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130 CAPITOLO QUARTO

abbracciarono. Don Aurelio sentì lagrime sul viso del vecchio, uscì mormorando: «poveretto, poveretto!»


Uscendo dal vestibolo disse a Massimo che, s’egli non si fosse offerto di accompagnarlo a Sant’Ubaldo, ne lo avrebbe richiesto. Il giovine non rispose Don Aurelio lo guardò; pareva che non avesse udito. Nessuno dei due parlò più fino al cancello. Imbruniva, altro suono non era nell’aria che il fioco della Riderella e il profondo del Posina. In quel silenzio, come di chiesa, le montagne grandi e i boschi e l’erbe dei prati parevano avere un senso sacro dei mondi ignoti che avanzavano da ogni parte nel cielo, tremandone già qualche fioco lume per le profondità serene. Fuori del cancello don Aurelio si fermò, posò la mano sulla spalla del suo compagno, ve la calcò forte, senza parlare. Aveva negli occhi qualchecosa di nuovo che Massimo non vide. Massimo non aveva sensi che per il suo proprio interno. Forse la poesia della sera gli acuiva una febbre; ma egli sentiva la sola febbre, non la poesia. Era penetrato di un’altra persona, in ogni fibra, e ogni fibra gli era dolore, gli era dolcezza, spasimo di confondersi con quella persona senza fine e per sempre. Dieci giorni di convivenza, momenti divini di contatto in uno sguardo, altre comunicazioni indirette, involontarie, fugaci, di anima e d’istinto, avevano operato questo; nè il gelo e le tenebre di cui si avvolgeva quasi continuamente l’altra persona lo avevano impedito. Oscure parole di donna Fedele, oscure parole dello stesso signor Marcello, parole di favore che gli entravano, ripensandole più e più addentro nella mente come gocce assidue nella neve, gli avevano attutito quel senso di rimorso che, sulle prime, gli si accompagnava ai moti dell’amore nascente. Gli pareva di essere avviluppato da una trama di complici e anche questo gli era inesplicabile. Credeva