e subito dopo ricordò una parola dimenticata del colloquio: «Ti hanno raccontato qualche cosa». La voce profonda disse: donna Fedele conosce l’accusa e non crede.
Alberti ritornò alla Montanina circa alle quattro e mezzo. Vi trovò un telegramma di don Aurelio coll’annuncio che partiva per Milano e una lettera di un amico milanese, troppo lunga e, com’egli si figurò, anche troppo poco interessante per leggerla subito, in quella ristrettezza di tempo. Fece le sue valigie e discese nel salone. Non v’era nessuno. Guardò il piano, pensò il fiore della memoria caduto dalla cintura di Lelia, la musica di «Aveu», immaginò con impeto di stringere nelle sue braccia la donna che lo aveva illuso così, la disprezzò subito in cuore, con risoluta volontà. Alzò gli occhi alla punta di dolomia, ve li fermò un istante amaramente, diede le spalle a tutto, d’un colpo, si avviò per la stanza del biliardo allo studio del signor Marcello.
«Dunque Lei parte proprio?» disse il vecchio con un imbarazzo di cui Massimo non afferrò il senso che in parte.
«Proprio» rispose. Gli mostrò il telegramma di don Aurelio, gli disse che a Milano don Aurelio aveva un amico ma che, almeno in quei primi momenti, desiderava trovarvisi anche lui, dargli quell’aiuto che poteva. Venendo poi ai ringraziamenti di prammatica, disse che sentiva una gratitudine immensa e non per l’ospitalità sola. Tacque, vinto dalla commozione.
Il signor Marcello, commosso egli pure, avrebbe giudicato che i preti di Velo o erano stati ingannati o mentivano. Avrebbe voluto dirgli: ritorni presto! Ma si contenne. Lo pregò, invece, di scrivergli, di dargli spesso notizie di sè e anche di don Aurelio. Quando Massimo, consultato l’orologio, si alzò per partire, si alzò egli pure, lo accompagnò fuori, dispose che le valigie gli fossero portate alla stazione, lo baciò due volte: «Uno per lui» disse «e uno per me!».
«Ne sono degno, sa» mormorò il giovine.
Si udì rispondere con una energia che lo fe’ trasalire, tanto pareva piena di reconditi sensi:
«Lo credo!»
Massimo aveva già impugnata la maniglia dell’uscio a sonagli ed esitava ad aprire. Si vedeva che pensava qualche ragione d’indugio e non osava dirla.
«Lei vorrà salutare Lelia?» domandò il signor Marcello.
«Se posso» rispose Massimo inchinandosi lievemente.
Fu cercato di Lelia. Era uscita colla chiave della chiesina.
«Allora potrà vederla passando» disse il signor Marcello; e rinunciò tacitamente al proposito di accompagnare Massimo fino alla chiesa. Questi discese solo, chiedendosi se dovesse entrare in chiesa o passar oltre; poichè, apparentemente, la signorina desiderava evitare di vederlo. Giunto al portico, si fermò, incerto.
Lelia ne aveva riconosciuto il passo e indovinò, udendolo arrestarsi, la sua incertezza. Si alzò anch’ella dall’inginocchiatoio, egualmente incerta se uscire o no. Aveva sperato che passasse oltre. Ebbero ambedue lo stesso pensiero: meglio fare ciò che farebbe un indifferente. Ella si mosse per uscire ed egli per entrare. S’incontrarono sulla soglia.
«Parte?» diss’ella, senza stendergli la mano. «Buon viaggio. A rivederla.»
«Che ci rivediamo non sarà facile» soggiunse Massimo, sorridendo. «Ma non dimenticherò i giorni che ho passati in casa Sua.»
«In casa mia? No» interruppe Lelia.
«E Le auguro» proseguì Massimo senza tener conto dell’interruzione «tutto il bene possibile per lunghissimi anni. Proprio di cuore, signorina.»
«Grazie» rispose Lelia.
Massimo salutò, uscì del cancello, si allontanò a gran passi, contento di sè, di essersi mostrato più disinvolto e più orgoglioso di lei, di averle parlato come se non avesse a rivederla mai più e gliene importasse meno che nulla.
