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FORBICI | 167 |
sciocco della signorina, che lo affrancava. Si alzò in piedi, gli parve essere cresciuto di un palmo.
«Lei non mi domanda» insistette donna Fedele «cosa penso?»
«Dovevo telegrafare a don Aurelio» diss’egli. «Invece vado.»
«Non mi domanda cosa penso?» ripetè l’amica, alzando la voce e strascicando le parole. Egli le domandò «cosa pensa?» per farle piacere e non per curiosità che lo pungesse. Allora ella mise fuori, un po’ esitante, la propria opinione sui sentimenti reconditi di Lelia. Massimo si mostrò amaramente incredulo. A colazione non parlò, quasi, nè toccò cibo. Avendo l’amica ricordato don Aurelio, le disse che lo avrebbe veduto la sera stessa. Presero il caffè nella veranda.
«Credo che le convenga di partire subito a ogni modo» mormorò donna Fedele quando la cameriera li ebbe lasciati soli. «Ma Lei non deve giudicare Lelia così a precipizio. Lasci ch’io vada un poco al fondo. Poi La informerò.»
Massimo rispose che gli rincresceva di avere chiamato sciocca la signorina ma ch’era inutile di pensarci più. Gli era bastato una volta, per guarire dall’amore di una signorina, ch’ella dicesse pollìne invece di polline. Fra la signorina Lelia e lui vi erano disarmonie di pensiero ben più gravi che qualsiasi disarmonia di cultura.
«Potrei partire subito?» diss’egli a un tratto, dopo avere guardato l’orologio. Vi era un treno alle quattordici e trentasette. Se mandasse un rigo al signor Marcello scusandosi con un richiamo improvviso, pregando di fargli spedire la sua roba a Milano?
Donna Fedele protestò. Doveva invece recarsi subito alla Montanina, dire che quando don Aurelio gli aveva confidato il proposito di fuggire, la sua prima idea era stata di non lasciarlo partire solo, ma che l’amico gli