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146 CAPITOLO QUARTO

Uscì nel corridoio, irritata. Erano quasi le undici e mezzo! Tese l’orecchio. Ecco il passo di Teresina nel corridoio di sotto.

«Dunque?» fremè Lelia, dall’alto.

«Adesso, signorina» risponde l’altra, mogia. «In questo momento.»

Un quarto d’ora dopo, quando potè credere che il signor Marcello e Alberti si fossero ritirati nelle loro camere, Lelia uscì della villa e del giardino, si avviò al cancello di legno che mette nel Parco dalla via pubblica, poco sotto la chiesina di Santa Maria ad Montes. Ferma la mente in un giudizio fiero dell’uomo venuto da Milano col suo bel progetto di matrimonio ricco in tasca, pensò che se suo padre e sua madre non fossero stati gente disonesta, si sarebbe rifugiata presso l’uno o presso l’altra. Ma non poteva andar a convivere colla ganza del primo nè farsi mantenere dalla seconda coi denari del vecchio austriaco. E le soccorse un altro pensiero, un vecchio pensiero, salitole nel cuore a quattordici anni, blandito, accarezzato come un amico dolcissimo, perdutosi nel fondo dell’anima durante l’amore di Andrea, risalitone quindi e ridiscesovi più volte: uscire dal mondo. Il sinistro pensiero non aveva preso mai la intensità di un proposito. Anche la sera in cui Lelia chiuse le finestre della sua camera piena di gigli e di tuberose, non credette che ne sarebbe morta. Le era piaciuto di affrontare alla spensierata un pericolo, una possibilità. Infatti, svegliatasi con un gran peso in tutte le membra, colla fronte stretta in un cerchio di ferro col naso, la bocca, la gola satura del profumo acre, che le parve sentire persino negli orecchi, si era slanciata ad aprire la finestra. Neppure adesso, movendo verso il Parco che nelle sue grandi ombre chiude un laghetto profondo, in parte,