III.
Lelia era andata in chiesa per evitare, se possibile, l’incontro di congedo con Alberti. Uscì del breve colloquio malcontenta, come sempre, di sè, irritata del tono d’indifferenza quasi sprezzante che aveva preso egli. Lo torse a una interpretazione voluta. Era il tono di uno che si era visto fallire, non una speranza di amore ma una trama d’inganno. Invece di risalire alla villa, prese il sentiero che costeggia la Riderella, cadde, mortalmente stanca, sul sedile rustico all’ombra dei noci. Vi fu presa da una crisi nervosa che la scosse di sussulti da capo a piedi, le diede il senso di una sospensione della vita. Si rimise lentamente, ascoltò senza pensiero, dolendole il cuore, la sommessa vocina della prossima cascatella. Quindi, il primo pensiero fu: se ritornasse, sarei contenta? Si rispose di no. Teresina le aveva portato da Schio una lettera di suo padre che le soleva scrivere indirizzando le lettere al nome della cameriera, Teresina Scotz, ferma in Posta, Schio. L’aveva già letta e se l’era posta nella cintura per gettarla nella Riderella. Non la ricordava più, la rilesse. Erano poche righe. Suo padre chiedeva se la lettera precedente si fosse smarrita, domandava una risposta, quella tale risposta che Teresina aveva recato a Schio. Lelia stracciò il foglio in pezzi minuti, li gettò nell’acqua.
Ella soleva mandare a suo padre gran parte dell’ assegno che il signor Marcello le faceva per le sue spese personali, accompagnando le spedizioni con poche parole asciutte. Lo disprezzava, sapeva di disprezzarlo e se ne credeva in diritto. Mandava il denaro senza rimproveri nè consigli, come cosa spregevole a spregevole persona. Lo sapeva pieno di debiti e tuttavia non credeva un iota delle miserie ch’egli le raccontava. Certe parole udite, certi fatti osservati durante la sua dimora nella casa paterna l’avevano persuasa ch’egli possedesse a fondo l’arte di gabbare i creditori, che ostentasse miseria e nascondesse quattrini. Ma che ne importava a lei? Se sua madre le avesse chiesto danaro ne avrebbe mandato anche a sua madre. Invece sua madre le scriveva, di tempo in tempo, domandandole affetto con parole piene di unzione religiosa. Lelia non le rispondeva mai, aveva persino rimandato immediatamente il pio dono materno di un rosario benedetto dal Santo Padre. Bella fine, pensò, che farebbero i denari di casa Trento se io fossi l’erede! Le rinacque il dubbio di un equivoco in cui fosse caduto il signor Marcello per causa di quel bacio. In qual modo uscirne? Cessò dal faticoso pensare, si affisò inerte nella cascatella. Con altre immagini nascenti della mente sua torpida come vapori di palude, le ascese lenta la visione dello stagno bruno, cinto di carpini che si piegano a guardarvi dentro; e passò.
Le fu assai grave, due ore dopo, dover scendere dalla sua camera per il pranzo. Sentiva di non poter mangiare, prevedeva l’interrogatorio del signor Marcello che osservava tutto, indagava tutto, voleva saper tutto; specie quando le sue disposizioni erano affettuose. Perciò, se non fosse discesa sarebbe salito egli, avrebbe frugato nell’anima sua, Dio sa con quante domande. Discese e allegò, per non mangiare, un dolor di capo fantastico. Il signor Marcello le fece dire una fila di bugie con una fila di domande. Parte umiliata del proprio mentire, parte impaziente, ella fu per esclamare rabbiosamente che non aveva nulla di nulla. Non lo fece e il signor Marcello tacque triste, sempre più inclinato a dubitare che donna Fedele avesse ragione, che la ragazza soffrisse della partenza di Massimo. Tacque fino a che Giovanni, servito il pranzo, non li lasciò soli. Appena uscito Giovanni, prima che Lelia finisse di prendere il caffè, le domandò se avesse veduto Alberti che desiderava congedarsi anche da lei. Ella rispose un sì mezzo apatico mezzo annoiato, finì di prendere il caffè, si alzò e chiese il permesso di ritirarsi.
