spirito toccavano il piano in un modo inimitabile, vi trasfondevano le amarezze interne del suonatore. Il pianto dell’antico poeta, il pianto dell’antico musicista le suonò pianto del vecchio solitario che tutto aveva perduto sulla terra, che sentiva intorno a sè un gelo di opposizioni. Ella gli perdonò i cipigli, discese lenta lenta in salone, studiandosi di non far rumore, sedette poco discosto dal piano, dove il signor Marcello potesse vederla facilmente. La vide infatti e cessò di suonare. Ella desiderò dirgli «continui» e non seppe, la parola le si ruppe sulle labbra, malgrado lei stessa, contro un suggello di orgoglio. Il signor Marcello non avrebbe potuto a ogni modo continuare. Quella presenza, in quel momento, gli legava la vena dell’ispirazione. Stese la mano a un portamusica, prese il pezzo che aveva toccato a caso, lo aperse sul leggio e stette a contemplarlo senza suonare, aspettando, non di proposito ma per istinto, una parola. Lelia non potè a meno, stavolta, di mormorare: «cos’è?». L’uno e l’altra sentirono subito un principio di pace. Il pezzo era un’aria manoscritta della vecchia opera buffa «Le prigioni di Edimburgo». Il signor Marcello andò a rimetterla nel portamusica ma Lelia credette fargli piacere insistendo perchè la suonasse. Infatti egli si arrese subito, cominciò, contento, a suonare, e Lelia ascoltò contenta il pezzo indifferente a ciascuno dei due. Ma presto il suonatore provò fastidio di quella musica. «Aspetta aspetta» diss’egli. «Senti questo.» Buttò via il manoscritto, pose sul leggio un grosso volume di Clementi, vi cercò certa pagina tutta segnata di annotazioni a matita. Lelia conosceva il volume, non ricordava quella pagina. Il signor Marcello, chino il busto in avanti, aggrappate ai tasti le grandi mani adunche come artigli di falco, fissi gli occhi accesi sulla musica, corrugata la fronte in uno sforzo di lettura e d’inter-