«Va pure, cara» rispose il signor Marcello. La richiamò quand’era per uscire.
«Senti» diss’egli. «Io ti benedico fin d’ora a ogni modo, sia che tu prenda marito sia che tu preferisca di viver sola. Ma, se vivrai sola, spero che non mi accuserai di egoismo perchè io avevo pensato...»
E sorrise di un suo sorriso patetico, pieno di tristezza e di tenerezza.
«Grazie, papà» mormorò Lelia. E non si trattenne dal soggiungere, pensando al possibile equivoco:
«Non so se merito la Sua benedizione.»
Le parole fredde dispiacquero al povero vecchio. Lelia sentì di avergli fatto male, gliene dolse ma non potè pentirsi di parole che miravano a levargli dannose illusioni. Scivolò in silenzio fuori della sala, chiudendo l’uscio dietro a sè piano piano.
Il signor Marcello non si mosse. Da gran tempo la casa non gli era parsa tanto triste, tanto vuota. Raccolse a sè uno dei due calici ch’erano sulla mensa con pianticelle vive di ciclamini non fioriti, un capriccio di Lelia, disapprovato da lui. Considerò con affettuosa pietà le foglie scure, striate di verde chiaro, il bottone dall’aereo stelo, la picciola vita innocente che, svelta dal suo natio nido di musco a piè di un castagno, posta in quella innaturale dimora, era per donare un fiore ai suoi tormentatori. Il signor Marcello aveva molto amato e coltivato i fiori, se n’era sentito riamare quando tergeva loro le foglie polverose o li dissetava coll’acqua della Riderella, fatta intepidire al sole. La pianticella martoriata, che lo ricreava col suo bel verde cupo, gli era più affettuosa di Lelia che teneva per sè tanta parte dell’anima propria, che difendeva così gelosamente la propria indipendenza morale. Avrebbe volontieri baciata la piccola vita se non se ne fosse vergognato come di un sentimentalismo ridicolo.
Un lungo rombo sordo di tuono dalla Priaforà, stata minacciosa tutto il dì, gli ruppe il fantasticare. Gli venne in mente che la grande invetriata del salone era aperta. Per non disturbare Giovanni che stava pranzando, andò egli stesso a chiudere. Fece il giro del piano terreno, chiuse dappertutto, fedele alla sua abitudine di servirsi dei domestici il meno possibile, e ritornò nel salone. Si faceva notte rapidamente, quasi un’ora prima del tempo. Un lampo arse, sparì; da capo il fragor sordo del tuono fece tremare i vetri. Entrò Giovanni, per chiudere. Vide il padrone, al chiarore dei lampi, gli domandò se desiderasse lume. Il padrone non voleva lume, lo mandò a chiudere le finestre del piano superiore, si appressò all’invetriata per guardare le tenebre sferzate dai lampi che gli battevano e ribattevano in faccia, silenziosi, da Val d’Astico. Gli suonava sopra il capo la tumultuaria difesa contro il temporale, voci vibrate, passi correnti, colpi d’imposte. Le grandi scogliere tragiche del Barco balenavano livide, scomparivano. Balenavano, scomparivano i pioppi lungo la Riderella, rigidi nell’aria senza vento, come avamposti di un corpo di riserva che aspettassero, immobili e muti, l’avanzare della battaglia impegnata sulla loro fronte. Scrosciò a piombo, di colpo, la pioggia, cessarono i lampi, non si vide più niente. Il signor Marcello restò a guardare nell’ombra sonora fino a che udì Giovanni entrare collo scalone per accendere le lampade. Gli diede l’ordine di non accendere, com’era la regola quando non si avevano ospiti, o quando la signorina non passava la sera in salone. Bastava portargli la sua lucerna. Quando l’ebbe si piantò sul naso gli occhiali e si mise a leggere un giornale. Cosa insolita, se ne stancò subito. Non erano che le nove e mezzo, non aveva sonno; e poichè da qualche tempo soffriva d’insonnia, non desiderava coricarsi presto. Neppure aveva voglia di suonare. Suonava volontieri nelle ore di mestizia calda. Non era una di quelle; era un’ora di cuor pesante e freddo. Di salute si sentiva bene, nessun altro segno premonitore aveva seguito quel deliquio. S’egli si fosse ingannato a quel proposito? Se lo aspettassero lunghi anni di una vita simile? Almeno, se vivesse, vivere per qualche cosa di utile! Aveva meditata in passato, per consiglio di un amico, la istituzione di una colonia agricola. Perchè non riprenderebbe quell’idea? Potrebbe intanto scriverne all’amico, domandargli la sua opinione. Pensò come gli dovesse scrivere, se impegnarsi o tenersi libero. E il proposito gli languì nella mente, appena concepito. Si alzò con uno sforzo di volontà per non lasciarlo spegnere del tutto, per andare a scrivere; ma poi non si decise, si impietrò colla lucerna in mano, pensando. Lo scroscio della pioggia era disceso a un sussurro eguale, triste. Il vecchio posò la lucerna, andò nella veranda aperta a guardar la notte.
Pioveva a distesa, senza vento, come di autunno. La pioggia velava le montagne, velava anche i lumi di Arsiero. Quello era il posto dov’egli soleva prendere il caffè con don Aurelio, quando il curato aveva detto messa a Santa Maria dei Monti. Era partito anch’egli, il caro don Aurelio, partito per sempre. Non lo rivedrebbe più.
Ritornò nel salone col cuore grosso. Parole amare contro i preti di Velo gli montarono alla bocca, gli mossero silenziosamente tutti i muscoli del viso, mentre riprendeva la lucerna per andarsene a letto, chè di scrivere aveva perduta ogni voglia. Alla vista della Bibbia e dell’Imitazione che si teneva sul tavolino da notte, si sgomentò di avere ceduto agl’impulsi della sua natura focosa, di avere mancato di carità egli stesso che ne rimproverava gli altri. Se ne confessò a Dio con uno slancio dell’anima e, presa la piccola Bibbia, la strinse a due mani, senza aprirla, come il naufrago una corda, fino a che si sentì fluire pace nel cuore. Posando la Bibbia, gli venne l’idea di andarsi a confessare, l’indomani, proprio dall’arciprete. Tranquillo in questo proposito, registrò, come faceva ogni sera, le spese della giornata. Poichè era l’ultimo del mese e aveva dimenticato di pagare i salari dei domestici, li preparò con cura, ben distinti, sulla piccola scrivania. Preparò anche altri gruzzoli di sussidi mensili a poveri. Il malinconico sussurro della pioggia lo fece risovvenire dei due calici di cristallo colle pianticelle di ciclamini che erano nella sala da pranzo. Rovistò in un ripostiglio fino a che n’ebbe trovati i due vasetti di terra onde erano stati levati per collocarli barbaramente, come a lui pareva, nel cristallo. Ve li rimise, contento dell’atto pio. Come se udissero piovere e soffrissero di non godere l’acqua vitale del cielo, disse loro, proprio parlando, che li avrebbe portati fuori. E li portò amorosamente fuori, senza curarsi della pioggia, li collocò uno presso all’altro dietro la villa, sul margine del pendio erboso. Raddrizzando la persona fu preso da vertigini. Non vi badò. Gli era successo più volte, anche da giovane, di venir preso da vertigini nell’alzarsi dopo aver frugato nella terra intorno alle sue pianticelle. Attese che fossero passate, ritornò in camera, recitò in ginocchio le preghiere della sera e, spogliatosi, salì sul letto, entrò colle gambe sotto le coltri. In quel momento lo ripresero le vertigini, violente. Appoggiò la testa alla spalliera del letto. Lo corse allora, dalla nuca fino alle gambe, un fulmine. Credette gridare e non gridò, sentì farsi di gelo le braccia, conobbe ch’era la morte, agitò inutilmente le labbra per dire «in manus tuas, Domine» e tutto era già finito, non viveva più nella camera che la fiammella indifferente della lucerna, illuminando il viso di marmo giallognolo reclinato alla spalliera, composto, grave, la selva dei capelli grigio-fulvi. Solo vi aveva battiti il piccolo indifferente cuore dell’orologio d’oro, sul tavolino da notte.